Mitologia norrena: l’inizio e la fine dei tempi secondo i vichinghi | CM

Con il termine “mitologia norrena”, “nordica” o “scandinava” s’intende quell’insieme di leggende, credenze e miti strettamente legati alla sfera religiosa dei popoli scandinavi del nord Europa (compresa l’Islanda, colonizzata successivamente dai vichinghi). Tali tradizioni sono da ritenersi come un “ramo” della mitologia germanica, dalla quale deriverebbe anche la mitologia anglosassone, entrambe di matrice molto più antica; si tratta pertanto di antichissime origini che risalgono a contesti di mitologia indioeuropea. Tale mitologia è da intendersi come un insieme di racconti (trasmessi prevalentemente in forma orale) di età pre-cristiana, incentrati perlopiù sull’origine del mondo, l’apocalisse conclusiva e svariate avventure i cui protagonisti sono rappresentati dalle varie divinità norrene. Tuttavia, le molteplici leggende scandinave non trattano solamente le gesta di dei e creature mitologiche, ma anche direttamente del popolo vighingo, elogiandone i suoi eroi più grandi.

 Midgard

Stando alle fonti, la mitologia norrenda identificherebbe come mondo “terreno” e “conosciuto” il cosiddetto Miðgarðr (letteralmente “terra di mezzo”). Sulla sommità di un’altura piuttosto elevata si troverebbe poi Ásgarðr (letteralmente “giardino/terra degli dei” o “città degli dei”), conosciuta come residenza degli dei celesti (gli Asi), e sarebbe a sua volta circondata dalle acque e totalmente separata dal mondo dei mortali; per questo motivo, l’unico modo per accedervi sarebbe il Bifrǫst, conosciuto come “ponte dell’arcobaleno”. A est si troverebbe poi la dimora dei giganti, Jǫtunheimr (letteralmente “terra dei giganti”), e a sud il regno di fuoco governato da Muspell, il Múspellsheimr, dove vivono i giganti di fuoco. Infine gli inferi sarebbero caratterizzati dal reame della dea Hel, l’Helheim. Esistono poi vari altri regni minori, come quello degli elfi della luce (Álfheimr) e delle tenebre (Svartálfaheimr), la terra dei nani, ricca di miniere (Niðavellir), e la dimora dei Vani (Vanaheimr), stirpe divina meno potente e conosciuta.

Le divinità

Miti e leggende legati alla mitologia norrena sono alla base delle credenze religiose praticate dalle popolazioni del nord Europa e, per questo motivo, strettamente connessi alle imprese di eroi e divinità di ogni tipo. Stando alle fonti, l’universo sensibile (quello conosciuto e abitato da uomini, dei e creature varie) era sostenuto da Yggdrasill, un albero cosmico con il solo scopo di sorreggere i nove mondi del creato, i quali sono a loro volta stati generati da Ymir, una figura fondamentale nella cosmogonia e cosmologia norrena, in quanto rappresenta il primo gigante del ghiaccio e soprattutto il primo tra tutti gli esseri; incarnando così il ruolo di un fondatore universale.

Per parlare delle divinità norrene bisogna innanzitutto sottolineare il fatto che queste ultime fossero suddivise in due classi tra loro differenti. Tuttavia tale differenza non sarebbe così rigida e netta come oggi appare; in un passato molto lontano infatti le due fazioni si sarebbero scontrate in una “guerra celestiale” piuttosto violenta, per poi giungere a una pace definitiva scambiandosi ostaggi e unendo varie casate e famiglie in matrimonio. Tale unione “conclusiva” sarebbe stata talmente definitiva da non riuscire a determinare con chiarezza l’appartenenza di varie divinità a una classe piuttosto che a un’altra. Tali classi sarebbero definibili come Asi (Aesir) e Vani (Vanir).

Asi

Gli Asi (Aesir) rappresentano i signori del cielo e, come precedentemente citato, dimorano su Ásgarðr, un’enorme fortezza creata da Odino (nota appunto come il “recinto degli Asi”). Sono considerati i principali nemici degli Jǫtnar (conosciuti come giganti dalle dimensioni colossali e dalla forza sovrumana, o come demoni), e tale inimicità risulterebbe paragonabile all”’odio” presente tra dei e titani della mitologia greca. Tuttavia sia gli Asi che i Vani in realtà discenderebbero direttamente dagli Jǫtnar e, per questo motivo, avrebbero la possibilità di sposarsi o di avere dei figli con essi. Gli Asi rappresenterebbero le divinità “superiori” (paragonabili agli dei dell’Olimpo), più forti e per questo legati alla categoria dei guerrieri; per sottolineare la supremazia di questa “categoria divina”, le unioni tra Asi e Vani sarebbero state sancite soprattutto da matrimoni tra dei maschi Asi e dee femmine Vani. Appartengono alla categoria degli Asi alcune tra le più divinità celebri e importanti, come Odino, il dio supremo e padre degli dei; Thor, il dio del tuono e della tempesta (personificazione della folgore e del fulmine), possessore dell’arma divina più famosa, ovvero il martello; e Loki, il malvagio dio dell’astuzia e degli inganni. Gli Asi infine, in quanto divinità razionali e strettamente legate alla forza e all’ambito della guerra, incarnano una sorta di primordiale concetto di patriarcato.

Vani

I Vani (Vanir) invece rappresentano l’esatto opposto della loro “controparte” divina. Al contrario degli Asi infatti, essi incarnano divinità irrazionali, strettamente legate alla sfera dell’emotività, dell’intuizione e di tutto ciò che riguarda la natura e la fertilità (spesso sono anche legati a temi di carattere agricolo); per tutte queste motivazioni, i Vani rappresenterebbero un vero e proprio simbolo delle società matriarcale (motivo per cui nei matrimoni tra Asi e Vani questi ultimi fossero sempre figure femminili). Al contrario degli Asi, dotati di uno spirito più bellicoso e burrascoso, i Vani sarebbero connotati da animi più pacifici e gentili, che di conseguenza non li renderebbero protagonisti, come spesso accade invece per gli Asi, di vicende eroiche e violente. Tra gli esempi più celebri di divinità appartenenti ai Vani, è possibile citare i due gemelli divini Freyr, il dio della fertilità, dell’abbondanza e di tutto ciò che ha a che fare con la crescita e con la naturale vitalià, e Freya, la dea della bellezza, dell’amore e, anch’essa, della fertilità (per queste caratteristiche è paragonabile alla dea Venere). Per lo stretto legame che queste divinità presentano con la natura e la fecondità, il loro ruolo principale è direttamente associabile alla potenza di Madre Terra, tratto che li renderebbe certamente diversi ma non meno importanti dei loro opposti, ovvero gli Asi.

A completare il pantheon norreno non “partecipano” solamente divinità da fattezze e tratti umani (come tutte quelle citate finora), ma anche svariate creature ed elementi divini, i cui ruoli sono tuttavia determinanti all’interno della mitologia norrena, esattamente al pari di dei e dee. Tra questi è possibile citare Fenrir, il gigantesco lupo mitologico nato dall’unione tra Loki, con cui condivide la natura malvagia, e la gigantessa Angrboða; esso rappresenta una sorta di archetipo di tutti i lupi, intesi come nemici principali degli uomini. Un’altra creatura nata dall’unione tra Loki e la gigantessa è Miðgarðsormr (letteralmente “serpe di Miðgarð”), il mostruoso serpente marino talmente lungo da poter cingere con le sue spire il mondo intero, e dotato di un terribile veleno. Altre creature piuttosto note sono Huginn (“pensiero”) e Muninn (“memoria”), i due corvi messaggeri che tengono Odino perennemente informato su tutto ciò che accade nel mondo. Un’altra creatura legata a Odino è Sleipnir, il suo cavallo a otto zampe, anch’esso figlio di Loki. Infine è possibile citare non una creatura, bensì un albero; in particolare Yggdrasill, l’albero cosmico o albero del mondo, un frassino attorno al quale spazio astronomico e tempo cosmico si fondono generando l’ineluttabile destino dell’umanità. Su tale albero vive Ratatoskr, uno scoiattolo che percorre senza sosta e in maniera fulminea l’intero albero, dalle radici ai rami più elevati. Tutti questi personaggi partecipano agli eventi della mitologia norrena in egual misura rispetto a ogni altra divinità.

Per concludere, sebbene il discorso sulle divinità norrene sia strettamente collegato alla sfera mitologica e divina, la “sovrapposizione” tra Asi e Vani avrebbe in realtà delle radici ben più antiche, e sarebbe da ricollegarsi a un episodio antropologico e protostorico, ovvero la grande migrazione delle popolazioni indioeuropee verso occidente. Tale allegoria vedrebbe i popoli indioeuropei come le divinità Asi che, in quanto divinità celestiali, venivano adorate da popolazioni nomadi quali erano gli indioeuropei. Tale simbologia ricondurrebbe dunque alla conquista della Scandinavia (popolata dalle popolazioni autoctone) da parte degli indioeuropei, i quali sarebbero venuti in contatto con le popolazioni norrene, legate a una cultura più sedentaria e meno bellicosa, e dunque di tipo contadino (riconducibili appunto ai Vani). Un ulteriore parallelismo sarebbe fattibile in termini di culti primordiali, i quali sarebbero appunto legati agli elementi che maggiormente caratterizzano gli Asi e i Vani, ovvero (rispettivamente) guerra, caccia, raccolta e agricoltura. Dai primi del ‘900 in poi molti studiosi e antropologi quali Salin, Dumézil e De Vries si sono approcciati a questa tipologia di studi, comparando miti e leggende a fatti storici realmente accaduti, sebbene tutte queste teorie restino comunque delle ipotesi.

Fonti di trasmissione

Come citato precedentemente, la stragrande maggioranza della mitologia norrena veniva trasmessa oralmente. Questo avveniva principalmente per due motivazioni: prima di tutto la scrittura, nell’Alto Medioevo, era ancora uno strumento di trasmissione piuttosto raro ed elitario per la popolazione (erano quasi unicamente i più colti, come i religiosi, ad averne accesso); in secondo luogo, trattandosi di saghe, fiabe, favole, miti e leggende, essi venivano diffusi sottoforma di storie e racconti, e dunque spesso narrati in grandi compagnie o attorno a un fuoco, come momento ludico e di svago. Questa fonte di trasmissione ha fatto sì che buona parte di tali racconti andassero perduti per sempre, o modificassero radicalmente la loro struttura originaria, a causa dell’inaffidabilità che da sempre caratterizza le trasmissioni orali. Tuttavia, pur trattandosi di leggende pagane, sono stati proprio i religiosi cristiani a recuperare, conservare, copiare e tramandare i pochi frammenti rimasti in circolazione in età medievale. Ad oggi, molti di questi miti e leggende sono sopravvissuti nel folklore locale, e orale, scandinavo e tedesco, sottoforma di fiabe e racconti popolari.

Edda in prosa

Uno dei pochissimi testi che ci sono stati tramandati sottoforma di prosa è l’Edda in prosa (conosciuta anche come “Edda di Snorri”, “Edda recente” ed “Edda minore”), trasmessaci nell’Alto Medioevo attraverso vari codici più o meno completi. Tale opera fu scritta a cavallo tra il 1222 e il 1225, dall’autore Snorri Sturluson (storico, poeta e politico islandese dell’età altomedievale); essa rappresenterebbe un vero e proprio manuale di poetica norrena per aspiranti poeti. Si tratta tuttavia di un manuale piuttosto complesso, carico di metafore poetiche (dette “kennigar”) e densi significati nascosti, i quali vengono spesso esposti attraverso riferimenti che affondano le loro radici nella mitologia norrena, motivo per cui tale testo rappresenterebbe una delle massime fonti per comprendere, studiare e analizzare questa mitologia. Infatti, senza una buona conoscenza di quest’ultima, non si avrebbe la possibilità di comprendere la profondità di questo manuale. L’opera è composta da un prologo e da tre parti tra loro ben distinte; tuttavia, ciò che la rende davvero caratteristica è il fatto che, nonostante Snorri l’abbia composta in piena età cristiana, la massima fonte da cui egli attinge siano proprio culti e leggende di carattere pagano. Molti studiosi pensano che abbia fatto ciò principalmente per non lasciare che il patrimonio culturale del suo popolo andasse perduto.

«Questo libro si chiama Edda. Lo compose Snorri Sturluson nel modo qui riportato…»

Inizio dell’Edda in prosa.
Edda in prosa, la raccolta scritta della mitologia norrena

Un altro testo particolarmente importante per la ricostruzione della mitologia norrena è la cosiddetta Edda poetica (nota anche come “Edda in poesia”, “Edda antica”, “Edda maggiore” e “Canzoniere eddico”); fu erroneamente attribuita all’erudito autore Saemundr il Saggio, e per questo motivo viene spesso anche chiamata “Edda di Saemundr”. L’opera rappresenta un’intera raccolta di ventinove canti scritti in norreno e tratti da un importante manoscritto di epoca altomedievale islandese, noto come Codex regius. Tale manoscritto venne redatto intorno al XIII secolo d.C. (data presa come terminus ante quem), nonostante la datazione generale sia piuttosto incerta e tutt’oggi ancora dibattuta, poichè non vi è alcuna garanzia che tutti i versi raccolti al suo interno risalgano allo stesso periodo (alcuni potrebbero persino risalire al IV/V secolo d.C.). I primi dieci canti trattano le imprese degli dei, mentre gli ultimi diciannove le gesta degli eroi, e sono tutti caratterizzati dal metro poetico allitterativo (i versi sono legati tra loro dall’allitterazione). Tuttavia ad essere incerta non risulta solamente la datazione, ma anche il vero autore (o gli autori) dell’opera, poichè di nessun canto è stato possibile individuarne uno specifico. La forma orale, tipica della classica mitologia norrena altomedievale, permane, ed è possibile scorgerla in vari canti che affondano le loro radici nella tradizione dei menestrelli medievali.

Edda in prosa, la raccolta scritta della mitologia norrena

Vǫluspá: la profezia della veggente

Uno dei poemi più celebri e importanti è la cosiddetta Vǫluspá, nota anche come “La profezia della vǫlva” o “Profezia della veggente”; tale poema rappresenta il più famoso, nonchè primo poema (di apertura) dell’Edda poetica. Si tratta di un testo di carattere gnomico e sapienziale, ovvero direttamente riferito all’esposizione e alla conoscenza di eventi profondi e primordiali, genere che risulta essere tuttavia comune a molti altri testi eddici. Sebbene l’autore di questo testo sia tutt’ora sconosciuto, sappiamo per certo che fosse un islandese dotato di grande talento, certamente ancora strettamente legato alle tradizioni pagane dei vichinghi (motivo per il quale ci risulterebbe possibile collocarlo cronologicamente intorno al X secolo d.C.). L’opera in sè risulta essere estremamente complessa ed elaborata, talvolta scritta in maniera talmente criptica e confusionaria da non riuscire a comprendere del tutto i suoi significati spesso nascosti; tuttavia, nonostante la complessità e la sua difficile interpretazione, risulta essere una delle fonti principali per lo studio e l’interpretazione della mitologia norrena. La Vǫluspá si configura insomma come una vera e propria summa mythologiae scandinava, nonchè uno dei poemi epici più misteriosi e ben scritti di ogni epoca e luogo.

Odino nella Mitologia Norrena

Protagonisti principali del racconto sono Odino e una vǫlva (nota anche come “spákona”, ovvero “donna veggente”), una veggente interrogata dal padre degli dei dopo che quest’ultimo avrebbe invocato il suo spirito per chiederle un responso sugli eventi del passato e del futuro. Seppur notevolmente riluttante nei confronti della richiesta di Odino (da sempre assetato di conoscenza), la veggente cede infine alle insistenti richieste del dio, e inizia così un lungo ed elaborato racconto sulle origini di tutti i tempi e sull’apocalisse che porterà alla conclusione di tutto (il cosiddetto “Ragnarok”). Ciò che maggiormente caratterizza questa narrazione è la profonda capacità narrativa e di espressione della veggente, la quale utilizza nelle sue storie una notevole molteplicità di miti e leggende norrene, conferendo al tutto un’intensa aura di misterosità e segretezza. La fine della Vǫluspá è piuttosto tragica poichè la veggente, dopo aver profetizzato a Odino tutti i suoi segreti sul passato e sull’avvenire, precipita nuovamente nelle tenebre come se morisse un’altra volta, ritornando così nel regno dei morti (da cui era venuta).

Ascolto io chiedo a tutte le sacre stirpi, maggiori e minori figli di Heimdallr. Tu vuoi che io, o Valfǫðr, compiutamente narri le antiche storie degli uomini quelle che prima ricordo.

Inizio della Vǫluspá.

Il passato: la creazione dell’universo

Stando ai racconti narrati dalla vǫlva, il primo di essi è possibile ricondurlo a una dettagliata spiegazione circa l’origine e la creazione dell’universo. Secondo la mitologia norrena, prima di tutti i tempi esistevano due mondi estremamente opposti: il regno del ghiaccio (Niflheimr, letteralmente “casa della nebbia”, poichè coperta da gelo, ghiaccio e nebbia) e il regno del fuoco (Múspellheimr, letteralmente “terra delle fiamme”, poichè il calore e il fuoco regnano incontrastati); tali mondi sarebbero collocati rispettivamente a nord e a sud del Ginnungagap (letteralmente “varco spalancato”), uno sconfinato abisso caratterizzato dal nulla cosmico, in cui non viveva niente e nessuno e nel quale regnavano e si agitavano senza sosta potenti e incontrollabili energie cosmiche (è da intendersi non come una vera e propria carenza di sostanze fisiche, ma piuttosto come una totale mancanza di forme conoscibili). In tale scenario primordiale regnano dunque due poli opposti, da cui nasceranno l’universo conosciuto agli uomini e gli dei.

“All’inizio dei tempi non c’era la terra, né in alto si vedeva il cielo, non c’erano il mare e le spiagge, non v’erano piante, né erba, né altre creature viventi. Dovunque si spalancava il Ginnungagap.”

Descrizione del Ginnungagap nell’Edda poetica.

Questi due regni estremi e contrapposti si riversano continuamente nel Ginnungagap, fino a quando fuoco e lava, e ghiaccio e gelo non si scontrano, dando origine a una fitta serie di particelle cariche di vita. Dalla fusione di questi poli opposti vengono generate due creature gigantesche e primordiali: il gigante Ymir, che dalle fattezze androgine poteva ricoprire l’intera superficie terrestre, e la cosiddetta “vacca cosmica” Auðhumla, con il solo scopo di nutrirlo con il suo latte. Tuttavia Ymir, nonostante fosse ancora solamente un neonato, a causa della sua mole elevata possedeva una sudorazione elevatissima e, mentre dormiva, generò dal sudore del braccio sinistro un gigante maschio e uno femmina, mentre dal sudore delle gambe creò Þrúðgelmir, un gigante a sei teste che generò a sua volta un altro gigante, Bergelmir. Col passare del tempo la sudorazione di Ymir non cessava e, giorno dopo giorno, nacque l’intera stirpe dei malvagi giganti del ghiaccio (detti “Jotun”).

giganti di ghiaccio nella mitologia norrena

Tuttavia Ymir non fu l’unico capace di generare nuova vita; nel frattempo infatti la vacca Auðhumla per nutrirsi leccava il ghiaccio dalle cime delle montagne di Nifleheim, fino a quando non plasmò dai ghiacci una forma androgina che prese vita. Essa era Búri, il primo degli dei che, pur essendo molto bello, forte e potente, soffriva di una grande solitudine; per questo motivo creò un figliò per sè, chiamaro Borr, che successivamente si unì con la gigantessa Bestla, la figlia di uno dei giganti che erano stati generati precedentemente da Ymir. Questa unione risulta essere estremamente significativa per la mitologia norrena, poichè da Borr e Bestla nacque il primo degli dei Asi, Odino, e con lui altri suoi due fratelli, Vili e . I tre fratelli erano potentissimi e molto intelligenti, tanto che ingaggiarono una furiosa lotta contro Ymir, essendo bramosi di potere, e riuscirono a ucciderlo.

Dopo la morte di Ymir, Odino e i suoi fratelli utilizzarono il suo corpo per formare il mondo degli uomini; dal cranio venne creata la volta celeste, e fu ordinato a quattro nani di sostenerla (i nani erano nati dai vermi della carcassa di Ymir, dopo che fu gettata nel Ginnungagap), Austri, Vestri, Sudhri e Nordhi, i quali divennero così i quattro punti cardinali. Dai suoi capelli nacquero poi fitte foreste, dal suo scheletro furono generate le catene montuose, e il suo sangue servì a creare laghi, fiumi e mari, colmando le profonde cavità della terra. Le stelle, la luna e il sole furono invece il risultato dei frammenti infuocati che, dal regno di Muspellshein, continuavano a precipitare senza sosta nell’abisso. I frammenti del suo cervello furono invece il risultato delle nuvole, venendo lanciati nel cielo, e successivamente il regno degli uomini (Miðgarðr) e quello dei giganti (Jǫtunheimr) venne separato da un’alta muraglia insormontabile, generata dalle sue sopracciglia.

Infine i tre dei figli di Borr crearono i primi uomini per popolare Miðgarðr (la “terra di mezzo”), e utilizzarono il legno di due diversi alberi, intagliandone così le loro forme (androgine, come quelle dei primi giganti che popolarono Jǫtunheimr, la terra dei giganti); il primo essere umano fu infatti Askr, ovvero “frassino”, mentre la prima donna fu Embla, ovvero “olmo”. Odino diede loro in dono l’anima (intesa come vita/soffio vitale, esso rappresenta tra tutti il dono più importante e carico di significato), i cinque sensi e Vili l’intelligenza e la ragione; da loro sarebbe poi nata l’intera razza umana.

