L’ascesa politica di Cesare: da miles a dictator | CM

L’Impero romano nel I secolo a.C.

Durante il corso del I secolo a.C. l’Impero romano era sulla via di un successo senza precedenti, in quanto reduce dagli immensi trionfi ottenuti grazie alle vittorie conseguite durante le tre guerre puniche, le quali Roma poterono garantire a Roma un’ingente quantità di oro e ricchezze. Tuttavia l’Urbs, nonostante l’evidente condizione di splendore e ricchezza in cui si trovava, era all’epoca teatro di innumerevoli giochi di potere per il controllo del quadro politico della Repubblica e, sempre in questi anni, assisteva tacita alla lotta intestina tra due importanti ceti sociali: gli optimates, fazione più conservatrice e favorevole all’aristocrazia, e i populares, sostenitori delle istanze popolari nonchè “base” dell’autorità dei Tribuni della Plebe. Pertanto continue tensioni sociali e violenti scontri armati erano all’ordine del giorno, come il celebre conflitto tra Clodio (fazione dei populares) e Milone (fazione degli optimates).

In questo clima estremo di avversità, rivolte e scandali, a Roma spicca un uomo che avrà un ruolo tutt’altro che indifferente negli equilibri politici e sociali dell’Urbe. Tale personaggio era, come il padre, un accanito sostenitore del celebre condottiero Gaio Mario (157-86 a.C.), militare e politico romano, eletto per sette volte consecutive console della Repubblica, nonchè abile riformatore per quanto riguarda la leva militare e l’esercito, oltrechè Tribuno della Plebe. Apparteneva infatti anch’egli alla fazione dei populares e rappresenterà uno dei massimi esempi da seguire per il protagonista di questa vicenda, destinato a ribaltare per sempre la scena storica e politica di quello che sarà il più glorioso impero che il mondo antico abbia mai conosciuto. Quest’uomo compie una delle sue prime apparizioni in una piccola casa popolare nella Suburra romana, uno dei quartieri più malfamati di tutta Roma.

Gaio Giulio Cesare - Wikipedia

L’entrata cesariana in politica

Gaio Giulio Cesare nasce il 12 Luglio del 100 a.C., figlio del pretore e senatore Gaio Giulio Cesare e della nota matrona appartenente alla gens Aurelii, Aurelia Cotta. Egli pertanto apparteneva per discendenza all’illustrissima gens Julia, così chiamata perchè direttamente originata da Julo, il figlio di Enea e, stando a quanto viene riportato da miti e leggende, della dea Venere. Apparteneva dunque a una genealogia che potremmo definire “divina”. Cesare divenne fin da subito un personaggio molto popolare a Roma, schierandosi come lo zio Gaio Mario al fianco della factiones dei populares, nonostante provenisse da una nobile famiglia, e crebbe in una situazione di tensioni e fazioni contrapposte. Tutti questi elementi contribuirono con ottime probabilità a sviluppare il suo carisma e la sua marcata intraprendenza non solo in campo politico, ma anche militare.

Cesare infatti trascorse la sua gioventù sotto la spietata dittatura esercitata da Silla (colui che aveva precedentemente sconfitto Gaio Mario), il quale non perdeva occasioni per lanciare “frecciatine” al ragazzo sulla sua eccessiva effeminatezza. Per queste ragioni egli non si sentiva al sicuro nel rimanere a Roma, e decise pertanto di partire volontario verso l’Asia dove, sotto al comando del propretore Marco Minucio Termo, partecipò direttamente nella guerra contro Mitridate VI del Ponto, insorto ancora una volta contro Roma. Questa fu probabilmente una delle prime vicende che permisero a Cesare si distinguersi militarmente. Egli infatti nell’assedio di Mitilene ottenne anche la corona civica, una delle ricompense militari più importanti, concessa come premio solamente a chi salvava cittadini romani in battaglia.

Tuttavia, ciò che maggiormente gravava sullo status di Cesare, erano gli ingenti debiti nei quali si ritrovava da tempo. Infatti, sebbene la sua famiglia avesse origini aristocratiche di un certo livello, non era affatto ricca per gli standard della nobiltà romana, e questo certamente lo motivò ad avvicinarsi rapidamente a illustri e abbienti personaggi che potessero aiutarlo, come Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso (entrambi consoli nel 70 a.C.). Egli riuscì infatti ad avviare la sua celebre carriera politica grazie al sostegno di questi due rinomati cittadini e uomini politici. Schierato appunto con i populares e dotato di un eccelso carisma, riuscì rapidamente a convincere la Repubblica riguardo l’urgente bisogno di riforme radicali, che per essere realizzate necessitavano di un forte potere pubblico al comando, capace di superare le ricchezze e il grande potere degli ottimati.

Il suo percorso politico-militare inizia, come precedentemente citato, in Asia, dove prese parte alla guerra contro Mitridate VI del Ponto, combattendo nella provincia orientale e arruolando navi e milizie ausiliarie. Nel 73 a.C., mentre si trovava ancora a Oriente, venne eletto nel collegio dei pontefici. Una volta tornato a Roma, nel 72 a.C., Cesare fu anche eletto tribuno militare, risultando persino il primo degli eletti. I suoi rapporti erano particolarmente stretti con Crasso, il quale lo aiutò più volte a finanziare le sue campagne elettorali e a estinguere i suoi numerosi debiti, fino a quando venne non eletto questore nel 69 a.C., un anno dopo il consolato di Pompeo e Crasso. Un ulteriore evento particolarmente significativo fu la sua elezione, nel 65 a.C., a edile curule, carica che lo portò a diventare in modo più che definitivo come il nuovo e massimo leader del movimento popolare.

Tuttavia l’apice della sua carriera politica è da ricollegarsi a un celebre evento che toccò profondamente la storia di Roma del I secolo a.C., ovvero il primo triumvirato. Nel 60 a.C. Cesare infatti stipulò, di comune accordo insieme a Crasso e Pompeo (i maggiori capi politici del tempo), un accordo privato e segreto che, pur non trattandosi di una vera e propria magistratura ma per la notevole influenza dei firmatari, ebbe poi grandissime ripercussioni sulla vita politica e sociale dell’epoca, dettandone gli sviluppi per quasi dieci anni. Gli accordi nati da tale alleanza, fissati a Lucca, prevedevano il proconsolato di Cesare in Gallia e nell’Illirico con il relativo comando di quattro legioni, l’affidamento di Africa e Spagna a Pompeo e infine la provincia di Siria e l’ambita campagna contro i Parti per Crasso che, non avendo ancora conseguito glorie militari, mirava a eguagliare il successo dei compagni. Spartiti i territori e affidati i relativi comandi, Cesare era pronto a lasciare la Repubblica.

Cesare in Gallia: l’ascesa militare

Nel 59 a.C., a un anno dalla stipulazione del triumvirato, Cesare avrebbe dovuto ottenere il consolato, una delle più alte cariche del cursus honorum romano, carica che riuscì a raggiungere grazie all’appoggio di Pompeo e al cospicuo finanziamento di Crasso. Per consolidare ulteriormente questa triplice alleanza, nello stesso anno Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare. Pertanto, grazie alla lex Vatinia, nel 58 a.C. Cesare era finalmente partito, dopo aver ottenuto il proconsolato dell’Illirico (si trattava di una regione dislocata, in cui Cesare si sarebbe voluto recare per accrescere il suo successo militare direttamente sul campo di battaglia) e della Gallia Narbonense (a seguito della morte del precedente proconsole morto all’improvviso, Quinto Cecilio Metello Celere) e Cisalpina per ben cinque anni. Sebbene si trattasse di province nettamente inferiori rispetto alle eccelse conquiste orientali dell’Impero, riuscì ugualmente a operare una serie interminabile di sconfitte tra le popolazioni celtiche, compresi Elvezi, Aquitani, Veneti, Belgi e Svevi.

