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Uno sguardo storico sul mondo


Il caso Bellomo, l’unico processo italiano per crimini di guerra nel secondo dopoguerra

La vicenda di cui voglio parlare è stata ignorata a lungo dalla storiografia militare italiana nel secondo dopoguerra.

Sto parlando del caso “Bellomo“, unico processo istruito dagli organi Alleati, all’indomani della Liberazione, contro un alto ufficiale dell’esercito italiano considerato colpevole di crimini di guerra. La torbida vicenda che vide messo alla sbarra il generale di divisione Nicola Bellomo si consumò in un arco di tempo relativamente breve, ma denso di eventi, che influenzeranno più o meno indirettamente il caso ed il relativo processo.

La storia del generale era pressoché quella classica di un qualsiasi ufficiale di carriera del Regio Esercito Italiano.

Nato a Bari il 2 febbraio 1881, dopo il diploma tecnico scelse la via militare conseguendo, presso la scuola d’applicazione di Torino, il grado di tenente d’artiglieria nel 1904. Durante la Grande Guerra dette prova di capacità tecnica e logistica, ottenendo un doppio avanzamento di grado, una medaglia d’argento al valore militare e la croce di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia. I suoi rapporti col Fascismo furono abbastanza turbolenti. Dopo la Marcia di Roma non dimostrò un eccessivo entusiasmo verso Mussolini, mantenendo un posizione di distacco e di dedizione esclusiva al lavoro. In ragione di questa condotta fu scavalcato continuamente nelle promozioni di grado per anzianità, decidendosi solo nel giugno 1933 a fare formale richiesta per la tessera del partito.

Con legge del 7/6/1933 diveniva infatti necessaria l’iscrizione al P.N.F. dei militari per ottenere qualsiasi promozione e riconoscimento. Nel 1935 la sua promozione ancora languiva, perciò si trovò costretto a far ricorso al Consiglio di Stato che riconobbe la validità delle sue proteste. Ironia della sorte venne posto fuori quadro, cioè fuori dal servizio militare attivo a per ragioni di anzianità. Su di lui pendevano infatti gli attriti che aveva avuto con il generale d’Armata, nonché Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e autore della riforma la quale doveva “fascistizzare” l’esercito, Federico Baistrocchi. La loro disputa era sorta durante i preparativi all’invasione dell’Etiopia, nel 1935. Bellomo, allora capo dell’ufficio Difesa dello Stato Maggiore dell’Esercito, ammetteva la “la difesa contraerei del territorio nazionale, da anni affidata alla Milizia […], era inconsistente[1] nel caso in cui la flotta inglese si fosse mossa contro la Penisola.

Fu richiamato in servizio nei primi mesi del 1941 per esigenze belliche, con il grado di generale di brigata venendo investito dell’incarico di Comandante del Presidio Militare di Bari. Anche in questa ruolo, il generale Bellomo ebbe la possibilità di palesare le sue spiccate doti militari.

L’evento che segno la sua vicenda, e conseguentemente la sua vita, fu la cattura di un gruppo di incursori inglesi che, paracadutatisi nelle campagne nei pressi di Calitri (AV) nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1941, avevano distrutto con cariche esplosive il ponte-canale Tràgino e danneggiato il ponte-canale Ginestra dell’Acquedotto pugliese. Tale azione va contestualizzata in quella che gli inglesi chiamarono “Operazione Colossus”, la prima missione di paracadutisti inglesi sul territorio nemico durante la Seconda Guerra Mondiale. I risultati pratici del raid  furono scarsi, infatti i tecnici dell’Acquedotto Pugliese avendo previsto azioni del genere avevano preparato nei pressi di ogni ponte-canale grosse tubazioni di scorta per poter riparare i danni di un’azione bellica. Il danno fu riparato in due giorni e l’acqua, anche per la presenza di serbatoi nei pressi di tutti gli abitati serviti, mancò alla popolazione pugliese solo per poche ore. Il rifornimento ai porti di Bari, Brindisi, Gallipoli e all’arsenale militare di Taranto e a tutti gli aeroporti pugliesi fu sempre assicurato. Ciò nonostante gli Inglesi affermarono che l’effetto sul morale degli Italiani di un lancio di parà nemici nel cuore della loro terra fosse molto grave.

In tre giorni di ricerche tutti gli uomini del SAS britannico furono catturati, ma il generale decise di incarcerarli piuttosto che procedere alla loro esecuzione sommaria in quanto agenti sabotatori nemici infiltrati nel  territorio di sua competenza. Ciò attirò su di se le critiche dei segretari del partito delle federazioni dove si era svolta l’operazione, in quanto aveva rifiutato l’appoggio dei fascisti locali. Dopo il 25 luglio 1943 rimase al proprio posto di comando e per la fedeltà dimostrata nei confronti della Corona venne nominato capo della commissione di scioglimento della M.V.S.N. con il compito di assorbire nel Regio Esercito quei militi che non si fossero macchiati di gravi colpe. In tale ruolo fu tempestato da lettere anonime e accuse verso gli ex appartenenti alla milizia e agli organi del Partito, con richieste di vendetta verso coloro che avevano rappresentato il Duce nella provincia barese per un ventennio.

