La campagna “All Eyes on Rafah” ha quasi raggiunto 40 milioni di condivisioni in meno di 24 ore.
La campagna social, diffusa a partire dal 28 maggio, a seguito del disastroso attacco israeliano su Rafah, definito da Netanyahu un “incidente” (l’ennesimo incidente) a cui ha fatto seguito l’ingresso delle forze di terra israeliane a Rafah, città nel sud della striscia di Gaza nonostante la richiesta dell’intera comunità internazionale di non fare quel passo.
Questa campagna è un messaggio “popolare” che sfrutta la potenza dei social, per mostrare la direzione in cui punta la bussola morale dell’opinione pubblica mondiale, un opinione pubblica che “ricorda” che sceglie di “non dimenticare” che ha fatto tesoro ed ha imparato dalle giornate della memoria celebrate ogni anno il 27 gennaio.
In quelle giornate, continuiamo a ripetere che servono per “non ripetere gli stessi errori”, e pure, a quanto pare, quegli “errori” continuiamo a commetterli, anche abbastanza frequentemente.
Ma non li commettono i popoli, non li commettono le persone, li commettono avidi e spietati uomini di potere, mentre l’opinione pubblica mondiale invoca, a gran voce, la mobilitazione concreta, reale, invoca l’intervento diretto e tempestivo della comunità internazionale, per fermare un genocidio che in proporzione, ha fatto più vittime dell’Olocausto.
Quella stessa comunità che in altre occasioni, è intervenuta in meno di 24 ore, e che in questa occasione, dopo oltre 270 giorni di massacri e vittime civili mietute quotidianamente, non ha ancora preso una posizione.
Questa campagna, con le sue circa 40 milioni di condivisioni mondiali, ci ricorda che “il vento soffia ancora”, per usare le parole di Pierangelo Bertoli, un vendo che trasporta nelle sue spire, le grida di civili morti senza una ragione, di bambini carbonizzati le cui ceneri ora, sono nel vento.
Quel vento che Francesco Guccini in Auschwitz si chiedeva quando si sarebbe posato “soffia ancora”, mentre la morte, tiene il suo concerto a Rafah, parafrasando Roberto Bignoli, un concerto il cui biglietto molti, soprattutto donne e bambini, lo hanno trovato in fila per il pane o in un campo profughi, dietro l’angolo di casa, mentre nel sonno un missile strappava loro la vita con precisione chirurgica.
Questa campagna social, questa storia condivisa su instagram da milioni di persone in tutto il mondo, porta con se quel vento, quelle grida, quel dolore, e le consegna alla storia, perché la memoria non si perda tra le macerie di una città cancellata, di un popolo sterminato. Perché la Storia, quella con la S maiuscola, affonda le proprie radici in quel vento rumoroso, che rompe il silenzio, entra nelle case e ci urla di uscire, di scendere nelle piazze, e gridare, di invocare il potere che serve i popoli, affinché i nostri governanti guardino più dall’altra parte.
La Storia ci chiede di non comportarci come i cittadini del Reich, perché se guardiamo altrove, se “giustifichiamo”, quel massacro, tutt’altro che silenzioso, allora siamo complici.
In questa storia non ci sono vie di mezzo e non possiamo fingere che ci siano, scegliere di non condannare il genocidio in atto nella striscia di Gaza significa giustificarlo, significa permettere che si ripeta, significa fallire, significa tradire le milioni di vittime dell’Olocausto, dei campi di sterminio nazisti e dei gulag sovietici. Significa ricadere, ancora una volta, nella banalità del male.
I nazisti, ci dice Hannah Arendt, non erano demoni mostruosi e sadici, erano persone comuni, la cui grande colpa è stata quella di “non mettersi concretamente nei panni degli altri” scegliendo di non vedere e guardare dall’altra parte mentre milioni di persone perdevano tutto, soffrivano e morivano in un modo meccanicamente perverso. Il male è banale e si nutre dell’indifferenza dell’uomo, quella stessa indifferenza che oggi impedisce ai nostri governi di condannare fermamente i crimini, non di Israele, ma del governo Israeliano.