Hatshepsut : “figlia del re, sorella del re, sposa di Dio, grande sposa reale”

“Colei che Amun abbraccia, Hatshepsut, è il nome di questa mia figlia. Ella avrà un regno eccelso su questa terra. Sua la mia anima! Suo il mio scettro! Suo il mio prestigio! Sua la mia corona! Affinché regni sui Due Paesi e comandi tutti i viventi.”

Il cinquantaquattrenne regno del faraone Thutmosis III ebbe inizio sotto alla reggenza di Hatshepsut, sua zia nonché matrigna, ricordata come la “prima” donna faraone della storia; unica figlia di Thutmosis I e della sua Grande Sposa Reale, fu da egli addestrata a regnare.

Busto di Hatshepsut

Nelle iscrizioni Hatshepsut non è descritta solo come sposa divina, sulle iscrizioni il suo nome appare seguito da “Maatkara“, ossia il suo prenomen; “Hatshepsut, la prima dei nobili, verità-giustizia è l’anima del sole”. Una volta preso il trono e dopo essersi immedesimata nella figura di un vero e proprio  faraone, poté affidarsi ad un solo precedente modello femminile: Sobekkara Sobekneferu (meglio nota come Nefrusobek), figlia di Amenemhat III, la quale regnò alla fine della dodicesima dinastia. Dopo la morte del fratello Amenemhat IV prese la reggenza del trono per poco meno di quattro anni, chiudendo il Medio Regno, il quale fu succeduto dal tanto noto quanto confuso “secondo periodo intermedio”. Non ci sono attestazioni di una sua co-reggenza con il fratello,  pare che ella riuscì ad imporsi come sovrana dopo la morte di quest’ultimo e fu designata come Faraone. Destino volle che il suo regno fosse breve e turbolento fin dall’inizio, Hatshepsut invece ereditò un Egitto ricco e potente, nel pieno della sua ricchezza e del suo splendore.

” King’s daughter, King’s sister, God’s wife, great royal wife Hatshepsut”

La figlia primogenita di Hatshepsut fu Neferura, avuta con Thutmosis II (suo fratellastro, figlio di Thutmosis I e di una sposa secondaria) la figlia dei due è nota sulle attestazioni come “moglie del Dio”, quindi probabilmente fu sposa reale di Thutmosis III, figliastro di Hatshepsut; quest’ultima fu incaricata reggente di Thutmosis III, ancora troppo piccolo per occuparsi dell’Egitto autonomamente e per assolvere al compito a lui designato; proprio durante questa co-reggenza egli risulta sposato con Neferura.  Quest’ultima morì giovane e svanì dalle attestazioni, il regno di sua madre subì un duro colpo. 

Tempio funerario di Hatshepsut – Deir el Bahri

Come regnante, Hatshepsut intraprese un grande progetto di costruzione, espandendo i siti utilizzati da Thutmosis I e II prima di lei: Kom Ombo, Hierakompolis, Elefantina sono solo alcuni di questi, sia lei sia Thutmosis III hanno lasciato molti resti anche in Nubia ma il luogo che ricevette maggiori attenzioni da parte della regina fu senza dubbio Tebe; il tempio di Karnak crebbe in bellezza sotto la sua supervisione.

“Ed ecco, io ero seduta nel mio palazzo e pensavo a colui che mi aveva creata. E il mio cuore mi indusse a fare per lui due obelischi in oro fino, i cui pyramidion si confondono col cielo.”
Hatshepsut

In quanto regnante, Hatshepsut fu sepolta nella Valle dei Re (KV20) la quale inizialmente fu costruita per Thutmosis I e successivamente da lei modificata per poter riposare accanto al padre: la KV20 fu ampliata, venne aggiunta una camera sepolcrale ed il faraone fu spostato in un sarcofago inizialmente creato per la figlia.

Sarcofago in origine creato per Hatshepsut ma in cui fu sepolto suo padre Thutmosis I

Durante il regno del nipote Thutmosis III, il faraone fu traslato in una nuova tomba, la KV38, con un nuovo corredo funerario, e si suppone avvenne contemporaneamente lo spostamento di Hatshepsut nella KV60: anche se solo inizialmente, pare quindi che il desiderio della regina di essere sepolta accanto a suo padre fu esaudito.

A Deir el Bahri, nella necropoli tebana, fu portato alla luce un sito adibito a nascondiglio (DB320, una cachette reale, nella quale vennero ritrovate più di 50 mummie di sovrani, regine, dignitari e numerosi oggetti facenti parte dei loro corredi funerari) nel quale erano conservati anche resti del corredo di Hatshepsut, tra cui uno scrigno per vasi canopi contenente una milza (o fegato) ed un molare con solo parte di radice.

La mummia di Hatshepsut,  vide la luce nel 1903 su scoperta di Howard Carter, il quale la trovò accanto ad un’altra donna, identificata come la sua balia, Sitra, già in origine occupante della KV60. Non ne fu confermato il riconoscimento fino al 2007, anno in cui il Dr. Zahi Hawass con un’attenta osservazione, ricerca e confronto dei ritrovamenti, notò un particolare: il molare presente nello scrigno trovato nella cachette reale era perfettamente compatibile con la dentatura della mummia nella KV60, la quale presentava un dente mancante e la radice ancora inserita nella gengiva.