Il 9 settembre il generale Bellomo venne fortuitamente a conoscenza della notizia che il generale tedesco Sikenius aveva mandato dei guastatori per distruggere le principali infrastrutture portuali della città pugliese. Bellomo raccolse alcuni nuclei di militari italiani presso la caserma della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e della Guardia di Finanza. A questi si affiancarono i genieri  guidati dal sottotenente Michele Chicchi, e con questo nucleo di uomini attaccò i guastatori tedeschi che avevano già preso posizione nei punti nevralgici della grande struttura. Costretti sulla difensiva, i tedeschi furono obbligati ad una ritirata da due attacchi e infine alla resa. Bellomo partecipò in prima persona agli scontri, venendo anche ferito e . Ritiratisi i tedeschi, gli inglesi poterono successivamente sbarcare a Bari in completa sicurezza, usufruendo di infrastrutture portuali pienamente efficienti utili a proseguire la Campagna d’Italia e supportare l’appoggio dei partigiani greci e jugoslavi.

Il Generale Bellomo mantenne la sua carica fino al 28 gennaio 1944, quando la polizia militare britannica lo arrestò nel suo ufficio “per aver sparato o fatto sparare contro due ufficiali britannici, causando la morte di uno di essi e il ferimento dell’altro”.

Al momento dell’arresto, non esistevano a carico del generale elementi precisi in mano agli inquirenti inglesi. Su Bellomo gravitavano però gli interessi, soprattutto da parte degli ufficiali Generali che erano accorsi dall’Italia meridionale a dichiarare fedeltà a Badoglio e al cosiddetto “Regno del Sud”, di eliminare un personaggio scomodo che non si era colluso col Fascismo e aveva avuto modo di vedere con mano i loschi traffici che si svolgevano negli ambienti militari prima, e durante, la guerra. Inoltre non poté fare a mano di osservare il comportamento dei suoi superiori gen. di C. A. Roberto Lerici e gen. di Div. Giovanni Caruso, i quali avevano mantenuto un profilo dubbio nei giorni dell’Armistizio.

Bellomo venne accusato di aver preso parte “e istigato” l’uccisione del prigioniero cap. G. Playne e la tentata uccisone del tenente R.R. Cooke. I due erano stati catturati in seguito al fallimento dell’operazione del febbraio 1941, ma avevano tentato la fuga dal campo di prigionia il 30 novembre del medesimo anno. Durante una colluttazione un colpo di arma da fuoco uccise Playne e ferì Cooke, il quale sopravvisse.

Solo il 5 giugno 1945, cioè diciotto mesi dopo l’incarcerazione, il tenente, promosso nel frattempo a capitano, Roy Roston Cooke presentò una denuncia scritta e circostanziata contro il generale stesso, il quale, nel frattempo, era stato più volte trasferito tra i campi di concentramento alleati di Grumo Appula, di Padula e di Afragola.

Il 14 luglio 1945 gli fu comunicato il deferimento dinnanzi alla Corte Marziale e accusato di aver sparato con la propria Colt Pocket contro i due ufficiali inglesi. Lo stesso Bellomo ricostruì così gli avvenimenti:

Io ordinai alla scorta di fare fuoco soltanto quando mi accorsi che i due prigionieri si erano fermati per scattare in avanti. Il capitano Playne avanzò per primo, seguito a breve distanza dal tenente Cooke. Allora ebbi la certezza che volessero tentare la fuga. Io non sparai: non perché non avessi la volontà di farlo, ma perché avevo dimenticato di abbassare la sicura e la pistola non funzionò. Comunque lo ripeto ancora una volta: se ci fossero responsabilità, queste sarebbero solo mie perché io ero generale, tutti gli altri erano miei subordinati, ubbidivano soltanto ai miei ordini[2]

La Corte, il 28 luglio 1945, dopo poco più di un’ora di camera di consiglio pronunciò la sentenza di condanna a morte, eseguita mediante fucilazione presso il carcere di Nisida.

La vicenda dimostrò subito la sua difficile comprensione e le macchinazioni che si consumarono dietro di essa. La stessa corte marziale inglese agì in maniera assai poco legale, rifiutando test e documenti che scagionavano l’operato di Bellomo e prendendo invece per vere le testimonianze contraddittorie sia di Cooke che dei militari italiani presenti al fatto. Le testimonianze di questi ultimi personaggi furono assai controverse, contrastanti è più volte ritrattate e modificate. Apparve chiaro che il processo era stato istruito con un esito scontato di condanna del generale, nel tentativo di eliminare una figura scomoda per l’esercito combelligerante del Sud. Gli inglesi furono esecutori materiali del fatto, ma la condanna a morte di Bellomo venne decisa anche nel salotto di Badoglio. I documenti che avrebbero scagionato l’ufficiale, tutti in mano italiano, venne dichiarati non dispersi e non visibili alla Corte Marziale, e le testimonianze di alcuni ufficiali italiani dichiarate nulle o impossibili da prendere in considerazione.

Bellomo fu uno dei pochi ufficiali generali italiani che, di propria iniziativa, si mosse subito dopo la notizia dell’Armistizio contro i tedeschi. A suo malgrado, attraverso la  difesa del porto e della città di Bari, si trovò al centro degli intrighi che avevano portato il re e Badoglio alla fuga nottetempo sul Baionetta alla volta di Brindisi, rappresentando l’altra faccia della medaglia dell’Esercito Italiano nei fatti di quei giorni.

Gli fu riconosciuta una medaglia d’Argento al valor militare per i fatti del settembre 1943, ma ad oggi non è stata ancora realizzata nessun processo riabilitativo verso un ufficiale che pagò  per le colpe dei propri superiori.

 

Bibliografia:

Fiorella Bianco, “Il caso Bellomo” , ed. Mursia
ANPI sez. Brindisi
Ivan Palermo, “Il caso Bellomo”, su Storia illustrata n° 157, Dicembre 1970
[1] Lettere del gen.Bellomo all’Alto Commissario per l’Epurazione Carlo Scorza del 18/08/1944
[2] Testimonianza del gen. Bellomo durante il processo