Sole e Luna vennero invece generati da un gigante, Mundilfœri, che ebbe due figli chiamati Sól , ovvero “sole” (la bambina), e Máni, ovvero “luna” (il bambino). Tuttavia gli dei non tollerarono l’arroganza con cui il gigante, un comune mortale, utilizzasse i nomi delle loro creazioni per i suoi figli (sempre comuni mortali), così come punizione posero i due bambini nel centro del cielo. Così Sól è costretta a guidare il carro che trasporta il sole (trainato da due cavalli, Árvakr e Alsviðr), mentre Máni quello della luna, determinandone l’eterna alternanza del sorgere di uno e del calare dell’altro; per fare ciò entrambi sono inseguiti da due lupi mostruosi, Skǫll (“traditore”) insegue il carro del sole, mentre Hati (“nemico”) quello della luna. Tuttavia si dice anche che Hati ogni mese riesca a raggiungere la luna e ad azzannarla, staccandone un pezzo (interpretazione mitologica dell’eclissi lunare).

Un altro importante evento sull’alternarsi è stato sancito da un altro gigante, il quale ebbe una splendida figlia, dalla carnagione tenebrosa e dai capelli corvini scuri come la pece, Nat, ovvero “notte”. Ella poi ebbe a sua volta un figlio, Dagr, ovvero “giorno”; egli, al contrario della madre, era candido e raggiante, ed emanava un’intensa luminosità. Volendo gli dei celebrare tanta bellezza e magnificenza, fecero dono a Nat e Dagr di due magnifici e rapidissimi cavalli, con i quali possono compiere un intero giro tutto intorno alla Terra in appena dodici ore, alternando così costantemente il nascere del giorno e il calar della notte.

L’avvenire: ovvero il Ragnarok

La veggente, dopo aver terminato il racconto sulla creazione del mondo e dell’universo (ovvero il passato), descrive poi l’enorme albero Yggdrasill e le tre norme che, ai suoi piedi, tessono le trame dei destini degli uomini. Narra poi della leggendaria battaglia avvenuta tra gli dei Asi e gli dei Vani, per poi soffermarsi sull’omicidio di Baldr per mano di Loki. La Vǫluspá si conclude poi con il concentrarsi del racconto della vǫlva sugli avvenimenti che caratterizzeranno il futuro, ovvero l’avvenire. Questa narrazione assume dei toni particolarmente tragici, poichè tale epoca è caratterizzata, secondo la mitologia scandinava, dal Ragnarok (letteralmente “destino degli dei”), ovvero l’apocalisse, la fine di tutti i tempi. Il Ragnarok sarebbe infatti caratterizzato da una fitta serie di eventi drammatici e catastrofici, estremamente significativi per poter fornire un’interpretazione complessiva della mitologia norrena; si tratta infatti di un episodio cruciale che, pur essendo fortemente enigmatico, è stato studiato e analizzato molteplici volte nel corso dei secoli da numerosi studiosi.

Ciò che maggiormente caratterizza il Ragnarok come l’evento più drammatico nella storia della mitologia norrena è il fatto che neanche gli dei potranno impedirlo; esso è infatti inevitabile, poichè rappresenterebbe il principale mezzo attraverso cui potrà generarsi un nuovo universo purificato, cominciando così un nuovo ciclo cosmico (che avrà a sua volta una nuova creazione dell’universo e un nuovo Ragnarok, alternando episodi di creazione e distruzione per tutta l’eternità, in maniera ciclica). A determinare l’inizio del Ragnarok, contribuiscono però tre diversi segnali, tutti indizi di un mondo sul punto di disgregarsi e crollare.

PRIMO SEGNALE = Il casus belli che preannuncerà l’avvenuta del Ragnarok è l’assassinio di Baldr per mano del malvagio Loki, il quale lo uccide dopo aver ingannato Höðr, convincendolo a trafiggere il dio della luce; tale drammatico evento termina con un solenne funerale, per celebrare quanto Baldr fosse amato, ma sancisce per sempre una dura verità per tutto il mondo divino: l’impossibilità di sfuggire al proprio destino, persino di fronte alla morte, proprio come succede agli esseri umani. Gli dei si accorgono così della vanità delle loro azioni di fronte a un fato immutabile, senza però rassegnarsi e accettare così tacitamente una loro debolezza.
SECONDO SEGNALE = Caratterizza non il mondo divino, bensì quello degli uomini; essi infatti vivono in un mondo ormai privo di senso, all’interno del quale le leggi e le tradizioni sono state trascurate e dimenticate, provocando così guerre, nichilismo, egoismo e depravazione. Il genere umano è ormai avviato verso un declino senza vie d’uscita.
TERZO SEGNALE = Riguarda gli astri e il mondo celeste, nonchè la fine del sole e della luna, che verranno ormai raggiunti e divorati dai lupi Skǫll e Hati, i quali priveranno così la Terra della luce solare, facendola sprofondare eternamente nelle tenebre. Allo stesso modo anche tutte le stelle verranno distrutte e non esisterà più alcun firmamento.

Ad annunciare il vero inizio del Ragnarok saranno tre galli, i quali avviseranno rispettivamente i giganti che vivono nello Jǫtunheimr, i morti del regno di Hel, e gli dei ad Ásgarðr saranno avvisati dal canto di Víðópnir, il gallo dorato che si posa sull’albero cosmico Yggdrasil il quale, scuotendo i suoi rami con veemenza, provocherà terremoti e maremoti che squarceranno l’intera Terra, distruggendola. Questo forte tremore determinerà anche lo spezzarsi di tutte le catene esistenti, e così Loki e i suoi figli, il lupo Fenrir e il serprente Miðgarðsormr (imprigionato nelle profondità degli abissi), potranno liberarsi dalla prigionia decretata da Odino, provocando morti e distruzioni al solo loro passaggio (Fenrir sulla Terra, mentre Miðgarðsormr nel mare). Arriveranno anche i morti, ovvero l’“esercito del male”, dal regno di Hel i quali, trasportati dalla nave infernale Naglfar, lasceranno il regno degli inferi per giungere sulla Terra e portare devastazioni.

Tuttavia il vero significato del Ragnarok, il culmine estremo di questa violenta e devastante vicenda, viene rappresentato da una battaglia di natura escatologica, nella quale si sfideranno le forze del caos, guidate da Loki affiancato dai suoi mostruosi figli, dai giganti (guidati da Surt, armato di una gigantesca spada infuocata con la quale annienta ogni cosa incontri sul suo cammino), dall’esercito del male e da tutti coloro che erano stati esiliati o imprigionati da Odino, e le forze ordinatrici, ovvero gli dei celesti, chiamati a raccolta da Heimdall, guardiano di Ásgarðr e custode del Bifrost, il ponte dell’arcobaleno che collega Ásgarðr a Miðgarðr. Gli dei sono consapevoli dei loro destini e, sapendo che questa sarà l’ultima tra tutte le battaglie, scelgono solamente di battersi con valore contro le forze del male. Tale battaglia decreterà molteplici morti da ambo le parti: da un lato periranno alcuni tra i più valorosi dei del pantheon norreno, dall’altra alcune creature mostruose schierate con le forze del male. Odino verrà infatti sbranato da Fenrir, che a sua volta verrà massacrato da Vidar, uno dei figli di Odino desideroso di vendicare il padre; Thor riuscirà invece a sconfiggere il Miðgarðsormr, tuttavia, essendo troppo indebolito dal suo veleno, perirà anch’egli poco dopo il serpente; infine si sfideranno Loki e Heimdall, anch’essi uccidendosi a vicenda in seguito a un violento e terribile scontro.

A seguito dello scontro finale, il padrone incontrastato di tutto rimarrà il gigante Surt, che con la sua spada infuocata brucerà la Terra e tutti i nove mondi, facendo nuovamente sprofondare l’intero universo in un mare bollente fatto di onde laviche che ripristinerà il profondo stato di buio, silenzio e nulla cosmico presente alle origini di tutto, ovvero l’abisso cosmico del Ginnungagap, che sorgerà ancora una volta come prima che tutto l’universo venisse generato. Sebbene il Ragnarok abbia portato alla morte molti dei e molte creature del male, questa lotta tra le forze del bene e quelle del male non possiede nè un vinto nè un vincitore, poichè il solo scopo delle fiamme che hanno inghiottito ogni cosa è quello di purificare, per permettere così una completa rinascita. Affinchè un nuovo universo possa rinascere, quello vecchio deve obbligatoriamente essere distrutto. Perciò, gli dei che sono riusciti a sopravvivere daranno origine a una nuova età dell’oro del pantheon norreno, la Terra tornerà nuovamente a splendere e tutti i valorosi dei morti per difendere l’universo, continueranno a vivere in una memoria di gloria eterna, e tutte le forze del male ritorneranno da dove erano venute. Pertanto, con la conclusione di tali eventi apocalittici, non solo verrà generata una nuova stirpe divina, ma anche una rinnovata progenie umana, e la Terra sarà ripopolata da Lif (letteralmente “vita”) e Lífþrasir (letteralmente “desiderio di vita”).

Gli influssi attuali

Sebbene fonti e testimonianze riguardo miti, leggende e soprattutto per quanto riguarda la mitologia norrena siano estremamente esigue, le poche tracce che ci sono pervenute hanno avuto un fortissimo impatto in epoche più recenti, anche a livello mondiale. In tempi molto più moderni ci sono stati infatti, sia in Europa che negli Stati Uniti, vari tentativi di restaurazione nei confronti dell’antichissima religione scandinava. Tali movimenti hanno preso il nome di Etenismo (o “neo-paganesimo germanico”, inteso come l’insieme dei nuovi movimenti religiosi legati ai culti germanici pre-cristiani), ed è caratterizzabile come un nuovo fenomeno di neo-paganesimo. Movimenti di questo tipo è possibile riscontrarli in forme anche più radicate in vari Paesi europei come l’Islanda, dove l’Etenismo è riconosciuto come Ásatrú, il quale è stato “sancito” ufficialmente come religione nel 1973, legalizzando matrimoni, battesimi e svariate altre cerimonie religiose. Un altro Paese è invece la Danimarca, dove l’Etenismo rappresenta una religione ufficiale e legalizzata, seppur ancora notevolmente nuova e poco condivisa tra i cittadini.

Oltre agli influssi nel campo della religione, la mitologia norrena ha avuto anche numerose e notevoli influenze in ambiti molto più “frivoli” e moderni; alcuni dei massimi esempi sono riscontrabili soprattutto in ambito musicale e cinematografico. Nel primo caso è possibile parlare di influenze musicali specialmente in tempi molto recenti, poichè la mitologia scandinava è stata una ricchissima fonte d’ispirazione per vari testi di canzoni, nomi di band e anche generi musicali, come il death metal, il black metal, il folk metal e soprattutto il viking metal; oltre al più conosciuto metal infatti si sta sviluppando anche un nuovo genere musicale dai tratti fortemente folkloristici, il neofolk, il quale utilizza strumenti tradizionali, tratta temi nordici ed è realizzato in lingua originale. Nel campo della cinematografia invece non sono stati “utilizzati” solamente temi nordici tratti da racconti mitici e leggende, bensì anche svariati personaggi (soprattutto divinità e creature mitiche, ma anche vari personaggi storici realmente esistiti), i quali, attraverso rappresentazioni più moderne e innovative per film e serie TV, hanno contribuito notevolmente a influenzare l’idea che si aveva di questi elementi, nonostante l’elevata carenza di fonti che li rappresentano.

Per concludere, ulteriori influenze (seppur in misura minore ma per questo non meno importanti) tratte dalla mitologia norrena, sono state riscontrate in epoche nettamente più recenti anche in ambiti più ristretti, quali la letteratura fantasy e storica e i giochi di ruolo. Dal 1900 in poi infatti epopee, miti e leggende scandinave hanno dato vita a un nuovissimo genere letterario, noto come “narrativa fantasy” (o “letteratura fantasy”); tale genere, caratterizzato da eventi fantastici e creature leggendarie tipiche della mitologia vichinga, ha avuto un enorme successo a livello mondiale, venendo apprezzato da tutti i sessi e da tutte le età. Tuttavia la narrativa fantasy non è stato l’unico genere letterario a imporsi, e si è così affiancato al romanzo storico, il quale ha spesso e volentieri riportato storie e vicende (sia romanzate che reali) legate alla storia dei vichinghi. Un altro campo in cui la mitologia nordica ha avuto un notevole successo sono i videogiochi (o giochi di ruolo), caratterizzati spesso da tratti fantasy e nordici riproducenti vari personaggi del pantheon nordico, oltre che molteplici paesaggi tipici della mitologia norrena.

La dinastia dei Tarquini: un secolo di monarchia etrusca a Roma | CM

Cenni cronologici

Una delle fasi più antiche e caratteristiche della Roma dei primordi è certamente caratterizzata dalle storie semi-leggendarie riguardo i sette re delle origini (Romolo, Numa Pompilio, Anco Marzio, Tullio Ostilio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo), dalla fondazione di Roma da parte di Romolo (753 a.C.) fino alla cacciata dall’Urbe di Tarquinio il Superbo (509 a.C.). Il numero sette, che definisce appunto i sovrani della monarchia romana, ricorre quasi simbolicamente anche per quanto riguarda i noti sette colli romani (Aventino, Celio, Quirinale, Campidoglio, Esquilino, Palatino e Viminale), sedi fondamentali del potere politico romano e fulcri di splendore artistico.

Tra questi celebri sette sovrani che regnarono a Roma a cavallo tra il 753 a.C. (anno della fondazione di Roma da parte di Romolo, “ab Urbe condita“, ovvero “dalla fondazione dell’Urbe”) e il 509 a.C., spiccano tre diversi re che si susseguirono reciprocamente e cronologicamente nell’arco dell’ultimo secolo della monarchia romana: Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Essi regnarono infatti per circa un secolo, dal 616 a.C. al 509 a.C., distinguendosi rispetto agli altri monarchi soprattutto per quanto riguarda la loro discendenza, unico tratto insolito e singolare che potesse in qualche modo accomunarli: i tre sovrani erano infatti etruschi.

Considerando l’“etruscità” come un tratto distintivo e originario del popolo romano, è possibile intravedere in questi ultimi tre re etruschi tuttò ciò che sarà il “lascito” della civiltà etrusca per la civiltà romana. Gli etruschi, così come tutti gli altri popoli italici gradualmente conquistati e inglobati dai romani, vedranno la loro autonomia e indipendenza definitivamente cancellata nel 90 a.C., quando otterranno la cittadinanza romana. Il popolo etrusco viene infatti considerato come il principale antenato di quello romano, non solo per la vicinanza geografica con il luogo d’origine, ma anche per molteplici aspetti sociali e culturali che verranno tramandati nei secoli, tra cui:
1. SELLA CURULIS = Uno sgabello simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente soltanto ai sovrani e successivamente anche ai magistrati.
2. TOGA PURPUREA = Simbolo di potere che nella Roma antica veniva indossata dall’imperatore.
3. FASCI LITTORI = Rappresentano un simbolo di giustizia e autorità per i magistrati.

Tarquinio Prisco (616-579 a.C.)

Discendente diretto della famiglia dei Pachidi, che aveva dominato a Corinto tramite vasti commerci e attività artigianali (tra le quali la produzione di molte ceramiche), è noto per essere il figlio maggiore di Demarato, il quale fu costretto a fuggire da Corinto a causa delle incombenti rivalità in atto tra la sua famiglia e quella dei Cipselidi, che ora regnavano sulla città (Cipselo era infatti il nuovo tiranno). Demarato allora, per cercare soprattutto nuovi commerci e mercati, si trasferì a Tarquinia nel 657 a.C., dove sposò una nobile del luogo, da cui avrà due figli: Lucumone (Tarquinio Prisco), il maggiore dei due, e Arunte (morto poco prima del padre).

Tarquinio Prisco è infatti conosciuto con il nome originario etrusco di Lucumone, termine che successivamente verrà utilizzato per indicare un’importante carica politica di principe o capo dell’aristocrazia (ancora più avanti diventerà anche una carica magistratuale). Egli infatti, dopo essersi trasferito a Roma con la moglie, cambierà nome in Lucio Tarquinio Prisco (Lucius Tarquinius Priscus), per segnare l’evidente vicinanza geografica e familiare con la fiorente città etrusca di Tarquinia. Come il padre infatti sposerà anch’egli una ricca aristocratica tarquinese di nome Tanaquilla, esperta indovina che lo convinse a lasciare Tarquinia per sistemarsi definitivamente a Roma.

Noto soprattutto per essere stato il primo re di origine etrusca e il quinto re (stando alle fonti di Tito Livio) nella successione dei sette sovrani che regnarono su Roma a partire da Romolo, possiamo descrivere la sua ascesa al trono come lineare e non troppo travagliata. Egli infatti riuscì a distinguersi sul territorio romano per la sua grande generosità e per le sue svariate doti, tanto che l’attuale monarca in carica, Anco Marzio (678-616 a.C.), volle insistentemente conoscerlo. I due così diventarono presto molto amici, tanto che il sovrano lo nominò come suo principale consigliere, decidendo infine di adottarlo, affidandogli anche il prezioso compito di proteggere e sorvegliare i suoi figli. E’ probabile che ricoprì anche la prestigiosa carica di magister populi. Alla morte di Anco Marzio infatti, Tarquinio Prisco riuscì facilmente a farsi eleggere come sovrano successore per diretta eredità famigliare, sfruttando proprio l’adozione da parte del precedente sovrano e la benevolenza dimostrata dal popolo romano nei suoi confronti. Avrà così inizio proprio con lui la “grande Roma dei Tarquini”.

La sua storia e la sua presa di potere vengono narrate dettagliatamente dallo storico Tito Livio; si tratta di racconti ampiamente tratteggiati da vari caratteri mitistorici e leggendari, che s’intrecciano con la realtà storica, archeologica ed epigrafica degli eventi. Con lui Roma diventerà una delle città più grandi di tutto il Mediterraneo, attraverso una vastissima serie di riforme sociali, politiche ed economiche, oltrechè a un intenso programma di restaurazioni e costruzioni architettoniche sparse per tutta l’Urbe. Operò infatti una radicale ristrutturazione urbanistica di Roma, conferendole così un aspetto più maestoso e monumentale attraverso la costruzione di importanti infrastrutture, tra le quali possiamo citare:
1. CLOACA MASSIMA = Uno dei più antichi e imponenti condotti fognari della storia. Venne costruita inizialmente per assorbire le acque del Tevere all’interno dei suoi collettori quando straripava, poichè si trattava di un fenomeno piuttosto frequente e pericoloso per l’intera città.
2. CIRCO MASSIMO = Destinato come sede permanente per le corse dei cavalli; vennero così istituiti i ludi romani.
3. TEMPIO DI GIOVE OTTIMO MASSIMO = Sempre a Tarquinio Prisco si deve anche l’inizio dei lavori per la costruzione del tempio di Giove Capitolino, collocato sul colle del Campidoglio.
4. MURA SERVIANE = Decise inoltre di dotare Roma di nuove fortificazioni murarie, iniziando anche a far erigere una nuova e imponente cinta muraria difensiva come non si era mai vista prima d’ora.

Per quanto riguarda invece le riforme che operò in campo politico e giudiziario, troviamo svariate testimonianze, soprattutto per quanto riguarda la politica militare e l’ordinamento interno della città. Egli infatti, a livello militare, riuscì abilmente a destreggiarsi in molteplici conflitti, dove i romani ebbero sempre la meglio, e tra i vari popoli che affrontò troviamo:
1. SABINI = In occasione di questo scontro fu aumentato il numero di cavalieri che ognuna delle tre tribù romane doveva obbligatoriamente fornire all’esercito romano.
2. LATINI = Una fitta coalizione di città etrusche (Arezzo, Chiusi, Volterra, Roselle e Vetulonia) corse in soccorso dei latini in due durissimi scontri campali contro la città di Roma.
3. ETRUSCHI = In seguito a una coalizione di etruschi e sabini, dove questi ultimi vennero sconfitti e furono costretti a concordare una pace, gli etruschi invece non si arresero mai, e i conflitti combattuti sulle città di Caere e Veio durarono per ben sette anni di scontri campali.

Operò inoltre una significativa riforma sulla classe degli equites (i “cavalieri”), aumentandone il numero, e decise poi di raddoppiare anche il numero delle centurie e di aumentare i membri dell’assemblea centuriata e dei senatori. Morì assassinato in seguito a una congiura organizzata dal maggiore dei figli di Anco Marzio, desideroso di ottenere il trono che riteneva usurpato da uno straniero. Tuttavia la moglie Tanaquilla, astuta e abile manipolatrice, riuscì a far eleggere dal popolo come sovrano Servio Tullio (suo genero), grazie a uno stratagemma. A Tarquinio Prisco si deve, oltre a essere stato il primo monarca etrusco, l’introduzione di gran parte delle usanze etrusche da parte dei romani.

Servio Tullio (579-535 a.C.)

Si tratta di una figura complessa e centrale per la storia arcaica, sia per quanto riguarda il mondo etrusco/italico, sia per quanto riguarda il mondo romano del VI secolo a.C.. Egli rappresenta infatti un personaggio polimorfo e non facile da inquadrare, noto per essere stato il successore di Tarquinio Prisco, deve la sua fortuna e salita al potere alla moglie di quest’ultimo la quale, colta, ambiziosa ed estremamente abile in “fatti” religiosi come indovina, riuscì a predirne la grandezza e, alla morte del marito, gli diede in sposa la figlia e fece in modo che salisse al trono come sesto re di Roma. Tanaquilla riuscì infatti a nascondere al popolo romano la morte del marito, ordita dai figli di Anco Marzio, affermando che Tarquinio Prisco fosse in realtà solamente rimasto ferito e che avesse designato Servio Tullio come reggente temporaneo. In questo modo, quando si ristabilì la calma a Roma e venne annunciata la morte del precedente sovrano, egli venne accettato come legittimo re senza alcuna opposizione dal popolo romano.

Le fonti su questo personaggio risultano spesso ambigue e discordanti, ed è possibile parlare di una duplice tradizione nei suoi confronti. Da una parte possediamo infatti le testimonianze di Tito Livio e di vari altri storici romani, che si rifanno appunto alla tradizione romana, mentre dall’altra possiamo trovare la tradizione etrusca, legata a storie e leggende di storici etruschi e tramandata soprattutto attraverso l’imperatore Claudio, con la Tabula di Lione, un discorso effettuato dall’imperatore a Lione (in Gallia) nei confronti del senato locale o di uomini politici del posto. Egli era infatti molto appassionato di storia etrusca, di cui scrisse varie altre opere, oggi andate perdute.

