Intervista a Marcello Flores

Questo libro che è stato pubblicato nell’anno del centenario della Rivoluzione Russa tratta di gran parte della storia del socialismo del 900. Quali sono le motivazioni che l’hanno portata a compiere questa scelta?
La rivoluzione russa si è imposta in gran parte del movimento operaio come l’unico modello di socialismo possibile, come il socialismo “vero”, diverso da quello dei “rinnegati” della Seconda internazionale. Mi interessava non tanto guardare a come il socialismo fosse stato costruito in Urss (su cui ci sono una quantità di volumi ottimi) e cioè con criteri e valori in qualche modo agli antipodi dai valori socialisti che si erano imposti nel movimento operaio tra Otto e Novecento; ma a come fosse stato possibile che quel socialismo (autoritario, monopartitico, violento, totalitario) diventasse per molti “il” modello di socialismo da difendere e se possibile da imitare. E ho cercato di farlo attorno alla rilevanza (alla creazione e alla diffusione) del mito che ha accompagnato l’Ottobre e ai successivi miti che hanno accompagnato la storia dell’Urss.

Nel libro, quando affronta il tema del socialismo degli anni 30 lei evidenzia due posizioni: una critica verso il socialismo dell’Unione Sovietica e l’ altra invece favorevole. In entrambi i casi Lei non cita intellettuali italiani. Che posizione ebbero gli intellettuali italiani dell’epoca verso l’Unione Sovietica?
Direi che tra queste due posizioni, una di critica molto forte e una di adesione acritica, vi sono anche posizioni intermedie, anche perché quello è il decennio in cui ci sono molti mutamenti di opinione, di cambiamento di giudizi, ecc. Per quanto riguarda gli italiani bisogna comprendere che, vivendo sotto il regime fascista, la situazione per loro era assai diversa da quella degli intellettuali che potevano esprimersi liberamente e confrontarsi in Francia, Inghilterra, Stati Uniti. Vi sono intellettuali antifascisti che sono presenti nel libro: Salvemini proprio a metà anni ’30 e Silone a cavallo tra anni ’20 e ’30, ma sono intellettuali con una forte partecipazione politica, anche diretta, quindi un po’ atipici rispetto a quelli degli altri paesi. Tra gli intellettuali italiani più vicini al fascismo vi fu un forte interesse per l’esperienza sovietica, che in alcuni casi e per alcuni aspetti fu avvicinata a quella fascista. Il punto di vista più significativo (d’interesse molto forte ma con occhi condizionati da un atteggiamento allora positivo verso il fascismo) fu quello di Corrado Alvaro dopo un viaggio che compì in Urss. Credo però che il clima e l’orizzonte del fascismo non permisero – tranne che per gli esuli dell’antifascismo – una discussione sull’Urss analoga a quella avvenuta nei paesi democratici. Anche se, occorre ricordarlo, le pubblicazioni sull’Urss negli anni ’30 sono numerosissime in Italia, comprese le maggiori opere scritte da Trockij.
Un momento di svolta nella storia dell’Unione Sovietica fu certamente ciò che avvenne nel febbraio del 1956 con il rapporto Chruščëv Che situazione c’era in quella fase? In che modo la lettura del rapporto segreto influenzò la politica dei partiti comunisti occidentali nei confronti dell’Unione Sovietica?
In Urss nel 1956 era in corso la lotta politica tra quei dirigenti che volevano, dopo la morte di Stalin, cambiare il corso dello sviluppo socio-economico (più attenzione ai consumi individuali, miglioramento delle condizioni di vita, specie nelle campagne, grandi obiettivi come il dissodamento delle terre vergini o la corsa allo spazio) alleggerendo la stretta repressiva pur nell’ambito di un monopolio del partito che restava esclusivo del partito comunista. Chruščëv riesce a emergere e, per rafforzarsi, decide di puntare sul dare la colpa a Stalin per salvare la sostanza del socialismo, con la formula del “culto della personalità”. I partiti comunisti occidentali, che erano all’oscuro fino all’ultimo della portata delle accuse a Stalin da parte di Chruščëv, si trovarono spiazzati e reagirono con difficoltà, edulcorando e riducendo nella sostanza le accuse rispetto a quanto aveva fatto Chruščëv. Togliatti, ad esempio, sotto la finta di voler meglio approfondire le “contraddizioni” del socialismo non permise che vi fosse una critica serrata a Stalin analoga a quella svolta in Urss, e si comportò con chi voleva aprire il dibattito (Giolitti, Calvino e tanti altri) con un settarismo e una chiusura di pieno stampo staliniano. Quando poi, nell’ottobre, vi fu la rivolta ungherese e l’intervento armato sovietico, si assisté a una nuova solidarietà in nome della repressione di presunti traditori e nuovi nemici del popolo, a dimostrazione di come la “destalinizzazione” non era vista come messa in discussione dei principi autoritari e totalitari dello stato e della politica sovietici, ma come cambiamento rispetto al passato ma in sostanziale continuità con esso. L’apertura democratica dei partiti comunisti ebbe sempre come vincolo e ostacolo insuperabile la critica all’Urss, come si vide subito dopo in occasione del premio Nobel a Pasternak e in ogni occasione almeno fino al 1968, quando si poterono esprimere – in occasione dell’invasione di Praga – le prime timide critiche.
Nel suo libro racconta che molti dei viaggiatori, intellettuali e politici che si recarono in Unione Sovietica furono “vittime” del confirmation bias (pregiudizio di conferma). Questo fenomeno ebbe una discontinuità dopo il Rapporto Chruščëv?
Lo ebbe per molti, ma purtroppo non per la maggioranza dei politici e intellettuali che rimasero alla guida dei partiti comunisti, che si ostinarono ancora a lungo – praticamente fino agli anni ’80 – a rifiutare di conoscere, discutere, prendere in considerazione le ricostruzioni storiche, economiche, culturali relative alle vicende del comunismo e dell’Urss. Questo “pregiudizio di conferma” fa sì che gli intellettuali comunisti scelgano di non leggere, ad esempio, Koestler o Solženicyn, perché si fidano dei giudizi che ne danno i dirigenti del partito, tacciandoli da anticomunisti, venduti, ecc. Dopo il Rapporto Chruščëv le cose migliorarono un po’, ma non di molto almeno nell’immediato: tranne, ovviamente, per coloro, e furono parecchi, che vissero le dichiarazioni al XX congresso e poi la rivolta ungherese come una crisi e un dramma che li portarono ad abbandonare il comunismo. Per gli altri credo che si debba giungere fino al 1968 perché le cose cambino davvero; anche se, a questo punto, il “pregiudizio di conferma” viene spesso utilizzato non più nei confronti dell’Urss ma della Cina e di Mao.
Nel periodo finale dell’Unione Sovietica, Gorbačëv cercò anche di riprendere alcune idee di Lenin per cercare di creare un socialismo diverso. Quali idee di Lenin cercò di riproporre?
Più che idee particolari si trattava di un clima diverso. Si voleva riproporre, intanto, una libera discussione dentro il partito, e infatti la glasnost? (trasparenza) fu la parola d’ordine più efficace adoperata da Gorbačëv. Anche se presto quegli spazi di maggiore libertà, verità, democrazia che si aprirono dentro il PCUS li si volle, a partire dallo stesso Gorbačëv, ampliare all’intera società. L’unica vera idea dell’epoca leninista direi che la si può trovare nelle riforme economiche, analoghe in spirito alla NEP che Lenin impose al X congresso nel marzo 1921 al termine della guerra civile. In questo caso, però, il fallimento delle riforme economiche nel breve periodo non dettero alcun consenso a Gorbačëv che, anzi, trovò proprio in patria le critiche più feroci. Si può dire che il richiamo al leninismo costituì il punto di partenza per legittimare le riforme, per lasciarsi definitivamente alle spalle lo stalinismo e quanto di esso era sopravvissuto nell’epoca brežneviana, con l’idea, però, che occorreva andare oltre, che non ci si poteva limitare al semplice ritorno a Lenin, per esempio sul mantenimento del partito unico. Però quello era l’orizzonte ideologico cui rifarsi per permettere a chi voleva le riforme dentro il partito di uscire allo scoperto senza timore di diventare un traditore o un anticomunista. La spinta della glasnost’, tuttavia, rese rapidamente impossibile restare all’interno dei limiti e dei vincoli del leninismo, perché la pressione per ampliare gli spazi democratici dentro la società divenne troppo forte.
In questi ultimi anni sta emergendo molto l’idea di una storia controfattuale. In che modo questo ha condizionato e condiziona lo studio della storia in generale e anche quella  dell’Unione sovietica e del socialismo?
La storia controfattuale ha avuto un momento di gloria qualche anno fa, ma nella maggior parte dei casi è rimasta ancorata a racconti narrativi o giornalistici, come occasione di fantasticare su “cosa sarebbe successo se”. Per gli storici interrogarsi su queste ipotesi significa poter mettere in luce le alternative esistenti anche se non realizzate, significa non accettare una visione meccanicistica e necessaria del divenire storico, per cui le cose non potevano andare che come sono andate, togliendo così ogni possibile libertà agli attori storici. Quello che non si può fare, se non come divertissement giornalistico o come spunto narrativo, è pensare di poter – sulla base delle alternative possibili o esistenti – immaginare come sarebbe evoluto il mondo in questo caso, anche se qualche speculazione, restando nel campo delle pure ipotesi, si può fare e può essere di qualche utilità per la comprensione del divenire storico.
Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studia la storia o si diventa storici. Quindi, in definitiva, professore, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?
Per me studiare la storia è stato un elemento strettamente connesso con l’impegno politico giovanile. La storia, soprattutto la storia contemporanea, rappresentava il terreno che sembrava più utile per meglio comprendere il presente, per dare strumenti che si sarebbero potuti utilizzare anche nell’arena politica. Per fortuna il fascino della storia e dello studio della storia ha preso presto il sopravvento: non perché essa non si sia dimostrata utilissima per la comprensione del presente, ma perché grazie alla lezione dei grandi storici (Bloch primo fra tutti) ho perduto subito una visione un po’ strumentale del suo uso, puntando alla conoscenza come elemento di comprensione di una complessità molto lontano dal giudizio riduttivo, spesso morale o moraleggiante, che emerge quando si lega troppo strettamente la politica alla storia. Guardare alla storia interrogandola con questioni che attengono al presente è qualcosa di diverso che cercare nella storia la legittimazione di quello che si pensa oggi o dell’agire nell’oggi. Leggi tutto “Intervista a Marcello Flores”

