L’impero Moghul e le conquiste militari

All’inizio del XVI secolo si formarono tre grandi imperi islamici che subentrarono al posto di piccoli stati islamici. Questi tre grandi regni erano quello in India dei Moghul, quello persiano dei Safawidi e quello turco degli Ottomani. Si trattava di governi profondamente radicati nel medioevo islamico a causa dell’aspetto religioso, ma tutti esposti in primo piano all’epoca moderna europea, caratterizzata da una ripresa dei commerci e dall’espansione coloniale degli stati europei, fattori che porteranno a dei cambiamenti economici anche all’interno di questi imperi.

La Fondazione dell’Impero Moghul in India

La storia della presenza islamica in India è molto antica e si può far risalire almeno al regno di Muhmud di Ghaznì fondato nella provincia di Khurasan nel 999, anche se le prime invasioni islamiche in India avvennero precedentemente dall’ Afghanistan. A partire dall’inizio del XIII secolo dominò il sultanato di Delhi, governato da una dinastia militare afghano-turca. La presenza islamica in India diventò rilevante nel periodo dell’impero dei Moghul.

L’impero fu un grande regno che nel periodo di massima espansione governò su tutto il subcontinente indiano, senza precedenti. Nel periodo che va tra il 1556 e il 1658 l’impero islamico dei Moghul è stato un potente stato centralizzato, organizzato con una capillare burocrazia, un esercito e un impero con una fede aperta e tollerante, dove vi fu una sintesi religiosa tra induismo e islamismo.

La fondazione risale al regno Zahir-ud-Din Muhammad Babur, un condottiero turco erede in linea materna di Gengis Khan, e in linea paterna, da Tamerlano, che riuscì a stabilire un regno nel nord dell’India nel 1526, sfruttando le rivalità tra gli emiri locali e il disordine provocato dalle guerre dei Safavidi con gli Uzbechi. Oltre ad essere un conquistatore insaziabile, fu un grande uomo di cultura: le sue memorie – scritte in prosa – sono considerate un’opera importante dell’intera letteratura turca. Nel 1504 e nel 1506 Babur conquistò rispettivamente Kabul e Kandahar e nel 1526 anche l’intera India del nord, grazie ad una cavalleria e ad una tecnica bellica nettamente superiori.
Il regno di Babur durò solo quattro anni a partire dalla conquista della città di Agrae e la proclamazione d’imperatore dell’Hindustan, ma gli eredi riuscirono a consolidare il regno. In particolare due suoi eredi: Humayun e soprattutto Akbar.

L’Era di Akbar: Consolidamento e Apogeo dell’Impero Moghul

Akbar, il terzo padishah, fu il vero creatore della potenza Moghul e regnò dal 1556 al 1605: è considerato il più importante all’interno di una dinastia dove vi erano personaggi straordinari, tanto da essere ricordato come una delle figure più rappresentative della storia indiana.

I primi anni del regno non furono tali da far presagire tale grandezza: fino al 1560 fu governato con durezza dal reggente Bairam Khan. Sotto la sua guida, vennero sconfitti gli ultimi principi Sur e i Moghul occuparono alcuni centri chiave come Lahore, Multhan, Jaunpur che si aggiunsero a Delhi e Agra. Questa espansione si arrestò per i contrasti tra Akbar e Bairam Khan stesso, che si conclusero con la rimozione dall’incarico di quest’ultimo nel 1560. Successivamente a questi avvenimenti la gestione della nuova linea politica venne lasciata ad una fazione capeggiata dalla nutrice di Akbar e da suo figlio Adam Khan. Egli riprese l’espansione con la spedizione contro il sultanato del Malwa. Presto però i rapporti tra il padishah e Adam Khan si deteriorano e le tensioni tra i due esplosero quando Adam Khan uccise il primo ministro, una delle figure più vicini ad Akbar.

Le cronache raccontano che Adam Khan si recò all’ingresso dell’harem sporco di sangue della vittima e l’imperatore lo affrontò a mani nude, stordendolo e poi dando l’ordine di gettarlo da uno dei balconi del palazzo: dopo tale episodio la madre si suicidò. Tutto ciò è descritto nelle cronache dell’epoca e rappresentato anche nelle miniature.

Riorganizzazione dello Stato e Strategie Militari di Akbar

Il dominio Moghul in quella parte dell’India del Nord continuava ad essere quello di un esercito d’ occupazione in un territorio vasto ed ostile: era circondato da una moltitudine di stati in armi e anche la società indiana era fortemente militarizzata. L’esercito in questa fase era poco organizzato e con forti limiti strutturali, formato da 51 distaccamenti al servizio di nobili legati al sovrano da vincoli di fedeltà. La maggior parte di essi, essendo di origine turca e uzbeca, considerava il sovrano un primus inter pares, quindi questo non assicurava la loro fedeltà al sovrano, che doveva essere guadagnata ogni volta.

La minoranza – formata da circa 16 nobili – era di origine persiana, influenzata quindi dall’ideologia imperiale, cui si doveva fedeltà e obbedienza al sovrano. Akbar per modificare questa situazione, attuò una politica che aveva due obbiettivi: il controllo sulla nobiltà e uno stato in grado sbarazzarsi di ogni possibile avversario.

Queste strategie comportarono la possibilità di concentrare tutte le risorse per alcune battaglie rilevanti condotte dal padishah in persona, che si rivelò un ottimo stratega e conquistò prima del 1562 tutta l’India del Nord, l’Afghanistan e il Kandesh. La battaglia di Panipat, per quanto vinta di stretta misura, diede la fama a Akbar di essere invincibile nelle battaglie in campo aperto, mentre la conquista di alcune fortezze importanti tra il 1658 e il 1569 dimostrarono la sua abilità anche nella guerra di posizione.
La fama di Akbar – e dell’esercito Moghul – fu di essere invincibili sia nella guerra di posizione che in quella in campo aperto. Ciò è dimostrato anche dal fatto che alcuni nobili e regni accettarono di sottomettersi a lui in cambio della nobiltà Moghul.

Articolo a cura di Sbalchiero Francesco Sunil

Fonti

Hans Kung, Islam, Bur, Milano, 2015
Michelangelo Torri, Storia dell’India, Laterza, Bari, 2010
Raffaele Russo, Islam: storie e dottrine http://www.academia.edu/1900477/Islam_storie_e_dottrine

La contestazione cattolica. Intervista a Alessandro Santagata

 

Questa settimana ho deciso di intervistare Alessandro Santagata che nel 2016 ha pubblicato  il saggio La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68 (Viella, 2016)  ed   è borsista presso la Fondation Maison des sciences de l’homme / École pratique des hautes études di Parigi e collabora con la cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Roma Tor Vergata.

-Quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta a scegliere un argomento così particolare e così lontano dalle mode attuali?

 

A mio parere, questo ricerca si inserisce in un filone di studi che sta finalmente giungendo a maturazione, anche se in maniera disorganica, anche perché spontanea. Intendo dire che negli ultimi anni si è proposta una nuova generazione di storici che ha affrontato in modo nuovo e, nella maggioranza dei casi, post-ideologico lo studio degli anni Sessanta e Settanta. L’interesse per i movimenti nasce probabilmente anche dalla crisi della politica attuale e dallo studio delle cause profonde di quella crisi. Nello stesso tempo, mi sembra forte la ricerca di un legame con quel momento del nostro passato recente, in cui si era configurata la possibilità di una rivoluzione, prima che la categoria scomparisse dall’orizzonte. Per quanto riguarda lo studio dei movimenti cattolici, valuto in maniera positiva l’affermasi di una nuova leva di studiosi che intendono affrontare in maniera laica la materia. Penso, per esempio, al libro di Guido Panvini, L’altro album di famiglia. Cattolici e violenza politica, Venezia, 2014. Il mio libro condivide molti aspetti della sua impostazione, anche se è differente nelle domande e nel metodo. È vero però che resta ancora forte la diffidenza verso la storia della religione cattolica. Le ragioni sono da cercare nella storia stessa, ovverosia nella storia della storiografia e nelle ingerenze della Chiesa cattolica nella politica italiana, particolarmente forti negli ultimi quarant’anni: nelle campagne della gerarchia cattolica contro i diritti e via dicendo. Ho motivo di credere che le cose cambieranno, anche in conseguenza della svolta di papa Francesco…

 

-Che ruolo hanno nel concilio Vaticano II i vescovi italiani? Che ruolo  hanno all’interno dei Vescovi Italiani l’arcivescovo di Milano Montini e il quello di Bologna Lercaro?

 

I vescovi italiani sono il gruppo maggioritario al Vaticano II con ben 423 padri conciliari italiani. Eppure, l’episcopato italiano ha svolto un ruolo sostanzialmente marginale e poco influente sull’andamento dei lavori e sulle risoluzioni. Ciò è dovuto, in parte, alla disorganizzazione; basti pensare che le prime riunioni della Cei risalgono ai primi anni Cinquanta e da questo punto di vista il Vaticano II è un passaggio fondamentale per la “collegialità” italiana. Ma soprattutto, è dovuto alla difficoltà della maggioranza, guidata dal card. Siri, nel sintonizzarsi con le parole d’ordine dell’“aggiornamento” di Giovanni XXIII. Questo non significa che non ci siano figure che hanno avuto una funzione preziosa, come per esempio il card. Lercaro, che nel 1963 diventa uno  dei quattro moderatori, oppure Montini, a cui spetta il compito di chiudere il Concilio da papa: una scelta peraltro non scontata. Altre figure di rilievo sono quelle di Bettazzi, Guano, Bartoletti, Baldassarri. Altri ancora invece hanno animato la galassia conservatrice, come il già citato Siri e poi Carli e Ruffini. Giunti al momento del voto, i vescovi italiani si allineano alla maggioranza. Gli anni del post-concilio saranno quelli più difficili, perché la Cei si troverà a fare i conti con un evento che l’ha trasformata, ma che ha sostanzialmente subito.

-Il suo libro ripercorre il periodo in cui si sviluppa livello politico il centro-sinistra. Che rapporto c’è in questa fase tra Dc e mondo cattolico? L’associazionismo cattolico ha ancora una funzione importante all’interno della Dc?

Il rapporto tra la Dc e il mondo cattolico è sempre stato molto stretto. Possiamo dire che è stato un tratto costitutivo dello stesso “partito cristiano”. Questo è ancora vero negli anni Sessanta, anche se la secolarizzazione, da un lato, e il Concilio, dall’altro, hanno allentato notevolmente i legami con esisti diversi. Nel caso dell’Azione cattolica, che era stata la fucina della classe dirigente democristiana il processo, è iniziato già nel 1959 con la presidenza Maltarello. Per quanto riguarda le Acli, già nel 1958 è sorto un ragruppamento parlamentare che fa riferimento a Pastore, ma sarà solo con la presidenza Labor che si arriverà tra il 1968 e il 1969 a rompere il collateralismo. Bisogna considerare, del resto, Dc di Rumor, siamo di fronte a un partito sempre più autoreferenziale, nonostante le aperture di Moro alla trasformazione culturale. La mancata ricezione del Vaticano II lo confermerà.

 

 

-Che ripercussioni hanno  i movimenti di contestazione che sono seguiti al Concilio Vaticano II sulla politica di quel periodo della Dc? In che modo viene messa in discussione la Dc ?

 

Tutto ha inizio da alcuni cenacoli intellettuali legati ad alcune riviste (Testimonianze, Il gallo, Questitalia, etc) che mettono in discussione la legittimità dell’unità politica dei cattolici sulla base dei documenti conciliari, in particolare del paragrafo 76 di Gaudium et spes. In poche parole, si afferma che il Vaticano II ha tolto al “partito cristiano” il suo fondamento ideologico, ma i sostenitori del “movimento cattolico” hanno buoni argomenti per affermare il contrario. I testi del Vaticano II, infatti, si prestano a essere interpretati in modi diversi e talvolta opposti. Da parte sua, la Dc cerca di rispondere alle accuse a partire dal convegno di Lucca del 1967, in cui sostanzialmente presenta il Vaticano II come un momento di ratifica del progetto storico di Sturzo e De Gasperi: un’occasione mancata per una riflessione autocritica, come denunciano i gruppi spontanei, e un passaggio chiave per comprendere la contestazione cattolica degli “anni ‘68”.

 

 

-Come cambia l’Azione cattolica dopo il Concilio Vaticano II? Che ruolo ha in questo Bachelet?

 

L’associazionismo cattolico entra in crisi negli anni Sessanta a causa degli effetti sempre più dirompenti della secolarizzazione che investe la sfera del religioso, ma anche le altre culture politiche (si pensi, per esempio, al drastico calo di iscrizioni alla Fgci). Altri fattori di crisi sono da ricercare nel processo di ricezione conciliare, dal momento che i gruppi spontanei mettono in discussione la legittimità stessa dell’“apostolato gerarchico”. Infine, bisogna tenere presente che la crisi attraversa anche la stessa Aci con le organizzazioni giovanili (Giac e Fuci) impegnate per la democratizzazione interna e per una rottura definitiva del collateralismo. In questo contesto, la presidenza Bachelet si trova a gestire la difficile transizione verso la “scelta religiosa”: un allontanamento graduale dalla Dc, e dalla politica, che non si traduce però in una rottura con il movimento cattolico. L’esito sarà quello di traghettare l’associazione in una nuova epoca che vedrà però l’associazionismo ridimensionato dal punto di vista della rilevanza pubblica.

 

-Quali sono le principali caratteristiche dei gruppi  spontanei che si formano dopo il Concilio Vaticano II?  Che ruolo ha Wladimiro Dorigo in questa fase?