Da non tralasciare fu la fine che fece questa potente e carismatica regina: dopo la sua morte (probabilmente avvenuta per cause naturali, forse per malattia, in correlazione all’abuso di una pomata per la pelle con ingredienti cancerogeni) subì la Damnatio Memoriae: condannata all’oblio, gran parte delle sue opere andarono distrutte o deturpate, si tentò perfino di murare il suo obelisco a Karnak (il secondo obelisco più alto del mondo, più di 29 metri, pesante circa 323 tonnellate) il suo nome fu rimosso dalle iscrizioni lasciandone solo il contorno dei cartigli. Ma allora, come mai abbiamo tanti reperti ed una così ricca documentazione su di lei? E chi fu ad infliggerle una tale sorte? Fu Thutmosis III, a causa dell’usurpazione del suo trono per oltre un ventennio? O fu colpa di Amenhotep II (figlio di Thutmosis III e della sposa minore Merira Hatshepsut) a causa dell’incertezza del suo diritto a regnare, non essendo figlio di una Grande Sposa Reale? Sappiamo che egli, dopo esser salito al trono, non lasciò liste di nomi delle sue spose. Non conosciamo l’identità della sua “grande sposa reale” e, ritenendo che le donne sotto tale carica avessero raggiunto troppa influenza, ne depotenziò la carica.

Raro cartiglio intatto di Hatshepsut

I dati sono incerti: entrambi avevano le loro motivazioni, non c’è dubbio che la distruzione dei documenti cominciò durante il regno di Thutmosis III così come non c’è dubbio che Amenhotep II fu un grande promotore della Damnatio Memoriae inflitta ad Hatshepsut.

È curioso però pensare che Thutmosis III, uno dei più grandi Faraoni della storia, ricordato come grande guerriero imbattuto, nonché grande personalità di spicco e di successo in numerosi ambiti, avesse permesso ad Hatshepsut di usurpargli il trono per oltre un ventennio senza fare nulla in proposito, senza alcun colpo di stato, “vendicandosi” semplicemente infliggendole una Damnatio Memoriae… (mal fatta, per giunta!) la quale dà l’impressione che non se ne volesse cancellare del tutto il ricordo.

“A king she would be, and a king’s fate she shared.”
-Howard Carter

Per concludere, una piccola curiosità su Hatshepsut che richiede un salto indietro nel tempo a non molti anni fa: i coniugi Van Houten (astronomi olandesi) formarono un gruppo di ricerca assieme all’astronomo statunitense Tom Gehrels e scoprirono diverse migliaia di asteroidi grazie ad un lavoro combinato tra l’osservatorio di monte Palomar e l’osservatorio di Leida. Una delle loro scoperte riguarda un asteroide di fascia principale (quindi, grossomodo, tra le orbite di Marte e di Giove) che ruota attorno al suo asse ogni 9 ore. Perché ci interessa? Beh, perché quando lo individuarono, lo scoprirono e fotografarono, il 24 settembre 1960, dal Palomar observatory (San Diego – USA) decisero di chiamarlo 2436 Hatshepsut(chiamato anche 6066 P–L · 1963 DL1978 YA1) proprio in onore della potente sovrana egiziana della XVIII dinastia. 

Probabilmente i due coniugi erano appassionati di storia o, quantomeno, questo è ciò che si evince nel vedere i nomi assegnati agli asteroidi da loro scoperti : 2435 Horemheb, 2462 Nehalennia, 2663 Miltiades, 2782 Leonidas, Ptah, Apollo sono solo i nomi di alcuni di essi.

I tre astronomi sono venuti a mancare non molti anni fa (2002, 2011, 2015) e, ad ognuno di loro, è stato dedicato un asteroide che ne porta il nome.

Hatshepsut – illustrata nel libro “Hatshepsut – La figlia del sole” [Laurie Elie, Alessandra Grimaldi, Forough Raihani]
Bibliografia:

– The Complete Valley of the Kings: Tombs and Treasures of Egypt’s Greatest Pharaohs (Richard H. Wilkinson, Nicholas Reeves) pg. 75 + 91-103

-The Oxford Guide of Ancient Egypt (Ian Shawn) pg. 237 – 243

-Archeologia dell’Antico Egitto (Kathryn A. Bard) pg. 210/211/212

 

“Il grande crimine, il grande male”

 

 

E’ stato comunicato che il governo ha deciso di eliminare completamente tutti gli armeni abitanti in Turchia. Senza riguardi per le donne, i bambini e i malati, per quanto possano essere tragici i mezzi di sterminio. Bisogna mettere fine alla loro esistenza”

– Talaat

 

Solo a leggerle, queste parole, fanno male. 24 aprile 1915: una data, una ferita, un pezzo di umanità spazzato via sotto gli occhi di tutti; pochi coraggiosi hanno cercato di reagire, hanno detto la verità su questa triste fetta di storia, hanno detto “NO, io non ci sto”. Appena 102 anni fa fu commesso uno dei più grandi crimini contro l’umanità: il genocidio armeno.

Insabbiato, negato, la responsabilità fu scaricata su altri, nessuno ha mai pagato per questo spietato massacro. Perché? Come è potuta accadere una cosa del genere? Ma soprattutto, chi sono gli armeni? Non di rado mi è stata posta questa domanda, con rammarico ho dovuto darvi risposta, spiegare l’origine di un popolo di cui la collettività a stento conosce il nome. Gli armeni erano insediati fra Caucaso ed Eufrate, in una regione di valli ed altipiani non lontano dalla Turchia e dall’impero Persiano. Era essa una regione perennemente contesa fra ottomani, russi, persiani; ma una semplice contesa territoriale può portare davvero ad ucciderne l’intero popolo abitante? Le cause che portarono a questo gesto estremo e spietato vanno ricercate all’origine: 1876, impero ottomano, salì al potere il sultano Abdul-Hamid, sul quale ricade la colpa del primo massacro nel 1894. I massacri continuarono per tre decenni e la resistenza cominciò ad organizzarsi contro gli “hamidiés” curdi, punta di diamante della repressione armena, creati e gestiti dal sultano rosso; egli, nel 1909, venne reso puramente simbolico e due enormi ondate di massacri portarono via circa 30.000 armeni dalla Cilicia. Pochi anni dopo fu istituita una dittatura militare e presero il potere i “giovani turchi”, guidati da Djemal, Talaat, Enver, rispettivamente ministro della marina, ministro degli interni e ministro della guerra: “i Tre Pashà”, il triumvirato dittatoriale che guidò l’impero ottomano dal 1913 fino alla fine della prima guerra mondiale. Un anno dopo, la guerra era ormai scoppiata, quale occasione migliore per agire? Erano tutti così concentrati sulla guerra da non “perdere tempo” nell’accorgersi, comprendere e prendere provvedimenti contro tali azioni… i primi massacri sporadici passarono inosservati, l’anno seguente iniziarono le deportazioni verso Aleppo, l’élite armena venne spazzata via per prima, in un attimo, freddata sul posto senza pietà qualora fosse sopravvissuta al viaggio (questo episodio prende il nome di “grande retata”, ed è la data commemorativa dello sterminio) tutti gli altri ne condivisero la sorte poco dopo.