Intervista a Paolo Pombeni su Giuseppe Dossetti

Ho deciso di intervistare il Prof. Paolo Pombeni, docente di Storia contemporane presso l’Università di Bologna autore di diversi libri: Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano (Il Mulino, 2013), La politica dei cattolici. Dal risorgimento ad oggi (Città nuova, 2015), La questione costituzionale in Italia (Il Mulino, 2016). Questa seconda intervista ha come argomento la figura di Giuseppe Dossetti.

 

  • In che ambiente culturale si formò il giovane Giuseppe Dossetti ?

 

Dossetti ebbe una formazione per così dire irregolare. Spesso ricordava di essere stato in qualche modo maestro di sé stesso. Al contrario di altri esponenti dei gruppi dirigenti cattolici non ebbe per esempio un percorso all’interno dell’associazionismo cattolico. Nella prima fase della sua vita più che di ambienti culturali si deve parlare di ambienti “spirituali”, perché tale era il gruppo di don Torreggiani a Reggio Emilia, molto orientato alle azioni di presenza sociale e di spiritualità, piuttosto che alle riflessioni in senso classico culturali. Ovviamente l’esperienza di Dossetti all’interno della Università Cattolica fu importante, ma soprattutto per i rapporti che ebbe con molte persone. Va infatti notata una caratteristica specifica di Dossetti (che del resto è tipica di tutti i leader): era capace di vampirizzare, se posso sbrigarmela con questo termine, tutte le persone interessanti con cui veniva in contatto, di prendere da loro tutti gli spunti e gli stimoli che lo interessavano per poi rielaborarli a livello personale. Da qui una poliedricità nel suo approccio che non è del tipo usuale negli intellettuali.

