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Intervista al prof. Paolo Pombeni

 

Ho deciso di intervistare  il Prof. Paolo Pombeni, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna  autore di diversi libri: Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano (Il Mulino, 2013), La politica dei cattolici. Dal risorgimento ad oggi ( Città nuova, 2015), La questione costituzionale in Italia (Il Mulino, 2016)

In che periodo storico si possono far risalire le origini culturali della Costituzione italiana, tali origini si possono trovare nel 900 o anche in periodi precedenti?

Come per ogni documento costituzionale anche nella Carta del 1948 ci sono molti piani, per ciascuno dei quali si trovano origini diverse. Dal punto di vista di alcuni principi generali le origini risalgono fino al dibattito costituzionale classico dell’Ottocento: così è per esempio per il riconoscimento di uno stretto rapporto fra cittadinanza e diritti politici attivi, per il rinvio al parlamentarismo rappresentativo. Altre parti sono invece da connettersi ad una maturazione che si sviluppò nel Novecento: è il caso per esempio dei diritti sociali, del riconoscimento dell’importanza dei corpi intermedi,infine dello stesso ruolo da riconoscere ai partiti politici (un tema che in verità venne solo parzialmente elaborato nella nostra Carta). Va comunque sottolineato che il pensiero costituzionale, sia sul piano politico che su quello di più strettamente giuridico, è un fiume che continua a scorrere e a raccogliere affluenti fondendo istanze diverse.

Un momento importante nella Costituente fu quando i social-comunisti nel 1947 uscirono dal governo Tale evento come condizionò i lavori dell’Assemblea?

L’evento fu politicamente della massima importanza e caratterizzò il sistema politico italiano per decenni, ma sulla Assemblea Costituente  ebbe una influenza molto relativa. Il grosso del lavoro era già stato fatto: non dimentichiamoci che il dibattito sulla prima stesura generale della Carta è del marzo 1947, mentre la rottura del tripartito arrivò nel maggio 1947. D’altronde né i democristiani né i comunisti avevano interesse a buttare a mare il lavoro fatto. Per i primi si trattava di mantenere l’obiettivo di avere un testo che fosse largamente condiviso, per i secondi di vedersi riconosciuto un ruolo di partecipanti attivi alla rifondazione della democrazia italiana. Entrambi questi aspetti si sarebbero rivelati di grande importanza nella successiva storia repubblicana.

In che modo la gerarchia ecclesiastica cercò di condizionare le scelte politiche della Dc nell’Assemblea costituente ? Che ruolo ebbe in questo “Civiltà cattolica”?

La Gerarchia ecclesiastica si riteneva depositaria di una conoscenza storica superiore e già per questo pensava di essere titolata a dare “lezioni” ai politici cattolici, aggiungendo poi che si era in un periodo in cui c’era ancora una visione piuttosto rozza e autoritaria di quali fossero i confini del “magistero” della Chiesa. Diciamo ancora che la catastrofe in cui era finito il mondo con la Seconda Guerra Mondiale illudeva le gerarchie che questo significasse la necessità di un ritorno alla religione in generale, e alla guida delle gerarchie cattoliche in particolare. Così i vertici vaticani si convinsero che fosse suonata l’ora per la restaurazione di un sistema di “stato cattolico” dopo il tramonto di questo con la Rivoluzione Francese. Di qui il lavoro continuo, e per fortuna scarsamente efficace, di orientare la forza della DC su questi obiettivi. La “Civiltà Cattolica” fu semplicemente la punta di lancia di queste convinzioni, al cui servizio pensò di mettere delle particolari competenze tecniche che in realtà in questo specifico caso non aveva, perché i padri che si occuparono di questioni costituzionali avevano una cultura piuttosto arretrata.

Come furono influenzate le riflessioni costituzionali di De Gasperi dall’esperienza politica prima nell’iImpero asburgico, e successivamente, in quella nel Partito Popolare Italiano?

Ci sono tre elementi da tenere in considerazione per capire l’atteggiamento di De Gasperi sulla questione costituzionale, senza dimenticare peraltro che lo statista trentino non sentiva il fascino delle grandi costruzioni teoriche per cui al lavoro di stesura in senso proprio non partecipò, occupato com’era nelle questioni di governo. Il primo elemento è la consapevolezza che De Gasperi ricavò dalla sua partecipazione al parlamento asburgico che una politica senza dialettica parlamentare era destinata a non conseguire l’obiettivo di costruire una compagine nazionale coesa. Nell’impero asburgico il parlamento aveva pochi poteri e scarsa rilevanza, perché il sistema era fortemente burocratizzato, ma la conseguenza fu la dissoluzione dell’impero multinazionale nelle sue molte componenti. Il secondo elemento centrale e poco sottolineato è l’osservazione che De Gasperi fece della esperienza della repubblica di Weimar. In quel caso vide come senza la costruzione di un sistema capace di inglobare vinti e vincitori si apriva una querelle continua sulla “legittimità” del nuovo corso con esiti finali catastrofici. Quanto all’esperienza del PPI nel periodo fra le due guerre, De Gasperi fu tra i pochi che compresero che fra le altre cause della vittoria del fascismo c’era stata anche la scelta della Chiesa di puntare sul nuovo regime abbandonando il partito cattolico. Di qui la sua ostinata difesa del partito unico dei cattolici anche a costo di ingoiare qualche rospo e di accettare una complicata dialettica con le gerarchie.