 

Nell’estate del 1915 accadde un episodio che ha dell’incredibile, un lieto fine o più precisamente un “lieto intermezzo”, una ventata di speranza nelle vite di queste persone che, ormai, avevano ben compreso il loro destino. Circa 5.000 armeni non avevano perso la speranza, non erano disposti a cedere, si rifugiarono per 40 giorni sul Mussa Dagh, il “monte di Mosè” sulla costa orientale siriana, a nord della baia di Antiochia: i famosi “40 giorni del Mussa Dagh”, l’unica vera forma di resistenza durante questo crimine.

Approvvigionamenti e munizioni iniziarono a scarseggiare presto ma nessuno si risparmiò di prendere parte alla resistenza, anche le donne non si tirarono indietro dall’imbracciare un’arma. I turchi li sottovalutarono, pensarono che avrebbero ceduto, invece il monte forniva inaspettati rifugi e la lotta per la sopravvivenza si inasprì di giorno in giorno: la carenza di armi era compensata dalla disperazione ed i turchi che si arrampicavano di volta in volta più numerosi e più armati, finivano sempre respinti.

Christians in distress: rescue queste le parole sulla bandiera letta dall’equipaggio della nave incrociatore francese che li trasse in salvo. Questo episodio fu una parentesi rosa in un libro macchiato di rosso, di brutalità ed efferatezze. Il 14 settembre i superstiti giunsero in Egitto, a Port Said, dove ricevettero la migliore assistenza e qui rimasero per quattro anni in un campo allestito esclusivamente per loro.

Noi abbiamo già liquidato la posizione di ¾ degli armeni… Bisogna che la finiamo con loro, altrimenti dovremo temere la loro vendetta… Noi non vogliamo più vedere armeni in Anatolia, possono vivere nel deserto, ma in nessun altro luogo.”

-Talaat

Nel 1916 gli unici armeni rimasti si trovavano divisi tra Costantinopoli e Smirne, un’ intera popolazione era stata distrutta nel più totale silenzio, nessuno mosse un dito in loro aiuto, nessuno si oppose a questo abominio, finché non entrò in gioco il partito dashnak, ossia la federazione rivoluzionaria armena.

Ma dov’è finito il Monte di Mosè, oggi? Che non vi venisse in mente di andare a visitarli, questi luoghi. Un pellegrinaggio al “muro del pianto” armeno non è semplice da organizzare, perché il Mussa Dagh non si trova sull’atlante, sulle mappe. Provare per credere. Fortunatamente siamo nell’era di internet, e tutto cambia: questo monte si trova in Cilicia. Oggi le spiagge su cui sbarcarono i francesi, ai piedi del monte, sono meta di turisti ignari di ciò che vi avvenne.

Sai cosa disse Hitler ai suoi generali per convincerli che il suo piano non poteva suscitare obiezioni?Qualcuno al mondo si è accorto dello sterminio degli Armeni?”

– Ararat, Il monte dell’arca

Non fu affatto uno sterminio religioso (gli armeni sono cristiani) ma una semplice pulizia etnica per impossessarsi dei loro beni, denaro, territorio… molti furono convertiti forzatamente all’islam e le donne più belle portate negli harem, molti bambini adottati e “turchizzati”.

La Turchia aveva paura di scomparire, sentendosi contesa da numerose potenze che si stavano velocemente espandendo, reputò quindi vantaggioso sterminare un popolo intero per prenderne le terre e dimostrare il proprio valore: ebbe l’effetto contrario, fallì, eppure non vi furono conseguenze: cominciò il negazionismo, la colpa fu scaricata sui giovani turchi, i principali autori del genocidio fuggirono, le prove erano e sono schiaccianti ma guai a parlare di “genocidio armeno” alla Turchia. Guai a tirare fuori le foto, i libri, le lettere, i documenti, i telegrammi. Le motivazioni del loro gesto sono tanto chiare quanto terribili, la scelta di negare ha degli ovvi perché: paura di dover fare i conti, paura di pagare per il crimine commesso con risarcimenti territoriali, vergogna.

E tutti gli altri stati? Perché chi ne era a conoscenza non intervenne? Perché nessuno vuole scontentare la Turchia? I perché sono tanti, la trama è fitta ed intricata, tutto questo è solo una parte di ciò che di a dir poco raccapricciante avvenne.

Ragazzo mio, qual è la causa ancora oggi di tutto questo dolore? Non è aver perso delle persone care, o la nostra terra… é la consapevolezza di poter essere odiati così tanto. Che razza di umanità è che ci odia fino a questo punto e con che coraggio insiste nel negare il suo odio, finendo così per farci ancora più male?

Ararat – Il monte dell’Arca


Oggi è il 24 aprile, oggi gli armeni sopravvissuti ed i loro discendenti ricordano in silenzioil grande male e, una parte di questo male lo dovremmo sentire anche noi per tutti loro, per questo enorme dramma, per questo sfortunato ma coraggioso popolo dalla triste, travagliata storia.