 

 

  • Un ruolo importante nella partecipazione alla resistenza attiva e nella scelta poi dell’esperienza politica fu l’esperienza all’università Cattolica di Milano, in particolare, negli incontri di Casa “Padovani”. In che modo queste esperienze influirono sugli anni successivi di Dossetti ?

 

Gli anni della Cattolica furono decisivi per convincere Dossetti che c’era un dovere storico del cattolicesimo italiano ed era quello di agire concretamente e dall’interno nella grande trasformazione del mondo che si sarebbe poi rivelata con il dramma della Seconda Guerra Mondiale. Questa convinzione, che inizialmente era, se vogliamo, legata alla contingenza “resistenziale” (tipica del sentire degli anni Quaranta), andò continuamente approfondendosi. Dossetti si convinse sempre più che si era in presenza di una grande cesura, che avrebbe esteso i suoi effetti ben oltre la fase che noi chiamiamo della “ricostruzione”. Se leggiamo i suoi ultimi scritti, vediamo che questa prospettiva, direi escatologica, va approfondendosi con il procedere della sua vita.

 

 

  • Dossetti parteciperà in modo attivo alla Costituente insieme ad altri intellettuali cattolici, che apporto diedero alla Costituzione?

 

L’apporto di Dossetti alla Costituente fu fondamentale, perché egli assunse su di sé la “regia” del lavoro che si andava a fare per costruire le basi teoriche del nostro costituzionalismo. Lavorò anche sulla seconda parte, quella dell’organizzazione dei poteri, ma qui il suo apporto poté essere meno incisivo, tranne in qualche passaggio (per esempio nella legge elettorale sul Senato dove sconfisse la prospettiva per l’uninominale). Per quel che riguarda la prima parte l’impianto fu suo (anche se riprese qualche proposta che circolava) e fu lui a gestire la convergenza di forze intellettuali diverse verso una sintesi che riflettesse i nuovi orizzonti del costituzionalismo novecentesco oltre che delle esperienze politiche dopo le crisi seguite alla prima guerra mondiale. Fu anche merito suo e dei suoi amici se le pulsioni integraliste che venivano da certi ambienti della Santa Sede e della “Civiltà Cattolica” furono tenute ai margini, evitando però rotture che sarebbero state pericolose per il fragile momento che attraversava la democrazia italiana appena ristabilita.

 

  • Un primo scontro tra Dossetti, il gruppo di Cronache sociali e De Gasperi emerse già in occasione del Congresso della Dc del 1949. Quali erano i punti su cui emerse il contrasto?

 

Il contrasto fra De Gasperi e Dossetti nasceva da una diversa interpretazione del ruolo del cattolicesimo politico. Per De Gasperi era il riconoscimento della forza sociale di una componente allora maggioritaria della società, dopo di che il politico cattolico doveva fare il suo lavoro nel modo consentito dalle circostanze. Lo statista trentino era un politico di professione, nel senso alto del termine ovviamente, e faceva il suo mestiere al meglio possibile. Per Dossetti la presenza politica del cattolicesimo era una specie di dono storico che dava l’occasione per testimoniare che un altro mondo era possibile. Non certo quello dell’instaurazione del regno di Dio in terra (che per un vero credente è sempre una bestemmia, perché ciò non è possibile sino al ritorno di Cristo), ma quello di lavorare perché si realizzasse un sistema sociale che non teneva conto di vincoli di forze che erano, per cavarcela con una battuta, espressione dell’egoismo e della cecità di alcune componenti. Era la ricerca del famoso “terzo tempo sociale”: si riteneva possibile spingere il paese oltre la fase della semplice democrazia politica. De Gasperi, nel suo realismo, ma anche per il suo pessimismo sulla natura umana, riteneva invece che andare in quella direzione in maniera aperta avrebbe messo a rischio la stessa conquista della democrazia politica.

 

  • Nel 1951 Dossetti decise di ritirarsi dalla vita politica attiva dopo il convegno Rossena , ma l’idea di ritirarsi non era nuova in Dossetti. Quali furono le motivazioni che lo portarono nel 1948 a continuare la sua esperienza politica?

 

Dossetti non aveva mai pensato di avere come missione personale un ruolo nella politica. La cosa è curiosa perché era un uomo che sapeva muoversi con grande abilità e competenza nell’ambito della politica, ma vedeva questo come una fonte di corruzione della sua chiamata ad una testimonianza piena dell’alterità della vita cristiana. Fu un tormento che lo seguì durante tutta la vita. Nel caso concreto la percezione che gli spazi di “creatività” verso una nuova società erano assai ridotti lo aveva portato già nel 1948 a decidere di ritirarsi dalla vita politica, ma poiché si considerava un servitore della Chiesa chiese permesso al papa di uscire da quella esperienza. Papa Pacelli, che aveva capito benissimo la forza attrattiva che era esercitata da una personalità come Dossetti (per di più in uno scontro epocale come era quello delle elezioni del 1948), negò l’autorizzazione e per obbedienza il leader reggiano si ricandidò al Parlamento

 

 

  • L’ultima esperienza politica di Dossetti furono le elezioni amministrative di Bologna nel 1956, come maturò la scelta di tornare all’attività politica dopo il ritiro del 1951?

 

Come è ormai noto, non fu Dossetti a voler tornare in campo nel 1956, fu il vescovo di Bologna Giacomo Lercaro a chiederglielo prima e ad imporglielo per obbedienza poi. Il vescovo era convinto che in fondo tutti fossero cristiani e che se votavano comunista era perché i dc non erano capaci di proporre una visione veramente cattolica della politica. Dossetti non era affatto convinto di questo, ma colse l’occasione per dare alla sua Chiesa la prova provata che non era così. Mise in piedi una campagna elettorale molto moderna, approntò un programma assai illuminato (poi in buona parte ripreso dai comunisti) e perse, a testimonianza che, come dirà in un passaggio quasi occasionale di un discorso in Consiglio Comunale, il cattolicesimo era ormai una componente di minoranza in una società che andava già secolarizzandosi.