Tuttavia, più aumentava il potere di Cesare e più cresceva l’inevitabile timore di Pompeo a Roma, per il fatidico momento in cui il suo ormai temuto avversario delle Gallie sarebbe dovuto rientrare in patria. Cesare sarebbe infatti stato certamente acclamato dai numerosi populares di cui era a capo per i suoi molteplici successi militari e per aver inoltre portato il numero delle sue legioni a dieci, un dato non indifferente, simbolo del nuovo potere e prestigio che stava acquisendo. Nel frattempo il triumvirato si stava lentamente sgretolando e, intorno al 53 a.C. Crasso, privo di adeguate esperienze militari, era stato sconfitto nella battaglia di Carre, aveva perso le insegne romane (immane disonore per un comandante romano) ed era stato ucciso dai Parti. Cesare e Pompeo erano ora dunque i padroni indiscussi della scena politica romana.

Le Radici Degli Alberi: LE GALLIE!

Intorno all’anno 50-49 a.C., il carismatico condottiero Gaio Giulio Cesare aveva infatti ormai conquistato quasi tutta la Gallia (territorio comprendente oggi Francia e particolari zone di confine tra Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e nord Italia. Compì inoltre numerose incursioni in Britannia e in Germania) ed era di ritorno da una campagna militare durata quasi dieci anni che lo aveva visto coinvolto in numerose vittorie, come la battaglia di Alesia, e indiscutibili successi, tra cui la sconfitta del grande condottiero Vercingetorige. Tuttavia, le imprese svoltesi in Gallia non furono affatto una passeggiata per Cesare e le sue truppe, poiché i galli opposero una strenua resistenza, sconfiggendo anche i romani in molteplici occasioni; si trattava di popolazioni fiere e bellicose, che difficilmente accettarono una resa pacifica. La lotta contro i galli rappresentò infatti un’enorme sfida militare, che rese evidente il motivo per cui l’esercito romano fu il più potente ed efficace dell’antichità.

Le ricchezze, la gloria e la fiducia di un esercito che lo ammirava e rispettava per il suo grande carisma, erano solo alcuni dei principali obbiettivi che Cesare si era prefissato per poter contrastare a Roma il crescente potere politico di Pompeo. La sua inimitabile leadership fu certamente una delle chiavi del trionfo romano in Gallia, poichè lo stesso Cesare riuscì a spingere più volte il suo esercito a compiere imprese che per altri generali sarebbero state inaccettabili, come le due spedizioni dirette verso l’Isola della Britannia. Inoltre Cesare sapeva che il risultato finale delle sue campagne dipendeva in primo luogo dalle sue truppe, per questo motivo questo s’impose come un eccellente motivatore, capace di far sì che i suoi uomini si dedicassero interamente a qualsiasi impegno. A contribuire ad accrescere il suo enorme successo militare furono anche l’aggressività e la velocità con cui condusse le sue numerose campagne.

La “tensione” politica a Roma: Pompeo e il senato

Tuttavia Crasso era ormai uscito dalla scena politica, determinando così il definitivo scioglimento del triumvirato, e Pompeo, nettamente più avanti con gli anni rispetto al giovane conquistatore delle Gallie, aveva ottime ragioni per temere il crescente successo e carisma di Cesare a Roma. Pompeo infatti, sebbene avesse da poco ottenuto la carica di proconsole in Spagna, si trovava ancora a Roma e, nel 52 a.C., venne eletto dal senato consule sine collega (ovvero “console senza collega”). Tuttavia Cesare possedeva un grande numero di legioni a lui ciecamente fedeli, le quali a loro volta non facevano altro che accrescere la sua già elevatissima ambizione bellica e politica. La situazione a Roma era pertanto molto tesa e la guerra civile quasi inevitabile; il casus belli infatti non tardò molto ad arrivare.

Il senato infatti era estremamente preoccupato per gli innumerevoli successi conseguiti da Cesare, il cui mandato in Gallia stava ormai per giungere al termine. Pompeo e il senato infatti, da tempo alleati contro l’imminente pericolo, stavano dunque disperatamente tentando di tenere le redini di un contesto politico in pieno fermento, quando giunse la notizia che Cesare avrebbe voluto, una volta rientrato in patria, candidarsi per il consolato. Tale carica era infatti tra le più ambite del cursus honorum romano, poiché garantiva l’immunità e, dato il crescente numero di sostenitori cesariani, sarebbe quasi certamente riuscito a ottenerla. Tuttavia Pompeo, per colpirlo nel vivo, in piena alleanza con il senato che temeva anch’esso la sua ascesa, promulgò una legge che non gli avrebbe permesso di candidarsi, se non da privato cittadino. Questo avrebbe significato per lui entrare a Roma senza l’esercito al seguito, in balia di un uomo che aveva il pieno potere sulla Repubblica e il completo appoggio dei senatori romani.

La trappola escogitata con l’aiuto dei senatori si sarebbe dunque inevitabilmente conclusa con l’arresto di Cesare e la sua definitiva eliminazione dalla scena politica, garantendo così l’esclusivo consolato a Pompeo, che si sarebbe poi tradotto in una dittatura. Cesare accettò dunque di tornare nell’Urbe senza le sue truppe, a patto che Pompeo accettasse di sciogliere il suo di esercito e tutte le sue truppe. Data la precarietà e la pericolosità della situazione, poichè Cesare pur senza l’appoggio delle sue truppe avrebbe comunque avuto un enorme sostegno popolare (l’opinione pubblica era molto importante, poichè costituiva la stragrande maggioranza della popolazione, e le rivolte erano all’ordine del giorno), Pompeo e il senato non accettarono in nessuna maniera possibile l’ultimatum del generale.

Tuttavia il senato, con la scusa di dover proteggere la Siria dai continui attacchi dei Parti, richiese che fossero aggiunte due legioni alla provincia orientale; Pompeo a questo punto non esitò a richiedere a Cesare le due legioni che, nel 53 a.C., gli aveva concesso in prestito per la sua impresa in Gallia. Cesare pertanto fu costretto a piegarsi a tali richieste, rinunciando così a due delle sue legioni. Fu solo a questo punto che il generale delle Gallie si rese conto che il conflitto era inevitabile e si recò allora con la XIII legione a Ravenna dove fu da quest’ultima acclamato imperator. A questo punto Cesare era completamente esposto e sul punto di diventare ufficialmente un nemico della res publica.

L’attraversamento del Rubicone e la guerra civile romana

La situazione, già gravemente incerta prima, si trovava ora a un bivio: Cesare avrebbe infatti potuto congedare l’esercito, scelta di per sè estremamente pericolosa essendo lui pienamente consapevole delle forze politiche e militari che possedevano Pompeo e il senato, o ribellarsi completamente alle imposizioni di Pompeo e senatori, preparando così le legioni in modo da poter oltrepassare il più importante confine politico della penisola italica, il fiume Rubicone. Tale fiume, pur non vantando notevoli dimensioni, rappresentava un limite inviolabile e attraversarlo in armi significava per i generali romani una vera e propria violazione delle leggi, oltrechè una sfacciata sfida posta nei confronti l’Urbe. Il Rubicone infatti segnò per un breve periodo (tra il 59 a.C. e il 42 a.C.) il “sacro” confine tra l’Italia, considerata come una parte integrante del territorio di Roma, e la provincia non da molto annessa della Gallia Cisalpina. Risultava pertanto severamente vietato a tutti i generali romani attraversarlo con l’esercito in armi.