Bibliografia:
Mutafian Claude – Metz Yeghérn, Breve storia del genocidio degli armeni
Franz Werfel – I quaranta giorni del Mussa Dagh
Flavia Amabile, Marco Tosatti – La vera storia del Mussa Dagh
Flavia Amabile, Marco Tosatti – Mussa Dagh, gli eroi traditi
Ararat, Il Monte dell’Arca (film, 2002)
http://www.glistatigenerali.com/storia-cultura/genocidio-armeno-mussa-dagh-24-aprile/

Psicostasia e Peso dell’Anima

Per quale motivo gli antichi egizi praticavano la mummificazione? Ed in cosa consisteva questa pratica? Una testimonianza, per quanto ormai contestata e superata grazie all’archeologia moderna, ci giunge dallo storico Erodoto: egli ci lasciò una descrizione abbastanza accurata di questa pratica, sostenendo che avvenisse in maniera differente per individui più o meno abbienti. Per i più ricchi il corpo veniva inciso ed eviscerato, per i più poveri asciugato nel sale. Ad oggi sappiamo che, al contrario, la mummificazione era un processo molto meno “classista”, che in alcune circostanze sia il cuore sia il cervello del defunto sono stati ritrovati nel corpo e che l’estrazione dei visceri tramite incisione trans-addominale era prevista per tutti. Le motivazioni di questa pratica, che richiedeva l’accurato lavoro di imbalsamatori esperti che hanno permesso la conservazione delle salme fino ad oggi, sono a dir poco ovvie: il corpo, casa dell’anima, doveva rimanere integro per permetterne il viaggio finale ed, almeno per le caste superiori, la mummificazione era d’obbligo: il corpo non doveva per nessun motivo decomporsi, altrimenti non avrebbe permesso alle forze immortali di compiere il viaggio per poi ricongiungersi dall’altro lato.

Nel corpo di un uomo, secondo gli antichi egizi, coesistevano tre forze vitali: Ka, Ba ed Akh. La principale, Ka, è il fulcro dell’essere umano: è il centro della sua anima, il suo spirito; Ba invece ne è la forza, l’individualità. Akh è una terza componente che si presenta al suo massimo solo post mortem.

oltre al corpo, anche l’anima doveva giungere nell’aldilà pura ed intatta: al fine di verificarlo, una volta giunto “dall’altra parte”, il defunto, doveva sottoporsi al giudizio dei morti: superava inizialmente delle prove di forza e coraggio, dopodiché giungeva, accompagnato dal dio Anubi, al cospetto di Osiride e dei suoi 42 giudici. 42, come le prescrizioni di Maat, dea dell’ordine cosmico, della giustizia e della verità; le sue prescrizioni erano semplicemente dei “comandamenti” da non infrangere assolutamente durante la vita. I 42 giudici, inoltre, rappresentavano i 42 peccati: sedevano in una lunga fila, il defunto doveva negare uno ad uno il peccato su cui ogni giudice presiedeva.

A questo punto, la prova più difficile, la psicostasia: la pesatura del cuore. Il defunto faceva dichiarazione di innocenza, il cuore veniva posto su un piatto della bilancia. Sull’altro? La piuma di Maat. Il dio Thot registrava il verdetto: se colpevole, se l’ago della bilancia pendeva dalla parte sbagliata, allora l’anima finiva in pasto ad Ammit, “la divoratrice” una mostruosa creatura (metà coccodrillo, leone ed ippopotamo, le bestie più pericolose dell’Egitto) se invece innocente proseguiva verso il luminoso regno di Osiride, la salvezza dell’anima, diretta continuazione della vita terrena.

Anche gli animali ricevevano una sepoltura “salva-anima”, degna di un sovrano; lo dimostrano luoghi come il Serapeo, Bubasteion, Anubieion… il primo, portato alla luce nel 1850 da Auguste Mariette (pioniere dell’egittologia, fondatore del museo del Cairo e del servizio delle antichità egiziane), ospitava le sepolture dei tori Apis, i quali venivano inumati davvero come faraoni: eviscerati, mummificati, corredati di vasi canopi ed ushabti dalle fattezze di toro. Il Bubasteion era dimora dei gatti, l’Anubieion accoglieva gli sciacalli. Gli animali ricevevano tale trattamento in quanto venerati alla stregua delle divinità: non a caso, infatti, ad esse era spesso associato un animale, immagine vivente della stessa, ipostasi.

Ma pesa, l’anima? E quanto?

Nell’aprile del 1901 fu condotto, in Massachusetts, uno studio a dir poco curioso: il dottor Duncan McDougall studiò i corpi di sei pazienti moribondi, pesandoli prima, durante e dopo la morte; rilevò effettivamente delle differenze di peso, calato di qualche grammo, qualche frazione di secondo dopo la morte.

L’esperimento fu ripetuto e, nel 1907, il New York Times descriveva dello storico momento in cui il paziente cessò di vivere ed il bilancino si mosse, ad una velocità e tempistica che aveva dell’incredibile. Ovviamente, in molti non vollero crederci, che cosa poteva aver causato quella perdita di peso? Furono prese in considerazione tutte le ipotesi, dai fluidi corporei all’aria nel polmoni, nulla spiegava l’accaduto. Dopo i suoi studi, dopo aver confrontato i risultati, il dottor McDougall così concluse: “l’anima umana pesa 21 grammi “.

Gli studi sugli animali non diedero risultati, concluse quindi che solo gli esseri umani hanno un’anima.