 

I gruppi spontanei iniziano a proliferare negli anni del Concilio e vivono la loro fase di massima diffusione tra il 1966 e il 1969. Sono in maggioranza gruppi di piccole dimensioni, auto-organizzati e generazionalmente connotati. Vi si ritrovano per lo più i militanti usciti dalle organizzazioni del movimento cattolico che chiedono una rottura dell’ordine esistente – leggi le commistioni tra Chiesa, Stato e Dc – sulla base della lezione conciliare. I gruppi non si considerano organizzazioni religiose, ma esclusivamente politiche. Tuttavia, la loro azione è nella sostanza incentrata sul piano della riforma politica del mondo cattolico, con tutta una serie di contraddizioni di carattere ideologico nella relazione tra appartenenza religiosa e identità politica. Negli incontri nazionali, coordinati in una prima fase da Wladimiro Dorigo, ex-militante della Base e direttore di Questitalia, e dal settimanale Adista, si delinea un processo verso la “nuova sinistra” alternativa a quella comunista e socialista, della quale si intende però stimolare una trasformazione. Il Pci, da parte sua, cerca senza particolare successo di assorbire il movimento per spaccare il blocco elettorale cattolico. L’esaurirsi della stagione dei gruppi comporterà anche la fine della parabola di Questitalia. Da quell’esperienza prenderà corpo il movimento delle Comunità di base, che declinerà in modo diverso, perché con una separazione più chiara dei piani, ispirazione cristiana, riforma della Chiesa e militanza a sinistra.

 

-In che modo Comunione e Liberazione è una risposta alla crisi dell’associazionismo cattolico e della Chiesa cattolica in generale? In che modo è riconducibile al movimento studentesco ?

 

Cl nasce come movimento universitario nel 1969 dalla crisi di Gioventù studentesca, il primo gruppo guidato da don Giussani e attivo nelle scuole. Si struttura quindi come una risposta di natura integralistica al movimento studentesco e, nello stesso, tempo come alternativa di carattere movimentistico all’Azione cattolica. Tuttavia, spogliando le fonti di Gs è possibile osservare una vicinanza del gruppo alle istanze di rottura del ’68 (terzomondismo, antiautoritarismo, critica alle istituzioni borghesi etc). Lo conferma anche il fatto che nel 1968 la maggioranza dei militanti abbandona Gs per confluire nel movimento di protesta. Negli anni Settanta, l’intuizione del nucleo di Giussani si evolverà, non senza contraddizioni, all’insegna della contrapposizione alla Nuova Sinistra e di un progetto di rilancio dell’identità cattolica come reazione alla crisi post-conciliare. Si profilerà, in sostanza, una nuova visione dei rapporti tra fede e politica, la “linea della presenza”, che porterà all’impatto con l’Azione cattolica della “scelta religiosa”.

-Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia? A qualche consiglio di lettura e di storiografia?

Ho iniziato ad amare la storia ai tempi del liceo e credo che tale passione derivasse anche dal mio impegno politico a livello studentesco e di movimento. Sono convinto che scrivere di storia sia un modo per cercare delle risposte alle domande che agitano ciascuno di noi. Inoltre, scrivere un libro di storia è anche un esercizio di autobiografia. Consiglio a questo proposito di leggere l’intera produzione di George Mosse, storico straordinario che ha impiegato la vita a occuparsi di storia alla ricerca di se stesso.

Intervista alla professoressa Maya De Leo sulla storia dell’omosessualità

Questa settimana ho deciso di intervistare la professoressa Maya De Leo che terrà il primo corso di Storia dell’omosessualità in Italia all’università di Torino.

 

– La prima domanda è personale: quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a passare dallo studio della Storia di genere alla storia dell’omosessualità ?

 

In realtà non è corretto individuare un “passaggio” tra le due cose: la storia di genere viene associata alla storia delle donne o delle relazioni tra uomini e donne, ma in realtà il campo di indagine della storia di genere è molto più vasto e comprende la costruzione delle identità di genere, maschile e femminile, la sessualità, la percezione dei comportamenti sessuali illeciti o proibiti, come l’omosessualità. Ho deciso di studiare l’omosessualità perché trovo cheindagare la costruzione normativa dei generi e delle sessualitàsia molto importante per comprendere fenomeni cruciali dell’età contemporanea, come hanno insegnato per primi i lavori di George Mosse.

 

– Quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta a proporre un insegnamento come storia dell’omosessualità?

 

Non l’ho proposto io: l’insegnamento mi è stato affidato dopo la selezione seguita al bando indetto dall’Università. Sinceramente sono stata molto sorpresa io per prima quando ho appreso che era stato attivato questo corso, ma anche molto contenta.

 

– Lei si aspettava le polemiche e le reazioni che sono sorte dopo l’annuncio di questo nuovo corso universitario?

 

Sì, so per esperienza che parlare di omosessualità in pubblico suscita sempre reazioni molto forti, sia positive che negative. Quelle negative indicano che le resistenze sono ancora molto forti, quelle positive che d’altra parte c’è molta “fame” di informazione su questo tema.

Lo striscione di Forza Nuova appeso a Palazzo Nuovo a Torino

– Questo insegnamento esiste in altre università italiane o estere?

 

Che io sappia in Italia non esistono altri corsi con questa denominazione, mentre corsi di storia dell’omosessualità sono presenti nelle università statunitensi (ad esempio Stanford e Berkeley), inglesi (il Goldsmiths College, dell’University Of London, ha creato lo scorso anno un Master in Queer History ed è stato il primo in tutto il mondo nel suo genere), e presso l’Université du Québec a Montréal. Questi sono quelli che conosco, ma sicuramente ce ne sono altrinel mondo: è impossibile elencarli tutti.

-Secondo lei perché si è arrivati ora, alla decisione di istituire questo insegnamento?

 

Da un lato perché sono avvenuti importanti cambiamenti di tipo culturale: dieci anni fa, quando ho discusso la tesi di dottorato (dedicata alle rappresentazioni dell’omosessualità tra tardo Ottocento e primo Novecento), l’omosessualità iniziava ad apparire timidamente come tema nel dibattito pubblico e politico, ora è sempre più presente e sicuramente vi sono maggiore attenzione e minore chiusura.

Dall’altro lato perché, a quarant’anni circa dalla sua nascita, la storia dell’omosessualità ha raggiunto un certo consolidamento accademico e una produzione storiografica di peso e qualità ragguardevoli che è giunto il momento di divulgare.

 

– In altri paesi, al momento dell’istituzione di un insegnamento simile ci sono state reazioni come  quelle avvenute ora in Italia?

 

Attualmente negli Stati Uniti e nel Regno Unito la storia queer non solo è una consolidata realtà accademica ma è entrata nelle scuole superiori attraverso l’istituzionalizzazione del LGBT+ History Month, iniziativa che prevede approfondimenti sul tema della storia LGBT+ e altre iniziative contro l’omotransfobia. Alcune polemiche hanno fatto seguito alla decisione di alcuni stati americani di introdurre la LGBT+ History nelle scuole medie.

– Quando è nata l’idea dell’omosessualità come malattia e chi furono i maggiori teorici di questo pensiero ?

 

La patologizzazione dell’omosessualità è un prodotto ottocentesco con cui facciamo i conti ancora oggi.I testi più influenti furono quello del medico inglese Havelock Ellis, Sexual inversion (1897) e Psychopathia Sexualis (1886) del medico tedesco Richard von Krafft-Ebing. In entrambi questi testi si sosteneva l’idea dell’“inversione”, ovvero che gli omosessuali avessero caratteristiche del sesso opposto. D’altro canto è bene sottolineare che questo tipo di lettura era apprezzata da parte degli omosessuali del tempo che la preferivano alla visione dell’omosessualità come vizio esecrabile o crimine (la sodomia era punita dal codice penale in Inghilterra e in Germania).

 

– Come ha influito la televisione sulla visione dell’omosessualità in età contemporanea?

 

La stereotipizzazione negativa nei film è stata sempre molto diffusa, anche se portata avanti per allusioni, poiché la censura ha impedito che fossero proposte perfino figure negative di omosessuali e lesbiche.

Sicuramente il moltiplicarsi di rappresentazioni, e soprattutto di rappresentazioni positive o comunque non stereotipicamente negative, ha influito positivamente negli ultimi decenni sulla percezione dell’omosessualità.

 

–  Come si è sviluppato il movimento di liberazione omosessuale in Italia? Negli ultimi anni è cambiato qualcosa?

 

La storia del movimento di liberazione omosessuale in Italia è intrecciata con quella del femminismo di seconda ondata degli anni settanta, con quella della sinistra extraparlamentare e del partito radicale: interlocutori con cui il dialogo non è stato sempre facile e nemmeno sereno. Ora la situazione politica è completamente diversa, e la comunità LGBT+si è affermata maggiormente come soggetto politico autonomo, non soloin quanto bacino di potenziali elettori e agente di mobilitazione per precisi obiettivi politici, ma soprattutto come soggetto collettivo e diffuso in grado di produrre cambiamento sociale e trasformazione culturale.

 

– Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. È consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, professoressa, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia? Ha qualche consiglio di lettura e di storiografia sull’argomento?

 

Mi sono iscritta a storia nel 1993, erano gli anni delle guerre jugoslave e sentivo il bisogno di strumenti che mi aiutassero a leggere un presente così tormentato. Il genere mi è sembrato da subito un’ottima chiave di lettura, poiché la sessualità costituisce uno spazio di articolazione primario dei rapporti di potere, delle tensioni sociali, dei conflitti e dei mutamenti che attraversano l’età contemporanea.

 

Sull’omosessualità segnalo due “classici” che purtroppo non sono stati tradotti in italiano:

 

George Chauncey, Gay New York: Gender, Urban Culture, and the Making of the Gay Male World, 1890 – 1940,Basic Books, New York, 1994.

 

Elizabeth Lapovsky Kennedy and Madeline D. Davis, Boots of Leather, Slippers of Gold: The History of a Lesbian Community,Penguin Books, New York1993.

 

Tra i lavori sull’Italia, in italiano, segnalo invece:

 

Lorenzo Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Feltrinelli, Milano 2005.

 

Massimo Prearo, La fabbrica dell’orgoglio. Una genealogia dei movimenti LGBT, ETS, Pisa 2015.

 

 

Intervista sulla Public history al professor Serge Noiret

Al termine dell’incontro che si è tenuto a Torino al Polo del ‘900 il 28 ottobre sul tema “Musei di  storia e Public History” sono riuscito ad intervistare il professor Serge Noiret.

Nell’ultimo periodo si parla sempre di più di Public History in che modo questa nuova concezione può aiutare la comunicazione della storia ad un pubblico più ampio?

La Public History non è soltanto comunicazione della storia, è anche formazione degli individui che porteranno la storia attraverso nuovi media a diversi pubblici. Si può benissimo pensare che una formazione in Public History, possa dare i mezzi ai musei e agli storici di confrontarsi con la narrazione all’interno di un museo, dunque con il linguaggio specifio che la storia attraverso il museo e le sue realizzazioni potrà fare. Cosicchè pubblici specifici di età, di comunità, di genere, di diverse etnie, pubblici diversi potranno conoscere la storia. La presenza della Public History è soprattutto il rivelare, che un campo disciplinare tocca molti mezzi di comunicazione, diversi pubblici, e che ha la capacità di agire insieme a questi pubblici, sia per parlare di storia che agire nel pubblico e nella società.

 

La Public History è nata negli anni settanta, cosa è cambiato nella Public History di oggi?

C’è una percezione del Public Historian diversa in base alle diverse culture dei paesi, in base anche all’esperienza storiografica nazionale e, dunque, ogni pase vede ciò in modo diverso. Anche nel tempo queste pratiche sono cambiate; per esempio, oggi abbiamo parlato di musei, è ovvio che il museo sia molto di attualità e, oggi, con un impatto delle tecnologie notevoli, il mutamento è dovuto all’impatto delle nuove tecnologie, il web, la condivisone possibile attraverso di esso. Vi è quindi, la possibilità finalmente, di far parlare le persone che hanno delle conoscenze e di metterle insieme di filtrarle e  farle partecipare a dei progetti. Questo ovviamente nel tempo è cambiato moltissimo.

 

In Italia si è iniziato a trattare di Public History negli ultimi anni, quali sono le motivazioni di questo ritardo?

La Public History è una cosa molto americana. L’idea della Public History nasce da una crisi della storia come veniva insegnata nelle università negli anni 70. E’ una crisi soprattutto del mercato della storia e degli storici all’interno dell’accademia; da qui quindi, la necessità di reinventare degli spazi professionali per gli storici professionali che venivano dall’università. Questo è successo negli Stati Uniti negli anni 70; da allora hanno strutturato dei programmi per formare il Public Historian. Stranamente non è passato in Europa perché in Europa la Public History si faceva già, senza sapere di fare Public History. C’erano molti storici che facevano una comunicazione nei musei, nelle biblioteche, negli archivi, nelle scuole, dove ci sono molti storici di professione, che praticavano la loro conoscenza della storia. Questo però non è mai stato riconosciuto come Public History, perché le diverse tradizioni nazionali non vedevano la Public History in quanto tale. Come diceva lei, sei, sette, forse dieci anni fa, si sono cominciate a vedere soprattutto in Italia; personalmente ho fatto molto per avvicinarmi alla Public History Nord americana, per vedere come questa Public History potesse funzionare all’interno delle strutture, culturali e storiche anche nel nostro paese. Mi sono reso conto che molte persone reagivano in modo diverso quando si parlava di Public History e non più di uso pubblico della storia, non nei media, ma di uso pubblico della storia per sottostare a delle volontà politiche ideologiche momentanee per creare delle memorie attive ad un certo punto. Quando siamo usciti da questo e abbiamo inizato a parlare di storia, con chi lavorava in diversi ambiti, si sono riconosciuti nella Public History sul modello americano, nel senso che tutte le persone avevano in comune il modo di trattare di storia con i pubblici più diversi, grandi e diversificati. È come una scintilla il concetto della Public History, che rivela alle persone che già da trent’anni lavorano. Io ho sentito tantissime volte qualcuno dirmi “quello che mi sta spiegando io lo faccio da trent’anni”, solo che magari questa persona era un archivista. Io spiegavo che l’archivista fa parte della Public History e che ha una sua posizione professionale, che lavora con la storia nel suo ambito. Si rivelava allora a queste persone, che erano parte di qualcosa di più grande di loro, che aveva delle problematiche epistemologiche e metodologiche comuni e, che dunque, potevano fare insieme della storia come il ministero in Italia che raggruppa turismo, musei, archivi, biblioteca, le gallerie. Quindi ha appreso che l’associazione internazionale di Public History, che è stata fondata nel 2012 ha nei suoi compiti quello di favorire la creazione di associazioni nazionali per tenere insieme questi professionisti .