Nel suo libro emerge una figura che ebbe un ruolo importante negli anni successivi, ma che già nella Costituente si dimostrò influente cioè Amintore Fanfani. In che modo l’esponente della Dc condizionò gli articoli della costituzione che trattano del lavoro e dell’economia già influenzate nella costituente dalle idee social-comuniste?

Fanfani era fra i costituenti cattolici quasi l’unico che aveva competenze economiche soprattutto in campo teorico. Era sempre stato attento al dibattito internazionale in queste materie ed aveva una brillante capacità di trovare la sintesi fra alcune tesi tradizionali cattoliche e le nuove propsettive che lo sviluppo economico portava sulla scena. In questo era veramente un uomo dell’Università Cattolica di padre Gemelli. Fanfani come esponente di un approccio “sociale” alla questione economica, e in specie del lavoro, fu pertanto in grado di offrire una mediazione che desse soddisfazione all’apporto delle teorie marxiste sulla centralità operaia senza che però questo avvenisse con la stesura di articoli troppo ideologicamente “classisti”, cosa che avrebbe trovato l’ostacolo non solo delle gerarchie cattoliche, ma di componenti importanti della cultura italiana.

La Costituzione entrò in vigore il 1 gennaio del 1948, ma per la sua attuazione il tempo sarà molto più lungo quali furono le motivazioni di questo ritardo?

La Carta Costituzionale fu approvata mentre ancora non si erano concluse molte riflessioni per trovare dei punti di accordo su diverse questioni rimaste aperte in tema di organizzazione dei poteri pubblici. Tuttavia c’era molta polemica sulla durata dei lavori della Costituente che sembrava molto lunga e si premeva perché si potesse andare a votare per vedere chi aveva la maggioranza nel paese. Alla indeterminatezza su alcuni temi (si pensi alla regolamentazione del diritto di sciopero o a quella sui partiti politici) si aggiunse il fatto che altri istituti erano stati fatti approvare in un clima che in seguito mutò. Così la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, le Regioni. Le forze che avevano dovuto obtorto collo rassegnarsi a vedere approvate quelle norme fecero di tutto per lasciarle … sulla Carta! Infine la nuova Costituzione presupponeva un cambiamento di mentalità da parte dei detentori dei pubblici poteri, in specie di quelli burocratici, ma non solo e per superare quegli ostacoli fu necessario attendere il tempo perché ci fossero dei ricambi generazionali e perché quelli che facevano resistenza si arrendessero all’idea che ormai la battaglia era stata perduta.

Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. Quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?

Posso confessarvi che io sono diventato storico per caso? Mi sono laureato in Giurisprudenza a Bologna nel novembre 1971 e all’epoca il mio interesse era diviso fra il giornalismo e le questioni religiose (ero uno dei tanti giovani del dissenso cattolico postconciliare). Per questo avevo fatto una tesi in storia della Chiesa col prof. Alberigo sul decreto conciliare sulla liturgia. Mentre scrivevo la tesi una crisi personale mi allontanò da quel tipo di impegno religioso, ma Alberigo mi offrì una borsa di studio a Scienze Politiche in storia contemporanea e mi assegnò come tema di ricerca il dossettismo, di cui stava recuperando un pezzo di archivio. Non avevo mai sentito nominare Dossetti, ma cominciai a leggere la sua rivista “Cronache Sociali”. Di lì scoprii un altro modo di ragionare di politica e una prospettiva per cui è necessaria una visione storica per capire. Contemporaneamente entrarono in gioco le relazioni con le persone e con gli ambienti. L’allora Istituto storico politico di Bologna era un laboratorio assai vivace: non c’era solo il professore a cui ero stato assegnato e a cui mi legò un rapporto sempre più forte e complesso, Roberto Ruffilli, ma c’erano Tiziano Bonazzi, Piero Schiera, Anna Maria Gentili e tanti altri. In parallelo apersi una forte via di scambio intellettuale con Paolo Prodi.

Così mi immersi sempre più nello studio della storia politica come disciplina caratteristica e diversa dalla semplice storia delle vicende politiche, perché presuppone una riflessione teorica, una attenzione al sistema istituzionale, una comprensione delle dinamiche della storia intellettuale. Ovvio che su questo si è influenzati anche da letture di classici, come Max Weber, o alcuni saggi di Otto Hintze e di Otto Brunner.

Poi la vita ti trascina e la passione ti porta ad immergerti sempre più in quello che fai, ma mai da solo. Sono sempre più convinto che il poco che ho fatto sia dovuto a tutti quelli con cui ho interagito, ma soprattutto i miei studenti e i molti giovani (ormai quasi tutti ex giovani) che hanno condiviso con me le piccole “officine” che abbiamo messo insieme. E sono anche sempre più convinto che gran parte della crisi politica in cui viviamo e che rischia di stritolare generazioni su generazioni sia dovuta all’abbandono della storia come “scuola dell’uomo di stato” (la definizione non è mai, ma dello storico inglese Freeman).

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