Rubicone - Wikipedia

Ma l’ambizione e la salda tenacia di Cesare non si sarebbero arrestate, infatti l’ultimo disperato tentativo del senato (il 7 Gennaio) di arrestare la sua avanzata, si tradusse in un estremo ultimatum che gli intimava severamente di restituire l’intero comando militare, ultimatum a cui Cesare non cedette mai. Pochi giorni dopo infatti, il 10 Gennaio del 49 a.C., prese una decisione che avrebbe cambiato per sempre il corso degli eventi storici, politici e sociali di Roma e, armate le truppe, scelse di attraversare il fiume presentandosi nella città armato e prossimo a sfidare Pompeo in una guerra civile che si sarebbe inevitabilmente scatenata da tale gesto. Cesare riuscì a entrare a Roma senza incontrare alcun tipo di resistenza, e tale guerra (49-45 a.C.) non tardò ad arrivare. Pompeo venne colto totalmente alla sprovvista, e si ritrovò costretto a fuggire il più rapidamente possibile da Roma, rifugiandosi in Macedonia, dove sperava di radunare un vasto esercito da contrapporre a Cesare.

La guerra civile romana vede Cesare come protagonista indiscusso accrescere senza fine il suo potere politico e militare in pochissimo tempo. Lo stesso anno infatti, sempre nel 49 a.C., Cesare riuscì a conquistare interamente la penisola italiana e a sbaragliare in Spagna tutte le legioni ancora fedeli a Pompeo. Un anno dopo poi, nel 48 a.C., ottenne la nomina di console e partì verso la Grecia, dove, in Tessaglia, precisamente a Farsalo, sconfisse clamorosamente l’esercito di Pompeo, che si rifugiò in Egitto presso il faraone Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra, il quale lo fece assassinare a tradimento. Figli e seguaci di Pompero proseguirono ancora per qualche anno il conflitto contro Cesare fino a quando, nel 45 a.C., i pompeiani supersiti guidati da Sesto Pompeo (comandante militare e figlio di Pompeo) vennero sbaragliati definitivamente a Munda, in territorio spagnolo.

Pertanto, il termine della guerra civile romana rappresenta un momento fondamentale sia per la storia romana che per la carriera politica e militare di Cesare. Egli a questo punto potè infatti ritornare a Roma indisturbato e praticamente privo di nemici che tentassero di ostacolare le sue ambizioni, ottenendo così la carica di dictator vitae (ovvero “dittatore a vita”). Tale carica rappresentava una figura caratteristica dell’assetto della costituzione della Repubblica romana, poichè garantiva un potere assoluto e non poteva essere controllato da nessuna istituzione o magistratura. Poteva inoltre sospendere tutti gli altri magistrati forniti di imperium o conservarli nel loro ufficio, ma essi sarebbero stati sempre e comunque subordinati a lui. In origine veniva scelto unicamente dai patrizi e, solo a partire dal 356 a.C., la dittatura fu accessibile anche ai plebei. In conclusione, quella di Cesare potrebbe essere riassunta come una vera e propria ascesa politica, poichè egli, partito come semplice miles (il miles nell’antica Roma era il soldato semplice, colui che non possedendo un cavallo doveva spostarsi unicamente a piedi), riuscì in poco tempo a raggiungere la più alta e riconosciuta carica di tutta la Repubblica, quella appunto di dictator.

La repubblica Weimar, lotta di uomini e ideali, Guida alla lettura

Guida alla lettura del saggio storico “La repubblica di Weimar, lotta di uomini e ideali” di Davide Bernardini, edito da Diarkos.

La Repubblica di Weimar è uno di quei capitoli particolari della storia del mondo, radicato all’interno di un ben preciso e delineato contesto storico e politico, quello della Germania post grande guerra, i cui effetti però, si riversarono sull’intera umanità e, a distanza di oltre un secolo dalla sua “fondazione” la repubblica di Weimar continua a far parlare di se, ed è sempre più presente nel mondo moderno.

Nell’immaginario comune Weimar rappresenta l’anticamera del totalitarismo tedesco ed è utilizzata da anni ormai, come esempio di una civiltà in decadenza che, con le ultime forze, prova a resistere alla barbarie che si sviluppa al proprio interno.

Nel 1993, in un Italia al che si ritrovava ad affrontare parallelamente la fine della prima repubblica e della guerra fredda, immersa in un clima globale di grande incertezza, un clima fatto di tensioni, scontri e incontri. In quel panorama politico e geopolitico dal sapore internazionale, furono in molti a parlare di “fine della storia” e in Italia qualcuno osservò con audacia, di intravedere in quel clima, orizzonti già visti altrove e in altre epoche, raccontando l’Italia all’alba della seconda repubblica come una novella Weimar.

In quel contesto Francesco Guccini, nell’album Parnassius Guccini, pubblica la canzone “Nostra signora dell’ipocrisia“, in cui racconta il dramma politico dell’epoca, citando proprio Weimar nelle primissime strofe della canzone.

Un artigiano di scoop forzati scrisse che Weimar già si scorgeva e fra biscotti sponsorizzati videro un anchorman che piangeva e poi la nebbia discese a banchi ed il barometro segnò tempesta, ci risvegliammo più vecchi e stanchi, amaro in bocca, cerchio alla testa…

F.Guccini, Nostra signora dell’Ipocrisia, Parnassius Guccini, 1993

L’anticamera del totalitarismo

La Repubblica di Weimar fu, per la storia tedesca, e non solo, una complicata e controversa esperienza politica, oltre che storica, fu una parentesi dal profumo democratico che si colloca tra la fine del secondo impero e l’istituzione del terzo reich hitleriano. Weimar fu il luogo storico e politico, in cui vennero gettate le basi del futuro regime nazista, e per certi versi fu l’anticamera di quell’oscuro e devastante regime totalitario fondato su rancore, odio, rabbia, intolleranza e finto patriottismo elitario.

La repubblica di Weimar segna il punto d’arrivo della democrazia tedesca, segna il fallimento della democrazia difronte a certe istanze e definisce il trionfo delle correnti più estreme e radicali sulle correnti più moderate, configurandosi per molti come la concretizzazione di quelle profetiche parole messe per iscritto da Platone nel libro quarto della repubblica, e noto come il brano sulla “sete di Libertà“.

Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.

Platone, La Republica, Libro IV

Il grande laboratorio di Weimar

Weimar non fu solo il luogo in cui germogliarono i semi del nazional socialismo, ma fu anche un grande laboratorio politico, collocato nel cuore dell’Europa, in cui si sperimentò un alternativa alla rivoluzione sovietica.

In questo immenso laboratorio, rimasto in funzione, con non poche difficoltà, per circa 15 anni, dal 1918 al 1933, tanti furono gli esperimenti frutto dell’incontro, scontro, intreccio e rielaborazione delle principali idee e correnti politiche del primo novecento, e tanti furono i fallimenti.

E fu proprio per effetto di quegli esperimenti non riusciti che si consolidò l’idea di una politica più radicale fondata su idee combattenti, su idee che dovevano essere difese non solo con il dialogo, ma anche e soprattutto con la forza e le armi.

Weimar, lotta di uomini e ideali

Il saggio storico di David Bernardini intitolato La Repubblica di Weimar, Lotta di uomini e ideali, edito da Diarkos si pone l’obbiettivo di ripensare, a distanza di un secolo dalla propria nascita, la Repubblica di Weimar. Ripensare non significa revisionare, il saggio va precisato, non ha un carattere revisionista e il suo obbiettivo è quello di scavare a fondo nella storia di Weimar, nel tentativo di comprendere quali sono stati gli errori che hanno portato al tracollo quell’esperienza democratica, permettendo la nascita e l’affermazione del regime nazista.

Il saggio si struttura in due grandi parti, e racconta la storia e le idee che fecero la Repubblica di Weimar, in maniera non lineare, ma seguendo temi e tematiche.

Weimar, lotta di uomini e ideali si sviluppa in un articolata e non troppo semplice rete di punti e concetti, che, nel complesso, forniscono un panorama ampio e completo su tutta l’esperienza di Weimar.