Per quanto riguarda la tradizione romana ci viene riportato dagli storici, e soprattutto da Tito Livio, che egli fosse un uomo di umili origini nato da una prigioniera di guerra, probabilmente nobile nella sua città natale (nota come Ocrisia), ridotta in servitù presso il focolare domestico di Tarquinio Prisco. Da questo fatto deriverebbe infatti l’etimologia del suo nome e della sua condizione sociale, ovvero “Servio”, inteso appunto come figlio di una serva. A differenza del suo predecessore e del suo successore sarebbe infatti un homo novus. Le fonti ci riportano inoltre un’intensa attività politica, economica e militare. Egli infatti fu un grandissimo riformatore sia in campo politico che in quello militare, operando alcuni degli interventi più importanti e significativi per la storia di Roma, tra cui:
1. RIFORMA SERVIANA = Si tratta della più importante modifica dell’esercito operata in epoca pre-repubblicana. Divise la popolazione in classi, e da lui in avanti la cittadinanza sarebbe stata basata sul censo. Si trattava infatti di una riforma censitaria secondo cui i cittadini romani sarebbero dovuti essere dei possidenti terrieri per poter intervenire nelle assemblee e per essere reclutati nell’esercito; proprio in questo periodo nacque anche un esercito basato su centurie e gerarchie. Egli comprese per primo che Roma necessitava di un esercito molto più numeroso per mantenere le sue conquiste ed espandersi (prima c’era una sola legione di circa tremila uomini, detto “esercito romuleo”). Iniziarono dunque a essere reclutati anche strati inferiori della società (plebei), fino ad allora severamente esclusi, evento che destò scandalo e disapprovazione tra i patrizi romani, i quali vedevano minacciati i loro privilegi. Modificò inoltre la tradizionale divisione in tribù del popolo romano, non tenendo più conto delle origini, ma considerando come criterio principale il luogo di residenza. Infine fu il primo sovrano a condurre un censimento generale (il primo nella storia).
2. RIORGANIZZAZIONE URBANISTICA = Per quanto riguarda le modifiche cittadine, aggiunse a Roma i tre colli più orientali (Viminale, Quirinale ed Esquilino), ampliò il pomerium (confine sacro della città), fece costruire sull’Aventino il tempio di Diana e ampliò ulteriormente le Mura Serviane già iniziate dal suo predecessore.
3. POLITICA MILITARE = In campo militare proseguì l’ormai inarrestabile politica di espansione territoriale romana a danno dei sabini e delle città etrusche di Veio, Caere e Tarquinia, le quali, considerandolo un usurpatore, si ribellarono non volendo più accettare gli accordi stipulati con Tarquinio Prisco.

Per quanto riguarda invece la tradizione tramandata dalle fonti etrusche, la situazione diventa più complessa, dal momento che si tratta principalmente di miti e leggende. Come precedentemente citato, la Tabula di Lione riporterebbe le vicende di un certo Mastarna (nome etrusco che identifica Servio Tullio), il quale sarebbe stato aiutato a prendere il potere con la forza da due fratelli e condottieri etruschi, Celio e Aulo Vibenna (scena rappresentata sulle pareti della tomba etrusca Francois). Tale tradizione potrebbe anche risultare parzialmente veritiera, dal momento che il nome Mastarna non presenta prenome e gentilizio (tipica formula binominale), e dunque non apparterrebbe a una figura nobile. Inoltre tale nominativo sarebbe posto in relazione al termine magister, carica che più avanti identificherà un capo militare romano del periodo più recente.

Servio Tullio sarebbe stato poi ucciso da Lucio Tarquinio, detto poi “il Superbo” una volta salito al trono. Egli infatti, complice con la figlia di Servio Tullio, Tullia Minore, sposa di Arunte (nobile, fratello di Tarquinio il Superbo), avrebbe spinto il sovrano dalle scale della curia in seguito a una sua provocazione. Quest’ultimo, ferito ma non ancora deceduto, mentre tentava di scappare dal foro, sarebbe stato ucciso da un cocchio trainato da cavalli, guidato dalla figlia Tullia. La plebe, da lui per molto tempo estremamente protetta e aiutata nella conquista di una maggiore autonomia e indipendenza, lo pianse molto e a lungo.

Tarquinio il Superbo (535-509 a.C.)

Conosciuto con il nome di Lucio Tarquinio (come il padre) e successivamente appellato come “il Superbo” per i suoi comportamenti efferati, fu il settimo e ultimo sovrano di Roma, oltrechè l’ultimo monarca della dinastia etrusca di sovrani che regnarono su Roma prima dell’imposizione politica della repubblica nel 509 a.C.. Fu il figlio maggiore di Lucio Tarquinio Prisco e fratello di Arunte Tarquinio, nobile a cui sarebbe successivamente spettata l’ascesa al trono. Inizialmente sposato con Tullia Maggiore, figlia di Servio Tullio, la fece poi uccidere per sposare Tullia Minore, l’altra figlia di Servio Tullio e sposa del fratello Arunte, da cui ebbe tre figli: Arrunte, Tito e Sesto.

Anche per questo sovrano, le maggiori fonti a disposizione dipendono dallo storico Tito Livio, il quale ci riporta soprattutto i dettagli della congiura ordita nei confronti del suocero, Servio Tullio. Tarquinio infatti, come precedentemente citato, si sarebbe fatto aiutare nell’organizzazione dell’omicidio dai tre figli e dalla seconda moglie Tullia Minore, autoproclamandosi sovrano rivendicando il trono tutto per sè, dopo esservisi seduto di fronte al senato. Questo fatto scandaloso avrebbe infatti attirato Servio Tullio in fretta e furia nella curia dove, in seguito a un’accesa disputa verbale, i due sarebbero poi passati a uno scontro fisico che vide Servio Tullio spinto dalla scalinata della curia e travolto dal carro trainato da cavalli e guidato dalla figlia Tullia, come precedentemente citato.

Intorno all’anno 535-534 a.C. circa, assunse dunque il legittimo titolo di monarca, in quanto maggiore tra i figli di Tarquinio Prisco e marito della figlia del precedente sovrano. Inoltre il luogo in cui era stato brutalmente assassinato Servio Tullio ricevette il titolo di vicus sceleratus, in ricordo dell’efferato gesto. Tuttavia Lucio Tarquinio riuscì a inimicarsi ben presto l’intero popolo romano, a partire dalla netta negazione nei confronti della sepoltura di Servio Tullio. In breve tempo gli venne infatti attribuito l’epiteto di “il Superbo”, non solo per la violenza con cui eliminò il precedente sovrano, ma anche per l’arroganza e la tirannia con cui prese il potere a Roma come monarca, senza rispettare una legittima elezione da parte del popolo né l’approvazione del senato romano. L’uso sistematico della violenza rimase infatti una costante per tutta la durata del suo regno. Egli per di più istituì anche un personale gruppo di guardie armate, mantenendo il controllo su tutto il territorio in maniera tirannica ed estremamente autoritaria. La società romana era infatti riuscita a costruire e rinsaldare in un brevissimo tempo una struttura fortemente fondata su una solida base democratica, la quale venne altrettanto rapidamente annientata dall’aggressività e dagli efferati costumi di Tarquinio il Superbo. Un’ulteriore novità nel regno di questo sovrano sta nel fatto che egli per la prima volta unì contro di sè l’odio comune non solo dei plebei che si vedevano oppressi e schiacciati dalla sua figura, ma anche dei patrizi, che temevano per una drastica riduzione dei loro privilegi.

Per quanto riguarda il regno di Tarquinio il Superbo, egli viene principalmente ricordato per quanto tirannico ed efferato fu il controllo che operò sul territorio romano, e soprattutto per come la violenza, a cui spesso e volentieri ricorreva, fosse una delle principali cause che lo portarono a inimicarsi l’intero popolo romano. Tuttavia, se si mettono da parte questi eventi che contribuirono maggiormente a rendere famoso il suo personaggio, egli operò anche numerose attività in ambito politico, economico e urbanistico, tra le quali:
1. POLITICA = Nonostante l’estrema arroganza politica riportata dalle fonti per quanto riguarda la presa di potere e il controllo del regno, egli poteva tuttavia vantare di grandi abilità strategiche e militari. A lui si deve infatti l’inizio della centenaria lotta tra romani e volsci. Inoltre, venne conquistata la città di Gabii tramite un astuto stratagemma elaborato insieme al figlio Sesto Tarquinio, il quale finse di volersi far accogliere e proteggere da tale cittadina per scampare alla tirannia del padre; tuttavia, una volta accolto all’interno delle mura, il suo unico compito fu quello di recare discordia e inimicizia all’interno della città, e vi riuscì così bene che a Roma non si combattè neanche una singola battaglia. Infine, sempre in questo periodo, Tarquinio il Superbo proseguì una spietata campagna espansionistica del territorio romano ai danni di numerosi territori circostanti, anche tramite la fondazione di varie colonie romane.
2. ECONOMIA = Sebbene Tarquinio il Superbo non sia quasi mai ricordato per le sue doti da economo, la Roma (“etrusca”) dei Tarquini deve proprio a lui la trasformazione in una delle massime sedi commerciali di tutto il Mediterraneo. Ella infatti aveva contatti e scambi commerciali con numerose altre potenze provenienti da tutto il mondo allora conosciuto.
3. URBANISTICA = Tarquinio il Superbo, pur non partecipando attivamente alla costruzione urbanistica di Roma come fecero i suoi predecessori, Tarquinio Prisco soprattutto e Servio Tullio, contribuì nell’ultimare ufficialmente la costruzione di importanti edifici pubblici come il tempio di Giove Ottimo Massimo e la Cloaca Massima.

Tuttavia, a decretare la fine di questo regno dispotico, contribuì un atto scandaloso direttamente commesso dal figlio Sesto Tarquinio, il quale, invaghitosi della giovane Lucrezia, sposa di Tarquinio Collatino (pronipote di Tarquinio il Superbo), abbandonò l’assedio di Ardea, nel quale era stato mandato dal padre, per far ritorno a Roma e violentare Lucrezia. La ragazza, sconvolta per l’accaduto, raggiunse rapidamente il marito ad Ardea e, in preda al dolore, si suicidò. Mosso da una rabbia furente il marito Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto (politico romano inviato da Tarquinio il Superbo in una spedizione al seguito di un oracolo del re, dove apprese che sarebbe stato lui a governare dopo il monarca) giurarono solennemente di non arrendersi fino a quanto i Tarquini non sarebbero stati tutti cacciati dalla città, per vendicare la morte di Lucrezia. I due riuscirono nell’intento, portando il cadavere della giovane nel foro di Roma e pronunciando un solenne elogio funebre che spinse il popolo romano a deporre e cacciare il sovrano dall’Urbe. Una volta esiliato però Tarquinio il Superbo si appoggiò a Porsenna, il tiranno della città di Chiusi, detentore di un forte potere militare; tuttavia l’assedio ordito dai due su Roma fallì, e Tarquinio morì in esilio nel 495 a.C. circa a Cuma, in Campania.

La fine della monarchia su Roma rappresenta un evento fondamentale per la politica dell’Urbe poichè nel 509 a.C., anno della cacciata di Tarquinio il Superbo, venne istituita la repubblica, un sistema di governo compreso nel periodo tra il 509 a.C. e il 27 a.C.. Il cambiamento fu radicale poichè a governare non era più un sovrano assoluto, bensì un’oligarchia aristocratica repubblicana, fondata sul governo di due consoli assistiti nelle decisioni politiche dai senatori. I primi consoli furono proprio Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto; essi avevano grandi poteri politici, economici, amministrativi e militari, ma la vera rivoluzione fu la totale estirpazione di un potere regio e tirannico.

Il Codice di Hammurabi: tra i più antichi corpus di leggi | CM

Il codice di Hammurabi, tra i più antichi codici di leggi scritti conosciuti. Risale agli inizi del secondo millenni a.c.

Conosciuto come il sesto sovrano della I dinastia di Babilonia, Hammurabi regnò all’incirca dal 1792 al 1750 a.C. (salito al trono probabilmente in età adolescenziale), portando la Babilonia dell’epoca paleo-babilonese in una condizione di assoluto successo e splendore, attraverso l’unificazione di quasi tutta la bassa Mesopotamia. Fino a quel momento infatti Babilonia aveva avuto un ruolo importante, ma non sufficientemente incisivo per determinare in modo definitivo gli equilibri del Vicino Oriente. Molto scarse e altrettanto poco chiare risultano le fonti e le informazioni in nostro possesso a proposito della sua carriera politica, economica e militare, ma soprattutto della sua vita, collocabile cronologicamente tra il 1810 e il 1750 a.C. circa, in piena media età del bronzo (periodo cronologico convenzionalmente interposto tra il 2000 e il 1500 a.C.).

Il codice di Hammurabi, tra i più antichi codici di leggi scritti conosciuti. Risale agli inizi del secondo millenni a.c.

Il regno di Hammurabi può tuttavia essere diviso in due periodi ben distinti, suddivisi in base alla sua attività politica, economica, sociale e militare. La prima parte del suo regno risulta infatti caratterizzata da uno scarso impegno militare, sostituito da un più attivo interesse nell’economia e nell’edilizia, che lo portò a trasformare Babilonia in una magnifica capitale ricca di statue, monumenti e giardini.

Hammurabi attuò inoltre un’intensa serie di lavori pubblici per migliorare le condizioni idriche del Paese, allo scopo di agevolare sia il commercio fluviale che quello terrestre, collegando Babilonia con il mare attraverso un canale soprannominato il “canale di Hammurabi”, utile a intensificare i rapporti con più Paesi possibili del Vicino Oriente antico. Un’ulteriore caratteristica di questa prima fase è anche rappresentata da un discreto impegno religioso, che lo portò a eleggere il dio Marduk (divinità poliade di Babilonia simboleggiata da un dragone) come principale protettore del suo regno, costringendo tutti i regni vassalli a versare tributi in suo onore.

Per quanto riguarda invece la seconda parte del suo regno, nettamente differenziata rispetto alla prima, è possibile parlare di un’energica attività militare di conquista, grazie alla quale riuscì anche abilmente a sfruttare tutta una serie di alleanze che caratterizzano la strategia bellica, politica ed economica della media età del bronzo. L’ampia conquista della Mesopotamia da parte di Hammurabi comincia proprio con la conquista dell’Elam, territorio a est di Babilonia che, come l’Assiria, si era sempre distinto come uno dei vicini più invadenti e pericolosi.

Tale vittoria diede il via a una lunga serie di successi nel Vicino Oriente, come la conquista di Yamutbal, Larsa ed Eshunna, la spedizione sul Medio Eufrate e verso l’alta Mesopotamia, e infine la distruzione di Malgium e Mari, con la conseguente sconfitta di Zimri-Lim, ultimo grande sovrano di Mari con il quale fu costretto a rompere una vantaggiosa alleanza, tradendolo.

Si è dunque soliti delineare nettamente il regno di Hammurabi in due fasi ben definite, per evidenziare come il giovane sovrano appena salito al trono e gravato da numerose responsabilità abbia in un primo momento saputo agire con estrema cautela, dedicandosi maggiormente a opere difensive nei confronti della città di Babilonia, al miglioramento della qualità della vita del suo popolo e, infine, a importanti azioni liturgiche per ingraziarsi sia le divinità che gli indovini, componente particolarmente influente nella società mesopotamica. Gli dei rappresentavano inoltre una costante presenza nella vita degli uomini del Vicino Oriente, ed era compito di ogni sovrano assicurarsi la loro benevolenza e protezione, soprattutto per tutelare l’intera città. Hammurabi stava così preparando la strada e le condizioni ideali per quello che sarebbe poi stato uno dei più grandi imperi di tutto il Vicino Oriente.

Il “codice” di Hammurabi: re e legislatore

Nonostante venga ampiamente ricordato per una ricca e intensa serie di conquiste militari e alleanze politiche, oltre che per varie attività pubbliche e cittadine come precedentemente citato, ciò che maggiormente ha reso Hammurabi celebre e degno di nota è soprattutto la promulgazione di una fitta raccolta di leggi, oggi nota come il “codice” di Hammurabi, che gli conferì anche l’illustre titolo e la nomea di “sovrano legislatore” (titolo non comune tra i sovrani mesopotamici). Alcuni storici ritengono persino che si tratti del primo vero grande legislatore della Terra, ma questo rappresenta un tema ancora oggi molto dibattuto. La questione del “codice” di Hammurabi rappresenta infatti un elemento estremamente complesso e articolato, sul quale rimangono attualmente molti interrogativi.

Bisogna innanzitutto sottolineare come il termine “codice” rappresenti in realtà un’espressione anacronistica non del tutto corretta, in quanto non si tratterebbe di un vero e proprio codice di leggi, bensì di una raccolta di norme, poichè diversamente dai nostri codici di diritto, non è stato concepito in maniera sistematica al fine di disciplinare organicamente delle “materie” determinate (come penale, civile, tributario, ecc.).

Tali norme rappresenterebbero invece una serie/raccolta di modelli esemplari, senza la precisa ambizione di dover obbligatoriamente disciplinare tutti i possibili casi legislativi. Allo stesso tempo il “codice” contribuirebbe anche direttamente a celebrare l’immagine del sovrano a fini propagandistici come principale garante della giustizia per mandato divino (la stessa carica regia era frutto di un “dono”, per volere degli dei).

Come precedentemente menzionato, le norme esposte all’interno del “codice” di Hammurabi non si figuravano come vere e proprie leggi, bensì come esempi e modelli presentati sotto forma di periodi ipotetici (elemento caratteristico di quasi tutte le raccolte di leggi rivenute a proposito della Mesopotamia, così come la raccolta di Ur-Namma, sovrano sumero del periodo di Ur III). Tuttavia, talvolta le norme rappresentano anche la prassi documentata dai documenti legali dell’epoca, come atti di processi, sentenze, contratti, ecc., sebbene questi ultimi non citino mai il “codice” come fonte della norma applicata. Risulta dunque estremamente probabile che la raccolta racconti la “legge” che veniva già esercitata dalle autorità locali, suddivisa sulla base degli argomenti e della gravità dei fatti.

Il codice di Hammurabi, tra i più antichi codici di leggi scritti conosciuti. Risale agli inizi del secondo millenni a.c.

La struttura del “codice”

Conosciuto come uno tra i primi e più antichi codici legislativi rinvenuti nella storia mesopotamica, la fitta iscrizione in lingua accadica (paleobabilonese) del “codice” di Hammurabi risulta essere incisa su un’alta stele in basalto (225 cm x 79 cm x 47 cm).

Si tratta di un imponente monolite di più di due metri, oggi esposto al museo del Louvre, rinvenuto in uno scavo di Susa, in Persia, nel 1902 (anni di ricche scoperte archeologiche in tutto il Vicino Oriente), dove potrebbe esservi giunto come uno tra i numerosi bottini di guerra in seguito a svariati saccheggi per opera del sovrano elamita Shutruk-Nakhunte, intorno al 1155 a.C. circa. Caratteristica principale della stele è l’ottimo stato di conservazione, che ha permesso una quasi totale decrifrazione dell’intero “codice”.

Il codice di Hammurabi, tra i più antichi codici di leggi scritti conosciuti. Risale agli inizi del secondo millenni a.c.

Tale “codice” tuttavia risulta essere inoltre molto conosciuto anche grazie a numerosi manoscritti contemporanei o di epoca successiva alla data della sua incisione; era infatti un processo molto comune nel Vicino Oriente quello di copiare e ricopiare per secoli testi considerati dei “classici” (così come fecero secoli più avanti i monaci amanuensi medievali) per la cultura del Vicino Oriente, in quanto divenuti testi tipici della tradizione mesopotamica. Lo stesso processo fu certamente subito dal “codice” di Hammurabi, il quale, pur avendo con gli anni perduto ogni valore giuridico e legislativo, riuscì ugualmente a mantenere una forte valenza sul piano culturale e sociale, fatto che lo rese protagonista di una lunga e celebre tradizione del mondo scribale.

Per quanto riguarda la struttura del “codice” in questione, ci troviamo di fronte a un testo estremamente articolato e ben organizzato. Strutturato secondo la tipica formulazione casuistica (articolazione per periodi ipotetici), il testo del “codice” di Hammurabi è articolato secondo una triplice distinzione in un prologo di apertura delle leggi, il testo vero e proprio con tutte le 282 norme, e infine un epilogo finale per concludere il tutto. Prologo ed epilogo, sebbene non rappresentino direttamente norme o leggi come dovrebbe invece fare il “codice”, sono essenziali in quanto si occupano di presentare la figura del sovrano come devoto agli dei e come un grande conquistatore; il ruolo della giustizia appare dunque estremamente marginale in un quadro complessivo dove è invece Hammurabi l’indiscusso protagonista attento al benessere della popolazione per volere divino (scopo propagandistico).

Norme e iconografia del codice di Hammurabi

Come citato in precedenza, il “codice” di Hammurabi non rappresenta un vero e proprio codice legislativo, bensì un insieme di norme suddivise e organizzate per tematiche e reati, associati alle relative procedure da seguire in caso di crimini. Erano infatti classificabili più come modelli che come vere e proprie leggi, e la distinzione delle pene avveniva sulla base di una triplice classificazione sociale: i signori (awilum), dotati dei massimi privilegi, i cittadini comuni (mushkenum), e infine gli schiavi (wardum), considerati alla stregua di un oggetto o di una proprietà privata, e dunque esentati da ogni possibile tipologia di tutela. La pena risultava pertanto proporzionata al valore della persona che commetteva il crimine o che veniva in qualche modo danneggiata da esso.