Bibliografia:

Corso di egittologia presso università degli studi di Milano
Laboratorio di ” testi ed archivi dell’Egitto faraonico” presso università degli studi di Milano
Erodoto, ” secondo libro delle storie” (mummificazione)
Film : “21 grammi” , anno 2003 (ha come oggetto gli studi del dottor McDougall)
Psicostasia, Libro dei morti , capitolo 125

OBELISCHI EGIZI A ROMA

Le principali piazze di Roma sono decorate da alti obelischi: alcuni sono egiziani, altri risalgono all’epoca romana. Il primo imperatore a portare gli obelischi in città fu Augusto, avendo posto egli stesso l’Egitto sotto il controllo romano, rendendolo una provincia dell’impero; il suo esempio è stato seguito da numerosi imperatori dopo di lui.

In epoca imperiale essi non avevano una funzione decorativa, bensì avevano un significato politico e religioso: erano bottino di guerra, segno della potenza e della capacità dell’impero; erano collocati nei templi egizi (numerosi a Roma in quel periodo), in aree consacrate al dio Sole, davanti a monumenti funerari. Si trovavano, quindi, in luoghi diversi da quelli in cui si trovano oggi. Con l’avvento delle invasioni barbariche, andarono incontro al crollo o finirono smarriti, senza lasciare traccia.
Furono i papi a far poi reinnalzare queste enormi steli sacre, facendole trasportare nelle piazze della Roma rinascimentale e barocca: il primo fu papa Sisto V Peretti (1585-1590) il quale, grazie alla collaborazione dell’architetto Domenico Fontana, ha trasformato l’aspetto della città: fece costruire grandi strade rettilinee per collegare le basiliche che ogni buon pellegrino doveva visitare (il famoso “giro delle sette chiese”) e per aiutare ad orientarsi tra i palazzi usò come punti di riferimento proprio gli obelischi. Fece trasportare e collocare quattro di essi: quello di Piazza San Pietro, dell’Esquilino, di San Giovanni in Laterano e di Piazza del Popolo.

Oggi ci sono 13 obelischi antichi in città, ma in origine erano di più, almeno 17. Nel XVIII secolo un obelisco è stato portato a Firenze, nel Giardino di Boboli a Palazzo Pitti; due sono stati portati ad Urbino, davanti alla chiesa di San Domenico. Un altro obelisco si trovava sull’isola tiberina: è crollato a terra nel XVI secolo e alcuni frammenti sono conservati tra il Museo Nazionale di Napoli e Monaco di Baviera.
La nostra capitale possedeva anche un obelisco axumita, proveniente appunto da Axum, la città sacra dell’antico imperio etiope, esso era alto più di 23 metri e contava 150 tonnellate di peso; gli italiani ne entrarono in possesso durante la guerra di Etiopia alla fine del 1935, lo rinvennero frantumato in tre tronconi, lo sezionarono ulteriormente e con due mesi di fatiche fu trascinato fino al porto, giunse a Napoli nel 1937 e poi, da lì, a Roma. I soldati italiano lo avevano prelevato come bottino di guerra, ma si offrirono di restituirlo già dal 1947: fu un percorso travagliato e dopo vari tentennamenti e perplessità il primo frammento della stele partì per tornare a casa solo nell’aprile del 2005. Il suo ripristino finale fu ufficialmente celebrato nel settembre del 2008, con la presenza di migliaia di persone, tra cui la delegazione italiana.
Ma torniamo agli obelischi egiziani attualmente in piedi nella capitale:

 

Obelisco lateranense ©Foto di Federica Ruggiero

L’obelisco lateranense è il più antico, nonché il più alto: 32,185m, basamento escluso. In granito rosso, era situato a Tebe dinnanzi al tempio di Amon a Karnak ed era dedicato al grande faraone Thutmosis III, oggi spicca al centro della piazza dinnanzi all’entrata posteriore della basilica di San Giovanni in Laterano. Ma come giunse a Roma? Fu l’imperatore Costanzo II a volerlo in città, nel 357 fu fatto innalzare nel circo massimo. Fu poi abbandonato e ritrovato sepolto e spezzato in tre parti nel 1587; venne restaurato dall’architetto Domenico Fontana su ordine di papa Sisto V e posizionato nella sua attuale sede. Ha un gemello, attualmente situato nella piazza Sultanhamet nel cuore di Istanbul.

 

 

Obelisco vaticano ©Foto di Federica Ruggiero

Al centro di piazza San Pietro troneggia fiero l’obelisco vaticano, l’unico sempre rimasto in piedi: monolito a fasce lisce, nessun geroglifico, alto più di 25 metri, basamento ovviamente escluso. Fu eretto dal faraone Nencoreo III (nome inventato da Plinio, Nemcoreo III è oggi identificato in Amenemhat II) ad Heliopolis ed è in porfido. Nel 37 d.C. l’imperatore Caligola lo volle a Roma: l’obelisco abbandonò la sua sede ad Heliopolis e finì a decorare il circo di Nerone. Nel 1586 papa Sisto V lo fece collocare dov’è ora da Domenico Fontana; le decorazioni poste tra la base e la cima sono riconducibili alla famiglia Chigi, alla famiglia Conti ed, ovviamente, a Sisto V. In cima, prima di ospitare le reliquie della santa croce, pare ci fosse una palla di bronzo che, secondo tradizione, conteneva le ceneri di Giulio Cesare, donate poi da Sisto V al comune di Roma.