Parte prima

La prima parte del libro ha un carattere fortemente divulgativo, e permette di inquadrare a pieno tutti gli aspetti e gli elementi che andarono a comporre la struttura di Weimar, chi furono i suoi protagonisti, quali furono le idee che definirono l’esperienza politica di Weimar e quali furono i momenti salienti dell’intera esperienza politica iniziata nel 1918 e terminata nel 1933.

I vari capitoli del libro, sia della prima che della seconda parte, come anticipato, sono sviluppati su temi e concetti consequenziali, e, se bene scollegati tra loro, sono strutturati su un percorso cronologico che rende non troppo semplice ed efficace una lettura asincrona, almeno non alla prima lettura.

Nella prima parte infatti ogni capitolo e propedeutico, per ragioni cronologiche, ai capitoli successivi. Inoltre, l’intera prima parte costituisce la base concettuale ed evenemenziale, su cui è costruita la seconda parte.

Questo discorso ovviamente decade per eventuali letture successive alla prima.

Parte seconda

Se i temi ed argomenti trattati che compongono la prima parte del saggio sono trattati in modo netto e puntuale, volti a ricostruire la storia della Repubblica di Weimar, i temi trattati nella seconda parte, hanno un carattere più trasversale ed hanno il fine di favorire l’immersione del lettore in quell’esperienza storica.

Diversamente dai capitoli della prima parte, quelli della seconda parte possono essere letti in maniera asincrona, poiché non consequenziali, di conseguenza le informazioni contenute in un capitolo, non sono propedeutiche per la lettura e comprensione dei capitoli successivi.

Conclusioni

Anche se di carattere generalmente divulgativo, i vari temi trattati, per essere compresi a pieno, soprattutto nella seconda parte, richiedono alcune conoscenze preliminari, senza le quali, purtroppo, non è possibile cogliere completamente tutte le sfumature del saggio.

La divisione del saggio in due parti permette in parte di ovviare ad una preliminare carenza di informazioni di base, la prima parte infatti, ha una struttura più manualistica con cui, l’autore, oltre a fornire una narrazione ampia e completa dell’esperienza storica della repubblica di Weimar, getta le basi per la seconda parte, di carattere più avanzato.

In definitiva, La repubblica di Weimar, Lotta di uomini e ideali, non è un libro adatto a chiunque. Il saggio si rivolge prevalentemente a chi vuole conoscere e approfondire meglio la storia della Germania degli anni venti. Il lettore ideale ha già una conoscenza basilare degli avvenimenti di quel periodo oltre che del contesto e delle idee politiche dell’epoca.

Chi è Davide Bernardini?

Davide Bernardini è un giovane storico italiano, classe 1988, laureato presso l’università di Teramo e attualmente docente a contratto presso l’Università degli studi di Milano, è inoltre socio del SISSCO può vantare numerose recensioni in collaborazione con la Rivista storica del socialismo ed Giornale di storia contemporanea, oltre a diversi articoli di ricerca e alcuni saggi, tra cui Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa edito da ShaKe.

La peste di Atene: Tucidide tra scienza e pathos | CM

Introduzione al tema della peste

Ormai da decenni la peste rappresenta nell’immaginario collettivo una terribile visione di morte tipica del periodo tardo-medievale; ma non è sempre stato così. Dipinti, racconti, poesie e persino leggende si sono succeduti per tentare di rappresentare un male considerato spesso divino e quindi inspiegabile agli occhi dell’uomo, un male che in varie epoche non ha mai lasciato scampo e sul quale si sono ripetutamente interrogati i più autorevoli medici, autori, maestri e filosofi del tempo.

Nel corso dei secoli infatti gravi pestilenze si sono abbattute su tutto il vecchio continente, in epoche e luoghi assai differenti. Una delle più disastrose epidemie di peste della storia si è manifestata nell’Atene classica, intorno al V secolo a.C., durante un periodo storico a dir poco travagliato per la storia della Grecia: la Guerra del Peloponneso” (431-404 a.C.).

L’opera tucididea e il conflitto tra Atene e Sparta

Narratore di questi eventi è appunto uno dei più grandi storici dell’epoca, Tucidide, vissuto tra il V ed il IV secolo a.C., fautore di un’opera che porterà con sé fonti ed elementi storici di grandissimo rilievo: “La Guerra del Peloponneso“. La celebre opera, suddivisa in otto libri, offre anche uno spunto essenziale per ricavare accurate riflessioni su quello che oggi definiamo un “metodo storico” scrupoloso, quasi scientifico, basato cioè su fonti certe e attendibili, di cui Tucidide viene considerato padre e fondatore. Su tale base l’autore sceglie di introdurre la narrazione in questo modo:

Giacché gli avvenimenti precedenti alla guerra e quelli ancora più antichi erano
impossibili a investigarsi perfettamente per via del gran tempo trascorso e, a giudicar dalle prove che esaminando molto indietro nel passato mi capita di riconoscere come attendibili, non li considero importanti né dal punto di vista militare né per il resto.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (1,3, libro I)

Trattandosi di un testo prettamente storico prevalgono ovviamente numerosi riferimenti diretti alla “Guerra del Peloponneso”, tra cui strategie belliche e scelte politiche, per la partecipazione attiva di Tucidide come testimone oculare, il quale combatté in prima persona come stratega venendo poi esiliato a causa di un grave e imperdonabile fallimento. Si tratta di un conflitto senza precedenti, scoppiato tra il 431 e il 404 a.C., rivolto unicamente contro la fiorente città di Atene.

Tra le cause secondarie e il casus belli principale bisogna però considerare la situazione di tutta la Grecia, ormai esausta a per gli ingenti tributi a cui era sottoposta e per le vessazioni imposte dal duro imperialismo egemonico ateniese. Tuttavia, nonostante Atene dominasse il mare con una potentissima flotta, Sparta riuscì a invadere l’Attica con un grande esercito, costringendo gran parte della popolazione a cercare rifugio all’interno delle grandi mura del Pireo, il porto ateniese. Fu proprio in quella tragica situazione di sovraffollamento che scoppiò l’epidemia, aggravata ancor più da un clima torrido e da condizioni igieniche pessime e precarie. Tucidide si sofferma poi su tre celebri discorsi relativi al conflitto tenuti da Pericle, personaggio fondamentale per le vicende storiche e politiche dell’Atene classica, morto anch’egli a causa del morbo.

Per ultimo, ma non per importanza, l’autore all’interno del II libro oltre a narrare le vicende belliche dedica un ampio excursus storico riferito all’epidemia che devastò Atene tra il 430 e il 427 a.C. contemporaneamente alla guerra, già di per sé estremamente rovinosa per le sorti del conflitto e della città. Si tratta pertanto di un’opera completa, storicamente e politicamente, soprattutto per l’attenzione rivolta ai dettagli e l’accuratezza mostrata verso i principali fatti storici narrati. Tuttavia a rendere Tucidide un maestro del “metodo storico” non è solamente un testo basato su indizi sicuri e veridicità storiche (fondate cioè su fatti realmente accaduti), ma la sua acuta capacità di descrizione nei confronti di eventi estranei a vicende storiche degne di nota, come la pestilenza.

La peste dal punto di vista medico, scientifico e umano

Tucidide dedica un lungo paragrafo al tema dell’epidemia ateniese, nel quale sceglie di soffermarsi non sull’evento storico in sé, quanto più sul tema della pestilenza a livello scientifico e umanitario. Scopo principale dell’autore è infatti narrare e documentare, ovvero mettere in guardia il lettore nei confronti di una storia che non è mai totalmente magistra vitae ma piuttosto pessimistica, da cui l’uomo non impara mai veramente e di cui non è l’unico protagonista delle vicende, ma vi partecipa attivamente insieme a epidemie, carestie, eclissi e terremoti; elementi mai trascurati nonostante le narrazioni di Tucidide abbiano un carattere prettamente storico.

