Il 9 agosto 1945 l’aviazione militare degli stati uniti d’america sganciò la seconda ed ultima bomba atomica sul Giappone.
Ore 8:45 a.m. una luce accecante investe ogni angolo di Nagasaki, segue un boato assordante, poi più nulla.
In realtà il boato fu seguito dalla violenta onda d’urto, che bruciò è distrusse ogni cosa lungo la propria strada e dopo ancora, iniziò a piovere, una pioggia acida e radioattiva, causata dall’evaporazione quasi immediata di ogni fonte d’acqua presente nel raggio dell’esplosione (e anche oltre).
I più fortunati persero la vita durante l’esplosione, inceneriti in un solo istante, i meno fortunati riuscirono a salvarsi, o almeno questo era ciò che credevano, il caldo vento radioattivo li divorò dall’interno, preparandoli ad una morte lenta e dolorosa, e chi sopravvisse al vento dovette fare i conti con la pioggia, una pioggia violenta e crudele che avrebbe inflitto il colpo di grazia ai pochi sopravvissuti.
I più sfortunati di tutti furono quelli che sopravvissero anche alla pioggia, e dovettero fare i conti con i numerosi anni ancora da vivere, o meglio, i numerosi anni in cui continuare a morire, imprigionati come in un girone infernale a causa dei danni permanenti inflitti al loro corpo e alla loro mente.
Chi sopravvisse alla bomba atomica avrebbe portato con se, per il resto della sua vita, il ricordo di quei momenti in cui l’inferno scese sulla terra, le immagini di sofferenze immani che nessuno può neanche lontanamente immaginare.
Il ricordo di uomini, donne e bambini inceneriti in pochi istanti lasciandosi alle spalle solo un ombra impresa sul cemento, e negli occhi dei testimoni, il ricordo di altri che “semplicemente” si sciolsero, come statue di cera, videro le loro carni colare via ed evaporare, ascoltarono grida di dolore che farebbero rabbrividire anche le menti più resistenti. Mentre loro, i superstiti, furono condannati ad una solitaria vita, costellata da incubi, dolore e malattia.