 

  • Perché secondo lei la figura di Dossetti è stata molto studiata dagli storici solo in tempi abbastanza recenti, mentre per anni venne dimenticata?

 

Per anni Dossetti pagò, come ha scritto giustamente Enrico Galavotti, una specie di damnatio memoriae. Il suo concentrarsi dopo il ritiro dalla politica sul problema della riforma della Chiesa era stato visto da molti cattolici come un abbandono del campo di battaglia. Del suo apporto fondamentale al Concilio Vaticano II si sapeva poco, perché aveva agito dietro le quinte. Il suo stesso apporto alla Costituente era stato dimenticato. Dossetti era stato anche assente dalle diatribe ideologiche che si erano avute nella seconda metà degli anni Sessanta per cui sembrava non avesse nulla da dire. Del resto non c’erano testi o libri che riproponessero il suo pensiero (Dossetti ha pubblicato direttamente pochissimo e in sedi non facilmente accessibili). Aggiungiamoci che l’immagine della DC era andata deteriorandosi dopo il fallimento del primo centrosinistra. Anche se oggi sembra incredibile, Moro per esempio era considerato un fumoso politico incapace di decisioni; quelli della DC che si imponevano avevano piuttosto una immagine di conservatori se non addirittura di uomini di destra.

Fu solo con l’uscita del libro di Baget Bozzo sulla DC di De Gasperi e Dossetti nel 1974 che tornò l’attenzione per la fase “costituente” della nostra democrazia postbellica. Ma erano anche gli anni in cui per uscire dalla sfida terroristica si capiva che era necessario tornare ad una visione forte della politica, che bisognava superare i manicheismi e capire che la nostra storia non era quella della “resistenza tradita” come si favoleggiava, ma quella di uno sforzo difficile e duro di impiantare un nuovo sistema di convivenza e di sviluppo in un paese distrutto dall’esperienza fascista.

 

  • I pochi interventi politici pubblici di Dossetti dopo il 1956, riguardarono la Costituzione. Perché questi interventi sulle riforme costituzionali?

 

Dossetti ritenne che la svolta che si era operata nel 1994 con la discesa in campo di Berlusconi significasse una specie di ritorno a quelle forze che avevano avversato nel 1945-48 il nuovo costituzionalismo italiano. Non dimentichiamoci che nella prima fase Berlusconi, con la leggerezza che lo contraddistingue, parlava di una “costituzione bolscevica”, ma che soprattutto c’era una larga corrente di opinione che pensava che la nostra Carta fosse troppo tributaria del pensiero politico della fase resistenziale.

Dossetti ritenne di dover scendere in campo per impedire che venisse messo in discussione quell’impianto costituzionale. A mio avviso, commise due errori. 1) sopravvalutò la portata di chi blaterava a vanvera di revisioni dei principi fondamentali, senza capire cosa ciò avrebbe comportato (e difatti fu un dibattito sterile che si esaurì presto); 2) non si curò del fatto che trincerandosi dietro la sua difesa dei grandi principi, si facesse poi passare la tesi che tutta la Carta era intoccabile. Questo era contrario al suo pensiero, perché più volte (addirittura dal 1948) Dossetti aveva sostenuto che più di un istituto era stato accettato era frutto di un cattivo compromesso momentaneo e che pertanto doveva essere riformato. Cito per tutti il Senato come perno di un bicameralismo paritario.

Ma Dossetti non faceva più battaglie politiche e dunque non si curava, come del resto aveva sempre fatto, se qualcuno strumentalizzava il suo pensiero.

 

 

 

La crisi del Psi e l’ascesa alla segreteria del partito di Craxi

Nel luglio del 1976 il Psi era in crisi: il partito era in fibrillazione, la base avvilita, i quadri smarriti i vertici contestati e, alle ultime elezioni, era sceso al 9% distanziato di ben 25 punti percentuali dal Pci. In questa situazione si temeva per la sopravvivenza stessa del partito. Il vicesegretario Giovanni Mosca si era dimesso prima del risultato finale e il segretario De Martino, nella sua dichiarazione, sembrava rassegnato, tanto da non riuscire a nascondere la profonda delusione. Di questa situazione e dei negativi risultati elettorali, furono accusati Nenni, De Martino e Mancini, come era già successo nel 1968 quando era stata resa difficile la riunificazione con Il Psdi. In questa situazione in cui la base era disorientata e i dirigenti si accusavano a vicenda venne convocato il Comitato centrale.

Nel luglio del 1976 il segretario De Martino e il gruppo dei leader storici, dopo una riunione del Comitato centrale a Roma all’hotel Midas si dimisero e vennero sostituiti dai loro luogotenenti che commisero quasi un “parricidio “. I luogotenenti erano Claudio Signorile, Antonio Landolfi, Bettino Craxi ed Enrico Manca, che erano i figli politici rispettivamente di Lombardi, Mancini, Nenni e De martino. Le correnti maggiori di quel periodo (“lombardiani”,“manciniani”e“demartiniani”) non riuscirono a trovare un accordo per il nuovo segretario e quindi scelsero il leader del gruppo minore cioè Craxi, che guidava una corrente che si attestava intorno al 10% .

Bettino Craxi era nato a Milano il 24 febbraio del 1924, suo padre era di origine siciliana; egli militò agli inizi degli anni cinquanta in organismi universitari come l’Unione goliardica italiana. Fin dagli esordi si schierò su posizioni autonomiste rispetto al Pci; questo gli valse numerose critiche dall’allora vice segretario del Psi De Martino, in quanto cercava di separare gli universitari socialisti da quelli comunisti. Un fatto che segnò la gioventù di Craxi fu la rivolta di Budapest nel 1956, tanto che egli non ebbe mai posizioni di tipo filocomunista. Negli anni Settanta a Milano Craxi cercò di dimostrare che essere anticomunisti non significava per forza essere subalterni alla Dc come com’era già accaduto nel capoluogo lombardo, quando attraverso un lavoro tenace e sotterraneo era riuscito a ribaltare l’accordo di centro-sinistra, e dar vita, ad una giunta rossa, anche se la scelta non era stata obbligata dai numeri. Questo fatto giocò a favore dell’immagine di Craxi dal momento in cui, almeno sentimentalmente, la base era a favore dell’alternativa al centro-sinistra.