La storia di Tucidide andrebbe perciò “ammaestrata” in modo da permettere all’uomo di non ripetere gli stessi errori del passato. Tuttavia tale insegnamento è molto relativo, poiché questi errori vengono con estrema facilità ciclicamente ripetuti, nonostante Tucidide cerchi di trasmettere come combatterli. La peste rappresenta infatti la grande occasione tucididea per attuare il suo “metodo storico”. Essa viene descritta in modo scientifico e razionale per comprenderla e conoscerla al meglio anche dal punto di vista umano, oltre che ovviamente medico. Nel descrivere la tremenda malattia, fino ad allora sconosciuta agli ateniesi, Tucidide si sofferma sul momento iniziale del morbo: le cause, i sintomi, i morti e la reazione dei medici di fronte a un male totalmente ignoto; ed erano proprio i medici a morire per primi, a causa della necessaria vicinanza con i pazienti.

Né i medici erano di aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta, ma anzi loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si
avvicinavano ai malati; né serviva nessun’altra arte umana.”

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (47,4, libro II)


Giunge poi a una descrizione fortemente umanitaria e ricca di pathos, nella quale evidenzia le principali reazioni umane, tra le quali spiccano paura, sgomento, solitudine e scoraggiamento. Uno degli scopi principali dell’autore è inoltre riportarci vari eventi quotidiani, per sottolineare come vennero completamente sconvolti dal morbo, tra i quali troviamo: numerosi furti per lo spopolamento delle case a causa della malattia, non più solenni funerali singoli ma roghi comuni per sbarazzarsi dei cadaveri, sempre più persone ammassate nei templi per riversare lo sgomento generale sulle preghiere e affidarsi agli dei, e infine varie congetture con lo scopo di dare un senso a questo male sconosciuto, come l’accusa verso i peloponnesiaci di aver avvelenato i pozzi.

Nella città di Atene piombò improvvisamente, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; e così tra essi si disse anche che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là infatti non c’erano ancora fontane. Poi arrivò anche nella città alta, e da allora i morti aumentarono di molto.”

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (48,2, libro II)

Nonostante il morbo sia stato catalogato per lunghissimo tempo come una vera e propria pestilenza, oggi esperti e studiosi pensano in realtà che si trattasse di un altro tipo di malattia, e che più probabilmente fosse una sorta di vaiolo o di febbre tifoide, per i sintomi violenti e immediati che procurava in un tempo brevissimo (rispetto a come sarebbe stato per una comune epidemia di peste).

Gli altri invece, senza nessuna causa apparente, mentre erano sani improvvisamente
venivano presi da violente vampate di calore alla testa e da arrossamenti e infiammazioni agli occhi, e tra le parti interne la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da una forte tosse. E quando si fissava nello stomaco, lo sconvolgeva, e ne risultavano vomiti di bile di tutti i generi nominati dai medici, e questi erano accompagnati da una grande sofferenza.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (49, 2-3, libro II)

Tuttavia essa ebbe tutte le caratteristiche proprie di qualsiasi epidemia della storia, riuscendo ad abbattere psicologicamente l’umore e la quotidianità delle persone, e provocando migliaia di morti; forse addirittura arrivò a dimezzare la popolazione ateniese, cifre per l’epoca davvero esorbitanti, di cui Tucidide stesso si rese conto, riportando puntualmente lo sgomento che vigeva in quel tempo.

Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al male, fosse robusto o
debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati con ogni genere di dieta. Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoraggiamento quando uno si accorgeva di essere ammalato (poiché i malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano), e il fatto che per aver preso la malattia uno dall’altro mentre si curavano, morivano come pecore: questo provocava il maggior numero di morti.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (51,4, libro II)

La peste di Atene nel 430 a.C. - Studia Rapido

L’importanza dei comportamenti umani nel corso della storia

Attraverso una digressione tanto struggente Tucidide dimostra ancora una volta che la storia non è riassumibile in un muto susseguirsi di vicende più o meno rilevanti, ma va invece rappresentata e studiata anche attraverso le reazioni umane. Pertanto assumono un ruolo di assoluto rilievo la psicologia, i comportamenti degli uomini e le azioni quotidiane in relazione a tali fenomeni tanto significativi per lo studio della storia.

Tucidide sceglie di esporre molto dettagliatamente la pestilenza proprio per l’effetto che quest’ultima ebbe sull’animo degli uomini, e non per come influenzò l’andamento degli eventi storici futuri. In una critica situazione di guerra il sopraggiungere di un’epidemia portò gli ateniesi al limite della sopportazione, rendendoli capaci di azioni ignobili e disumane, e questo l’autore lo esprime con una grande cura verso i dettagli.

A regnare è infatti l’“anomia”, ovvero la più totale assenza di leggi, che porterà inevitabilmente a una situazione di disordine e anarchia in cui gli individui cercano disperatamente di sopravvivere aggrappandosi ai propri istinti senza più alcuna inibizione. Attenendosi perciò strettamente al suo ruolo di storico Tucidide si mostra come testimone diretto dell’evento e ce lo riporta privandosi di ogni possibile elemento etico o morale, con il solo e unico scopo di informare e documentare i posteri riguardo l’andamento della storia e di come essa possa interagire con la labile natura umana. E, proprio come scrive l’autore: Atene fu distrutta dalla paura della peste, non dalla peste. Si tratta certo di uno squarcio raccapricciante, incapace di infondere sicurezza e perciò ancor oggi perfettamente in grado di suggestionare qualsiasi lettore moderno.

La peste di ieri e la peste di oggi

Il tema della pestilenza rappresenta ormai da secoli una delle più grandi occasioni per parlare di storia, scienza e medicina allo stesso tempo. Autori, poeti, scrittori e persino pittori e scultori si sono destreggiati su questo tema cercando di mostrare nel miglior modo possibile gli effetti del male, come esso influisce sulla psicologia umana e come viene affrontato in base alle diverse epoche storiche. L’idea di un morbo che esplode all’improvviso scatenando il panico e l’incertezza verso cure e guarigioni introvabili garantisce ancor oggi una fonte tragica sulla quale poter costruire grandi narrazioni storiche ma anche possibili racconti di fantasia.

La tragicità causata da morte e distruzione rappresenta anche un’occasione per evidenziare gli effetti della malattia sul corpo umano, a livello quindi medico/scientifico, ma porta spesso e soprattutto a profonde riflessioni di tipo religioso/divino, poiché l’uomo da sempre necessita di un elemento superiore a cui appoggiarsi in caso di estremo pessimismo. Si tratta pertanto di un tema largamente discusso ancor oggi, in grado di scatenare ferventi discussioni e, ma anche capace di lasciare un enorme fascino nella letteratura e nella storia di tutti i tempi.

I migranti di Lipa, tra responsabilità e diritto internazionale

Salve a tutti, salve a tutte e benvenuti, benvenute a questo primo episodio del Podcast Radio Spenta. Un podcast che tratterà di Scienza, tecnologia e società e che da oggi subentra al mio precedente podcast L’osservatorio.

Io sono Antonio, fondatore di Historicaleye, un progetto di Public History attivo fin dal 2012 e questo è il primo episodio ufficiale di questo nuovo progetto che spero durerà nel tempo.

Parto affrontando un tema che a me è molto caro, vale a dire la questione balcanica tra responsabilità e diritto internazionale, in particolare voglio parlare di ciò che sta accadendo in questi primi giorni del 2021 in Bosnia.

