FOIBE || La strage di italiani insabbiata dal governo

foibe, ragion di stato dietro l'insabbiamento del governo italiano

La questione delle stragi delle Foibe e il “silenzio della politica italiana di quegli anni” , da qualche anno è diventato un elemento centrale nel dibattito pubblico che viene ad originarsi sul web durante alcune manifestazioni della memoria, volte a non dimenticare, i crimini di guerra compiuti durante la seconda guerra mondiale. Il tema delle Foibe è spesso utilizzato in modo improprio, estraendo quegli avvenimenti dal contesto storico in cui si verificarono, mi riferisco al silenzio politico oltre che ovviamente alle stragi.

Possiamo sintetizzare il tutto in questa breve frase, dietro l’insabbiamento degli eccidi delle foibe, si celano profonde ragioni di stato e politiche, legate al principio di reciprocità. Più espressamente, procedere nel dopoguerra con i processi a carico die criminali di guerra Jugoslavi, avrebbe implicato processi analoghi contro criminali di guerra italiani (responsabili di crimini in Jugoslavia) tra cui anche nomi illustri, come Gabriele D’annunzio.

La neonata repubblica Italiana, che stava godendo in quel momento dell’immagine di “brava gente vittima del fascismo e di Mussolini” non poteva e non voleva rischiare di rivangare il proprio passato, di ammettere una complicità estesa, soprattutto nelle periferie coloniali, con il regime. Per cui, la dove possibile, bisognava insabbiare.

Ripulire le mani degli italiani però non è l’unica ragione, vedremo infatti che vi era in sentito timore che lo scontro giuridico ed i processi politici avrebbero potuto prolungare il conflitto ben oltre la sua fase di belligeranza armata, e per l’Italia che giocava un ruolo strategico nel Mediterraneo per effetto di un nuovo ordinamento mondiale che andava delineandosi, era di vitale importanza, mantenere il più possibile rapporti “pacifici” con i vicini Jugoslavi, il cui collocamento geopolitico era ancora incerto.

Tante ragioni quindi, politiche, strategiche, storiche, riassumibili nel concetto di “ragion di stato” spinsero la classe politica dell’epoca ad insabbiare tutto.

Ho avuto la possibilità, qualche anno fa, di recuperare un vecchio “intervento” di Giulio Andreotti, risalente al febbraio 2007, un intervento che segue di 3 anni l’istituzione della giornata della memoria per le vittime delle foibe e che, in un modo o nell’altro, ci dice tanto.

Integrerò la dichiarazione di Andreotti con alcune spiegazioni, estratte dai miei appunti inerenti un ciclo di lezioni all’Università di Pisa risalente al 2016, in modo da rendere il più chiaro possibile cosa accadde sul piano politico nell’Italia a ridosso della seconda guerra mondiale e l’inizio dell’età repubblicana, tra il 1945 ed il 1948.

“Credo sia mio dovere intervenire perché questa espressione di riferimento ad un lungo silenzio può essere equivoca. Ho vissuto quel periodo e quindi lo conosco direttamente e vorrei dire perché noi abbiamo coscientemente evitato di fare di quell’argomento un motivo che dividesse.”

L’intervento di Andreotti è una risposta all’intervento dell’allora presidente del Senato Franco Marini sulla questione delle Foibe, in cui Andreotti spiega perché all’epoca (nell’immediato dopoguerra) l’argomento fu a suo dire “coscientemente evitato“. Andreotti ricordiamo che, prima di essere un politico di lunga data, protagonista quasi indiscusso della prima repubblica, fu uno dei più giovani membri dell’Assemblea Costituente, uno dei pochi a dire il vero a non avere un passato politico tra le fila del Fascismo.

“Certamente eravamo ispirati da due fattori: innanzitutto, non doveva essere un motivo di polemica interna, perché i Comunisti Italiani non c’entravano niente”

Credo le sue parole siano fin troppo chiare, e non diano molto spazio ad interpretazioni, eravamo in un momento , nel 45, di grande fermento politico, una fase di transizione storica a cavallo tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda, le prime tensioni tra le due superpotenze vincitrici della guerra iniziavano a manifestarsi in maniera concreta e apertamente dichiarata, e di conseguenza iniziavano anche le prime pressioni internazionali per limitare l’azione politica dei gruppi e partiti più vicini all’una o l’altra parte, in particolare si cercava di arginare, nel mondo occidentale e in Italia, quelle formazioni in qualche modo vicine all’unione sovietica, era quindi impossibile affrontare un tema che riguardasse un paese comunista come la Jugoslavia, senza che le sue responsabilità ricadessero di riflesso sui comunisti italiani, che però, come osserva e ricorda lo stesso Andreotti, non c’entravano nulla.