Per quanto riguarda invece le punizioni, esse erano molto numerose e variavano in base al crimine commesso e alla persona che l’aveva commesso o ricevuto. La pena capitale era piuttosto rara e veniva applicata quasi esclusivamente in caso di omicidio o tradimento, c’erano poi svariate pene corporali attuate soprattutto sulla base della legge del taglione, molto in voga nel mondo mesopotamico così come in quello biblico, le pene pecuniarie erano invece molto frequenti e venivano inflitte multe di diversa portata in base ai reati commessi; infine, un’altra pena applicata piuttosto raramente era l’esilio. L’accertamento della verità di un crimine era poi un altro fatto molto importante da considerare, poichè, in mancanza della flagranza del reato, poteva avvenire tramite documenti scritti, testimoni, giuramenti e tramite la prova dell’ordalia (ancora utilizzata in epoca medievale e moderna).

Infine, un ultimo considerevole fattore che caratterizza la stele del “codice” di Hammurabi è rappresentato da un elaborato elemento iconografico posto sulla sommità del monolite. Si tratta di un piccolo bassorilievo finemente lavorato rappresentante il sovrano Hammurabi di fronte a Shamash, un’importante divinità del pantheon mesopotamico relativa al Sole e, appunto, alla giustizia, poichè trattandosi di un dio solare/celeste, può vedere e sapere tutto in qualsiasi momento. Hammurabi è inoltre rappresentato in un tipico atteggiamento di grande devozione nei confronti del dio, ponendo il braccio sinistro conserto e la mano destra davanti alla bocca. Tale iconografia viene rinvenuta spesso in sigilli e statue del Vicino Oriente per simboleggiare la vicinanza e il rispetto del sovrano nei confronti delle divinità.

Il codice di Hammurabi, tra i più antichi codici di leggi scritti conosciuti. Risale agli inizi del secondo millenni a.c.

In conclusione, sebbene il “codice” di Hammurabi rappresenti più un testo di carattere celebrativo e propagandistico nei confronti del sovrano, piuttosto che un codice dai tratti legislativi e giudiziari, esso risulta essere essenziale per tratteggiare non solo la figura di Hammurabi, ma anche l’antica concezione mesopotamica che vigeva nei riguardi della giurisdizione. Il “codice” ha inoltre consentito di analizzare una complessa stratificazione gerarchica e sociale della popolazione, oltre che un articolato sistema politico, economico e militare operato da Hammurabi durante il suo regno; si tratta di temi non indifferenti se si considera che, in seguito alla morte del sovrano, tutto ciò che era stato da lui duramente costruito entrerà in crisi, non essendo i suoi successori più in grado di controllare stabilmente un impero esteso dal Golfo Persico fino all’alta Mesopotamia. Il “codice” risulterebbe dunque essere una diretta testimonianza di una delle più grandi fasi a cui abbia assistito l’impero babilonese.

Consigli di lettura

Hartmut Schmokel – Hammurabi di Babibonia. Dalla politica espansionistica alla riforma giuridica

Le Metamorfosi: Apuleio e la favola di Amore e Psiche | CM

L’autore: Apuleio

Lucio Apuleio Madaurense, nato nel 125 d.C. a Madaura e morto tra il 170 e il 180 d.C. a Cartagine, è stato un noto scrittore, filosofo e retore latino di origini nordafricane. Deve la sua notorietà soprattutto alla sua opera di maggiore successo, Le Metamorfosi (Metamorphoseon libri XI), anche conosciuta come L’asino d’oro (Asinus aureus).

Come spesso accade per gli autori classici greci e latini, la maggior parte delle informazioni su questo autore sono ricavabili proprio da egli stesso e soprattutto dalle sue opere, caratterizzate da una spiccata vena esibizionistica ed egocentrica; tratti propri del suo narcisismo. Provenendo da una famiglia piuttosto agiata potè permettersi un buon livello d’istruzione e viaggi in vari Paesi, tra cui Cartagine dove studiò retorica e grammatica, Atene dove si dedicò alla filosofia platonica, e infine Roma, ove fu conferenziere in età più avanzata.

Il personaggio di Apuleio è inoltre connotato da una fervente nota di fascino e mistero, dovuta al suo spiccato interesse per i culti misterici tipici dell’Oriente che lo portarono a occuparsi anche di magia, pratica che gli costò l’accusa di plagio e cattiva influenza per aver sposato una donna molto più ricca e vecchia di lui, madre del suo compagno di studi Ponziano. L’accusa avrebbe anche riguardato l’omicidio del suo amico, esponendo così Apuleio al rischio della pena capitale. Tuttavia egli ricorse alle sue abili doti di retore, e grazie a una celebre orazione fu assolto.

Non abbiamo molte notizie riguardo gli ultimi anni di vita dello scrittore; si sa per certo che si stabilì definitivamente a Cartagine ottenendo un incarico sacerdotale nei confronti del dio curatore Asclepio. Non avendo ulteriori informazioni sulla sua vita dopo il 170 d.C., la morte è collocabile intorno al 180 d.C. circa.

L’opera: Le Metamorfosi

L’opera che maggiormente giovò alla fama di Apuleio fu proprio Le Metamorfosi (titolo latino Metamorphoseon libri XI), anche nota come L’asino d’oro (Asinus aureus), collocabile intorno al II secolo d.C.. Si tratta dell’unico romanzo latino a noi pervenuto, allo stesso modo del Satyricon, a differenza del quale ci è però giunto interamente.

Le Metamorfosi rappresentano un vero e proprio “giallo letterario” per la narrativa latina, tanto che sono ancora attivi numerosi studi e ricerche per operare una corretta catalogazione del’opera, motivo per cui il genere bibliografico risulta ancora incerto e non del tutto classificabile. Molti sostengono che si tratti di una rielaborazione del testo greco pseudolucianeo (opera spuria di Luciano di Samosata) Lucio o l’asino, dal quale avrebbe differenti alcuni elementi minimi come l’estensione della narrazione e l’introduzione alle novelle.

Si tratta di un’opera piuttosto corposa, suddivisa in undici libri, narrante le diverse peripezie di un certo Lucio che verrà anche trasformato in un asino durante le sue numerose prove e avventure. Tuttavia quella dell’asino è solo una delle molteplici peripezie che il giovane sarà costretto ad affrontare prima di raggiungere il tanto sperato lieto fine, per riacquisire infine le fattezze umane grazie a un culto misterico in onore della dea Iside; la presenza della magia e dei riti misterici rappresentano infatti una costante all’interno degli scritti di Apuleio.

Quella di Lucio rappresenta però solamente la novella principale, da cui prenderanno origine numerose altre avventure, fabule e personaggi secondari che andranno a costituire digressioni e deviazioni dalla trama originale, tra le quali possiamo citare la celebre favola di Amore e Psiche. Si tratta infatti di una fiaba a tutti gli effetti, nonchè diretta debitrice della rinomata fabula milesia, una raccolta di novelle perdute a sfondo erotico scritte da Aristide di Mileto, autore greco. Sono infatti evidenti anche i numerosi riferimenti letterari relativi alla cultura greco-latina, come i vasti paesaggi bucolici, e le tipiche caratteristiche orali che rimandano al genere fiabesco.

L’opera estenderà il suo successo non solo alla contemporaneità dell’autore, ma andrà a influenzare numerosi scritti medievali, come il Decameron (specialmente per l’utilizzo dello schema narrativo “a cornice”), e i romanzi barocchi, tipici del ‘700. Tale favola inoltre, per il suo successo e la sua vena amorosa, influenzerà moltissimo anche il mondo dell’arte e della scultura moderna.

Amore e Psiche (Canova) - Wikipedia

La fiaba: Amore e Psiche

Protagonista dell’intera favola, Psiche rappresenta la più giovane, nonchè più bella, delle tre figlie di un re e una regina che vivevano in una città non ben definita. La vicenda della fanciulla ruota intorno al tema della sua straordinaria bellezza, ammirata da tutti e invidiata persino da Venere in persona, la quale incarica il figlio Cupido di far infatuare la ragazza del più abietto degli uomini. L’incarico non riesce però al dio dell’amore il quale, perdutamente innamorato della bellezza della giovane, la rapisce rinchiudendola in un palazzo incantato e passando con lei solamente le notti, impedendole così di vederlo in volto.

Tuttavia la lontananza della fanciulla dalla sua casa si trasforma rapidamente in nostalgia e Cupido, mosso dall’amore per lei, acconsente a farla incontrare con le sue due sorelle che, invidiose del suo sposo misterioso e del magnifico luogo in cui vive, iniziano a tramare contro di lei convincendola persino a uccidere con un coltello il suo sposo mentre dorme. Psiche, ormai persuasa del fatto che si tratti di un orribile mostro, mette in atto il suo piano; ma quando si rende conto che si tratta proprio del dio dell’amore, sconvolta da tale vista, si punge erroneamente con una delle sue frecce, cadendo in un amore folle e disperato per lui.

A quel punto il dio, deluso dalle intenzioni della ragazza, vola via, trascinando Psiche in una incolmabile tristezza per la perdita del suo amato, che ritorna dalla madre Venere la quale, venuta a conoscenza dell’intera vicenda, s’infuria a tal punto da iniziare a cercare Psiche in ogni luogo possibile. Quando la fanciulla raggiunge infine la dimora di Venere, quest’ultima la tortura senza sosta, sottoponendola a terribili prove dalle quali non si sarebbe mai potuta salvare. Tuttavia Psiche riesce a superare ogni ostacolo grazie a un costante aiuto divino che l’accompagna in ogni prova, e a ricongiungersi infine con il suo amato Cupido, da cui nascerà una bambina chiamata Voluttà.

I personaggi: caratteristiche

PSICHE: Se da un lato la giovane fanciulla incarna l’ingenuità, il candore e l’innocenza, dall’altro Psiche dimostra anche una grande personalità e un enorme coraggio, mosso principalmente dal sentimento amoroso per Cupido; infatti attraverso il loro matrimonio, che inizialmente viene vissuto come una tremenda prigionia, Psiche impara ad amare il suo sposo misterioso, grazie a un sentimento vero e sincero, basato sulla fiducia creatasi tra i due amanti. Psiche è inoltre una duplice vittima, poichè se da una parte sarà corrotta dalle cattiverie delle sue sorelle, dall’altra dovrà sopportare le terribili crudeltà che le saranno inflitte da Venere, sua principale nemica. Tuttavia il riscatto della protagonista è assicurato, e la fanciulla riuscirà a dimostrare il suo valore e a ricongiungersi con il suo amato.

“E fu così che l’ignara Psiche, ferendosi di proposito con la freccia divina, s’innamorò di Amore.”

Le Metamorfosi (libro V, 23)

CUPIDO: Sebbene a primo impatto il giovane dio possa sembrare quasi un ragazzino dai tumultuosi desideri lussuriosi, quello che prova per Psiche è un sentimento sincero, tanto che nell’ultima delle prove affrontate dalla giovane, arriverà addirittura a salvarla, mettendo da parte la delusione che provava nei suoi confronti e riscattandosi da tutte quelle accuse mosse verso di lui da parte dell’adirata madre e delle altre divinità. Tuttavia egli (come in ogni fiaba) dovrebbe incarnare il ruolo del giovane eroe mosso dal sentimento amoroso per la fanciulla; tale ruolo viene completamente ribaltato nel momento in cui sarà la stessa Psiche a superare delle prove difficoltose per il suo amato, indossando così delle “vesti” tipicamente maschili.

“Così Psiche divenne sposa legittima di Cupido; e quando giunge il momento del parto nasce una bambina che noi chiamiamo Voluttà.”

Le Metamorfosi (libro VI, 24)

VENERE: Antagonista principale della vicenda, la dea incarna pienamente il sentimento dell’invidia, trasformatasi poi in una rabbia furente. Venere non riesce infatti ad accettare la bellezza della giovane e, non approvando in nessun modo di dover competere con una mortale, cerca con ogni mezzo possibile di eliminarla. Nonostante le divinità vengano spesso rappresentate come benigne e favorevoli verso gli uomini, altrettante volte esse vengono mosse da sentimenti bassi e riprovevoli, al pari degli esseri umani, come avviene in questo caso. Venere infatti non appare mai caratterizzata da sentimenti amabili e gentili; al contrario la sua cattiveria si evolve in un climax, un crescendo di rabbia e odio verso la protagonista.

“Ma davvero si è innamorato della mia rivale in bellezza, di quella che vorrebbe usurpare il mio nome?”

Le Metamorfosi (libro V, 28)

LE DUE SORELLE: Invidiose e meschine, nonostante occupino un ruolo decisamente marginale all’interno della vicenda, le due sorelle di Psiche (i cui nomi sono sconosciuti) intervengono nella fiaba con una notevole influenza, specialmente nei confronti della protagonista. Esse infatti sono quasi da intendersi come le “sorellastre cattive” invidiose della sorella più piccola, più bella e soprattutto più privilegiata. Saranno infatti proprio le loro malelingue a smuovere l’iniziale stato idilliaco della vicenda, influenzando le idee di Psiche, trascinandola verso il baratro e portando Cupido lontano da lei. Tuttavia il lieto fine, come in ogni favola, trionfa, e le due sorelle avranno la fine che meritano.

“L’ordine fu eseguito all’istante: ma nel viaggio di ritorno le care sorelline, rose dal fiele dell’invidia, cominciarono a parlottare fra loro e a sputare veleno sulla sorella minore.”

Le Metamorfosi (libro V, 9)

Papa Formoso: il pontefice “cadaverico” | CM

Inizi della carriera ecclesiastica

Nato a Roma in pieno Alto Medioevo, all’incirca nell’anno 816, da padre Leone e madre sconosciuta, Formoso intraprese fin da subito una formazione strettamente legata al mondo ecclesiastico nel luogo dove nacque e visse per tutta la sua vita. Sappiamo con certezza, grazie all’attestazione di vari documenti, che intorno all’846 fu canonico regolare, e più precisamente venne consacrato vescovo di Porto dal pontefice del tempo, Niccolò I Magno, per poi ricevere la nomina cardinalizia. Il suo stile di vita intransigente e rigoroso gli garantì fin dai primi anni della sua carriera ecclesiastica l’approvazione sia di Niccolò I che di Adriano II, suo successore nella carica pontificia. Era inoltre una figura ammirata e di spicco nel mondo ecclesiastico per le sue numerose doti intellettuali; essendo infatti un grande studioso conosceva sia il greco che il latino.

Noto anche per le sue numerose missioni diplomatiche, Formoso viene ricordato soprattutto per aver persuaso Carlo il Calvo a farsi incoronare sovrano di Francia dal papa tra l’869 e l’872; inoltre il re Boris I fu talmente soddisfatto dell’intervento ecclesiastico di Formoso in Bulgaria tra l’866 e l’867 da richiedere a ben due papi, Niccolò I e Adriano II poi, di nominarlo arcivescovo metropolita della Bulgaria, cosa che entrambi i papi non poterono fare essendo proibito il trasferimento di un vescovo in una sede diversa dalla propria. Tale negazione da parte dei pontefici inasprì notevolmente i rapporti apostolici con la Chiesa bulgara, spingendo Boris I a riportarla sotto l’autorità del Patriarca di Costantinopoli, com’era in passato, distruggendo così tutto l’impegno e il duro lavoro di Formoso per riavvicinare la Chiesa bulgara a quella romana.

Il pontificato

Già parecchi anni prima la sua elezione pontificia ufficiale, Formoso era stato candidato per il soglio pontificio al seguito della morte di Adriano II nell’872; sebbene i suoi sostenitori fossero molteplici, si preferì però optare per l’arcidiacono Giovanni VIII, uno dei massimi esponenti della corrente “filo-francese” e dunque favorevole ai Carolingi occidentali (tra cui Carlo il Calvo e Carlo il Grosso). Formoso rappresentava invece l’opposizione, ovvero il partito “filo-germanico” (a favore dei Carolingi orientali), che gli costò l’accusa di congiura contro lo Stato costringendolo alla fuga da Roma con alcuni sostenitori nell’876. Tuttavia poco dopo Giovanni convocò un concilio nel Pantheon, obbligando Formoso al ritorno nella capitale con la minaccia di scomunica, che fu attuata solo più avanti in un secondo concilio contro di lui e contro tutti coloro che erano con lui. Fu solamente grazie al successore di Giovanni, Marino I, pontefice dall’animo pacificatore e anch’egli “filo-germanico”, che la scomunica venne sciolta a Formoso e a tutti i membri accusati con lui della congiura. Gli venne inoltre riconfermata anche la carica di vescovo di Porto nell’883.

Alla morte del suo predecessore papa Stefano V, protagonista del forte disagio politico che si generò a causa della deposizione di Carlo il Grosso aprendo così la strada al dominio delle grandi famiglie patrizie su Roma, avvenuta nell’891 per cause naturali, poco tempo dopo (precisamente il 6 Ottobre) Formoso venne eletto come 111° papa della Chiesa di Roma all’unanimità del clero. A favorire tale elezione non partecipò solo la clemenza di Marino I, ma anche la fede “filo-germanica” dei suoi subitanei successori, Adriano III e Stefano V. Ciononostante il sostegno non venne solo dalla fazione ecclesiastica; anche Arnolfo di Carinzia, sovrano della parte orientale dei franchi (germanica), e il suo protetto Berengario, marchese del Friuli, appoggiavano Formoso ed erano anche in ottimi rapporti epistolari con lui.

Tuttavia stiamo parlando di un’epoca molto travagliata, in cui l’elezione papale non rappresentava esclusivamente un “rituale” tra cardinali, bensì andava a incarnare una vera e propria battaglia per la spartizione del territorio della Chiesa nello Stato Vaticano. Pertanto tutti coloro che avevano l’appoggio del papa, che stava ormai acquisendo e consolidando con costanza l’universalità dei suoi poteri su tutti i sovrani d’Europa grazie a un lungo e graduale processo (che durerà ancora secoli), potevano contare sull’enorme sostegno morale e spirituale dalla parte ecclesiastica, oltre che su un grande appoggio bellico e politico insieme a una consistente forza di persuasione che egli poteva esercitare su tutti i propri nemici. Tutto questo era possibile solo grazie all’immenso potere che il pontefice stava consolidando mediante un capillare sistema di tassazione, concessioni imperiali, privilegi e diritti territoriali su cui rivendicava un’autorità indiscussa.

La precaria situazione italiana

Fu proprio all’interno degli eventi burrascosi di questo tumultuoso periodo storico che rimase coinvolto anche lo stesso papa Formoso. L’Impero era infatti “spaccato” tra i “filo-germanici” e i “filo-francesi”, e questi ultimi, nonostante fossero stati messi in disparte grazie alla maggioranza “filo-germanica” che sosteneva il pontefice, non avevano intenzione di arrendersi tollerando la fazione vincitrice al potere. Tuttavia le condizioni della Chiesa di Roma erano assai precarie e instabili, poiché per la lontananza dal territorio romano del sovrano Arnolfo e del suo protetto Berengario (che si trovavano in Germania), massimi sostenitori del papa, Formoso fu costretto ad affidare tutta la sua sicurezza esclusivamente nelle mani del duca di Spoleto. La situazione degenerò quando, all’incirca nell’893, il pontefice si ritrovò costretto a rinnovare l’incoronazione imperiale di Guido II di Spoleto. Tale evento fu drammatico per i territori della Chiesa poiché Guido, ormai possessore assoluto del potere imperiale, sfruttava la sua autorità in modo eccessivo, razziando e saccheggiando impunito i territori ecclesiastici.

File:Spoleto-Stemma.png - Wikipedia

Roma era così caduta in un quadro d’incertezza, e la guerra civile era inevitabilmente alle porte poiché tali disordini non sarebbero stati tollerati ancora a lungo. Formoso, costretto a ricorrere a misure estreme pur d’intervenire, verso la fine dell’893 mandò dei messaggeri alla corte di Arnolfo supplicandolo, in quanto solo e unico imperatore legittimo, di liberare l’Italia dai cosiddetti “cattivi cristiani” che la stavano distruggendo. Neanche un anno dopo, all’inizio dell’894, Arnolfo varcò le Alpi e, sebbene sembrasse pronto per un attacco diretto contro gli spoletini, la sua fu solo una grande “entrata in scena” (una sorte di “azione dimostrativa”) per guadagnarsi il rispettoso e sottomesso omaggio dei principi dell’Italia centro-settentrionale. Convinto che tutto ciò potesse essere sufficiente a sedare le rivolte, Arnolfo fece allora ritorno in patria, lasciando così che Guido tornasse a compiere tutte le ingiustizie che aveva cominciato.

Tuttavia, verso la fine dell’anno 894, Guido morì colpito da un malessere improvviso, lasciando il figlio Lamberto II solo con la madre Ageltrude, acerrima nemica della fazione “filo-germanica”. Ovviamente Lamberto reclamò subito la corona imperiale del padre, e volle essere incoronato imperatore a Roma con i massimi onori. Nonostante i numerosi tentativi di papa Formoso per prendere più tempo possibile ed evitare così l’inevitabile evento, alla fine si ritrovò costretto dalle circostanze e procedette all’incoronazione. Pochi mesi dopo però, nell’895, Arnolfo varcò nuovamente le Alpi, questa volta deciso a riprendersi il suo legittimo titolo di re d’Italia, spingendo così gli spoletini a giurare odio eterno al papa per il suo tradimento, e incarcerandolo a Castel Sant’Angelo dopo aver strategicamente aizzato la plebe romana contro il pontefice.

In un insostenibile clima di rivolta Lamberto si barricò a Spoleto pronto a combattere, nell’attesa dell’imminente arrivo di Arnolfo, mentre la madre Ageltrude continuava a fomentare il popolo e soprattutto gli spoletini verso la rivolta ormai prossima. Ella si ritrovò però costretta alla resa, poiché le truppe di Arnolfo ebbero la meglio, e dovette tornare a Spoleto per nascondersi. Papa Formoso venne così liberato grazie ad Arnolfo, che iniziò subito una decisa marcia verso Spoleto, pronto ad affrontare Lamberto e la madre nello scontro decisivo. Tuttavia il suo viaggio fu breve; Arnolfo, poco dopo essere stato incoronato nuovamente imperatore da Formoso, venne colpito da una grave paralisi che lo costrinse a un rapido ritorno in Germania, dove morì poco dopo (nell’899) lasciando “campo libero” al suo avversario Lamberto per solo un anno, quando anch’egli morì improvvisamente rompendosi il collo per una brutta caduta da cavallo durante una battuta di caccia.