Lei prima parlava di una funzione civile della Public History per sostituirsi all’uso pubblico della storia. Questa funzione civile però la storia l’ha sempre avuta perché ora questo concetto riemerge?

La storia ha sempre avuto una funzione civile, ma era molto poco presente nei vari pubblici e mancavano gli agganci con la popolazione, con le comunità locali con le problematiche delle comunità locali che non erano così evidenti come oggi lo sono.  Dunque quando si dice che gli storici universitari in grande parte, a parte quelli che escono dal laboratorio universitario per scrivere articoli sui giornali per commentare o  in una trasmissione televisiva come esperti, questi storici hanno una visione pubblica della storia e sono visibili pubblicamente. A parte questo la storia è fatta in stragrande parte da persone che dentro l’università scrivono non pensando alla diffusione, all’interazione con i pubblici più vasti, differenziati e anche pubblici qualificati, non sto parlando solamente di divulgazione, loro parlano tagliando fuori la popolazione e dunque, quello che la Public History ha fatto, è stato quello di ridiventare sociale reinventando un  ruolo sociale dello storico, ponendolo al centro della comunità nella quale e con la quale riflettere di storia. Questo è l’elemento centrale e civile della Public History: è la capacità di portare verso la gente una riflessione e un metodo storico, che è quello professionale dell’accademia, ma che l’accademia ha concentrato verso i libri che leggono in pochi, e che si stampano in poche copie e che servono a riprodurre la propria riflessione storica, accademica indipendentemente dall’impatto che questi lavori potrebbero avere verso un pubblico più vasto, sono rintanati e rinchiusi all’interno dell’università per produrre anche dei lavori, per passare da ricercatore ad associato ad ordinario, quindi dei lavori fatti soprattutto in funzione di questo cursus honorum nelle università. Non pensando all’impatto che questi lavori, se diffusi, potrebbero avere su diversi media e diversi pubblici.

 Che rapporto c’è tra Public History e il web e come può intervenire?

Diciamo che il web stimola la dimensione partecipativa, soprattutto del web 2.0 che nasce prima con Wikipedia nel 2001; perché la persona che contribuisce a Wikipedia, non è più solo un lettore diventa autore, quindi il pubblico interagisce con lo strumento del web. Questa modalità si è sviluppata dopo il 2004 con le varie piattaforme sociali i social software che noi chiamiamo socialmedia. Queste piattaforme, questa capacità tecnologica all’interno del progetto, ha dato una dimensione straordinaria perché ha diffuso quello che era l’essenza stessa della Public History, cioè il web e la rete hanno dato delle possibilità di realizzare progetti di Public History per la comunità, come progetti locali sul territorio, ma poi legati alla tecnologia del web, per costruire percorsi di conoscenza che vanno oltre alle persone del territorio stesso e integrare progetti di rete, musei e mostre degli archivi di rete che hanno rivoluzionato completamente la Public History. La Public History da quando è in rete è diventata Digital Public History cioè storia pubblica digitale e questa storia pubblica digitale ha le capacità di fare per il pubblico e con il pubblico dei lavori per la storia.

 

 

Qual è stato il suo percorso personale? Ha qualche consiglio di lettura su questo argomento?

 

Il mio è un percorso tradizionale: ho fatto il dottorato di storia contemporanea su delle tematiche molto tradizionali come la crisi dello stato liberale in Italia e la nascita del fascismo, poi mi sono occupato di storia comparata dei sistemi elettorali in Europa. Ho insegnato per l’università di Urbino. Quando è nato internet, visto che io lavoravo come storico in una biblioteca all’Istituto universitario europeo di Firenze, ho iniziato a costruire siti web per la bibliteca e l’istituto universitario e mi sono reso conto delle nuove problematiche di accesso all’informazioni, e alla documentazione del pubblico e soprattutto degli storici. Da quel momento,metà degli anni 90, sono più di vent’anni adesso, io mi sono dedicato a capire come le nuove tecnologie stavano cambiando il mestiere dello storico il rapporto con le fonti, la scienza della documentazione, le tecnologie, la critica dei documenti come questo cambiava. Andando avanti ho scoperto la Public History americana, che di questo anche cominciava a parlare e faceva i primi grandi progetti copartecipati come “September eleven” che è un progetto fatto da storici su modello locale a Mannhatan, nazionale negli Stati Uniti, ma mondiale, per ciò che la guerra contro il terrorismo a livello internazionale. Quindi aveva livelli diversi e, solo la rete, e la capacità di avere le memorie e l’esperienze di tutti, avrebbe potuto fare questo. Questo è stato il mio percorso che dalla storia pubblica è diventato di storia pubblica digitale. All’interno della Public History, che è fatta di pratiche diverse e di conoscenze personali diverse, io posso, se voglio dare qualcosa di personale. questa cosa la dò attraverso la storia pubblica digitale. Cioè questo impatto delle tecnologie nel cambiare la Public History stessa e di lì la mia expertise.

Ci sono diversi testi usciti in italiano, a parte i testi in inglese che sono importanti. In italiano esiste il mio fascicolo di memoria e ricerca del 2011 “ Public History una disciplina senza nome” che tratta di quello che dicevo prima, e cioè che ci sono diverse persone interessate, perché riguardano argomenti diversi. Un altro saggio secondo me importante che è stato pubblicato da ricerche storiche nel 2009 è il numero sui ”media e la storia”, in cui io ho parlato proprio della storia e la rete e la fotografia digitale. Dopo questi due in Italia, segnalo quello prima del convegno di Ravenna di questo Giugno, dell’Associazione italiana di Public History. Uno si intitola “Public History” (Mimesis,  2017) con delle pratiche, che è stato elaborato da chi fa il master in Public History a Modena e un altro è una raccolta di saggi di Maurizio Ridolfi intitolato “Verso la Public History” (Pacini, 2017). Dopo di questo c’è la partecipazione al numero della rivista Zapruder “ Di chi è la storia” che è un saggio sulla storia pubblica digitale che viene pubblicato inglese, spagnolo, portoghese, cinese russo e anche in italiano. Questa è stata la dimensione più importante. Nel 2015 c’è stata un’altra interpretazione della Public History in Italia, da parte di Angelo Torre in un numero monografico di Quaderni storici.

Un’intervista su Craxi e il Psi al professor Luigi Musella

 

L’intervista di oggi è al professor Luigi Musella  autore di una biografia su Craxi  ( Salerno Editrice. 2007)  e insegna Storia Contemporanea presso l’Università di Napoli «Federico II».

Craxi come politico è stato una delle figure principali della storia dell’Italia repubblicana, tuttavia  poche sono le biografie e gli studi che si sono occupati di lui:. Secondo Lei ciò a cosa è dovuto? Quanto questa mancanza di studi è influenzata dal modo in cui è terminata la vicenda politica di Craxi?

Sicuramente in Italia c’è sempre stato un legame tra politica e storiografia. In qualche modo gli storici hanno sempre ritenuto che l’oggetto della ricerca fosse rappresentativo della propria inclinazione politica. Non c’è dubbio, quindi, che Craxi ancora oggi è carico dei valori che la sua fine politica gli ha attribuito.

-In che contesto si  è formato il giovane Craxi  e che ruolo ebbe il padre nella sua formazione?

Craxi si è formato in un clima politico che all’ideologia attribuiva molto peso. La vicenda del padre ha influito molto, soprattutto per i suoi rapporti con il Pci, ritenuto un partito poco democratico e oppressivo nei confronti del Psi. E’ chiaro, inoltre, che la sua iscrizione al Psi s’inseriva in una forte tradizione familiare.

-L’ascesa di Craxi alla segreteria del PSI avvenne in un momento particolare cioè quando era finita la formula di governo del centro-sinistra e nella fase in cui si iniziava a parlare di compromesso storico. Quale era la situazione interna al PSI quando Craxi diventò Segretario del  partito?

 

Il Psi usciva da una pesante sconfitta elettorale. Era poi finito un ciclo politico che imponeva un ricambio generazionale. De Martino e Mancini erano, in qualche modo, alla fine della loro leadership nazionale. Craxi sembrò a molti una soluzione transitoria. Si sottovalutò il carattere del leader, che lottò non poco negli anni successivi per affermare il suo dominio.

 

-In che modo Craxi cercò di dialogare con la DC evitando un ritorno all’esperienza del centro-sinistra?

In realtà Craxi cercò di affermare un ruolo nuovo per il Psi. Tra Dc e Pci ritenne che il Psi dovesse far valere la propria centralità e necessità per la formazione di una maggioranza. Quindi, nonostante il piccolo peso elettorale, i socialisti avrebbero dovuto puntare alla propria indispensabilità. Il centro-sinistra, secondo Craxi, aveva finito solo per esaurire i socialisti, utilizzati strumentalmente dalla Dc.

 

-Durante il sequestro di Aldo Moro, Craxi prima sostenne la linea della fermezza, successivamente la linea della trattativa,quali furono le motivazioni che portarono a questo cambiamento?

Craxi fu più un abile tattico che uno stratega. La sua scelta su Moro servì a esaltare il Psi in una posizione un po’ solitaria, ma che lo potesse ripagare sul piano del consenso.

 

-Nella parte finale del suo libro scrive di un rapporto molto stretto tra Craxi e Cossiga, questo rapporto era già presente anche quando i due ricoprivano incarichi istituzionali?

Si.

 

-Un aspetto importante per capire Craxi e la sua esperienza politica è quella del suo anticomunismo, in che contesto politico e culturale maturò questo suo anticomunismo che caratterizzerà tutta la sua vicenda politica?

L’anticomunismo di Craxi fu deciso fin dalle sue prime esperienze a Sesto S. Giovanni. Poi ci furono i viaggi giovanili nei paesi dell’est. Riteneva il Pci un partito antidemocratico al suo interno e un partito che voleva imporre la dittatura al paese. Poi, memore dell’esperienza politica paterna, non credeva assolutamente in una alleanza tra Pci e Psi. I comunisti, secondo lui, volevano solo egemonizzare gli altri partiti di sinistra.

 

-Uno degli episodi più studiati dell’esperienza politica di Craxi è quello che successe a Sigonella. In che contesto internazionle si sviluppò questa vicenda?

Craxi ha sempre creduto che l’Italia dovesse avere un ruolo nevralgico nel Mediterraneo e ha sempre avuto un buon rapporto con i paesi del Mediterraneo. E’ nota la sua sintonia con Arafat. Anche se questa sua politica trovò spesso una sponda favorevole in molti democristiani. Sigonella fu la riaffermazione dell’autonomia dell’Italia soprattutto nei confronti degli Stati Uniti.

 

La crisi del Psi e l’ascesa alla segreteria del partito di Craxi

Cinquecentenario della Riforma. Intervista a Adriano Prosperi

 

Adriano Prosperi  è professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.

 

 

Il Cinquecentenario della Riforma Protestante ha portato ad un numero maggiore di pubblicazioni sull’argomento, ciò ha favorito anche un  maggior dibattito?

 

L’occasione del quinto centenario hastimolato in tutti i paesi la produzione di studi di tipo biografico o dedicati a particolari aspetti dell’opera di Lutero. Si tratta in generale di opere d’occasione , nate per fornire al lettore informazioni aggiornate sulla vita di Lutero o sul contesto storico in cui avvenne l’avvio della Riforma protestante. Io ne  cito alcune nel mio libro: si tratta di opere di biografi –  per esempio quella di Heinz Schilling, Ein Rebell, Martin Luther, tradotta in italiano dalla Claudiana – , di sistemazioni complessive delle conoscenze biografiche  su di lui   (Scott H. Hendrix, M. Luther, Yale U.P.) ci sono tentativi di riprese di antichi temi di ricerca,  come quello del rapporto tra il successo di Lutero e l’efficacia delle immagini e della stampa a caratteri mobili (Andrew Pettegree, Brand Luther). Scarse e generiche le opere di autori italiani e cattolici. Lutero non è  fra i temi più studiati dalla tradizione maggiore della  storiografia italiana, che invece si è dedicata alla storia deìi movimenti religiosi radicali e delle tendenze  riformatrici sviluppatesi allora in Italia (penso a Massimo Firpo).  Nella cultura anglosassone invece è ancora vivo un interesse speciale per il contributo della stampa alla Riforma e per la questione della libertà e delle sue origini, ma anche per l’antica questione se alle origini della modernità ci sia la Riforma protestante o il Rinascimento italiano.

 

Nel corso della storia del cristianesimo ci furono altri movimenti che portarono avanti istanze simili a quelle di Lutero, ma non sfociarono nella divisione del cristianesimo . Quali furono le novità che permisero alle idee di Lutero di avere questo successo? Tale successo può essere ricondotto anche alla situazione in cui si trovava il Sacro Romano Impero della Nazione Germanica?