“in secondo luogo vi era un dovere di cercare quanto più possibile di instaurare con un Paese vicino, con il quale vi era stato più di un motivo di grandissimo contrasto, un clima di comprensione che guardasse al futuro e non al passato.”

In questo passaggio Andreotti fa un tacito riferimento alla “clausola di reciprocità”, un cavillo giuridico utilizzato dall’Italia nell’immediato dopoguerra per prendere le distanze dai crimini del nazismo, e “proteggere” gli italiani da un destino analogo a quello dei condannati a Norimberga.

Sono anni in cui il dibattito internazionale sui crimini di guerra e contro l’umanità è particolarmente acceso, e allo stesso tempo oscuro, non ci sono in quel momento organi di diritto internazionale universalmente riconosciuti, non c’è la Corte di Giustizia Internazionale o la Corte Penale internazionale, e il tribunale speciale di Norimberga, nel suo tentativo di fare giustizia si è presto trasformato in un tribunale dei vincitori sui vinti, che fece venir meno uno dei principi fondamentali del diritto, ovvero la non retroattività di un crimine. Passaggio che però fu necessario vista la brutalità senza precedenti dei crimini nazisti.

A livello giuridico un tale operato fu necessario per punire quelli che erano i crimini, più che evidenti, compiuti dal regime Nazista, che de facto, nell’ordinamento giuridico dell’epoca tecnicamente non erano crimini, poiché compiutisi in modalità e portata totalmente nuova e non prevista da nessun codice nazionale o internazionali. Inoltre, nella Germania Nazista, e successivamente nell’Italia Fascista, tutto ciò era legale.

In quel meccanismo criminale, messo in atto dai regimi Nazi-fascisti, furono coinvolti numerosi ufficiali militari e leader politici italiani, tra cui molti “eroi del fascismo” che in seguito avrebbero voltato le spalle al fascismo e supportato Pietro Badoglio, tra cui lo stesso Badoglio, che in Africa aveva compiuto quelli che dopo Norimberga potevano essere definiti crimini di guerra e contro l’umanità, e lo stesso valeva per molti degli italiani che avevano occupato e amministrato l’area balcanica durante la guerra.

Con la fine della guerra iniziano a diffondersi in tutti i paesi coinvolti, numerose liste di “criminali di guerra”, la Francia prepara la lista dei criminali stranieri attivi in Francia, così come avrebbe fatto la Germania, la Russia, la Polonia, l’Italia e la Jugoslavia.

La maggior parte dei nomi presenti in quelle liste erano ufficiali tedeschi, ma nelle liste non c’erano solo loro, c’erano in realtà molti italiani, ma non mancarono accuse nei confronti di francesi, jugoslavi, britannici, statunitensi, russi ecc.

Alcuni nomi erano presenti in diverse liste, e per semplicità e convenienza politica, si decise di condividere quelle liste, ordinare i criminali per nazionalità e procedere caso per caso, nazione per nazione, attraverso tribunali nazionali che avrebbero avuto il compito di giudicare e punire i propri criminali di guerra, in altri termini l’Italia avrebbe dovuto giudicare e punire i criminali italiani, la Francia i francesi, la Jugoslavia i jugoslavi ecc, ed è proprio qui che entra in gioco la sopracitata “clausola di reciprocità”, prevista dai codici militare, in particolare quello italiano e che permetteva all’Italia di processare i propri criminali di guerra a condizione che i criminali accusati dall’Italia, fossero a loro volta processati, di conseguenza se in Jugoslavia non fossero stati avviati dei processi, l’Italia non avrebbe processato i propri criminali, e viceversa, perché la Jugoslavia processasse i propri criminali, chi aveva commesso crimini in Jugoslavia doveva essere processato.

Tuttavia, Italia, Francia e Jugoslavia in primis che vedevano tra i propri criminali numerosi nomi legati alla politica post bellica, volevano evitare di andare a processo e questo cavillo era esattamente ciò di cui avevano bisogno tutti, poiché avrebbe garantito un’importante scappatoia, in particolare all’Italia e alla Jugoslavia.

La maggior parte dei criminali jugoslavi erano coinvolti direttamente nel neonato governo di Tito, e Tito non avrebbe mai smantellato la nuova classe dirigente del neonato stato di Jugoslavia “solo” per obbligare l’Italia a processare i propri criminali di guerra. E lo stesso valeva per l’Italia.