Prima di arrivare a ciò però, voglio fare un piccolo passo indietro, finalizzato a creare un minimo di contesto su quella che è la realtà storica dell’area balcanica, l’avanguardia dell’Europa, quell’Europa un po’ speciale colonia culturale dell’Europa occidentale, percepita da noi Italiani, Francesi, Tedeschi, Spagnoli e Britannici, come un Europa minore, un Europa quasi di serie B, un Europa in definitiva non è considerata realmente Europa.

All’origine delle guerre Jugoslave svoltesi fra il 1991 e il 1999, scrive Joze Pirjevec nella propria introduzione al saggio monumentale “le guerre jugoslave 1991-199“, ci fu la volontà di dominio dell’etnia maggioritaria, quella serba, mal disposta a tollerare che il processo di emancipazione delle diverse realtà nazionali, già avviato negli anni settanta da Tito, portasse, dopo il crollo del Muro di Berlino, a una soluzione di tipo confederale.
Continua lo storico dei balcani, scrivendo che, a differenza del vecchio “maresciallo”, convinto che la Jugoslavia avrebbe potuto sopravvivergli solo garantendo l’uguaglianza alle sue numerose etnie, i serbi non accettavano l’idea di perdere una supremazia, conquistata con la forza delle armi fin dai tempi della prima guerra mondiale.

L’estremismo del nazionalismo Serbo è per Joze Pirjevec, uno dei più autorevoli e importanti studiosi e storici delle guerre Jugoslave, il motivo principale, se non addirittura l’unico motivo, alla base delle guerre Jugoslave che interessarono l’area dell’ex Jugoslavia negli anni 90.

Guerre che sono state riconosciute a posteriori come uno dei momenti più imbarazzanti e drammatici, teatro di scenari atroci consumati alle porte dell’europa, fin dai tempi della seconda guerra mondiale.
Ciò che diede scandalo negli anni 90 fu la parziale indifferenza, almeno iniziale, dell’Europa, che iniziò a mobilitarsi soltanto in seguito alle prime istanze Italiane, che, cercando di mediare tra le parti, riuscì alla fine a forzare la mano dell’intervento delle Nazioni Unite, un intervento che, anche se per molti considerato limitato, fu percepito dalle popolazioni locali, come unica salvezza possibile, e ancora oggi, a distanza di quasi 30 anni, molti oggetti lasciati lì dai caschi blu delle nazioni unite, sono custoditi e venerati come reliquie, in particolare in città come Mostar, una delle città più duramente colpita dalla guerra in Bosnia, e dove, oggi, nella piazza centrale, sorge una statua simbolo di conciliazione e riunificazione che attinge al patrimonio comune di quella generazione ferita e lacerata dalla guerra, una generazione cresciuta negli anni 70 e ottanta per la quale il suoperamento delle rivalità etniche ha le fattezze di Bruce Lee.

Parlerei per ore della guerra in Bosnia, ma l’oggetto di questo podcast è qualcosa di, purtroppo, molto più recente.
Mi riferisco alla catastrofe umanitaria in corso, agli inizi del 2021, tra Croazia e Bosnia e che vede protagonisti migranti diretti in Europa.

La politica migratori dei paesi balcanici è molto dura. Le frontiere sono chiuse per i migranti diretti in Europa e quelli che provano a passare di là, vengono arrestati, e sottoposti a trattamenti a dir poco discutibili.

Un qualcosa di molto simile a ciò che accade in Libia, Marocco e Turchia, con un unica differenza, il luogo d’origine dei migranti.
Se infatti in Libia e Marocco, la maggior parte dei migranti Proviene dall’africa subsahariana e in Turchia i migranti provengono dal vicino oriente, i migranti bloccati tra Bosnia e Croazia provengono principalmente dall’area Balcanica, sudest asiatico e dal Medio Oriente.
Le gestione, estremamente dura dei migranti, da parte di questi paesi tende alla criminalizzazione dei migranti irregolari, considerati clandestini e dunque criminali.

C’è però un problema di carattere internazionale legato al concetto di immigrazione clandestina, un problema che trova origine nella dichiarazione dei diritti fondamentali dell’uomo, proclamata dall’assemblea generale delle nazioni unite il 10 dicembre 1948 e sottoscritta da tutti i paesi e organizzazioni membre dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Detto più semplicemente, Bosnia, Croazia, Libia, Turchia, Marocco, Unione Europea e tutti i paesi dell’Unione riconoscono, nel proprio corpo legislativo, i principi della dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu, il cui testo è disponibile in tutte le lingue riconosciute dall’ONU, oltre alle cinque lingue ufficiali dell’ONU, ovvero Cinese, Francese, Inglese, Russo e Spagnolo.

Sulla base di questi principi, sono stati creati diversi uffici delle nazioni unite, tra cui, la più importante, l‘alto commissariato delle nazioni Unite per i Diritti Umani, sul cui portale è disponibile il testo della dichiarazione.

Secondo questa dichiarazione, considerata dalla stessa ONU un tassello fondamentale della propria istituzione, per certi versi la pietra angolare da cui è stata edificata l’intera Civiltà Moderna, di cui l’ONU è espressione, nonché promotore e garante, l’immigrazione Non è mai Clandestina, e questo principio è richiamato in tre diversi articoli, a partire dal primo articolo della dichiarazione.

Questi Articoli puntualizzano alcuni principi, già di persè contenuti nell’articolo 1 e 3 della dichiarazione, vale a dire “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” e “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona“.

E già qui, sulla base di questi principi, tutta l’impalcatura del concetto di immigrazione clandestina, crolla su se stessa, ma, volendo essere più puntigliosi ed escludendo ogni possibile dubbio sulla natura illegittima e incompatibile con la dichiarazione del principio di “clandestinità” delle migrazioni umane, l’articolo 13 recita “Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.”

L’articolo 14 recita invece “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni” precisando che, l’uncia eccezione a questo diritto si configua qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.”
Continua la dichiarazione con l’articolo 15, secondo il quale “Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza.” e “Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della propria cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.”

Questi articoli non lasciano troppo spazio ad interpretazioni, ogni individuo, è libero e, a meno che non abbia commesso gravi crimini in contrasto con i principi delle Nazioni Unite, ha il pieno diritto di lasciare, in qualunque momento, e per qualunque ragione, il proprio paese di origine ed ha il diritto di raggiungere e stabilirsi in qualsiasi altro paese del mondo, e nessun uomo o istituzione, subordinata all’autorità internazionale delle Nazioni Unite può negargli questi diritti fondamentali.

In Bosnia, Croazia, ma anche in Libia, Marocco e Turchia, e in molte altre zone del mondo, in particolare in stati che si collocano ai confini di ricchi e prosperi paesi, questi principi, hanno un valore aleatorio e sistematicamente vengono ignorati.
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Ciò che da scandalo in questo momento in Bosnia, alle porte dell’Europa, oltre alle condizioni cui sono sotoposti i migranti, è il tacito consenso, il drammatico silenzio, dell’Europa, un Europa che pur di mantenere intatto il proprio benessere interno, pur di proteggere il proprio precario paradiso perduto, per citare Robert Kagan in Paradiso e Potere, America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, sistematicamente si affida a questi stati esterni all’unione, ai quali viene concessa la libertà di violare impunemente alcuni dei più sacri principi sanciti dalle nazioni unite.
Questi Paesi, in questo caso specifico Bosnia e Croazia, possono agire in aperta violazione della dichiarazione dei diritti umani universalmente riconosciuti, per un motivo.

Quei Migranti, che in alcuni casi fuggono dalla guerra, in altri fuggono dalla povertà, in altri ancora cercano semplicemente migliori condizioni di vita, e che da una fetta importante dell’opinione pubblica sono considerati Clandestini, concetto che tuttavia è alieno al diritto internazionale, quei migranti che non hanno alcun motivo o interesse nel rimanere in Bosnia e che sono lì solo di passaggio, diretti in Europa, in Europa non sono voluti, ne da chi li chiama clandestini, ne da chi, pubblicamente dichiara che sono i benvenuti, per poi non intervenire in loro difesa quando paesi come la Libia, Turchia e in questo caso Bosnia, si macchiano di comportamenti atroci imputabili come crimini contro l’umanità.