 

Tra le cause della diffusione delle idee di Lutero bisogna tenere presente l’avvento della stampa a caratteri mobili, sicuramente un fattore importante; Lutero stesso  poté servirsi dello stampatore da lui fatto venire a Wittenberg e, da un certo momento in poi (dal 1518 almeno) del fatto che gli stampatori anche i più importanti si disputavano i suoi scritti per pubblicarli tale era il succeso fra i lettori. L’altra causa naturalmente fu la situazione della Germania, con le tensioni sociali (tra contadini servi della gleba e proprietari feudali, tra stati territoriali e Impero, ribellismo dei cavalieri , sviluppo di una borghesia colta nelle città, nascita di una coscienza nazionale tedesca etc.). Fu qui che di fatto  il sistema di potere finanziario e religioso del papato romano creò le condizioni della sua crisi.

 

 

 

Contemporaneamente alle idee di Lutero, in Europa, si diffusero altre idee di riforma. Quali furono le condizioni che portarono proprio in quel periodo, alla diffusione di così tante idee di Riforma e alla nascita di diverse chiese cristiane?

 

La crisi nacque dal mutamento del rapporto tra religione, potere  e società così come l’aveva conosciuto il mondo cristiano europeo occidentale del Medioevo. Il papato con la sua rivoluzione dell’XI-XIII secolo si trasformò in un potere totale politico-religioso, fonte suprema di diritto,  che si finanziava gestendo e distribuendo le rendite delle chiese, delle abbazie e delle fondazioni religiose locali e tassando chi si rivolgeva ai suoi tribunali e chiedeva la concessione di benefici. La crisi ebbe diverse manifestazioni a partire dal secolo  XV: il ritorno del papato al centro della Chiesa con la condanna del conciliarismo, il fallimento dei progetti di riforma dibattuti nei concili fino a quello convocato da Giulio II e portato a termine da Leone X (Concilio Lateranense V); di fatto mancò una riforma della Curia papale e della Camera apostolica. La struttura finanziaria del governo centrale del papato, abbandonata in gran parte la raccolta delle decime (per cederla ai sovrani degli stati che in cambio appoggiarono il papato e strinsero con lui i diversi concordati) la sostituirono coi proventi di uffici come la Dataria, la Penitenzieria e col controllo delle nomine dei titolari dei benefici ecclesiastici. Lo scandalo delle indulgenze denunziato da Lutero fu un episodio che nacque da un caso in cui a un vescovo si permise di cumulare le rendite di più diocesi facendogli pagare una tassa particolarmente alta. Da più parti si chiedevano vescovi e clero residenti e dediti al governo religioso dei popoli; si chiedeva unariforma degli ordini religiosi, corpi sottratti alle autorità locali e direttamente dipendenti dal papato.E con l’umanesimo cristiano rappresentato specialmente da Erasmo da Rotterdam si diffuse l’esigenza di una religione fondata sull’imitazione di Cristo come modello morale e di una conoscenza diretta della Sacra Scrittura da parte del popolo cristiano. Intanto in Boemia si era radicata la dottrina di Hus, che era stato mandato al rogo al concilio di Costanza. E sopravvivevano tendenze ereticali evangeliche e pauperistiche come quella dei valdesi o degli spirituali francescani.

 

 

Nel libro “Riforma” di MacCulloch si insiste molto sull’idea di Riforma come divisione della casa comune Europea, secondo Lei questo concetto è legato solo all’ambito religioso o la Riforma ha portato anche ad una divisione politica?

 

La tesi dello storico anglicano  MacCulloch si basa su di una constatazione di fatto: le divisioni tra le nazioni europee hanno una radice evidente nella frattura cinquecentesca tra le diverse “confessioni” cristiane. L’Europa unita sotto un solo sovrano e sotto un solo pontefice fu il sogno imperiale di Carlo V e entrò in crisi proprio alla Dieta di Worms.

 

In che modo la Riforma si diffuse nei paesi cattolici e, in particolare, in Italia?

 

La riforma luterana si diffuse anche in Italia attraverso la stampa con la lettura delle sue opere che furono molto diffuse. Spesso si cercò di mascherarne le idee e i testi sotto il nome di Erasmo, ma la caccia accanita condotta dalla polizia religiosa dell’Inquisizione, centralizzata a Roma con la Congregazione del Santo Ufficio dell’Inquisizione, estirpò ogni traccia di quella che apparve come una “infezione” ereticale.

 

 

Una delle novità che la Riforma portò all’interno della chiesa cattolica, fu la nascita di un nuovo ordine religioso, quello della Compagnia di Gesù. Il fondatore di questo ordine tentò di fare una riforma dall’interno della Chiesa. In che modo questo nuovo ordine rispose alla Riforma?

 

La Compagnia di Gesù nacque col progetto del gruppo dei fondatori di raggiungere la perfezione soirituale attraverso le forme tradizionali dell’ascesi , del pellegrinaggio a Gerusalemme e della dedizione alle opere della carità  . Ma quasi subito adottò il modello militare della Compagnia obbediente a un generale e si mise a totale disposizione del papato, specializzandosi nell’insegnamento, nell’ascolto delle confessioni e nell’opera della conversione di  eretici  e della evangelizzazione dei popoli non ancora cristianizzati. Di fatto, attraverso l’organizzazione di Collegi e di “missioni”, cioè campagne di predicazione nelle campagne o  nei paesi colonizzati dalla Spagna e perfino nei paesi dell’Estremo Oriente , finì con l’incarnare il volto di una Chiesa che reagiva alle conquiste della Riforma protestante ampliando l’orizzonte geografico della sua presenza e diventando così “cattolica”, cioè universale.

 

 

 

Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, professore , quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia? Può consigliare qualche lettura storiografica o di letteratura?

 

Le ragioni per cui ho praticato il mestiere di studioso e  insegnante di storia risiedono nel fascino che ha avuto sempre per me la possibilità di conoscere attraverso libri e documenti d’archivio persone e vicende del passato. Gli stimoli iniziali sono stati  quelli della grande letteratura europea dell’800 : si parte dall’incontro con la storia interpretata e raccontata dai grandi scrittori e  si finisce col cercare di sapere di più di tempi e di esseri umani remoti nel tempo e nello spazio. Non è un mestiere difficile, al contrario. Ai miei studenti ho consigliato sempre di leggere due libri come approccio allo studio e alla ricerca: Lev Tolstoi, Guerra e pace; Marc Bloch, Apologia della storia .

 

 

Aldo Moro. Lo statista e il sua dramma. Intervista al professor Guido Formigoni

Ho deciso di intervistare  il Prof. Guido Formigoni  che insegna Storia contemporanea nell’Università IULM di Milano autore di diversi libri:  “La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale” (1996), “Storia della politica internazionale nell’età contemporanea” (nuova ed. 2006) ,  “L’Italia dei cattolici” (2010) e “Aldo Moro” ( 2016).

  • Molto spesso, quando si parla di Aldo Moro, ci si concentra in particolare sui 55 giorni, lei invece si è occupato molto della sua formazione. Che rapporto ebbe il giovane Aldo Moro con il Fascismo?

 

Moro (nato nel 1916) ebbe tutta la sua formazione infantile e giovanile nell’ombra del regime fascista, che cadde quando lui era un giovane di 27 anni. La sua famiglia non era fascista per ideologia, ma nemmeno apertamente antifascista. Il padre agnostico e liberale, ebbe qualche difficoltà nella sua carriera di ispettore scolastico, ma non fu certo un perseguitato; la madre, donna attiva e intellettualmente dotata, era una cristiana appassionata. Il giovane Aldo si formò nelle associazioni cattoliche e in particolare nella Federazione universitaria, la Fuci, dove negli anni ’30 l’eredità di Montini di un netto quanto silenzioso riserbo verso il regime si era modificata sensibilmente: era divenuta più diffusa la convinzione che fosse necessario fare i conti con la prevedibile durata della dittatura, cercando di orientare le posizioni sociali e culturali al suo interno. Moro quindi mostrò con i suoi studi giuridici (e particolarmente filosofico-giuridici) di ispirarsi a una visione eclettica, tutt’altro che organica alle correnti stataliste gentiliane, ma molto interna alla rivalutazione della statualità rispetto alla cultura cattolica tradizionale. Partecipò da studente universitario ai Littoriali, come scelta non personale ma probabilmente come parte di una generazione che intendeva condividere i percorsi dei propri coetanei, discutendo anche di “dottrina del fascismo”. Si iscrisse al Pnf per poter iniziare la carriera universitaria. Insomma, esprimeva una linea prudente e moderata nei comportamenti, quanto solida nelle convinzioni personali e ideali di distanza dal totalitarismo. Il fatto che fosse militare al Sud quando il regime crollò, non gli fece nemmeno sperimentare il dilemma delle regioni del nord e la possibilità dell’azione resistenziale. Da qui probabilmente anche i caratteri del suo antifascismo successivo (citato in Costituente e più volte ripreso nella sua attività pubblicistica e politica): non tanto militante e ideologico, ma attento a porre netti e precisi argini sostanziali all’eredità del fascismo nella società italiana.

 

2- Che idee differenziarono Moro dal gruppo dei “Professorini di Milano”?

 

Su questo punto ci sono ancora dibattiti aperti, anche perché le carte non hanno fornito appoggi solidissimi per precisare il discorso. Secondo me, Moro fu molto vicino a Dossetti, non solo – come sappiamo – nel lavoro costituente, ma anche dopo il 1947 nello sviluppo della sua corrente e della conseguente battaglia politica per attuare la prima parte della costituzione: il disegno cioè di un moderno Stato democratico-sociale di impronta europea. Questa resterà la sua ispirazione politica fondamentale per tutta la vita. Differenziandosi però da Dossetti, maturò dall’incontro con De Gasperi una visione meno contrapposta all’azione dello statista trentino, e in particolare – direi così – colse quello che De Gasperi aveva fatto per consolidare la democrazia italiana, introiettando nella Dc il moderatismo e il conservatorismo nel 1947, con la scelta di rompere l’alleanza ciellenistica e smontare la pressione delle destre. Moro resterà sempre convinto che ogni evoluzione riformatrice della società italiana nel senso del progetto democratico-sociale della Costituzione, dovesse essere attentamente e prudentemente gestita per evitare di creare una reazione nel ventre molle conservatore del paese. Espressione politica di ciò era la convinzione che bisognasse portare la Dc unita – cosa non sempre facile, anzi – alle svolte politiche più importanti.

 

3- Un evento importante che accadde mentre Moro era segretario della Dc fu la vicenda del “Piano solo”. Che ruolo ebbe Moro in tale vicenda?

 

Oggi conosciamo piuttosto bene la vicenda, dopo anni di polemiche anche fuorvianti ed esagerate. La crisi del luglio 1964 fu uno dei momenti più alti della reazione alla costituzione del centro-sinistra, che proprio con Moro aveva appena portato i socialisti al governo. Il vero perno dell’operazione fu Segni dal Quirinale, che intendeva favorire la costituzione di un governo tecnico fuori dai partiti, per bloccare le riforme e dar credito alle forze proprietarie, che nel paese vedevano preoccupatissime montare la cosiddetta “congiuntura” economica critica (proprio per effetto delle prime battaglie salariali e delle ipotesi di aumento della spesa pubblica). Segni si preoccupò di possibili reazioni di piazza (il caso Tambroni era fresco) e quindi fece preparare un piano d’emergenza al comandante dei carabinieri De Lorenzo, che ipotizzava in caso di disordini di far scattare le note misure autoritarie (compresa l’”enucleazione”” di dirigenti della sinistra). Era una contro-preparazione difensiva, per sostenere una manovra certamente per lo meno al limite delle prerogative costituzionali della presidenza. La crisi di governo fu durissima, ma alla fine Moro riuscì a salvare l’asse con Nenni e a portarsi dietro la Dc del segretario Rumor, confermando l’alleanza di centro-sinistra. Il prezzo da pagare a Segni e alle componenti politiche che lo appoggiavano fu il ridimensionamento del programma.

 

4-  Un ruolo importante che Aldo Moro ricoprì fu quello di Ministro degli Esteri. In che modo cercò di intervenire nella politica estera italiana?

 

Egli fu ministro quasi ininterrottamente dal 1969 al 1974, cioè nel periodo della cosiddetta distensione e dell’emergere del terzo mondo. Aveva pian piano costruito una statura internazionale negli anni della presidenza del Consiglio, ma in questi anni era un uomo sconfitto e piuttosto isolato nel suo stesso partito, per cui l’azione da ministro soffrì di certi limiti. Possiamo però dire che egli confermò la sua visione del solido ancoraggio atlantico e del primato della scelta europea dell’Italia, allargando però il senso di queste scelte, alla luce della comprensione dei mutamenti internazionali e del nuovo protagonismo dei popoli extra-europei. Soprattutto nel Mediterraneo, questo significava tentare di appoggiare una soluzione dei conflitti il più equilibrata e avanzata possibile.  Si equivoca definendola una linea “filoaraba”: era una linea che voleva tenere assieme la difesa di Israele e la pressione per una soluzione pacifica, che interloquisse con i leader del mondo arabo. Questa idea si collegava all’ipotesi che la distensione bipolare, immaginata inizialmente dalle superpotenze come strumento di ingessatura degli equilibri, potesse trasformarsi anche grazie all’azione europea (si pensi all’Ostpolitik tedesca) e a quella più modesta ma non inesistente italiana. Dando così vita a un processo di graduale superamento dei blocchi politico-militari: non a caso egli appoggiò molto la conferenza di Helsinki e la creazione della Csce.

 

5- Nel momento del sequestro di Aldo Moro vi erano molte figure che avevano un ruolo più importante rispetto a lui, tra le quali: Enrico Berlinguer, segretario del Pci, Giulio Andreotti, Presidente del consiglio, Benigno Zacagnini, segretario della Dc. Perché le BR scelsero Aldo Moro?