“Ritengo quindi che il silenzio sia stato più che giusto e che siano state molto opportune le parole dette. Ognuno, del resto, ha la propria opinione e guai se dovessimo avere tutti la stessa! Dal momento che l’ho vissuto, però so che la grande maggioranza degli italiani di quelle zone riteneva di dover guardare verso il futuro e non creare dei solchi che aggravassero ulteriormente la situazione”

L’ultima parte dell’intervento di Andreotti si riferisce alla crescente tensione tra l’Italia e la Jugoslavia nell’immediato dopoguerra, sulla questione del territorio Istriano, di Trieste e parte dell’odierno Friuli, poiché queste regioni che l’Italia rivendicava, durante la guerra furono “liberati” dall’occupazione nazi-fascista, dalle milizie di Tito prima dell’arrivo degli alleati, e di conseguenza alla fine della guerra la Jugoslavia di Tito rivendicò il proprio controllo su quell’area territoriale, che l’Italia aveva occupato alla fine della prima guerra mondiale.

Entrambe le parti volevano quelle regioni e come è facile intuire, ne scaturì una profonda crisi diplomatica che avrebbe sottoposto quelle aree (soprattutto Trieste) ad un controllo internazionale.

In Italia, che aveva partecipato a due guerre mondiali per assicurarsi il controllo di quelle regioni, c’era una profonda volontà politica di mantenere l’unità nazionale e riportare sotto il controllo italiano almeno una parte dei territori controllati da Tito a partire dal 1943 e alla fine, solo una parte di essi tornò effettivamente all’Italia, dopo quasi un decennio di controllo internazionale dell’area di Trieste, terminato nel 1954.

 La mancata Norimberga italiana

Il mancato processo dei criminali “comunisti” che massacrarono oltre 300.000 italiani tra i mondi del carso, del Friuli e della Dalmazia, attraverso gli eccidi delle Foibe, fu un atto politico, largamente voluto dalla politica italiana del secondo dopoguerra. Una politica che antepose le ragioni di stato alla giustizia.

L’Italia avrebbe potuto fare pressioni e richieste alla Jugoslavia affinché avviasse dei processi contro i responsabili degli eccidi, ma non lo fece, anzi, scelse apertamente di non farlo, per tante ragioni, la prima di queste riducibile nella volontà di proteggere se stessa e l’Italia.

Quanto alle vittime delle foibe e gli eccidi stessi, questi furono un crimine d’odio raziale e intolleranza, imperdonabile, che si fondò sulla generalizzazione e che venne oscurato per quella stessa ragione. Per i criminali di guerra Jugoslavi, gli Italiani occupanti erano tutti criminali nazifascisti, complice di quel regime che per vent’anni, in quelle regioni, aveva sottratto terre agli indigeni rastrellato, stuprato, massacrato e umiliato la popolazione locale, in nome della superiorità dell’Italia Fascista. E quella rabbia, quel risentimento, quel desiderio di vendetta, si abbatté su tutti, colpevoli e innocenti, ed è questo ciò che va ricordato, perché quei crimini vanno condannati per ciò che furono. Rappresaglie generalizzate contro gli Italiani, non perché Italiani, ma perché gli Italiani fino a quel momento erano stati Fascisti.

Omettere questa parte della vicenda, significa fingere che gli Italiani da un giorno all’altro, dismisero le camice nere e diventarono tutti brava gente, significa passare una mano di spugna su 20 anni di crimini compiuti in Italia e fuori dall’Italia, e fingere che non sia mai successo.

Le vittime delle Foibe non erano tutti criminali fascisti, e anche se lo fossero stati, non meritavano di essere massacrati in modo così brutale e disumano, ciò che meritavano, tutti, era un processo che giudicasse e punisse i criminali Italiani e Jugoslavi, e assolvesse gli innocenti, ma quel processo, come abbiamo visto, non c’è stato e anzi, è stato volutamente insabbiato, da Italia e Jugoslavia, per ragioni di stato. E a tale proposito, possiamo dire che quell’insabbiamento fu forse la prima (e non unica) “porcheria” commessa dall’Italia repubblicana in nome delle ragioni di stato.

Bibliografia

Autore: Antonio Coppola

Sono laureato in storia contemporanea presso Unipi. Su internet mi occupo di divulgazione, scrivo storie di storia, geopolitica, economia e tecnologia.