E la Bosnia, per quello che ha vissuto negli anni 90, di crimini contro l’umanità, dovrebbe averne una buona memoria. anche perché, il tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, costituito nel 1993 al fine di perseguire i criminali di guerra responsabili di eventi disumani negli anni 90, è stato sciolto soltanto nel 2017.

Ma di questo magari parleremo in un prossimo episodio, qui su Radio Spenta, il mio podcast.

I Medici di Claudia Tripodi, Guida alla lettura

Dopo tanto tempo, finalmente, ritorno a pubblicare, e lo faccio con una guida alla lettura, in particolare la guida alla lettura del saggio I Medici di Claudia tripodi.

Questa guida sarebbe dovuta uscire ad ottobre, ma, una serie di sfortunati eventi, mi hanno impedito di lavorarci per molto tempo, ho quindi rimandato la scrittura e pubblicazione a dopo le feste, forte di una seconda rilettura del saggio di Claudia Tripodi.

Prima di cominciare con la guida, voglio ringraziare l’editore Diarkos per avermi fornito una copia del libro finalizzata alla produzione di questa guida.

I medici, ascesa e potere di una grande dinastia

Il saggio I medici, ascesa e potere di una grande dinastia, di Claudia Tripodi si presenta come una raccolta di saggi di carattere biografico, riguardanti le principali personalità che hanno fatto la storia della famiglia de Medici, partendo dal capostipite Giovanni di Bicci de Medici, vissuto tra XIV e XV secolo, fino ad arrivare alla principessa palatina Anna Maria Luisa de Medici, vissuta tra XVII e XVIII secolo.

L’arco temporale coperto dal saggio è dunque molto ampio, e coincide con l’ultimo medioevo e gran parte dell’età moderna, epoche di cui è consigliato avere un infarinatura generale al fine di affrontare la lettura del saggio in modo armonioso. Il saggio è comunque di carattere divulgativo, e fornisce, tra le proprie pagine, tutti gli strumenti necessari per poter ricostruire e comprendere a pieno, la dimensione politica e sociale in cui si collocano le vite presentate nell’opera.

In poco più di 300 pagine, il saggio condensa una narrazione enciclopedica delle vite e delle vicende che hanno reso grande la dinastia de Medici, protagonista, non di secondo piano, di gran parte della storia italica ed europea.

La raccolta di saggi può essere letta sia come una “storia familiare” che come una storia europea che parte dalla toscana, giunge Roma, presso la corte papale di Leone X, al secolo Giovanni Lorenzo de Medici, si trasferisce poi a Parigi, presso la corte del re di Francia Enrico II, di cui Caterina de Medici era consorte, per poi tornare in Italia, presso la corte medicea del Granducato di Toscana.

I Medici

La storia della famiglia de Medici è una storia immensa ed estremamente complicata, e non basterebbe una vita intera per studiarla completamente, poiché tante, forse troppe, sono le personalità di alto rilievo appartenute a quella che è stata una delle più importanti dinastia dell’intera storia d’Italia.

Nonostante il saggio si muova in un campo a dir poco sterminato, l’autrice riesce a mantenere ben saldo il timone ed impostare una rotta precisa e puntuale, organizzata in modo schematico attraverso la ricostruzione dei momenti più importanti delle vite degli uomini e delle donne della famiglia de Medici.

Uno degli aspetti che ho apprezzato particolarmente di questo libro è la sua struttura verticale, ogni saggio biografico infatti, può essere letto indipendentemente dagli altri, e può essere visto come punto di partenza per uno studio più approfondito, sulla vita dei singoli protagonisti dell’opera. Fermo restando che, per alcuni membri della famiglia de Medici è più facile reperire informazioni rispetto ad altri.

Uomini e donne come Cosimo il Vecchio, Lorenzo il Magnifico e Caterina de Medici, hanno nomi estremamente celebri e la letteratura storiografica attorno a queste personalità, è a dir poco infinita, altri membri della famiglia invece, come ad esempio Giovanni di Bicci, Cosimo III e Anna Maria Luisa, sono decisamente meno noti, e la letteratura che li riguarda è circoscritta ad un numero estremamente esiguo di opere molto puntuali e, sotto un certo punto di vista, complicate da leggere.

Il saggio I Medici, di Claudia Tripodi, permette, in modo semplice e immediato, di accedere ad informazioni significative, sulla vita di queste personalità, e se per personaggi più noti, può sembrare un qualcosa di non particolarmente significativo, se si sposta la lente sui personaggi minori della dinastia, il saggio diventa estremamente interessante ed utile.

I saggi verticali sui medici

Nell’immaginario collettivo, la dinastia de Medici inizia la propria ascesa al potere, tra Arezzo e Firenze, grazie al genio e l’acume politico di Cosimo de Medici, noto alla storia come Cosimo il Vecchio, tuttavia, Cosimo non è un uomo comune che costruisce un impero dal nulla, Cosimo è in vero figlio di Giovanni di Bicci de Medici, piccolo e ambizioso banchiere fiorentino, la cui eredità avrebbe permesso a Cosimo di gettare le basi dell’Impero della famiglia medicea.

La storia di Giovanni di Bicci è una storia molto sottotono rispetto a quella dell’erede Cosimo, ma non meno significativa o importante, e, nell’ottica di un lavoro ampio e completo sulla famiglia de Medici, è necessario partire da Giovanni per poter comprendere meglio la figura di Cosimo.

Come anticipato nel paragrafo precedente, ho trovato particolarmente utili i saggi sui “medici minori”, di cui, il più delle volte, al di fuori di campi di studio estremamente specifici sulla toscana in età moderna, si conosce forse il nome ed il titolo, ma nulla di più. Questo saggio, grazie allo spazio dedicato a queste personalità, mi ha permesso di conoscere meglio un mondo che mi era lontano, donandomi la chiave di accesso a storie e vite, fino a quel momento collocate in strade quasi completamente sconoscute.

Uno dei miei saggi preferiti del libro è il sesto, intitolato I medici fuori da Firenze, saggio in cui, in modo molto rapido, si raccontano le storie dei pontefici Leone X e Clemente VII oltre che del duca d’Urbino, Lorenzo de Medici, da non confondere con Lorenzo il Magnifico.

Altro saggio che ho apprezzato in modo particolare è il nono, intitolato Caterina dei Medici, la regina Nera, saggio in cui, senza troppi giri di parole, si parla della regina di Francia Caterina de Medici, consorte del re di Francia Enrico II di Valois.

Questi due saggi sono quelli che meglio racchiudono e definiscono il potere temporale della famiglia de Medici, una famiglia così potente da riuscire a partecipare al gioco del trono papale, insediando per ben due volte un membro della propria famiglia al soglio pontificio, e ancora, una famiglia così ricca e potente, da riuscire ad insediarsi, al fianco, e secondo alcuni, riuscendo a controllare, il re di Francia. Caterina non è però stata solo la regina di Francia, ma anche la regina reggente di Francia, per ben due volte, la prima, alla morte di Enrico II, tra il 1560 ed il 1563, per conto del figlio primogenito Carlo IX di Francia e la seconda, nel 1574, alla morte del figlio Carlo, per conto del secondogenito Francesco II di Francia.

Durante la propria presenza alla corte di Francia, Caterina de Medici, fu una donna estremamente presente nella vita politica, sia in veste di regina, che di regina madre, oltre che ovviamente di regina reggente. Ben note sono infatti le rivalità tra Caterina de Medici e Maria Stuart, regina di Scozia e regina consorte di Francia in quanto moglie di Francesco II di Francia.