 

Difficile da dire: secondo l’autoricostruzione dei brigatisti che hanno parlato, Moro era semplicemente un simbolo dell’odiato potere democristiano, più facile da rapire rispetto ad altri più protetti. Resta però il dubbio che con il suo rapimento si volesse colpire la sua politica: non tanto, come spesso si è detto l’“apertura ai comunisti”. Moro non pensava che la proposta del compromesso storico di Berlinguer fosse realistica. Non credeva a un governo con il Pci nel breve periodo. Ma intendeva gestire un difficile percorso di transizione, che evitasse contrapposizioni frontali in un periodo difficilissimo per il paese, per non far saltare le fragili istituzioni. Dando contemporaneamente una sponda alla continua evoluzione ideologica del Pci, proprio con il coinvolgerlo maggiormente nella dinamica istituzionale e parlamentare. Era certo un percorso complesso e delicato, che i brigatisti non potevano che odiare, perché contribuiva a consolidare la democrazia e a allontanare il sogno ingenuo della “rivoluzione”. Venuto meno il suo più sperimentato registro, la “solidarietà nazionale” avviata con il governo Andreotti del 1976 non doveva durare moltissimo (anche se paradossalmente il rapimento nel breve periodo la consolidò).

 

6- Secondo lei perché non venne mai presa in considerazione la “linea della trattativa”, da parte dei maggiori esponenti della Dc?

 

Per certi versi, la linea della trattativa in pubblico era inammissibile e inoltre fu sabotata dagli stessi brigatisti, che resero nota la prima lettera di Moro a Cossiga, che l’affacciava come ipotesi da gestire in modo segreto e riservato. Il problema non è quindi primariamente il conflitto fermezza-trattativa, che era una contrapposizione piuttosto formale: l’ondivaga tattica di gestione del sequestro da parte delle Br sembrò a un certo punto chiedere il rilascio dei compagni in prigione più che altro come mossa di “propaganda armata”, tesa a convincere l’opinione pubblica che sarebbero stati i capi democristiani a volere Moro morto per non scegliere la trattativa (e questo fu forse uno dei pochi loro successi nel medio periodo…). Del resto, alcuni tentativi di trattativa riservata pure ci furono, anche se tutti molto deboli (ad oggi ne conosciamo uno promosso da Vaticano, uno che fece capo al rapporto tra i socialisti e alcuni militanti dell’Autonomia operaia, forse uno attraverso i palestinesi…). Il punto vero, rispetto all’azione degli apparati dello Stato e dei vertici politici responsabili fu l’incredibile impressione di passività e incapacità a gestire gli aspetti polizieschi del problema.  Tale incapacità a coniugare la fermezza pubblica con l’efficacia poliziesca è difficile dire se sia solo frutto delle debolezze e inefficienze tipiche del momento, oppure fosse anche condizionata dall’azione di gruppi di potere che odiavano Moro (si pensi al fatto che molti dirigenti degli apparati di sicurezza si rivelarono poi iscritti alla centrale politico-affaristica che si chiamava P2)…

 

 

7- Nel memoriale di Moro emergono forti critiche alla Dc e nelle ultime lettere emerge la sua volontà di abbandonare la Dc. Questa scelta era dovuta a come si stava sviluppando il partito, cioè alla volontà della Dc di proseguire con la linea della fermezza, o vi erano dei problemi all’interno della Dc che Moro vedeva ormai come irrisolvibili?

 

Difficile esprimersi con cognizione di causa: possiamo solo ipotizzare cosa passasse per la mente di Moro e le lettere dalla prigione brigatista sono da noi conosciute in forma solo occasionale e incompleta. Oggi non credo sia più possibile dire che non sono moralmente ascrivibili a Moro, come fu fatto nella durezza degli eventi. Ma nemmeno possono essere considerate come frutto sicuro di un ragionamento libero, ovviamente. Erano frutto di uno stato di costrizione, cui lo statista cercava con fatica di sottrarsi. Abbiamo contezza del fatto che ci fosse una sorta di doppia censura brigatista: alcune lettere furono scritte e poi non consegnate al destinatario, altre fatte scrivere e riscrivere più volte con intenzione di usarne versioni diverse. Tra l’altro egli era informato solo parzialmente e surrettiziamente dai brigatisti di quello che succedeva fuori. Perché Moro accettò di scrivere? Era subalterno e indifeso?  Si fece condizionare dalla “sindrome di Stoccolma”? Probabilmente è più facile immaginare che egli tentasse, in condizioni drammatiche, di esercitare per l’ultima volta la sua capacità di fare politica, di persuadere, di muovere gli eventi. Per salvarsi, certo, ma in una logica pienamente coerente con la solidità dello Stato democratico. Appare certo un crescente risentimento di Moro verso i suoi sodali di partito, che probabilmente avvertì come deboli e incapaci di offrirgli una sponda. Sotto questo elemento personale, però, trasparivano bagliori della sua lucida consapevolezza della crisi di un sistema. Erano gli elementi di un dramma interiore che egli stava già vivendo da anni, cogliendo come i partiti e la sua stessa Dc fossero sempre meno in grado di guidare una società che stava diventando articolata, disordinata e complessa, molto più di quella della ricostruzione. Forse, proprio il fallimento dello Stato in via Fani e nella gestione efficiente dell’emergenza costituirono per lui segnali di una crisi e di un logoramento rapidissimi.

 

 

La preparazione della Marcia su Roma

Quando si parla comunemente di marcia su Roma si intende quella particolare spedizione militare avvenuta negli ultimi giorni dell’ottobre del 1922 con la quale i fascisti mossero verso la capitale. In realtà, l’espressione marcia su Roma può riguardare un avvenimento molto più ampio, di preparazione alla fase finale che si concluse il 28 ottobre.

Le vicende dell’ottobre 1922 ci sono note solo nei loro tratti principali, ma appena si cerca di approfondire emerge una complessità molto ampia di cui si possono notare due problemicentrali: il ruolo giocato dalla Corona e quello del Governo. Questa situazione fu molto complessa tanto che ancora oggi le stesse istituzioni, i giornali, i partiti non conoscono le proporzioni, i caratteri, le finalità complessive del movimento.

In quel periodo si era definitivamente manifestata, a partire dai primi mesi del 1922 la crisi dello Stato liberale, infatti i due Governi che si succeddettero nel 1922, il Governoguidato da Ivanoe Bonomi e quelli guidati da Luigi Facta erano Governi estremamente deboli che si basavano su una maggioranza eterogenea composta dal Partito Liberale Italiano, Partito Popolare Italiano, Partito Democratico Sociale Italiano, Partito Socialista Riformista Italiano e Partito Agrario.

Il succedersi dei fatti è abbastanza conosciuto; Mussolini prepara la marcia su Roma, il Governo risponde con un mezzo non raro nella storia dell’Italia liberale, proclamando lo stato di assedio che consente l’impiego dell’esercito.Il re inizialmente accetta la scelta del Governo, ma il 28 ottobre, quando si tratta di passare ai fatti, si rimangia la parola e si rifiuta di avviare l’azione repressiva da parte dell’esercitodel Governo. Il Presidente del Consiglio presenta le dimissioni, seguendo la consuetudine che fa capire come ancora nel 1920 la fiducia del sovrano sul Governofosse ancora importante, il re accetta immediatamente. Questa è in estrema sintesi quello che è successo in quei giorni, ma gli svolgimenti e le implicazioni disegnano un quadro più complesso fin dall’organizzazione della marcia su Roma.

Per tutto il 1922 c’erano state già quelle che da molti storici sono consideratedelle prove generali delle anticipazioni della marcia su Roma con l’occupazione di Bolzano, Trento, Bologna e altri centri minori che rinforzavano il ruolo politico militare del fascismo nel Paese.Il 26 settembre 1922 Mussolini si recò a Cremona tra l’entusiasmo delle camicie nere; dopo il consueto discorso introduttivo di Farinacci, parlò  il leader del fascscismo: “È dalle rive del Piave che noi abbiamo iniziato una marcia che non può fermarsi fino a quando non abbiamo raggiunto la meta suprema: Roma”.Il 24 ottobre ci furono ulteriori prove generali con il grande concentramento di Napoli, il piano ormai consolidato era quello di conquistare prima la periferia come era stato su scala minore, ma questa volta l’obbiettivo era la capitale. Lo squadrismo voleva quindi forzare la mano a quella parte politica liberal-moderata monarchica, sostenuta dalla Confindustria che guardava con simpatia al fascismo, ma che avrebbe concesso in un Governo di centro-destra solo qualche ministero al fascismo. Divisa l’Italia in dodici territori, Mussolini e i quadrunviri lasciarono la grande manifestazione di Napoli, tutti avevano dei compiti precisi che dovevano svolgere in poco tempo tra il 25 e il 27 ottobre;inoltre il piano insurrezionale era stabilito in cinque tempi come ha  scritto  lo storico  Renzo De Felice:

1-Occupazione degli uffici pubblici delle principali città del Regno;

2-Concentramento delle camicie nere a Santa Marinella, Perugia, Tivoli, Monterotondo, Volturno;

3- Ultimatum al Governo di Facta per la cessione generale dei poteri dello stato;

4-Entrata a Roma e presa di possesso ad ogni costo dei ministeri. In caso di sconfitta le milizie fasciste avrebbero dovuto ripiegare verso l’Italia centrale, protette dalle riserve ammassate nell’Umbria;

5- Costituzione di un Governo fascista in una città dell’Italia centrale. Radunata rapida delle camicie nere della Vallata Padana e ripresa dell’azione su Roma fino alla vittoria ed al possesso.

Nel doloroso caso di un investimento bellico, la colonna Bottai (Tivoli e Valmontone) accerchierà il quartiere di S. Lorenzo entrando dalla Porta Triburtina e da Porta Maggiore.  La colonna Igliori con Fara (Monterotondo) premerà da porta Salaria e da Porta Pia e la colonna Perrone (Santa Marinella) da Trastevere.

 

Apartire dal 26 ottobre le squadre occuparono molte città dell’Italia settentrionale e centrale prendendo il possesso dei centri strategici come  le prefetture per poi muovere verso Roma. Le autorità dello Stato nelle diverse città non avevano disposizioni precise su come contrastare queste iniziative ed erano troppo abituate a lasciarcorrere  gran parte cedettero pacificamente ovennero sopraffatte. L’azione vera e propria iniziò nella notte tra il 27 e il 28 ottobre. Alcuni dei comandanti di zona diedero le disposizioni attraverso delle apposite staffette ai comandanti locali e altri le diedero  in treno.L’ordine di mobilitazione comandava che questa avvenisse tra il 27-28 di notte, l’orario dipendeva dalla distanza dei vari luoghi dal capoluogo di provincia. Gli squadristi dovevano avere la tessera, dei viveri a secco per tre giorni ed essere  in assetto da guerra.

Il comportamento del re e del Governo in questa situazione mutò rapidamente infatti se all’inizio sembrò a favore della proclamazione dello stato d’assedio e dette l’impressione di sollecitare Facta, in giro di breve tempo, come sostiene Renzo de Felice, rifiutò la firma del decreto. Questo cambiamento non è da ricercare in una preventiva intesa con Mussolini e si può escludere che i fascisti nella notte tra il 27 e il 28 ottobre abbiano fatto pressioni sul Re. La motivazione reale di questo cambiamento secondo Renzo de Felice bisogna ricercarla negli ambienti vicini a lui e sui quali riponeva fiducia tanto da influenzarlo, dato che Il re era solo parzialmente a favore di Mussolini: inizialmente la sua idea era di non firmare lo stato d’assedio e di dare il governo a Salandra; è quindi ipotizzabile che avesse accettato solo metà della proposta suggeritagli.

Si arrivò quindi alla marcia su Roma con il Sovrano e il Governo senza una linea comune e questo creò solo confusione.

Francesco Sunil Sbalchiero

Bibliografia

P. Colombo, La monarchia fascista, Il Mulino, Bologna 2010

R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere (1921-1925), Einaudi, Torino 1966

L. Di Nucci, Lo Stato-partito del fascismo. Genesi, evoluzione e crisi (1919-1943), Il Mulino, Bologna 2009

G.Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma- Bari 2006

( a cura di) M. Isnenghi, I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma- Bari 2010

S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2000

R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, vol. III, Il Mulino, Bologna 2012

Divulgazione e Storia: Intervista al professor Barbero

 

Alessandro Barbero scrittore e storico italiano. Laureato in Storia Medioevale con Giovanni Tabacco, nel 1981, ha poi perfezionato i suoi studi alla Scuola Normale di Pisa sino al 1984.  Diventa professore associato all’Università del Piemonte Orientale a Vercelli nel 1998, dove insegna Storia Medievale.

Ha pubblicato romanzi e molti saggi di storia non solo medievale. Con il romanzo d’esordio, Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle gentiluomo, ha vinto il Premio Strega nel 1996.
Collabora con La Stampa e Tuttolibri, con la rivista “Medioevo”, e con i programmi televisivi (“Superquark”) e radiofonici (“Alle otto della sera”) della RAI. Tra i suoi impegni si conta anche la direzione della “Storia d’Europa e del Mediterraneo” della Salerno Editrice. Tra i suoi titoli più recenti ricordiamo: Lepanto. La battaglia dei tre imperi (Laterza 2010), Il divano di Istanbul (Sellerio 2011), I prigionieri dei Savoia (Laterza 2012), Costantino il vincitore (Salerno 2016).

1-Ultimamente, grazie anche all’opera di molti storici, il connubio tra storia e narrativa sta riscuotendo un successo sempre più crescente. Nell’opera di gestazione di un testo, qual è il rapporto che vuole che si instauri tra lei ed un ipotetico lettore?

Quando scrivo, in realtà scrivo esclusivamente per me, per il piacere di costruire il libro. Però un libro dev’essere costruito in modo diverso a seconda del pubblico a cui si rivolge. Quando scrivo saggi io cerco innanzitutto la massima chiarezza espressiva, e lo faccio ormai anche quando scrivo saggi scientifici destinati agli specialisti; e questo è a maggior ragione l’obiettivo quando mi indirizzo a un lettore non specialista: vorrei che potesse leggere dall’inizio alla fine senza mai doversi fermare per decifrare quello che ho scritto.