Bettino Craxi diventò segretario del partito a soli quarantadue anni nel 1976; quando il Comitato centrale si riunì all’Hotel Midas nessuno pensava a lui come segretario, futuro leader incontrastato del Psi, anche perché non era molto conosciuto. In lui non si vedevano le qualità di un grande politico, la sua era una retorica asciutta e priva di passionalità, tipica di un burocrate che aveva scalato un po’ alla volta i gradini interni del partito, raggiungendo la vicesegretaria nel 1969. Le poche doti che gli venivano riconosciute erano l’efficienza e il pragmatismo. Veniva sottovalutato, tanto che si pensò ad un’ operazione orchestrata dietro le quinte da Mancini, pronto a spodestare De Martino, per vendicare la sconfitta del 1972, nell’intento di guidare i giovani luogotenenti portati al vertice. I giornali avrebbero preferito al suo posto Antonio Giolitti; La Repubblica definì Craxi “Il tedesco del Psi”, il Manifesto “L’americano amico di Kissinger”,dal Fortebraccio fu considerato il “Nihil, il signor Nulla”. Il leader socialista Riccardo Lombardi ne diede una definizione lapidaria: « Io non l’ho votato – affermò Lombardi – perché Craxi rappresenta un passato che non mi piace. Ma non mi stupirei di un suo cambiamento perché l’uomo è intelligente. La storia ne offre diversi esempi di persone che subito dopo una investitura hanno cambiato politica. Ricordate papa Urbano VIII? Quando era cardinale proteggeva Galileo, poi appena avvenne la vestizione prese le distanze. Ecco io credo che Craxi abbia questa occasione: di prendere le distanze da una certa politica di alleanze e di contenuti che ha contrassegnato il suo passato». In tutti questi commenti c’era troppo colore e qualche ingenerosità verso il nuovo segretario che dovette affrontare una sistuazione complessa. Quasi nessuno capì il momento di svolta nemmeno giornalisti importanti come Scalfari e Pansa.

Craxi venne eletto da una maggioranza eterogenea e litigiosa, che non sembrava adatta a guidare in un momento di crisi il partito, dettando una nuova linea per il rinnovamento del Psi. Questa maggioranza però era composta da un gruppo dirigente che non aveva vissuto gli anni dell’alleanza con il Pci, ma gli anni del centro-sinistra e quindi aveva maturato un visione più laica e concreta della lotta politica.

La questione principale che dovette affrontare Craxi fu la strategia politica. Il ritorno al centro-sinistra era impossibile per un segretario che si presentava come l’uomo del rinnovamento. L’alternativa e cioè l’alleanza con il Pci non era possibile, in quanto Berlinguer non era disponibile su questa linea, ed in questa fase era impegnato nella strategia del compromesso storico con la Dc guidata dal presidente Moro, che rimaneva il leader più influente della politica italiana in quel periodo. La strategia del compromesso storico e della solidarietà nazionale lasciava poco spazio al Psi che si trovò stretto tra due “giganti” e quindi rischiava di essere ridotto al rango di vassallo minore.

Queste furono le prime difficoltà che dovette affrontare il nuovo segretario del Psi, in un contesto ulteriormente complicato da fattori esterni come gli anni di piombo, che raggiunsero l’apice in quel periodo, e la crisi dell’intera società italiana.

Bibliografia:

P. Mattera, Storia del Psi (1892-1994), Carocci, Roma, 2010

(a cura di) G. Sabbatucci, Storia del socialismo Italiano,vol. 6, Il Poligono, Roma, 1981

(a cura di) S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago, Laterza. Roma- Bari, 2005

M.Spini, Craxi, Mondadori, Milano, 2006

 

Intervista al prof. Paolo Pombeni

 

Ho deciso di intervistare  il Prof. Paolo Pombeni, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna  autore di diversi libri: Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano (Il Mulino, 2013), La politica dei cattolici. Dal risorgimento ad oggi ( Città nuova, 2015), La questione costituzionale in Italia (Il Mulino, 2016)

In che periodo storico si possono far risalire le origini culturali della Costituzione italiana, tali origini si possono trovare nel 900 o anche in periodi precedenti?

Come per ogni documento costituzionale anche nella Carta del 1948 ci sono molti piani, per ciascuno dei quali si trovano origini diverse. Dal punto di vista di alcuni principi generali le origini risalgono fino al dibattito costituzionale classico dell’Ottocento: così è per esempio per il riconoscimento di uno stretto rapporto fra cittadinanza e diritti politici attivi, per il rinvio al parlamentarismo rappresentativo. Altre parti sono invece da connettersi ad una maturazione che si sviluppò nel Novecento: è il caso per esempio dei diritti sociali, del riconoscimento dell’importanza dei corpi intermedi,infine dello stesso ruolo da riconoscere ai partiti politici (un tema che in verità venne solo parzialmente elaborato nella nostra Carta). Va comunque sottolineato che il pensiero costituzionale, sia sul piano politico che su quello di più strettamente giuridico, è un fiume che continua a scorrere e a raccogliere affluenti fondendo istanze diverse.

Un momento importante nella Costituente fu quando i social-comunisti nel 1947 uscirono dal governo Tale evento come condizionò i lavori dell’Assemblea?

L’evento fu politicamente della massima importanza e caratterizzò il sistema politico italiano per decenni, ma sulla Assemblea Costituente  ebbe una influenza molto relativa. Il grosso del lavoro era già stato fatto: non dimentichiamoci che il dibattito sulla prima stesura generale della Carta è del marzo 1947, mentre la rottura del tripartito arrivò nel maggio 1947. D’altronde né i democristiani né i comunisti avevano interesse a buttare a mare il lavoro fatto. Per i primi si trattava di mantenere l’obiettivo di avere un testo che fosse largamente condiviso, per i secondi di vedersi riconosciuto un ruolo di partecipanti attivi alla rifondazione della democrazia italiana. Entrambi questi aspetti si sarebbero rivelati di grande importanza nella successiva storia repubblicana.