La morte e il “sinodo del cadavere”

Formoso, ormai ultraottantenne, morì pochi anni prima della fine di tali eventi bellici che colpirono l’Italia in quel periodo, il 4 Aprile dell’896. Appare dunque quasi scontato affermare che la morte lo salvò dalle altrimenti inevitabili rappresaglie dei suoi avversari. Non sappiamo però se si tratti di una morte naturale, probabilmente dovuta all’età avanzata, o di un avvelenamento premeditato da parte dei suoi numerosi nemici. Venne infine sepolto nel recinto del Vaticano, dove vi rimase per neanche un anno (solamente 9 mesi) prima che venisse riesumato e sottoposto a un duro processo post-mortem.

Quello che accadde dopo al cadavere di papa Formoso ha dell’incredibile; circa un anno dopo la sua morte, nell’897, la casata spoletina, che continuava a fomentare un fortissimo odio verso il pontefice per essere stata rinnegata dal papa e per aver chiamato in Italia un sovrano straniero con tutto il suo esercito al seguito, impose al nuovo pontefice da loro eletto, Stefano VI (ovviamente non “filo-germanico”), di istituire un elaborato processo post-mortem verso Formoso, affinché tutti i membri ecclesiastici romani lo condannassero come unico traditore della patria. Tale processo prenderà il nome di “sinodo del cadavere” o “concilio cadaverico”.

Il processo al Papa morto, la macabra storia di Formoso | Roma.Com

Pertanto il cadavere di Formoso venne riesumato dalla sua tomba in Vaticano, vestito e adornato con tutti i tipici ornamenti pontifici e posto sul regale trono papale nella Basilica Lateranense. Il processo poi si svolse come si sarebbe svolto un qualsiasi processo dell’epoca, e vennero mosse varie accuse contro l’ormai defunto pontefice, il quale avrebbe dovuto rispondere all’attuale papa Stefano che svolgeva il ruolo di accusatore. In difesa di Formoso venne anche posto un diacono, assai spaventato dall’occasione e con una funzione inutile all’interno del processo ormai già prestabilito. Non potendo ovviamente Formoso rispondere alle accuse, alcune delle quali risalivano addirittura a quelle mosse anni e anni prima da Giovanni VIII, tale processo si rivelò essere più un “macabro teatrino” che un concreto atto giudiziario. Il verdetto finale stabilì infine che il defunto papa fosse stato indegno di rivestire la carica pontificia, e pertanto venne deposto secondo l’usanza ufficiale che si sarebbe usata per qualcuno in vita; inoltre, tutto ciò che aveva legiferato in vita e tutti i suoi atti ed emendamenti furono dichiarati nulli e invalidi.

“Perché, uomo ambizioso, hai tu usurpato la cattedra apostolica di Roma, tu che eri già vescovo di Porto?”

Stefano V al cadavere di papa Formoso durante il “concilio cadaverico”

L’unicità di Formoso

Il cadavere non venne mai riseppellito, gli vennero strappati di dosso tutti i paramenti tipici, gli furono recise le tre dita che usava per compiere le benedizioni e tra le grida generali di una folla in preda al puro delirio, il cadavere venne gettato nel Tevere, dove vi rimase per circa tre giorni prima di arenarsi nei pressi di Ostia, dove fu trovato da un monaco e nascosto fino a quando Stefano VI fu vivo e in carica. Venne poi riconsegnato al nuovo pontefice, Romano, verso la fine dell’897, e posto tra le tombe degli apostoli con l’accompagnamento di una grande e solenne cerimonia in suo onore. Il processo contro di lui venne infine annullato e tutte le decisioni prese da Formoso in vita vennero nuovamente poste in vigore.

Quello di Formoso è un caso unico in tutta la storia medievale e, sebbene si volle applicare lo stesso trattamento anche al cadavere di papa Bonifacio VIII, a causa della sua pessima condotta, il suo resta il solo e unico evento documentato di un vero e proprio “concilio cadaverico”. Nonostante la validità del processo sia ovviamente da classificarsi come nulla, esso ebbe comunque un grande impatto sugli eventi dell’epoca, soprattutto per coloro che scelsero di compierlo e organizzarlo. Le reazioni verso tale episodio furono comunque assai contrastanti, poiché se da una parte molti erano a favore proclamando un forte odio verso Formoso, un’altra buona parte provò un grande orrore nei confronti di questa lugubre esecuzione. In conclusione, possiamo dunque dire che questo fu un “processo horror” in pieno Alto Medioevo, e una vera e propria vendetta compiuta in Vaticano.

L’Accademia: simbolo dell’educazione e della cultura ateniese | CM

Situata a Nord-Ovest di Atene, l’Accademia è un’area ricca di significato storico e culturale. Fondamentale per la formazione fisica e intellettuale dei giovani ateniesi, ospitò importanti figure come Platone. La sua importanza perdurò fino alla chiusura nel 529 d.C. da parte di Giustiniano I, lasciando un’eredità culturale duratura.

Situata in una densa zona boschiva a Nord-Ovest di Atene, nei pressi del suburbio extraurbano (zona suburbana della capitale greca) della città, l’area dedicata all’Accademia risulta accessibile attraverso il dromos, la principale strada di Atene in termini di grandezza e lunghezza, capace di attraversare l’intera capitale toccando i luoghi più caratteristici di Acropoli e Agorà, per poi terminare nei dintorni della Necropoli del Ceramico. A caratterizzare tale strada non sono solo le sue notevoli dimensioni, bensì anche l’importanza che le venne attribuita dai Pisistratidi nel contesto delle Panatenee, una festa poliadica dedicata alla dea Atena come protettrice della città, le quali ponevano la propria pompé (processione) proprio lungo questa strada, e giungevano al termine all’incirca nella zona dell’Accademia, vicino al villaggio di Colono. A contraddistinguere la bellezza di questo luogo così verdeggiante si aggiunge anche il fiume Cefiso, il quale bagna insieme all’Illisso la pianura ateniese e nasce tra il monte Parnete e il Pentelico, ad Ovest della città.

Si tratta di un luogo fortemente ideologico, carico di significati simbolici, educativi e culturali, oltre a essere il possessore del ruolo primario come massima sede del ginnasio ateniese. La sua principale funzione consisterebbe infatti proprio nel garantire la perfetta formazione atletica, per preparare alla guerra fin dagli 11-12 anni i maschi ateniesi, ed educativa, basata sull’insegnamento delle lettere, della musica e della poesia, i fondamenti della cultura di Atene. Scopo principale dell’Accademia era, in termini riduttivi, preparare alla quotidiana vita ideale della capitale greca coloro che sarebbero stati un giorno i cittadini del futuro, ovvero i giovani greci, sia sul piano fisico che su quello morale/intellettuale. Sappiamo con certezza che questo suo ruolo fu svolto egregiamente e molti tra i maggiori intellettuali, filosofi, atleti, politici e persino artisti della città vennero “forgiati” proprio nell’Accademia stessa, la quale entrò anche in contatto nel corso dei secoli con personaggi tutt’altro che marginali, da Platone a Giustiniano I.

Storia e fondazione

Nonostante le discrete conoscenze che attualmente possediamo riguardo quest’area, risultano invece molto più effimeri tutti quei saperi che si rifanno alla sua fondazione, e la sua storia risulta perciò tutt’ora piuttosto incerta. Pertanto, come ogni luogo ricco di tradizione, antichità e simbologia, da tutto ciò che concerne l’Accademia derivano inevitabilmente numerosi miti e leggende a proposito della sua storia e della sua fondazione delle origini.

Il termine stesso “Accademia” deriverebbe infatti da una radicata tradizione lessicografica, capace di proiettare simbolicamente l’origine del ginnasio nel mito, identificandone il suo massimo fondatore e protettore nella figura dell’eroe ateniese Akademos (o Ekademos), oggi appunto identificato come massimo eroe eponimo del luogo stesso. Fu proprio egli a donare il nome originale con cui s’indicava tale area, ovvero l'”Akademia“.

Le teorie sul ruolo rivestito da tale personaggio appaiono però incerte e molteplici, a partire dall’ipotesi che fosse strettamente correlato alla saga del rapimento di Elena da parte di Teseo, e alla venuta in Attica dei Tindaridi alla ricerca della sorella scomparsa. In un’ulteriore versione della leggenda, questo personaggio sarebbe addirittura stato l’arcade re di Tegea, e avrebbe guidato i Dioscuri nella conquista della regione dell’Attica. Infine, come ultima alternativa presa in considerazione, Akademos sarebbe potuto semplicemente essere un normale abitante dell’Accademia, che avrebbe però indicato ai Tindaridi il luogo dove era stata accuratamente nascosta la sorella Elena, guadagnandosi così l’eterna riconoscenza da parte degli Spartani e la garanzia di ricevere sempre un rilevante trattamento di favore da parte loro.

Le prime supposizioni sulle origini di questo luogo così misterioso risalgono circa all’VIII secolo a.C., quando venne casualmente rinvenuto in tale area un edificio preistorico identificato, con molte probabilità erroneamente, come la “Casa di Akademos“, e quindi poi trasformato in un luogo di culto. Nonostante tale ipotesi venne accantonata quasi subito, sappiamo per certo che il legame dell’Accademia con l’eroe e la storia della sua fondazione rappresentino elementi antichissimi. Tre sono invece le teorie più recenti, e situano l’origine dell’Accademia attorno al VI secolo a.C..

La prima è relativa a un horos, pietre di medie dimensioni poste come delimitazioni di luoghi sacri o di grande importanza per la città, rinvenuto in situ, capace di attestare un’origine quantomeno tardoantica relativa al toponimo connesso al nome dell’eroe.

Un’ipotesi meno accreditata si baserebbe invece sul riconoscimento della figura di Akademos rinvenuta su un vaso a figure nere (pratica pittorica per la ceramica greca e romana di fine VI secolo a.C.). Infine, la prima vera menzione dell’esistenza di un ginnasio nell’Accademia, è da far risalire a una severissima legge esemplare che Demostene attribuiva a Solone, il quale fu arconte all’incirca nel 594 a.C.. Tale legge condannava alla pena capitale chiunque avesse commesso un furto di oggetti personali nei pressi del Liceo, dell’Accademia e/o del Cirosangue. Grazie a tale passo possiamo dunque attribuire cronologicamente l’esistenza di tre ginnasi ateniesi. Tuttavia anche quest’ultima ipotesi presenterebbe un margine d’incertezza, poiché era pratica comune, a partire dal IV secolo a.C., attribuire ogni genere di normativa statuita a Solone, il quale venne “etichettato” in età Classica come modello archetipico di legislatore ideale e padre della patria.

La sua storia e la sua lunghissima tradizione culturale tuttavia lo hanno contraddistinto come uno dei luoghi più ricchi di mnemotopoi di tutta Atene; se non addirittura di tutta l’Attica. Tale espressione greca, fondamentale per lo studio di siti antichi, è formata dai termini “mnemo” e “topos“, i quali indicano rispettivamente la memoria e l’accezione di un luogo/area. Si tratta infatti di un luogo denso di simbologia e tradizioni, elementi che rimandano inevitabilmente al passato e di conseguenza a una lunga storia carica di memoria.

Gli mnemotopoi incarnano a livello storico il mitico, il magico e anche il religioso, andando a caratterizzare opere, battaglie ed eventi particolarmente significativi per il ricordo e la celebrazione postuma; ma anche leggende, superstizioni e residui della memoria degni di essere ricordati per la storia di una data area e per le sue tradizioni radicate nei secoli. Proprio come accade per l’Accademia risulta dunque essere un ambiente gravido di culti e commemorazioni.

Attualmente, nonostante la ricchezza di fonti, tradizioni e leggende riguardanti questa zona siano numerosissime, a livello archeologico non ci è pervenuto quasi nulla e rimane pertanto anche molto complesso operare così una ricostruzione effettiva di come sarebbe potuta essere realmente l’Accademia a livello architettonico. Tuttavia ad Atene, sulle rive del fiume Cefiso, è possibile ammirare in un piccolo sito, nei pressi di un’area ricca di vegetazione, i resti di un edificio attribuibili o alla parte relativa al ginnasio o all’Accademia vera e propria.

L’importanza simbolica dell’Accademia

Nonostante l’Accademia di Atene si presti alla perfezione come luogo simbolico ricco di pathos, miti e leggende, sappiamo però con certezza che rivestì davvero un ruolo tutt’altro che marginale nella storia della capitale greca; e non solo per pochi anni, bensì per interi secoli, fino a quando l’imperatore Giustiniano I, nel 529 d.C., ordinò la chiusura di tutte le scuole filosofiche presenti nell’Impero Bizantino, essendo esse pagane ed essendo il cristianesimo divenuto da poco religione ufficiale dello Stato.

Tuttavia a testimoniarci la grandissima rilevanza dell’Accademia non troviamo solo gli illustri personaggi che nel corso di anni e secoli ebbero a che fare con la suddetta area, ma quest’ultima ci viene documentata anche attraverso semplici elementi che potremmo definire “materiali”, capaci di rivestire nondimeno un ruolo di fondamentale importanza. Stiamo parlando del già sopracitato horos dell’Accademia. Pur trattandosi solamente di pietroni dalle dimensioni variabili con forme rettangolari, gli horoi si mostravano come dei veri e propri simboli di delimitazione.

Il loro compito consisteva proprio nel demarcare i confini di un luogo, e non si trattava mai di ambienti qualunque, bensì di aree degne di una delimitazione ben circoscritta quali templi, zone sacre, aree rituali ed edifici carichi di significato politico, simbolico o intellettuale. E il fatto che l’Accademia avesse un suo horos personale non fa che accrescere il suo prestigio. Questa “pietra”, rinvenuta in uno scavo piuttosto recente, risulta perfino posta su un basamento, date le sue notevoli dimensioni, e non direttamente nella terra com’era usanza collocarli.

La pietra è grezza, ad eccezione di una striscia liscia su cui era incisa la frase: “Sono l’horos dell’Accademia“. Era infatti usanza comune “dare la parola” a tali steli per comunicare in modo più diretto possibile ai passanti le delimitazioni dei luoghi. Questo uso non deve sorprendere, essendo “dotate di parola” anche tombe, statue ed epigrafi nei pressi di sentieri e cimiteri.

Ma non era casuale che proprio tale area fosse così accuratamente circoscritta. Le sue dimensioni erano infatti notevoli e altrettanto significative erano le funzioni che andava a ricoprire all’interno della politica e della società ateniese. Pertanto, se volessimo descrivere questo luogo con un’espressione maggiormente attuale, una di queste sarebbe sicuramente “scuola”.

L’Accademia era infatti un edificio scolastico a tutti gli effetti e, usando termini piuttosto generici, il suo ruolo era proprio quello di formare l’aspetto fisico, educativo e soprattutto intellettuale dei giovani cittadini ateniesi perlopiù maschi. Tuttavia la questione di genere non va data per scontata, poiché non è sufficientemente documentato che non potessero frequentare anche le donne.

Per quanto riguarda la preparazione fisica, i greci (soprattutto gli ateniesi) avevano un vero e proprio culto del corpo, sia sul lato estetico che su quello della prestanza; a testimoniarcelo sono soprattutto le numerose statue raffiguranti una perfetta nudità scultorea a cui si ambiva non sono nell’ambito artistico, ma anche in quello della quotidianità.

Nell’Accademia era infatti presente un Ginnasio, ovvero uno specifico luogo accuratamente preposto all’addestramento fisico e atletico dei giovani che iniziavano la preparazione intorno agli 11-12 anni. L’allenamento era prevalentemente rivolto alla preparazione bellica dei ragazzi ma, come riportato precedentemente, non è da escludere l’importanza che si conferiva all’estetica del fisico. Gli atleti gareggiavano nudi, e la maggior parte delle volte si allenavano anche così. Il termine “ginnasio” deriva infatti dal greco “gumnos“, che significa proprio “nudo”.

Si tratta di un luogo molto caratteristico per la cultura ateniese, importante per il ritrovo e l’apprendimento, oltre al fatto che in esso si potevano tenere anche banchetti e rappresentazioni teatrali. Compiuti i 18 anni i giovani raggiungevano la maturità fisica ideale e acquisivano così i pieni diritti di cittadinanza, intraprendendo l’istruzione militare vera e propria come efebi.

Nonostante la fisicità fosse essenziale per la “costruzione” della cultura ateniese, un ruolo altrettanto significativo veniva rivestito dall’educazione. Scopo principale dell’Accademia era appunto quello di istruire e “plasmare” i giovani alla cultura, affinché raggiungessero parallelamente alla massima capacità fisica, quella intellettuale.

L’educazione ateniese si basava principalmente sull’apprendimento delle lettere (scrittura), dei conti (matematica) e della poesia, la quale veniva molto spesso accompagnata dalla musica della cetra o della lira, strumenti sempre appresi all’interno dell’Accademia. I giovani si esercitavano su tavolette di legno o cera ed erano sempre supervisionati da maestri molto attenti e anche molto severi. Nonostante la cultura fosse ancora un privilegio piuttosto elitario, frequentare la “scuola” era più consueto di quanto si potesse pensare.

L’Accademia rappresenta pertanto un punto di riferimento culturale per l’aggregazione dei cittadini (giovani e non) e per la completa formazione dei ragazzi ateniesi. Essere un cittadino della capitale greca rappresentava infatti un vero e proprio vanto, un modo per esprimere il proprio orgoglio e per distinguersi da tutti coloro che, provenendo dalle più disparate aree di tutta la Grecia e molto oltre, erano considerati barbari e quindi nemici.

Il ruolo di Platone

Il più delle volte quando si parla dell’Accademia essa viene, in modo quasi sempre errato, esclusivamente associata alla figura del filosofo Platone, il quale ebbe un ruolo estremamente importante nella sua evoluzione pratica e storica, ma non esclusivo. E’ perciò usanza comune accomunare a tale area la presenza del filosofo come suo solo e unico fondatore per il fondamentale ruolo che egli rivestì nei secoli successivi, tendendo così a far oscurare inconsciamente secoli di storia precedenti e successivi.

Platone compie la sua prima apparizione in questo luogo solamente nel 387 a.C.. Questa data particolarmente simbolica, oltre che essere anche quella maggiormente conosciuta rispetto all’Accademia, rappresenta il momento della prima fondazione della scuola accademica soprattutto come la conosciamo noi oggi.

Platone incarna infatti la figura dello “scolarca” per eccellenza, ovvero colui che era a capo di una scuola filosofica o il fondatore stesso. Venivano indicati con questo termine anche tutti i suoi discepoli. 20 anni dopo tale data così rappresentativa, Platone comprerà anche, di ritorno da un lungo viaggio in Sicilia, un giardino (képos in greco) chiamato il “giardino di Akademos”, che diverrà poi la vera e propria sede principale della scuola. Si tratta di un luogo quasi bucolico ed idilliaco che durerà nei secoli, fino alla conquista romana del mondo greco. Sarà proprio in quest’area, enormemente apprezzata dai romani per la sua storia e le sue caratteristiche mitiche e naturalistiche, che i latini andranno ad ascoltare i grandi filosofi greci.

Atene diventerà proprio in questo senso la capitale della cultura e dell’arte, trasmettendo per generazioni un fascino immenso non solo per i greci, ma anche per molti altri popoli a venire.

Con l’arrivo di Platone in quest’area non solo si amplia l’accezione simbolica dell’Accademia, ma vengono condizionate anche tutte le materie d’insegnamento, che aumentano notevolmente divenendo sempre più specifiche e particolareggiate. Sappiamo quasi con certezza che in età platonica venivano insegnate materie come matematica, astronomia, ottica, meccanica, scienze naturali, scienze politiche e, ovviamente, filosofia. Era infatti pratica comune discutere insieme al maestro riguardo tutte quelle questioni strettamente correlate all’uomo e a tutto ciò che riguarda la questione umana, indagine approfondita anche attraverso l’arte; sono difatti comuni i dipinti raffiguranti la tipica scena solita ritrarre Platone passeggiare in quest’area verdeggiante circondato dai suoi discepoli attenti.

A risentire dell’influenza platonica nell’Accademia non furono solamente i cittadini ateniesi, assidui frequentatori di tale luogo, bensì anche e con buone probabilità soprattutto i romani, che in seguito alla conquista della regione dell’Attica vennero “contagiati” da innumerevoli elementi della cultura greca, adottandoli o addirittura esportandoli. E non si trattava solamente di cittadini romani qualunque. Cicerone nel 79 a.C. frequenterà con grande coinvolgimento l’Accademia, seguito dal fratello Quinto e dal grande amico Attico, chiamato così in onore del suo immenso amore per la regione dell’Attica e in particolare per il suo grande bagaglio culturale, sviluppatosi proprio in questa zona.

Tuttavia il successo di tale luogo proseguirà per secoli e secoli dopo la morte di Platone, per la fortuna che guadagnò lasciando un’immensa eredità grazie alla filosofia platonica, studiata e apprezzata da popoli e culture anche molto distanti da quella greca.

Solo all’inizio del V secolo venne fondata una nuova scuola come punto cardine della filosofia neoplatonica, e l’Accademia cesserà poi defininitivamente la sua attività solo nel 529 d.C., per volere dell’imperatore Giustiniano I il quale, a causa dell’importanza che stava acquisendo il cristianesimo come religione dell’Impero, aveva ordinato la chiusura di tutte le scuole filosofiche pagane presenti nell’Impero Bizantino.

Nonostante ciò l’Accademia rimane un luogo carico di significati simbolici e culturali, un nucleo colmo di mnemotopoi, rappresentando per tutta l’età antica il simbolo della filosofia platonica e della capitale ateniese, un nerbo culturale ed educativo per l’antica Grecia come la conosciamo noi oggi. Pertanto sono innumerevoli gli autori che ancora discutono sulla sua importanza e hanno avuto a che fare con i suoi molteplici significati simbolici; dalla famiglia dei Pisistratidi (tiranni di Atene) che, specialmente il figlio Ipparco amante dell’arte e della cultura, riservarono sempre particolari attenzioni a tale luogo prediligendolo come punto d’incontro e di scambio culturale, a Plutarco, che ancora in età imperiale definiva se stesso e altri pensatori come lui con l’orgoglioso appellativo di “accademici” (“akademikoi“).