2-  Per lungo tempo la divulgazione della storia è stata soprattutto affidata ai giornalisti  quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a divulgare la storia prima alla radio e poi alla televisione?

Il fatto che me l’hanno chiesto! un editore, Giuseppe Laterza, mi ha chiesto di scrivere dei libri rivolti non agli specialisti ma al grande pubblico, come Carlo Magno o La battaglia. Storia di Waterloo, e poi di prendere parte ai cicli di Lezioni di storia che la Laterza organizza ormai da anni in teatro con grande successo; Sergio Valzania, allora direttore di Radio3, mi chiese di partecipare a quel bellissimo programma che era Alleottodellasera; Piero Angela mi ha proposto di partecipare a Superquark. Ogni volta l’ho presa come una sfida inaspettata che accettavo con divertimento.

3- Negli ultimi la divulgazione della storia è cambiata, questo può portare ad una progressiva semplificazione dei contenuti. Come è possibile evitare questo fenomeno?

Ma anche prima la semplificazione era sempre in agguato nella divulgazione; l’opera divulgativa di più grande successo mai uscita in Italia, la Storia d’Italia di Montanelli e Gervaso, era tutta una semplificazione e una banalizzazione. Finché la divulgazione è fatta da studiosi, la consapevolezza del rischio può aiutare ad evitarlo, anche se, beninteso, una certa dose di semplificazione è inseparabile dalla divulgazione, soprattutto televisiva.

4- Come è cambiato il suo modo di fare divulgazione nei programmi televisivi rispetto alla sua esperienza alla radio?

La radio consente molto più approfondimento, praticamente lo stesso che si può avere in un libro divulgativo, e infatti diversi miei programmi radiofonici sono diventati libri (Il giorno dei barbari, Federico il Grande, Il divano di Istanbul) e viceversa (Carlo Magno). In televisione i tempi sono spaventosamente ristretti, si deve ridurre tutto in pillole, e lì la concisione e l’efficacia dell’espressione sono tutto.

5- Secondo Lei anche i romanzi storici possono contribuire  in qualche modo alla diffusione della storia ?

Certamente sì. Un buon romanzo storico deve far rivivere l’esperienza vissuta del passato. Peccato però che la stragrande maggioranza dei romanzi storici siano scritti da gente magari di talento, ma che non conosce il mestiere dello storico e quindi non sa far rivivere la cosa più importante – la mentalità, i comportamenti, i modi di parlare…

6- Per lei come storico,  è stato difficile e ha dovuto rinuciare a qualcosa  nella scrittura dei romanzi storici?

L’unica cosa difficile è valutare fin dove può spingersi l’invenzione, che è anche la cosa più faticosa!

7- In molti suoi saggi si è occupato di storia militare, Secondo lei perché la storia militare pur trovando successo nella divulgazione, trova poco spazio a livello accademico in Italia?

Banalmente, perché non esistono cattedre di storia militare; ma del resto non so neanche se dovrebbero esistere: la storia ha così tanti aspetti! Del resto oggi non è più vero che in Italia ci siano pochissimi specialisti di storia militare, o comunque storici che si occupano anche di questo aspetto: in realtà ce ne sono moltissimi.

8- Nell’ultimo periodo si parla sempre di più di Public History in che modo questa nuova concezione può aiutare la  comunicazione della storia ad un pubblico più vasto?

Mah. Io non ho mai capito cosa voglia dire Public History, e se non sia solo un modo più snob di dire “divulgazione”.

9 – Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, professore , quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?Ha qualche consiglio di lettura di storiografia e di letturatura?

Ma la storia è la cosa in assoluto più divertente ed emozionante che ci sia. Del resto io incontro continuamente medici, notai o fisici nucleari che mi confessano che la loro vera passione è la storia. E dunque la vera domanda va fatta a tutti quelli che non fanno lo storico: come mai non lo fanno? Io faccio semplicemente quello che fin da bambino ho capito che mi appassionava più di qualsiasi altra cosa. Quanto alle letture, bisogna leggere tutti i libri, o quasi: per cominciare, in ambito storico Marc Bloch, La società feudale; e in letteratura Bulgakov, Il Maestro e Margherita. Chi ha letto quei due libri sa cos’è un saggio e cos’è un romanzo…

 

 

La folla e la storia: intervista al professor Emilio Gentile

Emilio Gentile, storico di fama internazionale, è professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza e socio dell’Accademia dei Lincei. Nel 2003 ha ricevuto dall’Università di Berna il Premio Hans Sigrist per i suoi studi sulle religioni della politica. Collabora al “Sole 24 Ore”.

  • Ultimamente, grazie anche all’opera di molti storici, il connubio tra storia e narrativa sta riscuotendo un successo sempre più crescente. Nell’opera di gestazione di un testo, qual è il rapporto che vuole che si instauri tra lei ed un ipotetico lettore?

Un rapporto basato fondamentalmente sul proposito di comunicare al lettore nella forma più chiara e interessante il risultato delle mie ricerche, nella speranza che possano aiutarlo a conoscere e a comprendere meglio l’evento storico narrato. Cerco di esporre i fatti lasciando parlare i documenti – dalle citazioni testuali alle illustrazioni –  affidando all’intreccio narrativo l’interpretazione che io ritengo sia più prossima alla realtà storica. Nei miei libri, lo sforzo costante è intrecciare narrazione e interpretazione, ma ritengo che compito primario dello storico sia raccontare le esperienze umane del passato cercando attraverso la sensibilità dei contemporanei del passato, evitando di incorrere nel peggiore dei peccati storiografici, cioè la sovrapposizione prevaricante dello  storico sui  soggetti che egli studia

  • Quali furono le spinte che lo portarono a scegliere di studiare storia? Che ruolo ha avuto in questo il suo maestro Renzo de Felice?

Ho raccontato nel libro Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio (Laterza 2003) e nel libro  Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento, a cura di Simonetta Fiori (Laterza 2011) come è sorta in me la passione per la conoscenza storica fin dall’infanzia, quando osservavo, prima intimorito, poi incuriosito, le stele funerarie di epoca romana che erano esposte nei giardini del paese in cui sono nato. Cominciò allora il desiderio di conoscere gli esseri umani nel passato in tutte le forme della loro esistenza. Con gli anni scolastici, fino all’università, la curiosità è cresciuta a dismisura, man mano che si ampliavano con lo studio gli orizzonti delle civiltà nel passato. All’università scelsi subito di studiare storia, anche se mi iscrissi alla Facoltà di filosofia perché, appassionato lettore di Benedetto Croce al liceo, consideravo lo studio della filosofia propedeutico alla storiografia. I miei primi entusiasmi furono per la Storia medievale, seguendo i corsi sugli eretici tenuto da Arsenio Frugoni. Poi mi entusiasmai per gli “eretici dell’età giolittiana”, da Prezzolini a Gobetti, che erano materia di un corso di Nino Valeri.  Accademicamente, non fui allievo di Renzo De Felice. Nell’ultimo anno di liceo, nel 1965, avevo letto il primo volume della biografia di Mussolini, ma all’università non frequentai i suoi corsi di lezione, non feci con lui alcun esame,  e mai lo incontrai prima della preparazione della tesi di laurea in Storia moderna, iniziata con Valeri e proseguita, dopo il suo pensionamento, con Ruggero Moscati. Conobbi De Felice quando fu nominato come correlatore della mia tesi di laurea. Dopo la laurea, ho insegnato per alcuni anni nei licei varie materie, italiano e latino, storia dell’arte, storia della filosofia; poi, quando vinsi una borsa di studio, iniziai a collaborare con la cattedra di De Felice e col gruppo dei suoi allievi. La sua personalità umana e l’esempio scientifico del suo lavoro storiografico mi aiutarono a proseguire le ricerca e a migliorare il metodo, la riflessione e il concreto lavoro storiografico.

  • Il tema trattato nel suo saggio “Il capo e la folla” è stato per alcuni anni al centro del dibattito storiografico, ma negli anni successivi l’attenzione su questo argomento è andata scemando. Cosa l’ha spinta a scrivere un libro su questo tema?

 

Fin dai primi saggi sul nazionalismo italiano e nel  primo libro, La Voce e l’età giolittiana (1972),  il problema delle masse nella storia contemporanea è stato presente nelle mie ricerche e nella mia riflessione. Dalle avanguardie e dagli  che volevano influire con la cultura e con l’arte sulle masse per formare una coscienza nazionale moderna,  al fascismo, al totalitarismo, alle religioni della politica, fino al capo e la folla, vi è stato un sviluppo continuo della mia riflessione sulla politica di massa, sia in regimi democratici sia in regimi totalitari. Chi avesse la pazienza di ripercorrere attraverso i miei libri, lo svolgimento delle mie ricerche e delle mie interpretazioni, forse giungerebbe alla conclusione che in cinquanta anni ho studiato sempre un unico fenomeno, da molte prospettive e in diverse epoche.

Il capo e la folla (laterza, 2016)

 

  • Un momento di cambiamento nel  rapporto tra il capo e la folla, viene da lei individuato con l’aumento demografico. In che modo tale aumento condizionò questo cambiamento?

 

La politica di massa è fenomeno contemporaneo derivato e connesso ai mutamenti sociali che hanno posto fine all’isolamento delle sparse comunità di villaggio, soggette alla periodica falcidia demografica delle malattie, delle carestie, delle guerre, della fame, e nello stesso tempo hanno accelerato l’aumento progressivo della popolazione, l’urbanizzazione, l’agglomerazione sociale nelle nuove attività produttive, la differenziazione delle classi sociali con la modernizzazione, l’industrializzazione, le migrazioni di massa. Sono questi fenomeni che hanno a loro volta generato le organizzazioni di massa, partiti e sindacati,  e nello stesso tempo hanno generato lo Stato delle masse, dall’ampliamento della scuola pubblica alla leva di massa, alla guerra di massa. Dall’epoca delle rivoluzioni democratiche del Settecento, non si può fare politica ignorando la massa, anche se a farla sono singoli individui, minoranze, élites, oligarchie o consorterie.

 

  • Negli anni 30 in Europa cambia il rapporto tra il leader politico e la folla. Quali sono le cause che portarono a questo cambiamento?

 

Prima di tutto, l’impatto violento della Grande Guerra nel processo di organizzazione e mobilitazione delle masse iniziato con la rivoluzione francese. I nuovi capi delle masse sono quasi ovunque uomini di guerra, che hanno fatto la guerra e partecipato alla nascita di una militanza di massa modellata sull’esperienza della guerra. Anche capi democratici come Churchill e Franklin D. Roosevelt erano capi formati in periodo della Grande Guerra: Churchill era per educazione un guerriero, aveva partecipato alle guerra coloniali, era  ministro della marina durante la Grande Guerra e dopo il disastro dei Dardanelli combattè in trincea sul fronte occidentale. Roosevelt fu sottosegretario alla marina durante la Grande Guerra, si rivolgeva a milioni di americani che avevano vissuto, direttamente o indirettamente, l’esperienza della guerra in Europa, e nella sua oratoria presidenziale usò metafore di guerra per incitare gli americani a combattere contro la depressione per salvare le democrazia. Lo stesso si può osservare, e ancor di più, per il generale De Gaulle divenuto improvvisamente capo politico e fondatore di una Quinta repubblica. Quanto ai capi dei nuovi movimenti e regimi totalitari, sia di destra che si di sinistra, l’esperienza della Grande Guerra fu decisiva nel renderli consapevoli del modo di mobilitare e organizzare le masse per conquistare il potere e instaurare regimi a partito unico, che nel costante rapporto con le masse svolsero i loro esperimenti totalitari per future conquiste imperiali o rivoluzioni sociali mondiali.

 

Alla fine del suo libro, lei professore tratta il tema della personificazione del potere alla fine degli anni 50 del 1900, con gli esempi di Kennedy e De Gaulle. Secondo lei ci sono stati esempi italiani nello stesso periodo?

L’unico esempio italiano che mi sentirei di proporre è Alcide De Gasperi, che negli anni in cui fu al governo partecipò al compimento di un’opera gigantesca per ridare all’Italia lo slancio di una democrazia industriale dopo la catastrofica disfatta che aveva travolto tutto il paese nella guerra feroce fra eserciti stranieri e fra italiani. Per il resto, ci sono stati fra i politici italiani degli anni sessanta numerosi aspiranti De Gaulle e aspiranti Kennedy, ma nessuno è riuscito ad essere effettivamente l’uno o l’altro, diventando un mito nella tradizione nazionale. Nessun politico italiano della Repubblica ha avuto una trasfigurazione mitica.

 

Come si è modificato il rapporto tra il capo e la folla rispetto agli anni 50?

 

Da una parte, il rapporto si è svolto nella scia inaugurata da De Gaulle e da Kennedy, soprattutto attraverso la televisionizzazione dell’appello alla folla. Inoltre, è stato un rapporto che si è svolto, fino agli anni più recenti, attraverso le organizzazione dei partiti di massa. Oggi, la televisionizzazione del rapporto fra il capo e la folla è quel che resta dell’esperienza di De Gaulle e di Kennedy, mentre ai partiti di massa come organizzazioni permanenti di formazione della volontà politica e dei dirigenti, si vanno sostituendo fluidi aggregati coagulati attorno a un capo spesso improvvisato, che fonda movimenti o partiti personali o personalizza i partiti esistenti fluidificandone le strutture tradizionali per trasformarli in sodali al proprio seguito.

 

Il rapporto che istaura il fascismo con Mussolini tra il capo e la folla si può considerare innovativo e moderno? In che modo si differenzia con gli altri regimi totalitari?