In che modo la gerarchia ecclesiastica cercò di condizionare le scelte politiche della Dc nell’Assemblea costituente ? Che ruolo ebbe in questo “Civiltà cattolica”?

La Gerarchia ecclesiastica si riteneva depositaria di una conoscenza storica superiore e già per questo pensava di essere titolata a dare “lezioni” ai politici cattolici, aggiungendo poi che si era in un periodo in cui c’era ancora una visione piuttosto rozza e autoritaria di quali fossero i confini del “magistero” della Chiesa. Diciamo ancora che la catastrofe in cui era finito il mondo con la Seconda Guerra Mondiale illudeva le gerarchie che questo significasse la necessità di un ritorno alla religione in generale, e alla guida delle gerarchie cattoliche in particolare. Così i vertici vaticani si convinsero che fosse suonata l’ora per la restaurazione di un sistema di “stato cattolico” dopo il tramonto di questo con la Rivoluzione Francese. Di qui il lavoro continuo, e per fortuna scarsamente efficace, di orientare la forza della DC su questi obiettivi. La “Civiltà Cattolica” fu semplicemente la punta di lancia di queste convinzioni, al cui servizio pensò di mettere delle particolari competenze tecniche che in realtà in questo specifico caso non aveva, perché i padri che si occuparono di questioni costituzionali avevano una cultura piuttosto arretrata.

Come furono influenzate le riflessioni costituzionali di De Gasperi dall’esperienza politica prima nell’iImpero asburgico, e successivamente, in quella nel Partito Popolare Italiano?

Ci sono tre elementi da tenere in considerazione per capire l’atteggiamento di De Gasperi sulla questione costituzionale, senza dimenticare peraltro che lo statista trentino non sentiva il fascino delle grandi costruzioni teoriche per cui al lavoro di stesura in senso proprio non partecipò, occupato com’era nelle questioni di governo. Il primo elemento è la consapevolezza che De Gasperi ricavò dalla sua partecipazione al parlamento asburgico che una politica senza dialettica parlamentare era destinata a non conseguire l’obiettivo di costruire una compagine nazionale coesa. Nell’impero asburgico il parlamento aveva pochi poteri e scarsa rilevanza, perché il sistema era fortemente burocratizzato, ma la conseguenza fu la dissoluzione dell’impero multinazionale nelle sue molte componenti. Il secondo elemento centrale e poco sottolineato è l’osservazione che De Gasperi fece della esperienza della repubblica di Weimar. In quel caso vide come senza la costruzione di un sistema capace di inglobare vinti e vincitori si apriva una querelle continua sulla “legittimità” del nuovo corso con esiti finali catastrofici. Quanto all’esperienza del PPI nel periodo fra le due guerre, De Gasperi fu tra i pochi che compresero che fra le altre cause della vittoria del fascismo c’era stata anche la scelta della Chiesa di puntare sul nuovo regime abbandonando il partito cattolico. Di qui la sua ostinata difesa del partito unico dei cattolici anche a costo di ingoiare qualche rospo e di accettare una complicata dialettica con le gerarchie.

Nel suo libro emerge una figura che ebbe un ruolo importante negli anni successivi, ma che già nella Costituente si dimostrò influente cioè Amintore Fanfani. In che modo l’esponente della Dc condizionò gli articoli della costituzione che trattano del lavoro e dell’economia già influenzate nella costituente dalle idee social-comuniste?

Fanfani era fra i costituenti cattolici quasi l’unico che aveva competenze economiche soprattutto in campo teorico. Era sempre stato attento al dibattito internazionale in queste materie ed aveva una brillante capacità di trovare la sintesi fra alcune tesi tradizionali cattoliche e le nuove propsettive che lo sviluppo economico portava sulla scena. In questo era veramente un uomo dell’Università Cattolica di padre Gemelli. Fanfani come esponente di un approccio “sociale” alla questione economica, e in specie del lavoro, fu pertanto in grado di offrire una mediazione che desse soddisfazione all’apporto delle teorie marxiste sulla centralità operaia senza che però questo avvenisse con la stesura di articoli troppo ideologicamente “classisti”, cosa che avrebbe trovato l’ostacolo non solo delle gerarchie cattoliche, ma di componenti importanti della cultura italiana.

La Costituzione entrò in vigore il 1 gennaio del 1948, ma per la sua attuazione il tempo sarà molto più lungo quali furono le motivazioni di questo ritardo?

La Carta Costituzionale fu approvata mentre ancora non si erano concluse molte riflessioni per trovare dei punti di accordo su diverse questioni rimaste aperte in tema di organizzazione dei poteri pubblici. Tuttavia c’era molta polemica sulla durata dei lavori della Costituente che sembrava molto lunga e si premeva perché si potesse andare a votare per vedere chi aveva la maggioranza nel paese. Alla indeterminatezza su alcuni temi (si pensi alla regolamentazione del diritto di sciopero o a quella sui partiti politici) si aggiunse il fatto che altri istituti erano stati fatti approvare in un clima che in seguito mutò. Così la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, le Regioni. Le forze che avevano dovuto obtorto collo rassegnarsi a vedere approvate quelle norme fecero di tutto per lasciarle … sulla Carta! Infine la nuova Costituzione presupponeva un cambiamento di mentalità da parte dei detentori dei pubblici poteri, in specie di quelli burocratici, ma non solo e per superare quegli ostacoli fu necessario attendere il tempo perché ci fossero dei ricambi generazionali e perché quelli che facevano resistenza si arrendessero all’idea che ormai la battaglia era stata perduta.

Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. Quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?