Il saggio su Caterina de Medici, ci mostra quel mondo controverso e complicato delle relazioni politiche e internazionali del XVI secolo, attraverso la vita di una donna decisamente fuori dal comune che, per un lungo periodo della propria vita, si ritrovo al centro dell’universo politico europeo.

Il saggio sui Medici

Il saggio I medici, di Claudia Tripodi, è nell’insieme, un libro di ampio respiro, in grado di fornire al lettore un infarinatura generale sulla storia politica ed economica dell’Europa moderna, attraverso il racconto delle vite di uomini e donne che, chi più, chi meno, sono stati determinanti nella costruzione di un concetto europeo.

Come già detto altre volte, il saggio ha una struttura verticale, che lo rende particolarmente adatto ad una lettura occasionale o non necessariamente consequenziale. I saggi che compongono l’opera possono essere letti in modo isolato o in ordine sparso, ed è proprio in quest’ultimo medo che ho affrontato la seconda lettura del testo, preferendo soffermarmi su quei saggi che reputavo più interessanti, per quello che era il mio gusto personale e i miei interessi. In soldoni, durante la seconda lettura, ho preferito dare maggiore spazio a saggi che mi incuriosivano e interessavano maggiormente, ovvero saggi su quei personaggi di cui avevo letto e sapevo poco o nulla, e sui quali avevo difficoltà a reperire informazioni.

I Medici, una lettura utile e consapevole

Sfogliando le pagine del libro si noterà immediatamente un enorme varietà di fonti consultate dall’autrice per la realizzazione di quest’opera, i cui contenuti sono tanti quanti i protagonisti della dinastia de medici, e per chi vuole addentrarsi nello studio della famiglia de Medici, o più semplicemente vuole conoscere meglio uno dei suoi protagonisti, questo libro si presenta come uno strumento estremamente utile per due motivi.

Il primo motivo è che questo libro fornisce una porta d’accesso a quelle biografie, attraverso dei saggi monografici, brevi, semplici e di ampio respiro, il saggio su Caterina de Medici, per citarne uno, è un ottimo strumento per acquisire informazioni di base sulla regina di Francia, da cui partire per un lavoro di analisi e ricerca, magari più ampio, inoltre, qualora si fosse intenzionati ad approfondire la figura di Caterina, il saggio, come ogni buon saggio, permette di accedere ad un ampia bibliografia, che, nel caso del saggio su Caterina, si configura come un indice di testi, articoli e documenti, riguardanti questa donna, letture che chiunque può prendere in mano al fine di conoscere meglio e più da vicino la figura di Caterina de Medici.

Qualche parola sull’autrice de I Medici, Claudia Tripodi

Archivista e storica di professione, Claudia Tripodi ha studiato presso l’accademia Paleografica e Università di Firenze, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia Medievale nel 2009, per poi spostare la propria attività di ricerca sulla storia delle famiglie e la mobilità sociale tra Medioevo e Rinascimento, ed è proprio in questo campo che si colloca, perfettamente, il saggio I Medici, un saggio che, come detto più volte in questa guida, è una storia di famiglia, la famiglia de Medici, ma anche una storia politica ed economica europea a cavallo tra medioevo ed età moderna.

Claudia tripodi è attualmente collaboratrice archivista presso l’Archivio di Stato di Firenze, per conto dell’Università Neubauer di Chicago, oltre che redattrice per la rivista “Archivio storico Italiano”.

La maggior parte delle pubblicazioni della dottoressa Tripodi sono di carattere tecnico, in particolare review realizzate per conto di alcune riviste di settore.

Nonostante ciò, è anche autrice di diversi saggi, ultimo dei quali, I Medici, ascesa e potere di una grande dinastia, un saggio che segue lo stile narrativo e strutturale dei precedenti saggi, su Vespucci, edito da Viella Editore e pubblicato nel 2018 con il titolo Prima di Amerigo. I Vespucci da Peretola a Firenze e, prima ancora, del saggio sulla famiglia Spini del 2013, intitolato Gli Spini tra XIV e XV secolo. Il declino di un antico casato fiorentino ed edito da Olschki nella collana Biblioteca storica toscana.

I saggi di Claudia Tripodi sono accomunati, oltre che da un forte carattere divulgativo, che vuole raccontare, in modo chiaro, semplice e diretto, un ampio e complesso percorso di ricerca molto puntuale e specifico. Il saggio sui Medici sintetizza, tra le proprie pagine, anni di studio e ricerca compiuti dall’autrice, sulla nobiltà fiorentina e la società europea tra medioevo e rinascimento.

Conclusioni

Il libro I Medici, ascesa e potere di una grande famiglia di Claudia Tripodi è una raccolta di brevi saggi biografici, realizzati dall’autrice ed aventi come protagonisti, la famiglia de Medici, di cui ci vengono raccontate storie, vite, intrighi, ma anche ambizioni, ostacoli, difficoltà e successi. Il tutto è scritto in modo semplice e chiaro, con uno stile molto lineare e conciso, senza troppi fronzoli e senza dare troppo spazio a concetti e informazioni irrilevanti.

questo libro di Claudia Tripodi si concentra su quelli che sono i momenti più importanti delle vite raccontate, e, se c’è un difetto che è possibile incontrare in questo saggio, forse è proprio la puntualità con cui sono narrate le vicende.

Il saggio ha un carattere divulgativo molto spinto ed acceso, tuttavia, senza una preliminare conoscenza (molto superficiale) delle dinamiche sociali degli ultimi anni del basso medioevo e del rinascimento, alcuni passaggi potrebbero risultare complicati da comprendere e potrebbero richiedere una seconda lettura. Nonostante ciò, il libro non presenta ostacoli insuperabili, le conoscenze e competenze preliminari richieste per poter leggere il libro in modo completo, sono davvero pochissime, e, chiunque sia interessato a leggere un saggio biografico sulla famiglia de Medici, quasi per definizione, dispone già delle conoscenze preliminari richieste.

La struttura verticale del libro, diviso in capitoli monografici riservati ai singoli protagonisti della dinastia medicea, rende il saggio estremamente dinamico, e può essere letto, in vari modi e dimensioni, io stesso, la prima volta che ho letto il libro l’ho letto in un modo “classico” ovvero seguendo l’ordine naturale dei capitoli, mentre, la seconda volta che l’ho letto, mi sono mosso tra i capitoli in ordine sparso, leggendo ad esempio il saggio su Caterina de Medici parallelamente al saggio su Cosimo il Vecchio, ho voluto leggere parallelamente quei due saggi perché da un certo punto di vista, parallele sono le figure di Caterina e Cosimo, entrambi infatti portano la famiglia de Medici su un più alto piano sociale, il primo, Cosimo, introducendo la famiglia all’aristocrazia Italica, la seconda, portando l’aristocratica famiglia italica sul piano delle teste coronate che in quel momento governavano l’Europa, insediandosi sul trono di Francia e dando i natali all’erede di casa Valois.

In definitiva, il libro I Medici di Claudia Tripodi un libro che consiglio a chiunque, sia a chi è incuriosito dalla storia della famiglia de Medici e vuole iniziare un percorso di studio e letture, sia a chi è già addentrato nel mondo della letteratura storiografica e vuole andare ad approfondire determinati aspetti della società europea, in particolare la mobilità sociale tra medioevo e rinascimento, che, in questo libro, la fa da padrona.

Altre guide alla Lettura

Se questa guida alla lettura ti è stata utile e vuoi leggerne altre, ti consiglio la lettura di:

I Lobgobardi, di Elena Percivaldi.
Il Formaggio e i Vermi, di Carlo Ginzburg.
La Fine della cultura di Erich Hobsbaem
Wonderland, di Alberto Mario Banti.