 

Il rapporto fra Mussolini e la folla fu innovativo e moderno rispetto alla tradizionale politica italiana dei notabili parlamentari, che governavano con consorterie parlamentari e il suffragio limitato di grandi elettori. La differenza del fascismo dagli altri regimi totalitari, per quanto riguarda il rapporto specifico fra capo e folla, consiste principalmente nella primogenitura dell’esperimento ducesco rispetto al culto staliniano della personalità, che fu instaurato quando da alcuni anni già esisteva, caso unico alla fine degli anni venti, il culto mussoliniano della personalità. Penso che non solo Hitler e altri duci di movimenti e regimi fascistizzanti abbiamo seguito il modello mussoliniano, ma lo abbia seguito anche Stalin.

 

Quanto rimane del “fascismo-movimento” cioè portatore di alcune istanze di rinnovamento nella Repubblica sociale italiana?

Non mi ha mai convinto la distinzione fra “fascismo movimento” e “fascismo regime” come contrapposizione fra innovazione e conservazione nell’esperimento totalitario fascista. I capi più importanti della Repubblica sociale erano stati gerarchi del regime fascista, e le istanze di rinnovamento erano la prosecuzione, radicalizzata dalla esigenza di dare un più accentuato carattere sociale al regime, istanza già presenti negli ultimi anni del regime totalitario, specialmente nelle giovani generazioni fasciste.

Intervista al professor Guido Formigoni

Ho deciso di intervistare  il Prof. Guido Formigoni  che insegna Storia contemporanea nell’Università IULM di Milano autore di diversi libri:  “La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale” (1996), “Storia della politica internazionale nell’età contemporanea” (nuova ed. 2006) ,  “L’Italia dei cattolici” (2010) e “Aldo Moro” ( 2016).

Nel suo libro Storia d’Italia nella Guerra Fredda (Il Mulino,2017) dà molto spazio al contesto internazionale in cui molti fatti si svolgono, al contrario di altre pubblicazioni che sottovalutano questo aspetto. Quali sono le motivazioni dietro a questa scelta ?

Ho l’impressione che la storiografia italiana recentemente abbia trascurato troppo i nessi che esistono tra storia sociale e politica interna e orizzonte internazionale. Soprattutto nelle sintesi di lungo periodo o nella manualistica, la separazione di attenzioni, complicata dalla storica distinzione accademica tra storici contemporaneisti e storici delle relazioni internazionali, appare ancora piuttosto marcata. Nelle indagini specifiche e nelle monografie approfondite si è ridotta diffusamente negli ultimi anni, ma senza effetti consolidati. Questa separazione è avvenuta nonostante nelle nostre tradizioni ci sia l’esempio nobile di una corrente di studi che risale a Federico Chabod e alla sua spiccata attenzione a questi collegamenti. Va detto che dovrebbe essere proprio la coscienza dell’originalità della storia del Novecento ad accelerare tale incontro. I nessi interno-internazionali sono stati fortemente rafforzati nel corso del secolo, in cui si è sviluppata un crescente pervasività del contesto sistemico internazionale sulle singole situazioni locali e in qualche modo quindi è cresciuto l’influsso del “centro” del mondo sulle zone “periferiche”. Naturalmente il problema non è verificare solo forme e modi con cui gli assetti di potere internazionali pesano sulle diverse situazioni interne, ma considerare come questa influenza venga recepita, contrastata o accettata, comunque rimodellata, nell’impatto con le strutture, le forze e gli attori della società italiana. La stagione della guerra fredda a mio parere è stata una delle occasioni in cui questi collegamenti si sono verificati essere più incisivi e importanti. Del resto, l’attuale storico sviluppo della cosiddetta “globalizzazione” non poteva che avere radici e origini più lontane, proprio in quell’orizzonte. Non è quindi più possibile, a mio parere, scrivere storie d’Italia esclusivamente concentrate sulle caratteristiche del conflitto culturale, sociale e politico interno, o dello sviluppo economico locale.

 

Guido Formigoni, storia d’Italia nella Guerra Fredda, Il Mulino, 2017

 

Negli ultimi anni le pubblicazioni sul periodo della  “Guerra Fredda” in Italia sono state frequenti ma in molti casi di carattere generale come per esempio: Paolo Soddu, La via italiana alla democrazia,Laterza, 2017, Agostino Giovagnoli, La repubblica degli italiani, Laterza, 2016, Guido Crainz,  Storia della Repubblica, Donzelli,2016 o biografico. Questi due generi, anche se hanno molti pregi, mancano forse di presentare un’analisi sui singoli partiti che hanno caratterizzato la cosiddetta “Prima Repubblica”. Secondo lei quali sono le motivazioni di questa scelta?

Non saprei dire se i volumi citati sottovalutino l’analisi del ruolo dei singoli partiti: alcuni di essi, al contrario, mi pare siano molto attenti almeno alle dinamiche del sistema dei partiti nel suo complesso. La domanda però mi permette di far presente un’altra questione: certamente oggi la storiografia sui partiti è in una fase di difficoltà. Se non altro perché il progressivo indebolimento del loro ruolo (almeno nella società, se non nelle istituzioni), li ha fatti scivolare al margine della scena, in termini di visibilità comunicativa e di “mode culturali”. Per cui oggi viviamo una situazione paradossale. Da una parte potremmo affrontare la storia della “repubblica dei partiti” (per usare l’espressione di Pietro Scoppola) con maggiore distacco e sulla base di una documentazione ampia che si è resa disponibile. Potremmo anche superare l’identificazione autobiografica di soggetto e oggetto presente in molti studi del passato sui partiti, dato che si tratta di storie per molti versi concluse. Per altro verso, però, ci sono meno risorse finanziarie per organizzare studi sistematici e i giovani studiosi sono molto più lontani e distratti dalla volontà di approfondire la vicenda di un fenomeno che pure nella nostra storia ha avuto un ruolo così importante.

L’inizio della crisi del centrismo si può far risalire già a dopo il risultato elettorale del 7 giugno 1953 e solo nel 1963 si arriva a un centro-sinistra organico. Come incide la situazione internazionale sulla lentezza con cui si riesce ad arrivare all’apertura al PSI?

Beh, non è una mia scoperta originale il fatto che la resistenza della diplomazia americana, sotto tutta l’amministrazione Eisenhower, nei confronti di questa evoluzione politica, fosse molto forte. Io credo però di avere messo in luce nel mio libro come anche questa dinamica si nutrisse di una sorta di continua triangolazione tra politica italiana e quadro internazionale: erano le resistenze interne, massicce e organizzate, a esprimersi e a rafforzarsi anche fornendo argomenti, informazioni e pressioni nei confronti delle autorità americane. Certo, spesso i diplomatici o i politici d’Oltreoceano non avevano bisogno di essere messi in guardia, perché erano molto sospettosi nei confronti dei socialisti. Ma le due realtà si sostenevano vicendevolmente: la loro convergenza assumeva un peso molto forte. Anche un eventuale “veto” americano all’evoluzione politica avrebbe potuto essere molto più fragile e difficile da far valere, se non accompagnato da questa estesa e pervicace resistenza interna.

Che conseguenze ha avuto nella politica italiana il rapporto Cruscëv, in particolare all’interno del PSI?

Tutta la vicenda della crisi del 1956 nel blocco sovietico ebbe un’importanza rilevante nel contribuire a rafforzare l’evoluzione politica della linea di Nenni, sempre più critica del mondo sovietico e quindi portata a prendere le distanze dal Pci in politica interna, dando fiato alle posizioni degli autonomisti. I quali non furono mai solida maggioranza del partito, ma pian piano riuscirono a orientarne le decisioni. Seppur in un contesto sempre molto diviso e incerto.

Un momento di crisi nei rapporti tra Italia e Stati Uniti fu l’elezione alla Presidenza della repubblica di Gronchi. La crisi fu dovuta alla diffidenza degli Stati Uniti verso Gronchi o c’è anche un fattore di diffidenza interna alla stessa Dc?

Il caso Gronchi è un’altra ottima manifestazione delle complesse triangolazioni che esistevano tra correnti politiche italiane e ambasciata americana. È noto che l’elezione di Gronchi fu il frutto di una sconfitta della segreteria democristiana di Fanfani. Ma il nuovo presidente, a parte essere stato contrario all’adesione al patto atlantico nel 1949, non era più assolutamente su posizioni neutraliste o antiamericane. Siccome però passava per sostenitore dell’“apertura a sinistra”, il fuoco di fila degli oppositori interni (la destra democristiana, i liberali, una parte cospicua della diplomazia stessa) fece di tutto per metterlo in cattiva luce nei confronti degli statunitensi. La presenza a via Veneto a Roma di alcuni diplomatici acuti ma molto conservatori permise alla manovra di avere notevoli effetti. Il nuovo presidente incontrò quindi parecchie difficoltà a intraprendere un rapporto positivo oltre atlantico. Paradossalmente, ne fu ostacolato anche quando sosteneva per la politica estera italiana posizioni “neoatlantiche”, che miravano a sviluppare la presenza nazionale e mediterranea dell’Italia, ma nel quadro di una solida alleanza con il ruolo-guida statunitense in occidente.

Nel suo libro si ferma al 1978; quali sono state le motivazioni dietro questa scelta?

Mi rendo ben contro che è una scelta discutibile, come tutte le opzioni di periodizzazione. Da una parte, è stata indotta da una motivazione pratica: dopo quell’anno si rarefacevano le fonti disponibili (soprattutto quelle americane). Ma nasconde una convinzione più forte: gli anni Settanta (la crisi economica e ancor più la crisi dell’assetto socio-politico cosiddetto fordista; politicamente e simbolicamente, poi, per l’Italia, il delitto Moro) assumono sempre più ai miei occhi, man mano che passa il tempo, il senso di uno spartiacque significativo nel dopoguerra. Dividono due periodi contrapposti, in un certo senso. Il periodo di consolidamento democratico e ascesa economica guidato dai partiti e inserito con un proprio ruolo nel “mondo libero” (o nel particolarissimo “impero americano”, come lo si voglia chiamare). E la stagione di molte maggiori incertezze economiche, nel quadro difficile da dominare dell’incipiente globalizzazione, con una crisi evidente della democrazia e in generale una minor capacità delle classi dirigenti a gestire i processi storici. In questo senso, la cesura dei ’70 è per me più forte di quella dell’’89 e anche del ’94. Gli anni ’80 appaiono perciò più anni di transizione ai nuovi equilibri che uno sviluppo ulteriore della “repubblica dei partiti”. E anche la cosiddetta “seconda guerra fredda” fu molto meno decisiva per il sistema, rispetto a percorsi di finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia che cominciarono a manifestarsi.

Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, professore, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?

Mah, come spesso succede sono anche incontri personali o letture, o occasioni particolari a orientare le scelte e la vita di tutti noi. Per me, la passione per la storia è nata negli anni della scuola superiore, quando ho cominciato a percepire come lo sguardo al passato potesse essere tutt’altro che arido e nozionistico, ma aprire a orizzonti di comprensione migliore del nostro presente. O meglio ancora, la convinzione che mi sono costruito è che comprendere come sono cambiate le cose ad opera dell’azione di uomini e donne nel nostro passato, servisse molto a capire come orientarsi nel presente e a istruire la possibilità di cambiamento delle nostre esperienze attuali. Di qui poi a trasformare questa intuizione in un mestiere, naturalmente, la cosa non è stata semplice. L’università degli anni ’80, quando mi sono laureato, soffriva forse un po’ meno di quella attuale di un’insopportabile asfissia di risorse. Tuttavia, nel mondo degli studi umanistici, i posti non erano nemmeno allora così numerosi. Ma devo dire di essere contento di esserci riuscito.

 

 

Marina e ammiragli di Mussolini intervista a Fabio De Ninno

Questa settimana ho deciso di intervistare  Fabio De Ninno,  autore   di un libro uscito da poche settimane Fascisti sul Mare ( Laterza, 2017).

È da qualche anno che non uscivano pubblicazioni sulle forze armate italiane durante il fascismo. Quali nuove fonti lei ha potuto utilizzare?

In Italia, soprattutto per il periodo fascista, spesso si è fatta la storia navale pensando che fosse la storia delle navi, credendo che questa offrisse il livello di comprensione della politica navale. Invece, in entrambi i casi, ho voluto approfondire l’utilizzo di documentazione riferita al livello politico dell’istituzione, quello del ministro/sottosegretario e degli organi ad esso connessi che determinavano la politica navale attraverso i rapporti con il governo fascista, per evidenziarne la profondità, finora poco esplorata, della relazione regime-marina e come determinò lo sviluppo dell’istituzione e quindi la politica navale. In sostanza, oltre all’orginalità delle fonti è stato importante l’approccio metodologico, diverso dai lavori precedenti sulla marina.

La mia ricerca ha fatto riferimento soprattutto alla documentazione riguardante Regia marina custodita presso l’Archivio dell’Ufficio storico della Marina Militare e l’Archivio centrale dello stato di Roma. Si tratta in entrambi i casi di fondi enormi mai del tutto esplorati: l’archivio della Marina Militare è uno dei più vasti del mondo, tra quelli relativi al suo genere, ed è perfettamente conservato, grazie al lavoro dell’istituzione, ma forse poco esplorato da parte della letteratura scientifica.

Di conseguenza, ho utilizzato frequentemente documentazione del gabinetto del ministro, per comprendere i rapporti con le altre istituzioni militari e civili, oltre che col partito fascista. I carteggi tra il ministro, il duce e gli ammiragli per la politica navale. La pianificazione per comprendere le determinanti strategiche che incidevano sulla politica navale. I rapporti dei comandanti di basi e squadre navali per comprendere il livello della preparazione e i problemi della flotta.

Inoltre, mi sono servito di una fonte preziosa di cui non esisteva fino ad ora nemmeno accenno nella pubblicistica sulla marina: la documentazione della biblioteca dell’Accademia navale di Livorno. Anche in questo caso l’istituzione ha preservato ottimamente il materiale, che gli studiosi potranno sfruttare efficacemente. Qui sono custoditi i dattiloscritti inediti dei testi impiegati nell’istituto durante il periodo fascista, una fonte fondamentale per capire l’istituzione e la sua cultura.