Molti altri personaggi famosi nel corso dei secoli s’interessarono a questo luogo non solo a livello storico ma anche artistico, come Raffaello, il quale dipinse “La Scuola di Atene” situata nella Stanza della Segnatura (una delle quattro Stanze Vaticane poste all’interno dei Palazzi Apostolici), un’opera dalle maestose dimensioni raffigurante al centro il protagonista Platone, circondato dai suoi discepoli evidentemente rapiti dai suoi discorsi filosofici. L’opera incarna pienamente la visione che si conferiva alla zona dell’Accademia come principale simbolo della filosofia platonica, mentre risulta meno evidente come fosse identificata prima dell’arrivo di Platone, nonostante le sue origini fossero decisamente molto più antiche.

Ovviamente, nonostante siano cambiate le epoche, i protagonisti e il ruolo rivestito da quest’area, a non cambiare mai è l’orgoglio e la fortissima ammirazione con cui ne parlano e la descrivono coloro che ne sono entrati in contatto; utilizzando invece un misto di magia e venerazione tutti quelli che ne discutono per motivi di studio, per interesse o per sentito dire.

Satana, ovvero il Diavolo: le origini cristiane dell’immaginario medievale del male | CM

L’imposizione del cristianesimo come religione ufficiale

Il cristianesimo, caposaldo indiscusso tra le massime religioni di stampo monoteista, presenta origini antiche e una lunga storia connotata da lotte, rivalità, editti e lunghi concilii che lo portarono a rappresentare un simbolo e un’ideologia, oltre che a incarnare il ruolo di una delle religioni più diffuse e affermate al mondo. Ma il percorso è stato lungo. I suoi primi passi verso un’affermazione forte e completa risalgono infatti al IV secolo d.C., periodo storico connotato da significative tensioni religiose.

Con l'”Editto di Milano del 313 d.C. e il “Concilio Ecumenico di Nicea I del 325 d.C.,
l’imperatore Costantino aveva intrapreso una politica reliogiosa esplicitamente rivolta all’impostazione del cristianesimo come sola e unica religione praticabile. Il tutto venne decretato ufficialmente dall'”Editto di Tessalonica del 380 d.C. il quale, per volere di Graziano, Valentiniano e Teodosio I, aveva definitivamente sancito il ruolo del cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero romano, imponendovi così una fedeltà ferrea e assoluta.

Tali eventi rappresentano momenti cruciali per la storia del cristianesimo, il quale, a partire dal IV secolo d.C. circa, venne indiscutibilmente riconosciuto come religione di livello universale. Ciò lo portò non solo a essere ritenuto una religione ufficiale, ma anche superiore, andando così inevitabilmente a ledere nel corso dei secoli numerose altre religioni, come ad esempio accadde per l’ebraismo, a partire da tempi antichissimi. Tale concetto di superiorità era pertanto alimentato da una sorta di disprezzo rivolto verso qualsiasi religione fosse ritenuta “altra”, e quindi diversa. L’idea di cristianesimo si fece dunque sempre più forte, sostenuta da istituzioni clericali altrettanto potenti, fino a raggiungere un apice di ideologie che affonda le sue radici nel periodo alto e, soprattutto, basso medievale.

Il potere della chiesa medievale e il binomio di bene e male

Da secoli l’idea che si ha sul Medioevo viene fortemente associata a un immaginario collettivo connotato da una rigida ambivalenza religiosa fondata sul concetto di bene e male. Abbiamo precedentemente visto come il cristianesimo avesse iniziato a imporsi in un contesto di tensioni religiose a pochi anni dalla caduta dell’Impero romano d’occidente.
Pertanto, con l’inizio del periodo che oggi definiamo “Alto Medioevo”, esso si trovò la “strada spianata” per potersi impostare in modo definitivo come religione cardine di tutto il mondo medievale, portando con sé una vasta serie di concetti che avrebbero avuto una secolare fortuna nel mondo delle religioni monoteiste. Alla base di queste dottrine vigeva il noto binomio contrapposto di bene e male, una rigida ambivalenza impostata e controllata dal cristianesimo nel modo più ferreo possibile.

La società medievale era inoltre fondata su due modelli cardine: la politica e la religione e, nella maggior parte delle occasioni, quest’ultima poteva influenzare, e anzi padroneggiare senza troppe difficoltà la prima. Basti pensare che l’intera gerarchia ecclesiastica era interamente fondata sull’enorme potere esercitato dal papato, il quale, nonostante non fosse in possesso di un esercito personale e non avesse un accesso diretto al potere esecutivo di cui disponevano i sovrani medievali, possedeva il pieno controllo sulla monarchia e la possibilità quasi immediata di destituire a suo piacimento il monarca; pertanto tali privilegi non gli sarebbero affatto stati necessari per esercitare il pieno potere religioso di cui era effettivamente detentore. Inoltre la Chiesa, pur rappresentando una minima percentuale in termini di uomini interessati, possedeva quasi un terzo di tutte le terre del regno, senza contare tasse, offerte, vendite delle indulgenze e delle massime cariche e, ovviamente, il completo esonero verso ogni tipologia di tassazione. Al termine di tali riflessioni risulta dunque quasi scontato affermare che fosse proprio la Chiesa, sulla base interpretativa delle dottrine cattoliche, a decretare cosa rappresentasse il “bene” e cosa invece il “male”.

E’ un tratto umano di stampo tipicamente medievale l’ispirarsi apertamente alla morale perseguita da Gesù, il quale non solo rappresenta un personaggio storico chiave per la lettura della religione cristiana, ma incarna allo stesso tempo un vero e proprio corpus di leggi spirituali da perseguire ed emulare con estrema cura e attenzione, e sulle quali fondare la propria esistenza che, come insegna proprio la dottrina cattolica, deve essere unicamente rivolta al bene. Gesù è insomma a tutti gli effetti un modello da seguire, un “serbatoio” di etica e morale, e infine una solida base sulla quale impostare i più retti comportamenti umani. Ed è proprio da tali concetti che nasce la vera e propria idea di “bene”, inteso come principio strettamente legato a tutto ciò che la Chiesa decretava, e anzi imponeva, quasi come “legge di rettitudine”. E’ inoltre ovvio affermare che, laddove la Chiesa e i principi cristiani s’imponevano strenuamente come difensori di onestà e virtù, si decretavano in maniera altrettanto accanita come persecutori di tutto ciò che andava contro tali dottrine, fomentando così il concetto di “male”.

Bisogna tuttavia sottolineare come fosse impostata la società medievale, ed evidenziare quanto tale epoca storica fosse permeata di paura e, soprattutto, di superstizione. I due elementi andavano infatti di pari passo in un contesto culturale in cui ogni errore e deviazione da ciò che si riteneva essere il cosiddetto “bene”, veniva severamente punito; e non si tratta affatto solamente di punizioni corporali. La paura era infatti anch’essa saldamente connessa alle dottrine imposte dalla Chiesa cattolica, e la sola idea di allontanarsi da tali principi, avvicinandosi così al tanto temuto concetto di “male”, rendeva la stragrande maggioranza della popolazione medievale tanto religiosa da riversare spesso nella superstizione; senza contare inoltre l’ignoranza e l’analfabetismo che affollava città e campagne, i quali diffondevano ancor più la paura verso il “male”, fomentando una tacita accettazione verso tutto ciò che la Chiesa imponeva in modo quasi dittatoriale.

Gesù, ovvero il bene; Lucifero, ovvero il male

E’ inoltre necessario mettere in rilievo come il concetto di bene e di male non fosse solamente associato a ideali astratti, ma andasse anche a concretizzarsi, o meglio a personificarsi in personaggi ben specifici. Possiamo infatti parlare di “personificazione” come di un fenomeno tipicamente medievale per il marcato attaccamento verso tutto ciò che poteva essere spiegato concretamente, motivo per cui al concetto di “bene” è stata associata dalla Chiesa la figura di Gesù, il quale doveva appunto essere riconosciuto come principale modello d’ispirazione, un vero e proprio esempio morale e spiritualità sul quale fondare il proprio comportamento e il proprio essere.

Seppur risulti scontato a dirsi, la concezione del bene è ovviamente anche delineata dalla figura di Dio, il quale ne è anzi il protagonista indiscusso portando con sé gli esempi biblici del perdono, della misericordia e della benevolenza. Tuttavia il personaggio di Gesù rappresenta una figura storicamente accertata e risulta pertanto molto più semplice associare ad egli una vera e propria personificazione e concretezza del concetto di “bene”. Ma cosa sarà invece a connotare il concetto del “male”?

Partendo sempre da un presupposto prettamente religioso la Chiesa fa riferimento a una vicenda molto nota, nonostante non venga mai citata né dall’Antico Testamento, né dal Nuovo; ovvero la caduta di Lucifero negli inferi. Lucifero, nome dall’etimo altamente significativo, derivante dal latino lux” – “luce” e ferre” – “portare”. Egli veniva infatti soprannominato “il portatore di luce” e rivestiva uno dei ruoli principali tra gli angeli di Dio; ogni angelo aveva infatti una particolare funzione ben specifica assegnatagli direttamente da Dio e non sarebbe dunque esagerato affermare che fosse quasi il suo favorito.

Tuttavia sappiamo dal profeta Isaia che Lucifero possedeva un animo estremamente superbo, tanto da osare perfino sfidare Dio con una schiera di angeli suoi sostenitori per arrivare a essergli pari nel Regno dei Cieli, se non addirittura per sostituirlo definitivamente. L’esito di tale ribellione risultò un fallimento e Lucifero, sconfitto dall’Arcangelo Michele, mandato da Dio, venne gettato giù dal cielo, andando a conficcarsi nel centro della Terra, ovvero nei cosiddetti “inferi”, che da quel momento sarebbero stati abitati da lui come sovrano e da tutti gli altri ribelli. Bisogna però specificare quanto le interpretazioni riguardanti questo mito siano molteplici, e a volte anche discordanti, non garantendo una versione univoca e ufficialmente riconosciuta.

Inferno e paradiso nell’immaginario medievale

Con il delinearsi della figura di Lucifero come principale oppositore di Dio, nascono parallelamente due concetti biblici fondamentali: quello di “inferno” e quello di “diavolo”, entrambi strettamente collegati al più generale e profondo ideale di “male”, inteso come concetto puramente astratto. Per spiegare concretamente l’esistenza di un luogo infernale contrapposto al paradiso, delineato da letizia e beatitudine, ci si appoggia dunque alla vicenda di Lucifero, il quale, cadendo dal cielo, sarebbe andato a conficcarsi nel centro della Terra, dando così origine a un luogo connotato dal peccato (a causa del gesto compiuto dall’angelo ribelle) e abitato da anime dannate. Questo ideale di inferno si sarebbe stanziato all’interno delle dottrine cristiane così a fondo da risultare attuale ancora oggi, se non addirittura molto spesso credibile. Non si tratta dunque di un fenomeno antico e circoscritto a un dato luogo, bensì di un concetto che ha avuto modo di radicarsi nei più svariati luoghi nel corso dei secoli, riscontrando un’enorme fortuna con Dante e con l’epoca medievale.

Nel Medioevo infatti la paura dell’inferno era così diffusa e radicata che il fenomeno delle indulgenze, un pagamento in denaro per ottenere una parziale o completa remissione dai peccati per se stessi o per i propri cari, raggiunse livelli talmente elevati da risultare una delle maggiori entrate per la Chiesa, al pari di tasse e donazioni; una vera e propria fonte di sostentamento. Come precedentemente accennato, il contributo dantesco fu fondamentale non solo per delineare l’immagine di paradiso e inferno che conosciamo tutt’oggi, ma anche quella dei massimi protagonisti che regnano su tali luoghi. E così come Dio occupa un posto primario e indiscusso nel “Cielo Empireo” del paradiso, Lucifero rivestirebbe un ruolo parallelo nell’inferno, come signore del male e delle anime dannate.

Satana o Lucifero?

Il termine “diavolo” comunemente usato oggigiorno deriverebbe dal verbo greco diàballo. Tale termine non è casuale ed è ottenuto dalla particella “dià” – “attraverso” e dal verbo “ballo” – “gettare”, e starebbe dunque a indicare colui che divide e separa, per l’appunto un calunniatore. Ma prima di intraprendere il discorso vero e proprio a proposito della figura del diavolo in ambito medievale, è necessario specificare che, nonostante oggi l’appellativo a esso riferito sia perfettamente intercambiabile, le sue origini lessicali sono assai ben distinte.

Lucifero rappresenterebbe infatti un personaggio strettamente legato alla figura Dio, degli angeli e dei demoni ribelli (potremmo quasi definirlo biblico, nonostante la Bibbia non faccia parola della sua vicenda); é pertanto direttamente connesso al concetto di peccato e tentazione umana, elementi tipicamente biblici e cristiani. Lucifero incarna dunque un modello di deviazione, un totale declino che porta a un crollo morale senza possibilità di riscatto (non bisogna dimenticare che in origine era un angelo).

La figura di Satana, o Beelzebub (in italiano Belzebù), starebbe invece a indicare un vero e proprio demone, un’entità spirituale o sovrannaturale, una figura appunto satanica esclusivamente dotata di istinti maligni e con l’unico scopo di traviare e corrompere l’animo umano. Satana è malvagio, distruttivo, calunniatore, e a differenza di Lucifero non presenta alcun rimando angelico. La sua connotazione demoniaca andrebbe addirittura fatta risalire alle molteplici religioni politeiste dell’antichità, nelle quali era consuetudine la presenza della figura di un antagonista per eccellenza. Basti pensare che nell’antico Egitto il dio Seth incarnava la vera e propria immagine del male, e questo circa 3.000 anni prima della nascita di Cristo.

Pertanto, sebbene la figura di Lucifero sia fortemente connotata nell’immaginario cristiano tanto da risultare addirittura biblica e al pari di Dio come suo principale nemico e oppositore, l’immagine di Satana andrebbe invece fatta risalire a una tradizione pagana politeista affermata e radicata da migliaia di anni e non ancora del tutto soppiantata dal cristianesimo, come potrebbe invece credersi.

Il diavolo nell’arte e nel mondo medievale

A partire dall’Alto Medioevo il diavolo assunse un ruolo dominante nel mondo religioso cristiano, tanto da influenzare l’arte, la letteratura e persino il pensiero e la mentalità della società medievale. A essere permeati di credenze e superstizioni erano inevitabilmente l’iconografia e l’immaginario collettivo, strettamente legati alla componente cattolica fondata sul binomio tanto discusso di bene e male.

Pertanto, se da un lato la figura del diavolo rappresentava una presenza demoniaca costante nella vita dell’uomo, un lampante esempio spirituale di “spinta al peccato”, dall’altra incarnava invece un forte bisogno umano, ovvero conferire un’immagine concreta a tutto ciò che costituisce un mistero per l’occhio, conferendo perciò concretezza e materialità a tale figura; e fu proprio l’arte a rappresentare lo strumento principale per l’incarnazione delle idee (nel corso dei secoli l’immaginazione non ha mai soddisfatto le aspettative umane). Fu così che, come avvenne per la figura di Dio e degli angeli, anche al diavolo si cercò di dare una degna e concreta rappresentazione artistica che desse agli uomini un’immagine reale verso cui rivolgersi.

Satana è una presenza angosciante nella quotidianità del Medioevo; è presente sulle facciate delle chiese, negli affreschi, sui capitelli e persino nei mosaici e nelle sculture di corte. Il periodo medievale inizia così a dar forma alla più grande paura che abbia mai ossessionato la comunità cristiana: l’idea di inferno e peccato. Le rappresentazioni artistiche infernali sono numericamente quasi al pari di quelle celesti e, come queste ultime, non tralasciano alcun particolare. Satana è sempre il protagonista indiscusso e, attingendo frequentemente anche a rappresentazioni pagane, i suoi particolari sono di un realismo crudo e impressionante. Si tratta spesso di opere religiose, raffiguranti ad esempio il giudizio universale o la discesa agli inferi, e nessun dettaglio (anche i più truci e cruenti) veniva risparmiato.

La sua figura è stata assai di frequente fonte d’ispirazione per scultori, pittori e artisti di ogni genere, i quali hanno cercato di raffigurare nei più svariati modi possibili questa “ossessione medievale”. Il diavolo è ferino, bestiale, non ha nulla a che vedere con l’angelica figura di Cristo, e rappresentando il suo principale antagonista sul piano biblico, così doveva essere anche dal punto di vista fisico. Spesso non ha nulla di umano, neppure una minima parvenza; può essere dotato di corna, artigli, denti acuminati e una coda serpentina. A lui sono inoltre spesso associati animali come il serpente, che incarna la tentazione (dalla nota vicenda biblica di Adamo ed Eva), il gatto nero (uno degli animali satanici maggiormente associati alla stregoneria) e la capra (legata all’episodio biblico del capro espiatorio, sul quale vengono riversati tutti i peccati del popolo di Israele).

Ma a essere raffigurato non era solo il suo aspetto bestiale, bensì anche il suo temperamento diabolico e la sua natura perfida e sadica. Il diavolo infatti tortura e strazia i peccatori che si trovano negli inferi con i peggiori tormenti che si possano immaginare, e l’arte in questo non tralascia alcun minimo particolare, così come magistralmente raffigura le angeliche figure dei beati che godono dei piaceri del paradiso.

Il diavolo nel Medioevo – Medium Aevum

In un’epoca in cui la stragrande maggioranza della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, l’arte si ritrovava a svolgere una funzione chiave per la società medievale, e tutti gli avvertimenti che i peccatori avrebbero potuto leggere nella Bibbia o su un qualsiasi volume religioso, venivano esplicitamente espressi attraverso le opere artistiche; e se le raffigurazioni del paradiso avrebbero facilmente spinto alla retta via, con altrettanta efficacia le rappresentazioni infernali avrebbero dissuaso dal peccato e dalla tentazione. Inutile pertanto dire quanto la Chiesa sfruttò la rappresentazione artistica di tipo “satanico” a proprio vantaggio, come un vero e proprio mezzo di dissuasione e strumento di persuasione verso la fede cattolica.

La reazione della Chiesa

In parallelo a una diffusione tanto rapida e proficua relativamente alla figura del diavolo nell’immaginario collettivo medievale, non tardò ad arrivare la reazione della Chiesa in relazione a cosa effettivamente rappresentasse Lucifero per la comunità. Si delinea così un forte divario tra coloro che venivano considerati “bravi cittadini”, ligi al dovere e retti praticanti cattolici, e tutti coloro che, andando contro l’deale dell’“onesto popolano”, andavano inevitabilmente a scontrarsi con la dottrina cristiana cedendo alle cosiddette “tentazioni del diavolo”. Pertanto, se da un lato la Chiesa conferiva un’immagine sacra dell’unica possibile retta via da seguire, dall’altro ogni deviazione rappresentava invece un passo in avanti verso Satana e il peccato. E questa concezione raggiunse livelli sempre più estremi, soprattutto a partire dal Basso Medioevo.

Alla figura di Satana venivano infatti associati tutti coloro che potevano in qualche modo disturbare la perfetta aura che aleggiava sulla comunità cristiana medievale, turbando così la quieta pubblica e macchiando la forte religiosità che vi permeava. Erano pertanto considerati adoratori del diavolo tutti coloro che praticavano un culto diverso dal cristianesimo, e il Medioevo è denso di credenze popolari che crebbero nascoste agli occhi della Chiesa. Un esempio di ciò è dato dalla venerazione del “Santo Levriero”, un cane che salvò il bambino di un signore da una vipera, per poi venire ucciso dal padrone, il quale credeva che stesse sbranando il piccolo. Con il passare del tempo la storia si diffuse nei villaggi circostanti al castello in cui era avvenuto tale fatto, e la figura del cane venne sempre più assimilata a quella di un vero e proprio santo, visto come martire e salvatore. La Chiesa si oppose strenuamente e il culto (considerato al pari di un’idolatria) venne proibito, ma resistette ai continui tentativi di soppressione per secoli. E questo è solo uno dei molteplici casi; tali credenze venivano soprattutto associate al paganesimo, il quale era a sua volta il culto associato per eccellenza alla seduzione e al diavolo.

Un altro bersaglio facile per la Chiesa furono le donne. In una società altamente misogina come quella medievale era uso comune rivolgere astio e accanimento verso il sesso letteralmente più debole e, soprattutto verso la fine del Basso Medioevo, nacque così la figura della “strega”, intesa come donna estremamente devota al diavolo e praticante di magia nera. Con l’aumentare del sospetto verso tutto ciò che non si rifaceva fedelmente alla dottrina cattolica, aumentò inevitabilmente anche il timore verso tutte quelle pratiche che non erano sufficientemente conosciute, spesso praticate proprio da donne. A essere accusate erano infatti levatrici o guaritrici, le quali utilizzavano prodotti naturali che spesso potevano rimandare a pratiche magiche; tuttavia a finire nel mirino della Chiesa furono anche prostitute, mendicanti o lebbrose, ovvero tutte quelle donne che non rispondevano correttamente al rigido ideale medievale di “donna cristiana”, ritrovandosi così tra le categorie più deboli della popolazione. Ma la procedura era sempre la stessa e tra le maggiori colpe attribuite alle donne vi era l’accusa di praticare i “sabba”, tipici rituali blasfemi in cui le streghe si sarebbero radunate di notte per praticare orge sataniche con il diavolo.

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A delineare la donna come portatrice di peccato contribuì inoltre in modo molto significativo la figura di Eva, protagonista del peccato originale, e ancora una volta è proprio il cristianesimo, accompagnato dai celebri racconti della Bibbia, a dettare legge su cosa fosse giusto e cosa no. Era dunque inevitabile che la Chiesa posasse la sua attenzione soprattutto sulle donne, dato che colei che aveva mangiato il frutto proibito, ancora una volta sotto tentazione del diavolo sotto forma di un serpente, fosse proprio di quel sesso. Era dunque prassi comune associare la femminilità al peccato, ma soprattutto alla seduzione e alla tentazione, caratteristiche proprie soprattutto di Satana; motivo per cui le streghe vennero considerate le principali servitrici e adoratrici di Lucifero.