Posso confessarvi che io sono diventato storico per caso? Mi sono laureato in Giurisprudenza a Bologna nel novembre 1971 e all’epoca il mio interesse era diviso fra il giornalismo e le questioni religiose (ero uno dei tanti giovani del dissenso cattolico postconciliare). Per questo avevo fatto una tesi in storia della Chiesa col prof. Alberigo sul decreto conciliare sulla liturgia. Mentre scrivevo la tesi una crisi personale mi allontanò da quel tipo di impegno religioso, ma Alberigo mi offrì una borsa di studio a Scienze Politiche in storia contemporanea e mi assegnò come tema di ricerca il dossettismo, di cui stava recuperando un pezzo di archivio. Non avevo mai sentito nominare Dossetti, ma cominciai a leggere la sua rivista “Cronache Sociali”. Di lì scoprii un altro modo di ragionare di politica e una prospettiva per cui è necessaria una visione storica per capire. Contemporaneamente entrarono in gioco le relazioni con le persone e con gli ambienti. L’allora Istituto storico politico di Bologna era un laboratorio assai vivace: non c’era solo il professore a cui ero stato assegnato e a cui mi legò un rapporto sempre più forte e complesso, Roberto Ruffilli, ma c’erano Tiziano Bonazzi, Piero Schiera, Anna Maria Gentili e tanti altri. In parallelo apersi una forte via di scambio intellettuale con Paolo Prodi.

Così mi immersi sempre più nello studio della storia politica come disciplina caratteristica e diversa dalla semplice storia delle vicende politiche, perché presuppone una riflessione teorica, una attenzione al sistema istituzionale, una comprensione delle dinamiche della storia intellettuale. Ovvio che su questo si è influenzati anche da letture di classici, come Max Weber, o alcuni saggi di Otto Hintze e di Otto Brunner.

Poi la vita ti trascina e la passione ti porta ad immergerti sempre più in quello che fai, ma mai da solo. Sono sempre più convinto che il poco che ho fatto sia dovuto a tutti quelli con cui ho interagito, ma soprattutto i miei studenti e i molti giovani (ormai quasi tutti ex giovani) che hanno condiviso con me le piccole “officine” che abbiamo messo insieme. E sono anche sempre più convinto che gran parte della crisi politica in cui viviamo e che rischia di stritolare generazioni su generazioni sia dovuta all’abbandono della storia come “scuola dell’uomo di stato” (la definizione non è mai, ma dello storico inglese Freeman).

Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI raccontato da Fulvio de Giorgi

Questa settimana abbiamo deciso di intervistare il Prof. Fulvio de Giorgi, docente di Storia della pedagogia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e autore di diversi libri: Paolo VI. Il papa del moderno (Morcelliana, 2015), La repubblica grigia. Cattolici, cittadinanza, educazione alla democrazia (La scuola, 2016) e Mons Montini. Chiesa cattolica e cosntri di civiltà nel novencento (il Mulino, 2012).

 

Montini è stata una delle figure italiane più importanti del novecento. In che ambiente culturale si forma ?

Se, con uno sguardo laico, ci chiediamo quale sia stato l’italiano che, nel XX secolo, ha maggiormente influito, positivamente, sulla storia mondiale, dobbiamo concludere che è stato Giovanni Battista Montini (1897-1978). Questo per dare un’idea approssimativa della ‘dimensione di scala’ sulla quale ci muoviamo parlando di lui: un grandissimo protagonista della storia mondiale contemporanea (a livello di Gandhi, Luther King, Mandela).
Egli si formò in Lombardia cioè nella parte più ‘moderna’ e dinamica, in quel momento, in Italia. Più in particolare, la sua formazione giovanile si svolse nell’ambiente cattolico bresciano (nel quale suo padre era figura leader) che aveva allora due caratteristiche fondamentali: da una parte, attaccamento al papato (con il ‘mito’ di Leone XIII e della Rerum Novarum) e, quindi, appartenenza alle organizzazioni dell’intransigentismo (l’Opera dei Congressi, con una marcata vicinanza a Toniolo); dall’altra, un atteggiamento aperto e ‘conciliatorista’ verso la società e la cultura moderne, lo Stato costituzionale, l’Italia unita. Quindi intransigentismo strategico e conciliatorismo tattico. Ciò passò, in qualche modo, al giovane Montini. La sua posizione, per tutta la vita, fu: radicalismo intransigente della fede e dialogicità conciliatorista dell’apologetica.
Attraverso, poi, i Padri Filippini della Pace di Brescia (in particolare Bevilacqua) e figure di laici, amici di famiglia, Montini si ricollegò alla vena profonda della spiritualità italiana: S. Filippo Neri, Rosmini, Manzoni.

Il padre aderì al Partito Popolare fondato da Don Sturzo. In che modo il padre condizionerà le diverse scelte di Montini?

Il padre Giorgio che, come ho detto, era il leader del laicato cattolico bresciano fu, insieme a Sturzo, tra i fondatori del PPI e poi fu eletto, nelle fila popolari, alla Camera. Se la mamma influì su Giovanni Battista per l’aspetto spirituale, il padre fu determinante per l’aspetto civile e politico (ed entrambi per l’atteggiamento etico-sociale e caritativo). Dal padre egli ereditò l’antifascismo e anche una vera comprensione per la politica. Fu pure vicino a De Gasperi negli anni bui della dittatura fascista, quando molti ex-popolari lo evitavano e De Gasperi era vessato e perseguitato dal fascismo.

Nella FUCI Montini formò alcuni esponenti della futura Democrazia Cristiana. Che ruolo ebbe Montini nella scelta della Chiesa di appoggiare la Democrazia Cristiana come partito unico dei cattolici?

Montini fu decisivo nella formazione dei giovani intellettuali cattolici (della Fuci, prima, e poi dei Laureati Cattolici) al primato dello spirituale, della coscienza, della carità intellettuale: contro la ‘religione politica’ fascista e la statolatria gentiliana. La posizione era apolitica (anche, poi, sulla base del Concordato del 1929) e perciò afascista: ma in un regime totalitario, che richiedeva l’adesione totale al regime, afascismo corrispondeva ad antifascismo.
Durante la seconda guerra mondiale Montini divenne figura apicale della Chiesa cattolica, braccio destro di Pio XII. Fu determinante nella ripresa organizzativa e ideale (cfr. Codice di Camaldoli) dei cattolici. Fu pure determinante nella scelta dell’unità politica dei cattolici in un partito democratico con un programma avanzato di giustizia sociale. La scelta alternativa era quella di più partiti cattolici: di destra e di sinistra. Ma, dopo vent’anni di fascismo e di clerico-fascismo, questo avrebbe voluto dire un grosso partito clericale di destra quasi neofascista e sparuti partitini di sinistra (cattolico-democratica o catto-comunista). La linea di Montini (e di Pio XII) in appoggio a De Gasperi fu quindi decisiva per ancorare la gran parte dei cattolici alla democrazia, con un programma sociale avanzato. Basti considerare il fondamentale apporto dei costituenti dc, moltissimi legati a Montini, alla stesura della Costituzione della Repubblica.