 

Obelisco Flaminio ©Foto di Federica Ruggiero

Innalzato ad Heliopolis da Seti I e Ramesse II, l’obelisco Flaminio fu tra i primi a traslocare a Roma per volere di Augusto: quasi 24 metri senza contare il basamento, nuova casa fu il Circo Massimo. “Il cielo degli dei è soddisfatto per quello che fece il figlio del Sole Seti I dagli spiriti di Eliopoli amato come il sole”, questa la traduzione dei geroglifici incisi lungo la stele. Sisto V lo fece spostare alla sua attuale sede in piazza del popolo nel 1589. Il basamento, su ogni lato, riporta un’iscrizione diversa: il lato rivolto verso il pincio è riferito alla chiesa di Santa Maria del Popolo, dal lato opposto la dedica va proprio a Sisto V, dalla parte rivolta verso la porta del popolo viene rievocata la vittoria di Augusto sull’Egitto ed, infine, l’ultimo lato è purtroppo danneggiato.

 

Obelisco di Montecitorio ©Foto di Federica Ruggiero

L’obelisco di montecitorio, insieme a quello vaticano, fu l’unico ad aver svolto funzioni di indicatore solare. Alto quasi 22 metri, nato ad Heliopolis per merito di Psammetico II, si trova a Roma per volere di Augusto dal 10 a.C. e inizialmente si trovava in campo Marzio, fu poi reinnalzato su ordine di papa Benedetto XIV e spostato a Montecitorio,dopo averlo fatto restaurare con frammenti di granito rosso della colonna antonina. In cima gli collocarono una sfera forata da cui a mezzogiorno sarebbe dovuto passare un raggio di sole.

 

 

Obelisco di Dogali ©Foto di Federica Ruggiero

L’obelisco di Dogali è stata restaurata ed utilizzata per il monumento commemorativo dei 548 caduti in Etiopia durante la battaglia di dogali del 1887; alto poco più di 6 metri, fu innalzato sul “monumento più malinconico che ci sia sotto il cielo di Roma” (cit.) che si trovava dinnanzi alla stazione di Roma termini e nel 1925 fu spostato nella sua attuale sede, il giardinetto delle terme di Diocleziano. Anch’esso nativo di Heliopolis, costruito durante il regno di Ramsete II, fu trovato nel 1883 nell’antico tempio romano dedicato alla dea Iside. Dopo la conquista d’Etiopia fu arricchito con un leone di Giuda in bronzo ma post fascismo esso fu restituito al Negus etiope Hailè Selassiè.

 

 

Obelisco del pantheon ©Foto di Federica Ruggiero

Anche l’obelisco del pantheon è opera di Ramsete II, sito in Heliopolis, non si sa con precisione quando arrivò a Roma ma si sa che abbelliva il tempio di Iside e serapide in campo Marzio; alto poco più di sei metri, in granito rosso, arrivò in piazza del pantheon per mano di Papa Clemente XI Albani, dopo esser passato per piazza san Macuto (Sant’Ignazio) nel 1374. Fu Filippo Barigioni l’architetto che si occupò dell’inserimento della stele nella splendida fontana cinquecentesca scolpita da Giacomo della Porta, riuscendo a legare armoniosamente i due monumenti. Non fu un’impresa facile, ma oggi abbiamo un’opera splendida da ammirare.

 

Obelisco della Minerva ©Foto di Federica Ruggiero

Appena cinque metri di altezza per l’obelisco di piazza della Minerva, ma è di una bellezza unica: nel 1667 fu dotato di un curioso basamento disegnato da Gian Lorenzo Bernini e realizzato da Ercole Ferrata, un elefantino. La stele poggia sul dorso dell’animale, fu voluto da papa Alessandro VII Chigi, il quale volle anche un’incisione filosofica, oltre che storica, sul basamento, ovvero (tradotta): “Chiunque tu sia, puoi qui vedere che le figure del sapiente Egitto scolpite sull’obelisco sono sostenute da un elefante, il più forte degli animali: capisci l’ammonimento, che è proprio di una robusta mente sostenere un solida sapienza”. I geroglifici sulla stele, invece, sono stati cosi tradotti: ” La protezione di Osiride contro la violenza del nemico Tifone deve essere attirata secondo i riti appropriati e le cerimonie con sacrifici e mediante l’appello al Genio tutelare del triplice mondo, per assicurare il godimento della prosperità tradizionalmente concessa dal Nilo contro la violenza del nemico Tifone”.
Eretto per la prima volta in Egitto dal faraone Aprie (589-570 a.C.), fu trovato in ottimo stato di conservazione, è in granito rosa con geroglifici sulle 4 facciate. Il progetto iniziale del Bernini fu bocciato e ci furono numerose divergenze tra lui, un frate domenicano che voleva vedersi affidare il progetto ed il papa, la posizione dell’elefantino sarebbe la prova delle divergenze che ebbero.

Obelisco Mattei – celimontana ©Foto di Federica Ruggiero

Il più difficile da localizzare e trovare, l’obelisco di villa celimontana è ubicato all’interno dei giardini della residenza, sede attuale della società geografica italiana, giardini che sono divenuti parco pubblico nel 1925: la villa era antica residenza della famiglia Mattei. È il pù piccolo tra gli obelischi di cui abbiamo parlato, misura appena due metri, ma è stato dotato di una “piccola aggiunta” di circa 10 metri, di colore diverso, a fasce lisce e priva di geroglifici. Tra i vari nomi, ha anche quello di “obelisco Mattei” ed “obelisco capitolino”, quest’ultimo perché in epoca imperiale fu trasportato a Roma e posto nel tempio di Iside capitolina; fino al 1952 era situato in campidoglio. Fu donato al duca Ciriaco Mattei nel 1528 dal senato di Roma, il quale lo fece smontare subito dal cimitero dove si trovava. Si narra che un operaio che stava lavorando alla collocazione dell’obelisco sulla base attuale vi perse le mani e parte delle braccia a causa della rottura di una fune.