La Chiesa fu talmente coinvolta nella famigerata “caccia alle streghe” da istituire un vero e proprio tribunale santo: la “Santa Inquisizione“, con il solo e unico compito di reprimere brutalmente ogni possibile ostacolo alla dottrina cattolica e, ovviamente, ogni elemento che potesse rappresentare un pericolo per il potere della Chiesa come istituzione religiosa.

Ma nel mirino della “Santa Inquisizione” non finirono solo le donne, nonostante dovettero sopportare la stragrande maggioranza delle accuse. Molti uomini furono messi al rogo per la stessa accusa di stregoneria rivolta alle donne, ma quando paura e sospetto divennero insostenibili, molteplici accuse rivolte furono del tutto infondate, frutto di odi e vendette personali. Bastava infatti un semplice astio verso qualcuno, perché chi si voleva accusare venisse direttamente condannato come adoratore di Satana, a volte anche senza processo. Ma il genere non era il connotato principale, poiché in fondo l’accusa era sempre la stessa. Tutto questo per sottolineare quanto ogni accusa, che si trattasse di un culto anomalo, di un sospetto per stregoneria o di una semplice vendetta, fosse costantemente legata alla paura della presenza del diavolo nella vita di tutti i giorni. Una paura fondata su sospetti e fomentata quasi esclusivamente dalla Chiesa cattolica.

La figura del diavolo oggi

Nonostante oggi magia e superstizione siano state superate e soppiantate dalla costante crescita del progresso scientifico, la contemporaneità continua a essere permeata da ciò che caratterizzava la concezione medievale religiosa associata al male quasi settecento anni fa. Le Chiese continuano infatti a essere rivestite da affreschi relativi a una simbologia strettamente associata alla figura di Lucifero o al peccato originale. Inoltre nelle scuole e, più generale, a livello d’istruzione di base, è inevitabile lo studio di Dante, che con la sua accurata descrizione di inferno, paradiso e purgatorio, ha enormemente condizionato la visione antica e moderna del concetto di male e bene. La filmografia poi, uno degli elementi più associati alla contemporaneità, è colma di riferimenti satanici diretti o indiretti, come sette, esorcismi e rappresentazioni del diavolo di ogni genere; tutti concetti che, nonostante sembrino inseriti in modo pieno nella contemporaneità, risalgono invece a origini antichissime. Ancora oggi infatti la figura del diavolo viene inevitabilmente associata a quella che era la concezione medievale del male, e in questo la religione ha avuto un ruolo primario e fondamentale.

In un contesto laico o religioso che dir si voglia, è pertanto inutile cercare di separare l’idea che oggi abbiamo su Satana, da ciò che la Chiesa e il cattolicesimo hanno involontariamente, ma molto più spesso volontariamente, trasmesso nel corso dei secoli. Ancora ai nostri giorni infatti risulta quasi impossibile citare la figura del diavolo con tutte le sue implicazioni senza accostarsi, con il pensiero o attraverso riferimenti diretti, alla religione. Tutto questo poiché, come abbiamo visto precedentemente, così come la figura di Satana è fortemente influenzata da caratteristiche e tratti relativi al mondo pagano, la nostra contemporaneità è impregnata di concetti cristiani che si rifanno a un’antichissima tradizione, trasmettendoci così una viva cultura popolare legata alla figura del cosiddetto “diavolo” che ha alle sue spalle molto di più di ciò che possiamo vedere a primo impatto attraverso affreschi, film, libri o semplici racconti.


D.A.F. de Sade: Justine o le disavventure della virtù. Un innovativo fabliaux del ‘700 | CM

Chi era il Marquis de Sade

Nato nel 1740, Donatien-Alphonse-François de Sade fu probabilmente uno dei personaggi più discussi e criticati del XVIII secolo. Appartenente a una famiglia dell’antica nobiltà francese, fu signore di Saumane, di La Coste e di Mazan, oltre che conte e marchese. Era infatti il discendente di una delle più antiche dinastie della Provenza, nonchè figlio del conte Jean Baptiste François Joseph de Sade e di Marie Eléonore de Maillé de Carman, nipote di Richelieu e dama di compagnia di Carolina d’Assia-Rotenburg, principessa di Condé.

Nonostante gli svariati titoli e l’agiata condizione da cui proveniva, si guadagnò ben presto una fama tutt’altro che rispettabile, a causa di numerosi crimini commessi tra cui svariati stupri, sodomia, tentativi di avvelenamento, anticlericalismo e depravazione. Infatti, in seguito a svariati momenti di incarcerazione, arrivò persino alla reclusione nella prigione della Bastiglia, perseguitato dal regime monarchico che aveva tanto disprezzato aderendo alla Rivoluzione Francese come nobile rivoluzionario, e lì vi rimase per diversi anni, scrivendo alcune delle sue opere più celebri. Finì la sua vita in carcere dopo un lungo periodo in manicomio, probabilmente a causa dell’eccessivo sadismo, estremamente mal visto dalla società del tempo. Morì nel 1800 per gravi problemi cardiaci e polmonari, da cui era affetto da tempo.

A caratterizzare il suo stile decisamente al di fuori dai canoni del suo tempo contribuiscono un forte spirito rivoluzionario, accompagnato da una ferrea condanna verso ogni forma di potere, come schiavismo, nobiltà, monarchia e persino clericalismo. De Sade condannava inoltre con grande fermezza tutti i tipi tabù e le ferree restrizioni sessuali del suo tempo, venendo etichettato come uno dei massimi esponenti di un estremo libertinismo di fine ‘700. Proprio dal suo nome infatti deriverà la parola “sadismo”, poichè egli stesso era solito appagare i suoi sfrenati desideri sessuali attraverso pratiche estreme e spesso anche dolorose, seducendo donne o ingaggiando prostitute.

“Donatien-Alphonse-Françoia, marchese de Sade, famoso per le sue disgrazie e per il suo genio, che avrà l’onore di illustrare l’antica casata con il più nobile dei titoli, quello delle lettere e del pensiero, e che lascerà ai suoi discendenti un nome veramente insigne.”

Gilbert Lely, “Il profeta dell’erotismo. Vita del marchese de Sade
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Justine: vittima innocente o fautrice del proprio destino?

Una delle massime opere del marchese, nonché la prima di tutte le sue pubblicazioni, fu Justine o le disavventure della virtù, pubblicata nel 1791. Si tratta di un romanzo a sfondo erotico, per questo molto simile ai fabliaux medievali, ma differente nella particolare cura e attenzione rivolta alla psicologia della protagonista, e non solo al mero tema sessuale. Justine, protagonista appunto del racconto, è una nobile fanciulla divenuta orfana e cresciuta in un orfanotrofio con la sorella, la quale possiede una morale completamente opposta alla sua; è infatti scaltra, astuta e manipolatrice, disposta a tutto pur di ottenere fama e ricchezza. Il completo opposto della giovane protagonista, la quale è dotata di una profonda nobiltà d’animo e di alti valori rigidamente legati alla dottrina cattolica.

Tuttavia la sorte dividerà la strada delle due fanciulle e mentre la sorella riuscirà ad effettuare una notevole scalata sociale tra omicidi e adulteri, Justine si ritroverà sempre senza soldi e costantemente nelle mani dei peggiori depravati. L’opera è infatti incentrata, come suggerisce il titolo stesso, sulle disavventure di Justine, la quale, pur essendo sempre accompagnata da una ferrea morale, non riesce in nessun modo a sottrarsi dalle grinfie di uomini dediti alle peggiori perversioni. Le sue vicende sembrano quasi seguire un climax che va costantemente peggiorando negli incontri compiuti dalla ragazza; ogni “mostro” a cui deve sottomettersi sembra essere sempre peggio di quello precedente. Ma allora perché il personaggio di Justine può quasi non sembrare una vittima?

Spesso e volentieri la protagonista in momenti di estrema difficoltà non fa altro che appellarsi alla propria virtù, peggiorando così inevitabilmente le già drammatiche situazioni in cui si trova, senza provare effettivamente a trovare una via di fuga o un modo per ribellarsi. Altre volte invece appare sveglia e risoluta, e in alcuni casi riesce quasi a salvarsi, portando il lettore a tifare per la rivalsa di un personaggio che nella maggior parte dei casi sembra essere perduto per sempre. Ma ovviamente Justine é la protagonista destinata a soccombere e le sventure continuano a perseguitarla, non lasciandola mai del tutto in pace. Il suo è comunque un personaggio molto ben riuscito; quante ragazzine come lei riuscirebbero a perseguire rigidamente una morale così alta senza cercare di ricorrere a qualsiasi losco escamotage pur di risparmiarsi a situazioni tanto drammatiche? Ebbene Jusine ce la fa, e fino alla fine della storia, senza mai abbandonare i devoti insegnamenti cristiani e mantenendo costanti i tratti del suo personaggio. Tuttavia leggendo l’opera una domanda sorge spontanea: Justine, pur essendo una vittima innocente, non è lei la fonte principale di tutti i suoi mali, l’unica vera fautrice del proprio destino?

Lieto fine o dramma senza fine?

Al termine di una serie di sventure che sembrano non finire mai, sorge spontaneo al lettore chiedersi come andrà a finire la storia di questa povera ragazza, e sorge altrettanto spontaneo pensare, o meglio, sperare in un riscatto finale della fanciulla. Ma de Sade non riserva alcuna pietà per la povera Justine. L’opera incarna infatti un perfetto manifesto di pessimismo e corruzione senza fine, e lo stesso de Sade nell’introduzione mostra una ben manifesta irritazione verso i romanzi “classici”, dove il bene e la virtù alla fine trionfano sempre sui mali e sui vizi, regalando ai lettori un perenne, nonchè scontato, lieto fine. Tuttavia, al posto di questo schema classico, qui viene portato sulla scena un modello tutt’altro che “classico”.

“…Una sfortunata errante di disgrazia in disgrazia; giocattolo di ogni scelleratezza; bersaglio di tutti i vizi…”.

Da “Justine o le disavventure della virtù”

Tuttavia, nonostante sembri aprirsi una minuscola luce alla fine di un tunner che pareva infinito, la sorte mette nuovamente i bastoni tra le ruote alla povera Justine senza porre così una fine ai suoi drammi. Sebbene Justine rappresenti una protagonista più che virtuosa nella sua alta moralità, non fa che imbattersi nella peggior specie di individui, per la maggior parte perversi libertini, i quali utilizzano dei sofismi e complicati meccanismi per tentare di convincerla dell’inutilità della sua virtù. Il lieto fine pertanto è del tutto inesistente, così come per la ragazza è inesistente qualsiasi forma di riscatto. Tuttavia non si presenta come un’opera del tutto priva di momenti lieti o di piccole “risalite” in superficie; tali elementi ci sono, ma si tratta inevitabilmente di momentanee illusioni della ragazza, e dunque anche del lettore stesso.

L’erotismo come sfondo

Justine o le disavventure della virtù, nonostante venga etichettato come un romanzo erotico, svela più un dramma personale, che segue appunto meticolosamente tutte le continue sciagure di Justine. Sebbene ci sia una certa insistenza sul tema dell’erotismo, il quale funge da protagonista per ogni evento in cui si imbatte la ragazza, esso rappresenta in realtà solamente uno “sfondo”, una base sulla quale sviluppare le drammatiche vicende che si susseguono lungo la storia.

L’opera è in sé piuttosto cruda, e talvolta anche molto violenta. Tuttavia nonostante ciò in alcuni punti può addirittura risultare lenta e quasi “noiosa”; questo perchè lo scopo principale dell’autore non è quello di trasmettere un qualsiasi romanzo erotico “di piacere”, così come sarebbe stato per ogni fabliaux di epoca medievale, bensì quello di analizzare il più accuratamente possibile l’evoluzione e soprattutto la psicologia della protagonista attraverso una serie di peripezie dalle quali riesce sempre ad uscirne illesa, per poi ricadere nuovamente di volta in volta in una disgrazia ancora peggiore rispetto a quella precedente. Infatti la salda virtù di Justine non cede mai, fedele ai suoi principi, nonostante le disgrazie la perseguitino in un crescendo infinito, tanto che sarà proprio una fine agghiacciante ad attendere la protagonista, che non ha voluto piegarsi alla traviata morale del mondo.

Proprio per tutte queste motivazioni prevalgono lunghe riflessioni della ragazza, monologhi e lunghe narrazioni molto dettagliate rispetto alle sue condizioni psicologiche, piuttosto che fisiche; come ci si potrebbe invece aspettare. L’erotismo è dunque solamente un mezzo narrativo, tipico del “divin marchese”, per poter mostrare il più concretamente possibile qualcosa di molto più profondo, come ad esempio sottolineare quanto la bigotta devozione dell’epoca potesse anche risultare dannosa, se non letale; e Justine ne rappresenta la prova.

L’opera come condanna sociale

Non si tratta pertanto di un’opera leggera e scorrevole, e per molti punti di vista può anche risultare appunto spesso pesante o quasi “noiosa”, ma se si ha un po’ di pazienza e tanta voglia di leggere oltre le righe, si potranno scorgere, oltre ai numerosi riferimenti sessuali, delle profonde riflessioni psicologiche, se non addirittura filosofiche e sociali. De Sade infatti non scrive unicamente per puro diletto; le sue sono spesso e volentieri delle vere e proprie critiche dirette contro i numerosi tabù che rispecchiano la società della sua epoca, le quali vogliono appunto inneggiare a un aperto libertinismo che in realtà molti praticavano, seppur velatamente, ma nessuno aveva davvero il coraggio di declamare.

Egli rappresenta infatti l’altra faccia di una società bigotta e corrotta com’era quella del ‘700, e incarna la ribellione e la condanna nei confronti di questa società, la quale gli ha unicamente procurato il carcere e il manicomio. De Sade pertanto non utilizza la sessualità come mezzo letterario di piacere, bensì come vero e proprio strumento di condanna sociale verso tale comunità tanto rivolta al perbenismo, quanto alla comune pratica di “nascondere tutto il marcio sotto un semplice tappeto”. Questo emerge duramente nelle sue opere.

«Questi sono i sentimenti che dirigeranno il mio lavoro, ed è in considerazioni di questi motivi che chiedo indulgenza al lettore per i filosofemi erronei che sono messi in bocca a più di un personaggio, e per le situazioni talvolta un po’ forti che, per amore della verità, ho ritenuto di mettere sotto i suoi occhi ».

Da “Justine o le disavventure della virtù”

L’ascesa politica di Cesare: da miles a dictator | CM

L’Impero romano nel I secolo a.C.

Durante il corso del I secolo a.C. l’Impero romano era sulla via di un successo senza precedenti, in quanto reduce dagli immensi trionfi ottenuti grazie alle vittorie conseguite durante le tre guerre puniche, le quali Roma poterono garantire a Roma un’ingente quantità di oro e ricchezze. Tuttavia l’Urbs, nonostante l’evidente condizione di splendore e ricchezza in cui si trovava, era all’epoca teatro di innumerevoli giochi di potere per il controllo del quadro politico della Repubblica e, sempre in questi anni, assisteva tacita alla lotta intestina tra due importanti ceti sociali: gli optimates, fazione più conservatrice e favorevole all’aristocrazia, e i populares, sostenitori delle istanze popolari nonchè “base” dell’autorità dei Tribuni della Plebe. Pertanto continue tensioni sociali e violenti scontri armati erano all’ordine del giorno, come il celebre conflitto tra Clodio (fazione dei populares) e Milone (fazione degli optimates).

In questo clima estremo di avversità, rivolte e scandali, a Roma spicca un uomo che avrà un ruolo tutt’altro che indifferente negli equilibri politici e sociali dell’Urbe. Tale personaggio era, come il padre, un accanito sostenitore del celebre condottiero Gaio Mario (157-86 a.C.), militare e politico romano, eletto per sette volte consecutive console della Repubblica, nonchè abile riformatore per quanto riguarda la leva militare e l’esercito, oltrechè Tribuno della Plebe. Apparteneva infatti anch’egli alla fazione dei populares e rappresenterà uno dei massimi esempi da seguire per il protagonista di questa vicenda, destinato a ribaltare per sempre la scena storica e politica di quello che sarà il più glorioso impero che il mondo antico abbia mai conosciuto. Quest’uomo compie una delle sue prime apparizioni in una piccola casa popolare nella Suburra romana, uno dei quartieri più malfamati di tutta Roma.

Gaio Giulio Cesare - Wikipedia

L’entrata cesariana in politica

Gaio Giulio Cesare nasce il 12 Luglio del 100 a.C., figlio del pretore e senatore Gaio Giulio Cesare e della nota matrona appartenente alla gens Aurelii, Aurelia Cotta. Egli pertanto apparteneva per discendenza all’illustrissima gens Julia, così chiamata perchè direttamente originata da Julo, il figlio di Enea e, stando a quanto viene riportato da miti e leggende, della dea Venere. Apparteneva dunque a una genealogia che potremmo definire “divina”. Cesare divenne fin da subito un personaggio molto popolare a Roma, schierandosi come lo zio Gaio Mario al fianco della factiones dei populares, nonostante provenisse da una nobile famiglia, e crebbe in una situazione di tensioni e fazioni contrapposte. Tutti questi elementi contribuirono con ottime probabilità a sviluppare il suo carisma e la sua marcata intraprendenza non solo in campo politico, ma anche militare.

Cesare infatti trascorse la sua gioventù sotto la spietata dittatura esercitata da Silla (colui che aveva precedentemente sconfitto Gaio Mario), il quale non perdeva occasioni per lanciare “frecciatine” al ragazzo sulla sua eccessiva effeminatezza. Per queste ragioni egli non si sentiva al sicuro nel rimanere a Roma, e decise pertanto di partire volontario verso l’Asia dove, sotto al comando del propretore Marco Minucio Termo, partecipò direttamente nella guerra contro Mitridate VI del Ponto, insorto ancora una volta contro Roma. Questa fu probabilmente una delle prime vicende che permisero a Cesare si distinguersi militarmente. Egli infatti nell’assedio di Mitilene ottenne anche la corona civica, una delle ricompense militari più importanti, concessa come premio solamente a chi salvava cittadini romani in battaglia.

Tuttavia, ciò che maggiormente gravava sullo status di Cesare, erano gli ingenti debiti nei quali si ritrovava da tempo. Infatti, sebbene la sua famiglia avesse origini aristocratiche di un certo livello, non era affatto ricca per gli standard della nobiltà romana, e questo certamente lo motivò ad avvicinarsi rapidamente a illustri e abbienti personaggi che potessero aiutarlo, come Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso (entrambi consoli nel 70 a.C.). Egli riuscì infatti ad avviare la sua celebre carriera politica grazie al sostegno di questi due rinomati cittadini e uomini politici. Schierato appunto con i populares e dotato di un eccelso carisma, riuscì rapidamente a convincere la Repubblica riguardo l’urgente bisogno di riforme radicali, che per essere realizzate necessitavano di un forte potere pubblico al comando, capace di superare le ricchezze e il grande potere degli ottimati.

Il suo percorso politico-militare inizia, come precedentemente citato, in Asia, dove prese parte alla guerra contro Mitridate VI del Ponto, combattendo nella provincia orientale e arruolando navi e milizie ausiliarie. Nel 73 a.C., mentre si trovava ancora a Oriente, venne eletto nel collegio dei pontefici. Una volta tornato a Roma, nel 72 a.C., Cesare fu anche eletto tribuno militare, risultando persino il primo degli eletti. I suoi rapporti erano particolarmente stretti con Crasso, il quale lo aiutò più volte a finanziare le sue campagne elettorali e a estinguere i suoi numerosi debiti, fino a quando venne non eletto questore nel 69 a.C., un anno dopo il consolato di Pompeo e Crasso. Un ulteriore evento particolarmente significativo fu la sua elezione, nel 65 a.C., a edile curule, carica che lo portò a diventare in modo più che definitivo come il nuovo e massimo leader del movimento popolare.

Tuttavia l’apice della sua carriera politica è da ricollegarsi a un celebre evento che toccò profondamente la storia di Roma del I secolo a.C., ovvero il primo triumvirato. Nel 60 a.C. Cesare infatti stipulò, di comune accordo insieme a Crasso e Pompeo (i maggiori capi politici del tempo), un accordo privato e segreto che, pur non trattandosi di una vera e propria magistratura ma per la notevole influenza dei firmatari, ebbe poi grandissime ripercussioni sulla vita politica e sociale dell’epoca, dettandone gli sviluppi per quasi dieci anni. Gli accordi nati da tale alleanza, fissati a Lucca, prevedevano il proconsolato di Cesare in Gallia e nell’Illirico con il relativo comando di quattro legioni, l’affidamento di Africa e Spagna a Pompeo e infine la provincia di Siria e l’ambita campagna contro i Parti per Crasso che, non avendo ancora conseguito glorie militari, mirava a eguagliare il successo dei compagni. Spartiti i territori e affidati i relativi comandi, Cesare era pronto a lasciare la Repubblica.

Cesare in Gallia: l’ascesa militare

Nel 59 a.C., a un anno dalla stipulazione del triumvirato, Cesare avrebbe dovuto ottenere il consolato, una delle più alte cariche del cursus honorum romano, carica che riuscì a raggiungere grazie all’appoggio di Pompeo e al cospicuo finanziamento di Crasso. Per consolidare ulteriormente questa triplice alleanza, nello stesso anno Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare. Pertanto, grazie alla lex Vatinia, nel 58 a.C. Cesare era finalmente partito, dopo aver ottenuto il proconsolato dell’Illirico (si trattava di una regione dislocata, in cui Cesare si sarebbe voluto recare per accrescere il suo successo militare direttamente sul campo di battaglia) e della Gallia Narbonense (a seguito della morte del precedente proconsole morto all’improvviso, Quinto Cecilio Metello Celere) e Cisalpina per ben cinque anni. Sebbene si trattasse di province nettamente inferiori rispetto alle eccelse conquiste orientali dell’Impero, riuscì ugualmente a operare una serie interminabile di sconfitte tra le popolazioni celtiche, compresi Elvezi, Aquitani, Veneti, Belgi e Svevi.