Mons. Montini nel 1954 venne nominato arcivescovo di Milano senza essere investito cardinale. Per quale motivo venne allontanato da Roma e dal carica di sostituto della Segreteria di Stato?

Finché si trattò di uscire dal fascismo e di ricostruire la democrazia, la posizione di Montini in Vaticano fu egemone: era una linea che guardava con simpatia soprattutto alle avanzate esperienze intellettuali e sociali dei cattolici francesi (Maritain, Mounier, Francia Paese di Missione, preti operai) e dei franco-svizzeri (Journet, Zundel). Ma in Vaticano c’era una linea opposta: romano-spagnola (che aveva come modello la Spagna di Franco e un’ecclesiologia di centralismo romano-papale da Chiesa totalitaria). Per la linea montiniano-francese la sfida principale al cristianesimo veniva dal ‘materialismo pratico’ (soprattutto borghese, ma anche marxista); per i romano-spagnoli invece dal comunismo mondiale (e perciò bisognava unire tutti gli anticomunisti, neofascisti inclusi, in un fronte comune). Quando il clima mondiale divenne fosco e si avviò la guerra fredda (a partire direi dal 1949 e via via sempre di più), la linea romano-spagnola ebbe la meglio e convinse il vecchio e malato Pio XII a ‘esiliare’ Montini (visto come troppo democratico e non abbastanza anticomunista e, sul piano ecclesiale, quasi ‘neomodernista’) a Milano, senza elevarlo al cardinalato, così da impedirne la partecipazione al successivo conclave. Faccio notare che se nel conclave del 1958 fosse stato eletto il giovane Siri invece dell’anziano Roncalli non avremmo mai avuto Paolo VI.

Paolo VI si trova in una situazione molto complessa quella di continuare e portare a termine il concilio. In che modo riuscì ad intervenire ed evitare possibili fratture all’interno della Chiesa?

Qui il discorso sarebbe lunghissimo e non posso riassumerlo in poche battute. Dico solo che i risultati del Concilio Vaticano II sono strettamente legati all’impegno di Paolo VI. In sostanza il giudizio storico sul pontificato di Paolo VI è totalmente e univocamente legato al giudizio storico che si dà del Concilio: se il Vaticano II è stato negativo, lo è stato pure il pontificato di Paolo VI; ma se si giudica il Vaticano II storicamente importante (io direi una svolta epocale mondiale), allora il pontificato di Paolo VI è stato storicamente importante. Io sono, come si è capito, per la seconda posizione, e giudico, da storico, Paolo VI come il più grande papa contemporaneo.

Negli ultimi mesi del suo pontificato dovette subire la perdita di una figura a cui lui era particolarmente legato: Aldo Moro. In che modo cercò di arrivare alla  sua liberazione? Secondo lei, le  vie intraprese da Paolo VI potevano portare alla liberazione di Moro? 

Negli ultimi mesi del suo pontificato dovette subire la perdita di una figura a cui lui era particolarmente legato: Aldo Moro. In che modo cercò di arrivare alla  sua liberazione? Secondo lei, le  vie intraprese da Paolo VI potevano portare alla liberazione di Moro? Non tutte le fonti sono tutt’ora a disposizione degli storici: il giudizio è necessariamente indiziario e provvisorio. Moro prigioniero delle Br non conobbe tutta l’azione che, riservatamente, Paolo VI mise in atto, perciò giudicò che Montini avesse fatto “pochino” per lui. In realtà non fu così. Il papa sperò di essere riuscito stabilire un contatto utile per la liberazione di Moro. Non sappiamo però se fu all’opera un depistaggio – da parte di servizi ‘esterni’ – verso quest’opera del Vaticano. Montini aveva fiducia. Anche per questo la notizia dell’uccisione  (per certi aspetti inattesa: si attendeva, proprio in quei momenti, la liberazione) fu un colpo tremendo per lui, che morì solo qualche mese dopo.

Perché Paolo VI rispetto ad altri pontefici del 900,  viene  poco ricordato  e  sempre in luce non del tutto positiva? 

Anche qui il discorso sarebbe troppo lungo. Sul piano ecclesiale dal 1978 al 2013 si è progressivamente prodotta una divaricazione tra chi interpretava il Concilio come un’assoluta frattura rivoluzionaria (ed esaltava Giovanni XXIII considerando quasi Paolo VI come un restauratore se non un ‘traditore’) e chi al contrario diceva che il Concilio non aveva cambiato molto nella continuità ecclesiale (criticando, più o meno implicitamente, tutte le aperture montiniane, soprattutto la ‘libertà di parola’, e esaltando le sicurezze indiscusse e indiscutibili del papato polacco di Giovanni Paolo II). Tra l’altro sia Giovanni XXIII sia Giovanni Paolo II erano stati molto popolari (e ‘bucavano’ il video), al contrario dello schivo e riservato Montini che non voleva un’invadenza papale sul resto della Chiesa, vescovi e laici inclusi.Si è così progressivamente prodotta una dannosa divaricazione tra ermeneutica della frattura ed ermeneutica della continuità. Inoltre tra il mito di Giovanni XXIII, il papa ‘buono’, e il mito di Giovanni Paolo II, santo ‘subito’, Paolo VI appariva – in modo totalmente falsato e ingiusto – come un inverno tra due primavere.Solo con papa Bergoglio un più sereno giudizio e uno sguardo non preconcetto alla realtà storica sono stati possibili. Così si è giunti alla beatificazioni di Montini e, soprattutto, si è studiata la sua figura in termini più corretti. Ma non si tratta solo di storiografia. Si tratta anche di vita ecclesiale e attualità pastorale: è indubbio, infatti, che Bergoglio sia un neo-montiniano.

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