Bibliografia :

http://www.turismoroma.it/cosa-fare/gli-obelischi
http://www.angolohermes.com/Luoghi/Lazio/Roma/Obelischi/obelischi_1.html
Munoz A.- Gli obelischi egiziani di Roma 1953
Cipriani G.B.-Su i dodici obelischi egizi che adornano la città di Roma 1823
Farina G,- L’obelisco domizianeo nel Circo Agonale 1908
Gnoli D.- Disegni di Bernini per l’obelisco della Minerva in Roma 1888
Grassi G.- Gli obelischi di Roma
Bastico S –Obelischi egiziani a Roma. In Romana Gens 1956
Briganti Colonna G.-Avventure di obelischi 1937

©Tutte le foto sono state scattate e post-prodotte da Federica Ruggiero, autrice dell’articolo

Sacrifici umani nell’antico Egitto: credenza popolare o realtà?

Molti di voi avranno sentito dire e probabilmente crederanno che i sovrani dell’antico Egitto erano soliti portare con sé nella tomba i propri servitori, con lo scopo d’essere serviti anche nell’aldilà. Ma era realmente così?

Quando l’egittologo ed archeologo britannico Sir William Matthew Flinders Petrie trovò il sepolcro di Aha (faraone della prima dinastia e successore del noto Narmer) ad Abydos, notò delle tombe ad esso annesse ma non approfondì, essendo costruite con il fango le pensò di poca importanza e passarono momentaneamente in secondo piano, paragonate alla scoperta della tomba del noto sovrano. Invece, durante una spedizione archeologica condotta dall’università di New York, Yale e Pennsylvania, furono indagate le oltre 30 sepolture sussidiarie, risultando essere tutti sacrifici umani. Per molti, il privilegio di servire il sovrano in vita diveniva il meno ambito privilegio di servirlo da morto. Erano personaggi di rango differente e le loro morti erano attribuibili a cibo o bevande avvelenati oppure al suicidio, sempre con ausilio di veleno. Come nel caso di Aha, i sacrifici umani furono riscontrati anche con suo figlio Djer (per quest’ultimo, ben 318 sepolture sussidiarie!) ma ugualmente restava un’usanza generalmente non praticata. I sovrani abitualmente venivano accompagnati, sì, ma con delle statuette: durante il terzo millennio presero piede, erano soprattutto di terracotta, e riproducevano i servitori. Venivano poi sepolte con il sovrano, prendevano il nome di Ushabti, cioè “rispondenti”: avrebbero dovuto “animarsi” una volta giunti nell’aldilà e appunto rispondere per lui in tutti i lavori. Potevano essere mummiformi o rappresentare l’immagine di servitori o portatori di offerte, ed essere in legno o altri materiali a seconda della ricchezza del defunto. Molti Ushabti erano doni e, come tali, presentavano al di sotto delle dediche da parte del donatore. Dalla seconda metà del II secolo e per tutto il primo secolo, incise su di esse si iniziò a riportare il sesto capitolo del libro dei morti e non più solo il nome del sovrano. Ad oggi, si possono trovare numerosissimi esemplari di Ushabti online, di ogni genere ed a qualsiasi prezzo, anche se in linea di massima sono quasi tutti molto costosi.

È sfatata da tempo anche la credenza che, al termine della costruzione delle piramidi, gli operai venissero uccisi cosicché non rivelassero ai profanatori di tombe i segreti della stessa, o venissero lasciati al suo interno intrappolati a lavori ultimati, quando veniva chiusa la piramide. La grande piramide di Cheope, ad esempio, presentava un’uscita di sicurezza proprio per evacuare gli operai alla fine dei lavori. E non erano nemmeno gli schiavi, i costruttori di questi enormi e monumentali ipogei: è accertato fossero artigiani ed operai esperti e qualificati, possiamo affermare ciò soprattutto dopo la scoperta delle loro tombe, nei pressi della grande piramide. Essi vivevano in un villaggio poco lontano dalla sede di lavoro, con le loro famiglie, mantenuti come retribuzione per i lavori: la moneta ancora non esisteva, ricevevano dunque vitto, alloggio e cure mediche.

Oltre al quesito dei sacrifici umani, un altro interrogativo sorge sull’argomento cannibalismo: i sovrani egizi erano antropofagi? L’inno cannibale dei testi delle piramidi, trovato nel sepolcro del faraone Unis (ultimo regnante della quinta dinastia) parla chiaro: il sovrano, eroe nonché divinità, si cibò degli dèi (acquisendone i poteri) e, secondo appunto l’inno, si nutrì dei suoi predecessori. Ma sarà vero?

Sono dunque, in conclusione, presenti nella storia egiziana (come in qualsiasi altra) dei casi isolati, sia per quanto riguarda i sacrifici sia per quanto riguarda il cannibalismo ed, in via definitiva, si può affermare che tali pratiche non si diffusero ne mai presero piede durante questa grande e maestosa civiltà.

Bibliografia :

http://guide.supereva.it/egittologia/interventi/2004/04/157630.shtml
http://lastellarossa.blogspot.it/2015/03/linno-cannibale-dalla-piramide-del.html
http://www.storiamito.it/ushabti.asp

Drimaco, l’eroe gentile

I secolo a.C., Roma, periodo repubblicano. Le rivolte servili mettevano alla prova la città ed il suo esercito, ma a scuotere l’Impero ci pensò un solo uomo: Spartaco.

Contadino originario della Tracia, si arruolò nelle milizie romane per estinguere dei debiti; disertò poco dopo, a causa delle condizioni di maltrattamento e razzismo a cui era sottoposto tra le fila romane. Fu presto catturato e reso schiavo, come gladiatore. Nel 73 a.C., insieme ad altri 200 gladiatori con cui condivideva la sorte, si ribellò a Roma dando il via alla terza guerra servile. A lui furono dedicati numerosi film, poemi, libri, serie televisive ma non fu l’’unico capo dei ribelli dell’’età antica; fu senz’altro il più famoso ma abbiamo fonti che attestano di numerose altre rivolte, delle quali abbiamo traccia ma sicuramente anche molte lacune. È assai tangibile l’ipotesi che ci manchino notizie sulla maggior parte delle rivolte.