Tuttavia, più aumentava il potere di Cesare e più cresceva l’inevitabile timore di Pompeo a Roma, per il fatidico momento in cui il suo ormai temuto avversario delle Gallie sarebbe dovuto rientrare in patria. Cesare sarebbe infatti stato certamente acclamato dai numerosi populares di cui era a capo per i suoi molteplici successi militari e per aver inoltre portato il numero delle sue legioni a dieci, un dato non indifferente, simbolo del nuovo potere e prestigio che stava acquisendo. Nel frattempo il triumvirato si stava lentamente sgretolando e, intorno al 53 a.C. Crasso, privo di adeguate esperienze militari, era stato sconfitto nella battaglia di Carre, aveva perso le insegne romane (immane disonore per un comandante romano) ed era stato ucciso dai Parti. Cesare e Pompeo erano ora dunque i padroni indiscussi della scena politica romana.

Le Radici Degli Alberi: LE GALLIE!

Intorno all’anno 50-49 a.C., il carismatico condottiero Gaio Giulio Cesare aveva infatti ormai conquistato quasi tutta la Gallia (territorio comprendente oggi Francia e particolari zone di confine tra Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e nord Italia. Compì inoltre numerose incursioni in Britannia e in Germania) ed era di ritorno da una campagna militare durata quasi dieci anni che lo aveva visto coinvolto in numerose vittorie, come la battaglia di Alesia, e indiscutibili successi, tra cui la sconfitta del grande condottiero Vercingetorige. Tuttavia, le imprese svoltesi in Gallia non furono affatto una passeggiata per Cesare e le sue truppe, poiché i galli opposero una strenua resistenza, sconfiggendo anche i romani in molteplici occasioni; si trattava di popolazioni fiere e bellicose, che difficilmente accettarono una resa pacifica. La lotta contro i galli rappresentò infatti un’enorme sfida militare, che rese evidente il motivo per cui l’esercito romano fu il più potente ed efficace dell’antichità.

Le ricchezze, la gloria e la fiducia di un esercito che lo ammirava e rispettava per il suo grande carisma, erano solo alcuni dei principali obbiettivi che Cesare si era prefissato per poter contrastare a Roma il crescente potere politico di Pompeo. La sua inimitabile leadership fu certamente una delle chiavi del trionfo romano in Gallia, poichè lo stesso Cesare riuscì a spingere più volte il suo esercito a compiere imprese che per altri generali sarebbero state inaccettabili, come le due spedizioni dirette verso l’Isola della Britannia. Inoltre Cesare sapeva che il risultato finale delle sue campagne dipendeva in primo luogo dalle sue truppe, per questo motivo questo s’impose come un eccellente motivatore, capace di far sì che i suoi uomini si dedicassero interamente a qualsiasi impegno. A contribuire ad accrescere il suo enorme successo militare furono anche l’aggressività e la velocità con cui condusse le sue numerose campagne.

La “tensione” politica a Roma: Pompeo e il senato

Tuttavia Crasso era ormai uscito dalla scena politica, determinando così il definitivo scioglimento del triumvirato, e Pompeo, nettamente più avanti con gli anni rispetto al giovane conquistatore delle Gallie, aveva ottime ragioni per temere il crescente successo e carisma di Cesare a Roma. Pompeo infatti, sebbene avesse da poco ottenuto la carica di proconsole in Spagna, si trovava ancora a Roma e, nel 52 a.C., venne eletto dal senato consule sine collega (ovvero “console senza collega”). Tuttavia Cesare possedeva un grande numero di legioni a lui ciecamente fedeli, le quali a loro volta non facevano altro che accrescere la sua già elevatissima ambizione bellica e politica. La situazione a Roma era pertanto molto tesa e la guerra civile quasi inevitabile; il casus belli infatti non tardò molto ad arrivare.

Il senato infatti era estremamente preoccupato per gli innumerevoli successi conseguiti da Cesare, il cui mandato in Gallia stava ormai per giungere al termine. Pompeo e il senato infatti, da tempo alleati contro l’imminente pericolo, stavano dunque disperatamente tentando di tenere le redini di un contesto politico in pieno fermento, quando giunse la notizia che Cesare avrebbe voluto, una volta rientrato in patria, candidarsi per il consolato. Tale carica era infatti tra le più ambite del cursus honorum romano, poiché garantiva l’immunità e, dato il crescente numero di sostenitori cesariani, sarebbe quasi certamente riuscito a ottenerla. Tuttavia Pompeo, per colpirlo nel vivo, in piena alleanza con il senato che temeva anch’esso la sua ascesa, promulgò una legge che non gli avrebbe permesso di candidarsi, se non da privato cittadino. Questo avrebbe significato per lui entrare a Roma senza l’esercito al seguito, in balia di un uomo che aveva il pieno potere sulla Repubblica e il completo appoggio dei senatori romani.

La trappola escogitata con l’aiuto dei senatori si sarebbe dunque inevitabilmente conclusa con l’arresto di Cesare e la sua definitiva eliminazione dalla scena politica, garantendo così l’esclusivo consolato a Pompeo, che si sarebbe poi tradotto in una dittatura. Cesare accettò dunque di tornare nell’Urbe senza le sue truppe, a patto che Pompeo accettasse di sciogliere il suo di esercito e tutte le sue truppe. Data la precarietà e la pericolosità della situazione, poichè Cesare pur senza l’appoggio delle sue truppe avrebbe comunque avuto un enorme sostegno popolare (l’opinione pubblica era molto importante, poichè costituiva la stragrande maggioranza della popolazione, e le rivolte erano all’ordine del giorno), Pompeo e il senato non accettarono in nessuna maniera possibile l’ultimatum del generale.

Tuttavia il senato, con la scusa di dover proteggere la Siria dai continui attacchi dei Parti, richiese che fossero aggiunte due legioni alla provincia orientale; Pompeo a questo punto non esitò a richiedere a Cesare le due legioni che, nel 53 a.C., gli aveva concesso in prestito per la sua impresa in Gallia. Cesare pertanto fu costretto a piegarsi a tali richieste, rinunciando così a due delle sue legioni. Fu solo a questo punto che il generale delle Gallie si rese conto che il conflitto era inevitabile e si recò allora con la XIII legione a Ravenna dove fu da quest’ultima acclamato imperator. A questo punto Cesare era completamente esposto e sul punto di diventare ufficialmente un nemico della res publica.

L’attraversamento del Rubicone e la guerra civile romana

La situazione, già gravemente incerta prima, si trovava ora a un bivio: Cesare avrebbe infatti potuto congedare l’esercito, scelta di per sè estremamente pericolosa essendo lui pienamente consapevole delle forze politiche e militari che possedevano Pompeo e il senato, o ribellarsi completamente alle imposizioni di Pompeo e senatori, preparando così le legioni in modo da poter oltrepassare il più importante confine politico della penisola italica, il fiume Rubicone. Tale fiume, pur non vantando notevoli dimensioni, rappresentava un limite inviolabile e attraversarlo in armi significava per i generali romani una vera e propria violazione delle leggi, oltrechè una sfacciata sfida posta nei confronti l’Urbe. Il Rubicone infatti segnò per un breve periodo (tra il 59 a.C. e il 42 a.C.) il “sacro” confine tra l’Italia, considerata come una parte integrante del territorio di Roma, e la provincia non da molto annessa della Gallia Cisalpina. Risultava pertanto severamente vietato a tutti i generali romani attraversarlo con l’esercito in armi.

Rubicone - Wikipedia

Ma l’ambizione e la salda tenacia di Cesare non si sarebbero arrestate, infatti l’ultimo disperato tentativo del senato (il 7 Gennaio) di arrestare la sua avanzata, si tradusse in un estremo ultimatum che gli intimava severamente di restituire l’intero comando militare, ultimatum a cui Cesare non cedette mai. Pochi giorni dopo infatti, il 10 Gennaio del 49 a.C., prese una decisione che avrebbe cambiato per sempre il corso degli eventi storici, politici e sociali di Roma e, armate le truppe, scelse di attraversare il fiume presentandosi nella città armato e prossimo a sfidare Pompeo in una guerra civile che si sarebbe inevitabilmente scatenata da tale gesto. Cesare riuscì a entrare a Roma senza incontrare alcun tipo di resistenza, e tale guerra (49-45 a.C.) non tardò ad arrivare. Pompeo venne colto totalmente alla sprovvista, e si ritrovò costretto a fuggire il più rapidamente possibile da Roma, rifugiandosi in Macedonia, dove sperava di radunare un vasto esercito da contrapporre a Cesare.

La guerra civile romana vede Cesare come protagonista indiscusso accrescere senza fine il suo potere politico e militare in pochissimo tempo. Lo stesso anno infatti, sempre nel 49 a.C., Cesare riuscì a conquistare interamente la penisola italiana e a sbaragliare in Spagna tutte le legioni ancora fedeli a Pompeo. Un anno dopo poi, nel 48 a.C., ottenne la nomina di console e partì verso la Grecia, dove, in Tessaglia, precisamente a Farsalo, sconfisse clamorosamente l’esercito di Pompeo, che si rifugiò in Egitto presso il faraone Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra, il quale lo fece assassinare a tradimento. Figli e seguaci di Pompero proseguirono ancora per qualche anno il conflitto contro Cesare fino a quando, nel 45 a.C., i pompeiani supersiti guidati da Sesto Pompeo (comandante militare e figlio di Pompeo) vennero sbaragliati definitivamente a Munda, in territorio spagnolo.

Pertanto, il termine della guerra civile romana rappresenta un momento fondamentale sia per la storia romana che per la carriera politica e militare di Cesare. Egli a questo punto potè infatti ritornare a Roma indisturbato e praticamente privo di nemici che tentassero di ostacolare le sue ambizioni, ottenendo così la carica di dictator vitae (ovvero “dittatore a vita”). Tale carica rappresentava una figura caratteristica dell’assetto della costituzione della Repubblica romana, poichè garantiva un potere assoluto e non poteva essere controllato da nessuna istituzione o magistratura. Poteva inoltre sospendere tutti gli altri magistrati forniti di imperium o conservarli nel loro ufficio, ma essi sarebbero stati sempre e comunque subordinati a lui. In origine veniva scelto unicamente dai patrizi e, solo a partire dal 356 a.C., la dittatura fu accessibile anche ai plebei. In conclusione, quella di Cesare potrebbe essere riassunta come una vera e propria ascesa politica, poichè egli, partito come semplice miles (il miles nell’antica Roma era il soldato semplice, colui che non possedendo un cavallo doveva spostarsi unicamente a piedi), riuscì in poco tempo a raggiungere la più alta e riconosciuta carica di tutta la Repubblica, quella appunto di dictator.

La peste di Atene: Tucidide tra scienza e pathos | CM

Introduzione al tema della peste

Ormai da decenni la peste rappresenta nell’immaginario collettivo una terribile visione di morte tipica del periodo tardo-medievale; ma non è sempre stato così. Dipinti, racconti, poesie e persino leggende si sono succeduti per tentare di rappresentare un male considerato spesso divino e quindi inspiegabile agli occhi dell’uomo, un male che in varie epoche non ha mai lasciato scampo e sul quale si sono ripetutamente interrogati i più autorevoli medici, autori, maestri e filosofi del tempo.

Nel corso dei secoli infatti gravi pestilenze si sono abbattute su tutto il vecchio continente, in epoche e luoghi assai differenti. Una delle più disastrose epidemie di peste della storia si è manifestata nell’Atene classica, intorno al V secolo a.C., durante un periodo storico a dir poco travagliato per la storia della Grecia: la Guerra del Peloponneso” (431-404 a.C.).

L’opera tucididea e il conflitto tra Atene e Sparta

Narratore di questi eventi è appunto uno dei più grandi storici dell’epoca, Tucidide, vissuto tra il V ed il IV secolo a.C., fautore di un’opera che porterà con sé fonti ed elementi storici di grandissimo rilievo: “La Guerra del Peloponneso“. La celebre opera, suddivisa in otto libri, offre anche uno spunto essenziale per ricavare accurate riflessioni su quello che oggi definiamo un “metodo storico” scrupoloso, quasi scientifico, basato cioè su fonti certe e attendibili, di cui Tucidide viene considerato padre e fondatore. Su tale base l’autore sceglie di introdurre la narrazione in questo modo:

Giacché gli avvenimenti precedenti alla guerra e quelli ancora più antichi erano
impossibili a investigarsi perfettamente per via del gran tempo trascorso e, a giudicar dalle prove che esaminando molto indietro nel passato mi capita di riconoscere come attendibili, non li considero importanti né dal punto di vista militare né per il resto.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (1,3, libro I)

Trattandosi di un testo prettamente storico prevalgono ovviamente numerosi riferimenti diretti alla “Guerra del Peloponneso”, tra cui strategie belliche e scelte politiche, per la partecipazione attiva di Tucidide come testimone oculare, il quale combatté in prima persona come stratega venendo poi esiliato a causa di un grave e imperdonabile fallimento. Si tratta di un conflitto senza precedenti, scoppiato tra il 431 e il 404 a.C., rivolto unicamente contro la fiorente città di Atene.

Tra le cause secondarie e il casus belli principale bisogna però considerare la situazione di tutta la Grecia, ormai esausta a per gli ingenti tributi a cui era sottoposta e per le vessazioni imposte dal duro imperialismo egemonico ateniese. Tuttavia, nonostante Atene dominasse il mare con una potentissima flotta, Sparta riuscì a invadere l’Attica con un grande esercito, costringendo gran parte della popolazione a cercare rifugio all’interno delle grandi mura del Pireo, il porto ateniese. Fu proprio in quella tragica situazione di sovraffollamento che scoppiò l’epidemia, aggravata ancor più da un clima torrido e da condizioni igieniche pessime e precarie. Tucidide si sofferma poi su tre celebri discorsi relativi al conflitto tenuti da Pericle, personaggio fondamentale per le vicende storiche e politiche dell’Atene classica, morto anch’egli a causa del morbo.

Per ultimo, ma non per importanza, l’autore all’interno del II libro oltre a narrare le vicende belliche dedica un ampio excursus storico riferito all’epidemia che devastò Atene tra il 430 e il 427 a.C. contemporaneamente alla guerra, già di per sé estremamente rovinosa per le sorti del conflitto e della città. Si tratta pertanto di un’opera completa, storicamente e politicamente, soprattutto per l’attenzione rivolta ai dettagli e l’accuratezza mostrata verso i principali fatti storici narrati. Tuttavia a rendere Tucidide un maestro del “metodo storico” non è solamente un testo basato su indizi sicuri e veridicità storiche (fondate cioè su fatti realmente accaduti), ma la sua acuta capacità di descrizione nei confronti di eventi estranei a vicende storiche degne di nota, come la pestilenza.

La peste dal punto di vista medico, scientifico e umano

Tucidide dedica un lungo paragrafo al tema dell’epidemia ateniese, nel quale sceglie di soffermarsi non sull’evento storico in sé, quanto più sul tema della pestilenza a livello scientifico e umanitario. Scopo principale dell’autore è infatti narrare e documentare, ovvero mettere in guardia il lettore nei confronti di una storia che non è mai totalmente magistra vitae ma piuttosto pessimistica, da cui l’uomo non impara mai veramente e di cui non è l’unico protagonista delle vicende, ma vi partecipa attivamente insieme a epidemie, carestie, eclissi e terremoti; elementi mai trascurati nonostante le narrazioni di Tucidide abbiano un carattere prettamente storico.

La storia di Tucidide andrebbe perciò “ammaestrata” in modo da permettere all’uomo di non ripetere gli stessi errori del passato. Tuttavia tale insegnamento è molto relativo, poiché questi errori vengono con estrema facilità ciclicamente ripetuti, nonostante Tucidide cerchi di trasmettere come combatterli. La peste rappresenta infatti la grande occasione tucididea per attuare il suo “metodo storico”. Essa viene descritta in modo scientifico e razionale per comprenderla e conoscerla al meglio anche dal punto di vista umano, oltre che ovviamente medico. Nel descrivere la tremenda malattia, fino ad allora sconosciuta agli ateniesi, Tucidide si sofferma sul momento iniziale del morbo: le cause, i sintomi, i morti e la reazione dei medici di fronte a un male totalmente ignoto; ed erano proprio i medici a morire per primi, a causa della necessaria vicinanza con i pazienti.

Né i medici erano di aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta, ma anzi loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si
avvicinavano ai malati; né serviva nessun’altra arte umana.”

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (47,4, libro II)


Giunge poi a una descrizione fortemente umanitaria e ricca di pathos, nella quale evidenzia le principali reazioni umane, tra le quali spiccano paura, sgomento, solitudine e scoraggiamento. Uno degli scopi principali dell’autore è inoltre riportarci vari eventi quotidiani, per sottolineare come vennero completamente sconvolti dal morbo, tra i quali troviamo: numerosi furti per lo spopolamento delle case a causa della malattia, non più solenni funerali singoli ma roghi comuni per sbarazzarsi dei cadaveri, sempre più persone ammassate nei templi per riversare lo sgomento generale sulle preghiere e affidarsi agli dei, e infine varie congetture con lo scopo di dare un senso a questo male sconosciuto, come l’accusa verso i peloponnesiaci di aver avvelenato i pozzi.

Nella città di Atene piombò improvvisamente, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; e così tra essi si disse anche che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là infatti non c’erano ancora fontane. Poi arrivò anche nella città alta, e da allora i morti aumentarono di molto.”

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (48,2, libro II)

Nonostante il morbo sia stato catalogato per lunghissimo tempo come una vera e propria pestilenza, oggi esperti e studiosi pensano in realtà che si trattasse di un altro tipo di malattia, e che più probabilmente fosse una sorta di vaiolo o di febbre tifoide, per i sintomi violenti e immediati che procurava in un tempo brevissimo (rispetto a come sarebbe stato per una comune epidemia di peste).

Gli altri invece, senza nessuna causa apparente, mentre erano sani improvvisamente
venivano presi da violente vampate di calore alla testa e da arrossamenti e infiammazioni agli occhi, e tra le parti interne la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da una forte tosse. E quando si fissava nello stomaco, lo sconvolgeva, e ne risultavano vomiti di bile di tutti i generi nominati dai medici, e questi erano accompagnati da una grande sofferenza.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (49, 2-3, libro II)

Tuttavia essa ebbe tutte le caratteristiche proprie di qualsiasi epidemia della storia, riuscendo ad abbattere psicologicamente l’umore e la quotidianità delle persone, e provocando migliaia di morti; forse addirittura arrivò a dimezzare la popolazione ateniese, cifre per l’epoca davvero esorbitanti, di cui Tucidide stesso si rese conto, riportando puntualmente lo sgomento che vigeva in quel tempo.

Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al male, fosse robusto o
debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati con ogni genere di dieta. Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoraggiamento quando uno si accorgeva di essere ammalato (poiché i malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano), e il fatto che per aver preso la malattia uno dall’altro mentre si curavano, morivano come pecore: questo provocava il maggior numero di morti.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (51,4, libro II)

La peste di Atene nel 430 a.C. - Studia Rapido

L’importanza dei comportamenti umani nel corso della storia

Attraverso una digressione tanto struggente Tucidide dimostra ancora una volta che la storia non è riassumibile in un muto susseguirsi di vicende più o meno rilevanti, ma va invece rappresentata e studiata anche attraverso le reazioni umane. Pertanto assumono un ruolo di assoluto rilievo la psicologia, i comportamenti degli uomini e le azioni quotidiane in relazione a tali fenomeni tanto significativi per lo studio della storia.

Tucidide sceglie di esporre molto dettagliatamente la pestilenza proprio per l’effetto che quest’ultima ebbe sull’animo degli uomini, e non per come influenzò l’andamento degli eventi storici futuri. In una critica situazione di guerra il sopraggiungere di un’epidemia portò gli ateniesi al limite della sopportazione, rendendoli capaci di azioni ignobili e disumane, e questo l’autore lo esprime con una grande cura verso i dettagli.

A regnare è infatti l’“anomia”, ovvero la più totale assenza di leggi, che porterà inevitabilmente a una situazione di disordine e anarchia in cui gli individui cercano disperatamente di sopravvivere aggrappandosi ai propri istinti senza più alcuna inibizione. Attenendosi perciò strettamente al suo ruolo di storico Tucidide si mostra come testimone diretto dell’evento e ce lo riporta privandosi di ogni possibile elemento etico o morale, con il solo e unico scopo di informare e documentare i posteri riguardo l’andamento della storia e di come essa possa interagire con la labile natura umana. E, proprio come scrive l’autore: Atene fu distrutta dalla paura della peste, non dalla peste. Si tratta certo di uno squarcio raccapricciante, incapace di infondere sicurezza e perciò ancor oggi perfettamente in grado di suggestionare qualsiasi lettore moderno.

La peste di ieri e la peste di oggi

Il tema della pestilenza rappresenta ormai da secoli una delle più grandi occasioni per parlare di storia, scienza e medicina allo stesso tempo. Autori, poeti, scrittori e persino pittori e scultori si sono destreggiati su questo tema cercando di mostrare nel miglior modo possibile gli effetti del male, come esso influisce sulla psicologia umana e come viene affrontato in base alle diverse epoche storiche. L’idea di un morbo che esplode all’improvviso scatenando il panico e l’incertezza verso cure e guarigioni introvabili garantisce ancor oggi una fonte tragica sulla quale poter costruire grandi narrazioni storiche ma anche possibili racconti di fantasia.

La tragicità causata da morte e distruzione rappresenta anche un’occasione per evidenziare gli effetti della malattia sul corpo umano, a livello quindi medico/scientifico, ma porta spesso e soprattutto a profonde riflessioni di tipo religioso/divino, poiché l’uomo da sempre necessita di un elemento superiore a cui appoggiarsi in caso di estremo pessimismo. Si tratta pertanto di un tema largamente discusso ancor oggi, in grado di scatenare ferventi discussioni e, ma anche capace di lasciare un enorme fascino nella letteratura e nella storia di tutti i tempi.