Infine, la mia ricerca ha incluso anche archivi stranieri, in particolare i National Archives di Londra e il Service Historique de la defense di Parigi, dove ho avuto accesso alle carte degli osservatori diplomatici e militari che erano presenti in Italia, solitamente persone con una grande conoscenza della Regia marina e con rapporti personali con gli ufficiali italiani, che garantivano un punto di osservazione privilegiato sull’istituzione.

 

Quali erano le motivazioni che portarono al trattato di Washington?   Che limiti imponeva il Trattato di Washington?

 

Per comprendere il Trattato di Washington bisogna innanzitutto capire il ruolo delle marine militari nella politica internazionale, un dato molto spesso sottovalutato dagli studi e dal pubblico italiano: le marine solo il pilastro su un paese costruisce il proprio status di grande potenza globale.

Dalla fine del XIX (e ancora oggi è così) fu un dato acquisito che la capacità di proiezione globale di uno stato (era l’età dell’imperialismo) dipendeva essenzialmente dalla forza della propria marina militare. La Grande guerra fu dovuta, non solo, ma in buona parte, proprio all’esplodere della rivalità navale tra la Gran Bretagna e la Germania e l’intero conflitto fu determinato della dimensione marittima: il blocco britannico degli Imperi centrali fu fondamentale per sconfitta della Germania.

Nel 1918, la fine della guerra ridefinì l’equilibrio delle relazioni internazionali. La scomparsa degli imperi tedesco, russo ed austroungarico e l’ascesa di due grandi potenze extraeuropee, gli Stati Uniti e il Giappone, ridisegnò il panorama geopolitico del pianeta. Subito, il nuovo ordine mondiale alimentò le tensioni tra le grandi potenze superstiti, rischiando di scatenare una nuova competizione nel campo degli armamenti navali. Le difficoltà finanziarie della Gran Bretagna, stremata dalla guerra, l’opposizione dell’opinione pubblica americana a nuove spese per armamenti dopo la fine del conflitto e la consapevolezza del Giappone di non poter competere con gli Stati Uniti nel Pacifico, aprirono la possibilità di trattative relative al disarmo navale.

Il Trattato di Washington (gennaio 1922) fu la conseguenza della volontà di “formalizzare” gli assetti politici globali nati dal conflitto, stabilendo nel contempo una “gerarchia” delle potenze che rifletteva i loro rapporti di forza. Il trattato stabilì la relatività in fatto di navi capitali (navi da battaglia e portaerei) tra le grandi potenze, secondo la formula: 5:5:3:1,75:1,75. Tali coefficienti indicavano la proporizione del tonnellaggio spettante a ciascuna delle grandi potenze: Gran Bretagna e Stati Uniti (5), Giappone (3), Francia e Italia (1,75).

Il trattato in effetti stabilì una “diarchia” angloamericana nei rapporti internazionali, frustrando le ambizioni del Giappone, che mirava ad un rapporto di forze più favorevole nel Pacifico e quelle della Francia, che riteneva la propria posizione nel Mediterraneo minacciata dell’Italia, tantoche a Parigi la parità con Roma fu recepita come un autentico schiaffo diplomatico. Il trattato comunque non copriva il naviglio leggero (incrociatori, cacciatorpediniere, torpediniere e sommergibili) e per aumentare la propria potenza navale, le potenze scontente dell’accordo vararono ampi programmi di costruzione di questo tipo di navi, alimentando una nuova competizione che i successivi tentativi di regolamentazione (le conferenze navali di Roma 1927, Londra 1930 e Londra 1936) non riuscirono a contenere.

Di fatto, il trattato oltre a stabilire una “gerarchia” delle potenze fece delle marine un oggetto centrale della diplomazia e della questione del disarmo navale un elemento fondamentale delle relazioni internazionali tra le due guerre mondiali. Un fatto di cui Mussolini era ben consapevole quando affermava che in tempo di pace la gerarchia degli stati era determinata dalla loro marina.

 

In che modo il Trattato di Washington  condizionò la Regia Marina?

 

Carlo Schanzer, il senatore che aveva guidato la delegazione italiana a Washington, sottolineò che in seguito alla firma dell’accordo la Regia marina vedeva immediatamente aumentata la propria importanza tra le flotte mondiali (e con essa il paese), perchè la parità con la Francia stabiliva una presunta parità diplomatico-militare tra le due potenze. In realtà, il trattato garantiva la parità solo in fatto di navi capitali, per dimostrare che l’Italia non effettivamente in grado di mantenere una parità generale, i francesi avviarono programmi navali per ottenere la superiorità nel naviglio leggero, in modo da porre in discussione la posizione italiana nelle successive conferenze sul disarmo. Dopo il 1922, perciò la Regia marina si trovò nella necessità supportare una politica navale espansiva, in grado di competere con quella francese in termini di costruzioni navali. Di conseguenza, la questione della parità divenne un problema di prestigio centrale per il regime fascista, che negli anni Trenta cominciò a supportarla anche a scapito di una crescita bilanciata della flotta tra nuove costruzioni e miglioramento della preparazione e del livello tecnologico.

 

Che influenza ebbe la politica economica del ministro De Stefani sull’esercito e sulla Regia Marina ?

 

Il ministero di De Stefani (1922-1925) coincise con la prima fase del governo fascista. Una fase in cui il potere di Mussolini sullo Stato non era ancora del tutto consolidato e la cui politica economica fu indirizzata soprattutto alla stabilizzazione del bilancio statale e alla promozione di politiche liberiste. In tal senso il contenimento della spesa pubblica incise fortemente su quella militare e di conseguenza anche sui rapporti del fascismo con le forze armate. Esercito e marina avevano supportato l’ascesa di Mussolini al potere nella convinzione che questo avrebbe permesso di realizzare i progetti di riforma ed espansione desiderati dal vertice militare. Nel caso specifico della marina, contava soprattutto la volontà di avviare programmi navali di risposta a quelli francesi, in quanto la crescita della Marine Nationale seguita al Trattato di Washington era ritenuta una minaccia sostanziale per la difesa delle comunicazioni italiane. Le restrizioni di bilancio imposte dal governo Mussolini alla Marina invece portarono al contenimento dei programmi e, assieme alla costituzione della Regia Aeronautica (1923), alimentarono le tensioni, anche in forma pubblica, tra il Presidente del consiglio e il ministro della Marina, l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, duca del mare e grandeammiraglio della vittoria nella Grande guerra. Tale conflitto si inserì nella crisi politica più generale seguita all’omicidio Matteotti, che portò alla definitiva trasformazione del fascismo in regime e anche alla ridefinizione dei rapporti tra le forze armate e il duce, in senso subordinativo. Le tensioni dovute alla politica economica di De Stefani furono centrali in tale cambiamento nei rapporti fascismo-forze armate.

 

 

In una  parte del suo libro paragona la Marina italiana a quella del Giappone e a quella tedesca, ci sono delle differenze tra queste tre marine?

 

Tutte e tre queste marine nacquero negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento come prodotto dei processi di unificazione/modernizzazione nazionale attraversati dai tre paesi e in tutti e tre i casi si configurarono come centri propulsivi per elaborazioni geopolitiche e della modernizzazione politica ed economica nazionale. Anche se in Italia non ne abbiamo piena cognizione, la costruzione delle istituzioni navali nazionali fu un importante agente di sviluppo economico e nazionalizzazione delle masse tra Otto e Novecento.

Un tratto che le tre marine mantennero anche nei decenni successivi e che spiega anche lo stretto legame che svilupparono con il nazionalismo, accettando nel primo dopoguerra la radicalizzazione di tale politica. Soprattutto la Germania nazista e l’Italia fascista offrono interessanti parallelismi per la relazione che si sviluppò tra le loro marine e i partiti nazista e fascista, che furono lasciati penetrare nell’istituzione da élite convinte che i due regimi avrebbero permesso la realizzazione di una politica estera e navali tali da assicurare le ambizioni di cui le due istituzioni erano portatrici.

Le tre marine tuttavia avevano alle spalle anche tre differenti realtà politiche, economiche e sociali che si riflessero sulle tre istituzioni. In Italia ed in Germania, la struttura policratica delle dittature (un contesto in cui le istituzioni sono più in competizione che in coordinazione) ebbe un peso decisivo nell’emergere dei contrasti tra forze armate che impedirono la creazione di un’aeronautica di marina pienamente efficiente in entrambi i casi. In Giappone, viceversa, la marina era un centro di potere notevolissimo, data la natura di nazione-arcipelago del paese, e questo le permise di mantenere la sua autonomia rispetto all’esercito e di dotarsi anche di una grande forza aeronavale. Tale aspetto è solo uno dei tanti esempi possibili che possono essere fatti per comprendere come i contesti politici e sociali incidano sullo sviluppo delle istituzioni militari.

 

– Che rapporto c’era tra la Regia Marina e la Regia aeronautica che era una  delle forze armate più fascistizzate?

 

I conflitti tra le due istituzioni, cominciati nel 1923 con la costituzione della seconda, più che alla correlazione tra una più o meno maggiore fascistizzazione vanno ricondotti a due problemi: la struttura politica del regime e la più generale contrapposizione tra le neonate forze aeree e le forze armate tradizionali, problema comune più o meno a tutte le grandi potenze.

La conflittualità aeronautica-marina fu consentita soprattutto dalla natura del regime fascista, in quanto il duce impedì la creazione di organi di coordinamento effettivo tra le forze armate, temendo che un capo di stato maggiore generale troppo forte fosse una minaccia al suo potere. Tale logica del divide et impera finì col danneggiare le possibilità di cooperazione e la costruzione di una politica militare integrata e coerente tra le tre armi. Tuttavia, anche quando il dittatore ebbe l’effettivo potere di imporre il proprio volere alle tre forze armate, con il processo di radicalizzazione del regime nella seconda metà degli anni Trenta, le sue personali convinzioni in materia di aeronautica e marina, come ad esempio l’idea che l’Italia fosse una “portaerei naturale”, incisero decisamente sui rapporti tra le due armi.

A questo bisogna aggiungere che nell’Italia fascista, almeno a livello teorico, fu notevole l’impatto di Giulio Douhet. Forse più usato politicamente che ascoltatodottrinariamente, Douhet fu il primo teorico del ruolo strategico decisivo dell’aviazione attraverso l’impiego di massicci bombardamenti strategici per colpire la popolazione civile nemica. Soprattutto nel periodo di Italo Balbo (1926-1933), la Regia Aeronautica utilizzò Douhet per giustificare l’indipendenza assoluta dell’arma aerea da impieghi ritenuti “secondari” come l’appoggio all’esercito e alla marina. Il regime aveva attivamente supportato la creazione di un’arma aerea indipendente e l’appoggio di cui l’aviazione godeva negli ambienti governativi fascisti, fu fondamentale per privare la marina della possibilità di costruire portaerei e un’aviazione navale adeguate. Gli ammiragli che a metà degli anni Trenta riproposero prepotentemente tale problema, come parte di un più generale richiamo alla necessità di correlare ambizioni e mezzi per la futura guerra nel Mediterraneo contro le potenze occidentali, finirono con l’essere isolati ed esclusi dalla gestione della politica navale, con la connivenza del vertice stesso dell’istituzione, ormai succube del potere carismatico del dittatore.

 

 

– Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, dottore, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?

 

Naturalmente il primo elemento è stata la passione. Un aspetto che ho maturato nell’adolescenza, semplicemente perché orientato dalle letture allo studio della guerra e dei fenomeni militari, cominciato quasi per caso. Strategie, uomini, tattiche, mezzi divennero il mio pane quotidiano.

L’interesse intellettuale mi ha spinto a studiare storia all’università, nonostante la preoccupazione di molte persone, che sostenevano stessi commettendo un errore, date le difficoltà di inserimento nel mondo accademico o della cultura e le scarse prospettive occupazionali. Sebbene tali problemi costituiscano un questione assillante per chi si avvia allo studio delle discipline umanistiche, nel mio caso la passione prevalse, a ragione o a torto, vedremo.

Seguendo i miei interessi, all’università, ho scelto di dedicarmi allo studio della storia militare perché penso, forse banalmente, che in guerra gli uomini diano il meglio e il peggio di sé stessi e al tempo stesso perché lo studio delle istituzioni militari del XX secolo permette di interallacciarsi con ogni aspetto della società contemporanea: politica estera, politica interna, economia, tecnologia e società sono tutti problemi che mi sono trovato ad affrontare nel corso delle mie ricerche.

Nello specifico, mi sono dedicato alla storia della marina per due motivi. Il primo è la mia convinzione che l’Italia, nonostante non ne abbia pienamente coscienza, è un paese marittimo. Sono originario di Napoli e quando mi ritrovo periodicamente a fissare il Golfo non vedo il Vesuvio, ma le linee di comunicazione che dalla città partono verso Suez, l’Oceano Indiano e l’Estremo Oriente, oppure verso Gibilterra e l’Atlantico. Ieri come oggi, il nostro commercio e in generale la nostra prosperità dipendono dal mare, senza che si sia verificato un parallelo aumento di coscienza di questo rapporto sia per il passato sia per il presente.

Le marine militari sono state e sono ancora oggi preposte alla difesa, all’apertura e alla preservazione di tali spazi e comunicazioni, mentre nessun altro strumento ha la capacità di svolgere il loro lavoro con altrettanta efficacia e flessibilità. La storia navale serve per comprendere le cause di successi e fallimenti nella proiezione esterna del paese, ma bisogna considerare che, per costruire la propria marina, il paese si è servito del meglio delle sue risorse umane, economiche e tecnologiche. Di conseguenza, la storia navaleci può dire molto sulla storia dell’Italia contemporanea, sulla sua politica, economia e società. Un dato frequentemente sottovalutato sia dagli studiosi sia dal grande pubblico.