Un caso degno di nota di cui ci è giunta notizia, ebbe luogo all’incirca nel III secolo a.C. a Chio, un’’isola dell’’Egeo, ove un gruppo di schiavi divenne coeso ed in seguito alla fuga si stabilì su delle colline, dalle quali potevano attaccare facilmente e sistematicamente le case dei padroni. Erano guidati da Drimaco, il quale riuscì a proporre un trattato ai padroni: esso prevedeva che i suoi uomini rubassero solo determinate somme necessarie al sostentamento e che avrebbe arruolato nelle sue file solo schiavi che avevano subìto un trattamento davvero pessimo dai padroni. Una cosa è certa: Drimaco teneva fede alla parola data, gli schiavi fuggirono meno frequentemente.
Nonostante i padroni fossero tacitamente d’’accordo con questa soluzione, offrirono una ricompensa a chi gli avesse consegnato lo schiavo fuggiasco capo dei ribelli, vivo o morto. Nessuno reclamò mai il premio. Non appena Drimaco raggiunse la vecchiaia, incitò il suo amante a decapitarlo ed a riscattare il denaro per la sua testa, così da poter comprare la libertà e far ritorno in patria. Dopo la sua morte i fuggiaschi scatenarono un caos incontrollabile, spesero gran parte del denaro in suo onore e i proprietari terrieri eressero un sacrario a Drimaco, “l’’eroe gentile”… entrambe le parti riconoscevano in lui un benefattore ed erano consapevoli e nostalgici dell’’ordine e della pace che egli aveva portato.

 

Bibliografia:
Spartaco, Theresa Urbainczky

The Elder Lady – La misteriosa ciocca di capelli nella KV62

King’s Valley, Luxor. L’archeologo Howard Carter, dopo anni di ricerca e dopo il sudato ottenimento di un’ultima campagna di scavo, scoprì un gradino: il primo dei sedici gradini di quella che si rivelò la sua più grande scoperta, nonché una delle scoperte più sensazionali dell’archeologia… La tomba di Tutankhamon. Era il 4 Novembre 1922.

Morto all’alba dei diciannove anni, il “faraone bambino” fu sepolto frettolosamente nella tomba di qualcun altro (si suppone fosse per l’alto funzionario Ay) molti furono i tentativi di nasconderla, a causa dell’eresia di suo padre Akhenaton che, insieme alla moglie Nefertiti, abbandonò Tebe ed il culto di Amon, spostandosi ad Amarna e dedicandosi al culto dell’Aton. Proprio grazie al tentativo di cancellare dalla storia la dinastia di faraoni di Amarna, la tomba di “Tut” è giunta a noi praticamente intatta. I tesori trovati al suo interno lasciarono e lasciano tutt’ora senza fiato. Tra di essi, però, un particolare risveglia la curiosità: una ciocca di capelli.

the elder lady

Un ricordo? Una mancanza, un vuoto incolmabile, una parte di cuore portata con sé anche nell’aldilà?

Una ciocca di capelli color rame, non riconducibile a nessuna mummia presente nel suo ipogeo, che però contribuì nella stesura dell’albero genealogico del famoso faraone della XVIII dinastia. Grazie a TAC ed analisi del DNA un sottile filo rosso ha collegato tra loro una serie di personaggi, riordinando i tasselli di un puzzle di cui si era persa memoria più di tremila anni fa.
Bisogna però fare un salto di qualche anno fino al 1898, anno in cui Victor Loret, un professore di egittologia a cui si devono le più grandi scoperte, individuò la KV35: tomba di Amenhotep II, figlio di Thutmosi III, anch’essa come molte altre tombe depredata. La prima bella sorpresa per Victor Loret fu quella di trovare la mummia del padrone all’interno della tomba, nel sarcofago. Però, è evidente che la mummia di Amenhotep II fosse stata ribendata e che il sarcofago non era il suo d’origine.

Nella stanza numero 1 dell’ipogeo, Loret trovò adagiate a terra le mummie di un uomo e due donne: la donna più anziana, “The elder lady“, è stata identificata pressoché subito, analizzandone proprio i capelli! Essa è la regina Tiy (chiamata anche Tiye o Teye), moglie di Amenhotep III e madre di Akhenaton. Tutankhamon, su base di esami del DNA, è risultato essere figlio naturale della donna giovane nella tomba di Amenhotep II, la quale è figlia di Amenhotep III e di Tiy.

Figlia di Yuya e Thuya, descritta da tutti in chiave positiva, regnò al fianco del marito con amore e dedizione fino alla sua morte, momento in cui salì al trono il figlio Amenhotep IV (Akenhaton). Tiy, nonostante l’eresia del figlio, rimase al suo fianco come regina madre, attribuendo le azioni di esso al tentativo di arricchire ed aumentare il potere della corona.

Non si hanno certezze sulla data della sua morte ma si ipotizza possa essere avvenuta attorno al 1338 a.C e che lasciò un grande vuoto. Si dice anche che il regno subì una fase di declino. L’imbalsamazione fu eseguita con grande attenzione, i lineamenti del viso sono riconoscibili e i capelli perfettamente conservati, la donna non aveva neanche un capello grigio. Nella tomba di Tutankhamon erano presenti sarcofagi in miniatura recanti il nome della nonna. Una nonna tanto amata, della quale portò con sé il ricordo nel suo ultimo viaggio.

Bibliografia e Fonti :

http://www.nationalgeographic.it/dal-giornale/2010/09/03/news/tutankhamon_segreti_di_famiglia-96415/?refresh_ce
http://www.egittologia.net
http://www.ancient.eu/tiye/

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