Questo libro che è stato pubblicato nell’anno del centenario della Rivoluzione Russa tratta di gran parte della storia del socialismo del 900. Quali sono le motivazioni che l’hanno portata a compiere questa scelta?
La rivoluzione russa si è imposta in gran parte del movimento operaio come l’unico modello di socialismo possibile, come il socialismo “vero”, diverso da quello dei “rinnegati” della Seconda internazionale. Mi interessava non tanto guardare a come il socialismo fosse stato costruito in Urss (su cui ci sono una quantità di volumi ottimi) e cioè con criteri e valori in qualche modo agli antipodi dai valori socialisti che si erano imposti nel movimento operaio tra Otto e Novecento; ma a come fosse stato possibile che quel socialismo (autoritario, monopartitico, violento, totalitario) diventasse per molti “il” modello di socialismo da difendere e se possibile da imitare. E ho cercato di farlo attorno alla rilevanza (alla creazione e alla diffusione) del mito che ha accompagnato l’Ottobre e ai successivi miti che hanno accompagnato la storia dell’Urss.
Nel libro, quando affronta il tema del socialismo degli anni 30 lei evidenzia due posizioni: una critica verso il socialismo dell’Unione Sovietica e l’ altra invece favorevole. In entrambi i casi Lei non cita intellettuali italiani. Che posizione ebbero gli intellettuali italiani dell’epoca verso l’Unione Sovietica?
Direi che tra queste due posizioni, una di critica molto forte e una di adesione acritica, vi sono anche posizioni intermedie, anche perché quello è il decennio in cui ci sono molti mutamenti di opinione, di cambiamento di giudizi, ecc. Per quanto riguarda gli italiani bisogna comprendere che, vivendo sotto il regime fascista, la situazione per loro era assai diversa da quella degli intellettuali che potevano esprimersi liberamente e confrontarsi in Francia, Inghilterra, Stati Uniti. Vi sono intellettuali antifascisti che sono presenti nel libro: Salvemini proprio a metà anni ’30 e Silone a cavallo tra anni ’20 e ’30, ma sono intellettuali con una forte partecipazione politica, anche diretta, quindi un po’ atipici rispetto a quelli degli altri paesi. Tra gli intellettuali italiani più vicini al fascismo vi fu un forte interesse per l’esperienza sovietica, che in alcuni casi e per alcuni aspetti fu avvicinata a quella fascista. Il punto di vista più significativo (d’interesse molto forte ma con occhi condizionati da un atteggiamento allora positivo verso il fascismo) fu quello di Corrado Alvaro dopo un viaggio che compì in Urss. Credo però che il clima e l’orizzonte del fascismo non permisero – tranne che per gli esuli dell’antifascismo – una discussione sull’Urss analoga a quella avvenuta nei paesi democratici. Anche se, occorre ricordarlo, le pubblicazioni sull’Urss negli anni ’30 sono numerosissime in Italia, comprese le maggiori opere scritte da Trockij.
Un momento di svolta nella storia dell’Unione Sovietica fu certamente ciò che avvenne nel febbraio del 1956 con il rapporto Chruščëv Che situazione c’era in quella fase? In che modo la lettura del rapporto segreto influenzò la politica dei partiti comunisti occidentali nei confronti dell’Unione Sovietica?
In Urss nel 1956 era in corso la lotta politica tra quei dirigenti che volevano, dopo la morte di Stalin, cambiare il corso dello sviluppo socio-economico (più attenzione ai consumi individuali, miglioramento delle condizioni di vita, specie nelle campagne, grandi obiettivi come il dissodamento delle terre vergini o la corsa allo spazio) alleggerendo la stretta repressiva pur nell’ambito di un monopolio del partito che restava esclusivo del partito comunista. Chruščëv riesce a emergere e, per rafforzarsi, decide di puntare sul dare la colpa a Stalin per salvare la sostanza del socialismo, con la formula del “culto della personalità”. I partiti comunisti occidentali, che erano all’oscuro fino all’ultimo della portata delle accuse a Stalin da parte di Chruščëv, si trovarono spiazzati e reagirono con difficoltà, edulcorando e riducendo nella sostanza le accuse rispetto a quanto aveva fatto Chruščëv. Togliatti, ad esempio, sotto la finta di voler meglio approfondire le “contraddizioni” del socialismo non permise che vi fosse una critica serrata a Stalin analoga a quella svolta in Urss, e si comportò con chi voleva aprire il dibattito (Giolitti, Calvino e tanti altri) con un settarismo e una chiusura di pieno stampo staliniano. Quando poi, nell’ottobre, vi fu la rivolta ungherese e l’intervento armato sovietico, si assisté a una nuova solidarietà in nome della repressione di presunti traditori e nuovi nemici del popolo, a dimostrazione di come la “destalinizzazione” non era vista come messa in discussione dei principi autoritari e totalitari dello stato e della politica sovietici, ma come cambiamento rispetto al passato ma in sostanziale continuità con esso. L’apertura democratica dei partiti comunisti ebbe sempre come vincolo e ostacolo insuperabile la critica all’Urss, come si vide subito dopo in occasione del premio Nobel a Pasternak e in ogni occasione almeno fino al 1968, quando si poterono esprimere – in occasione dell’invasione di Praga – le prime timide critiche.
Nel suo libro racconta che molti dei viaggiatori, intellettuali e politici che si recarono in Unione Sovietica furono “vittime” del confirmation bias (pregiudizio di conferma). Questo fenomeno ebbe una discontinuità dopo il Rapporto Chruščëv?
Lo ebbe per molti, ma purtroppo non per la maggioranza dei politici e intellettuali che rimasero alla guida dei partiti comunisti, che si ostinarono ancora a lungo – praticamente fino agli anni ’80 – a rifiutare di conoscere, discutere, prendere in considerazione le ricostruzioni storiche, economiche, culturali relative alle vicende del comunismo e dell’Urss. Questo “pregiudizio di conferma” fa sì che gli intellettuali comunisti scelgano di non leggere, ad esempio, Koestler o Solženicyn, perché si fidano dei giudizi che ne danno i dirigenti del partito, tacciandoli da anticomunisti, venduti, ecc. Dopo il Rapporto Chruščëv le cose migliorarono un po’, ma non di molto almeno nell’immediato: tranne, ovviamente, per coloro, e furono parecchi, che vissero le dichiarazioni al XX congresso e poi la rivolta ungherese come una crisi e un dramma che li portarono ad abbandonare il comunismo. Per gli altri credo che si debba giungere fino al 1968 perché le cose cambino davvero; anche se, a questo punto, il “pregiudizio di conferma” viene spesso utilizzato non più nei confronti dell’Urss ma della Cina e di Mao.
Nel periodo finale dell’Unione Sovietica, Gorbačëv cercò anche di riprendere alcune idee di Lenin per cercare di creare un socialismo diverso. Quali idee di Lenin cercò di riproporre?
Più che idee particolari si trattava di un clima diverso. Si voleva riproporre, intanto, una libera discussione dentro il partito, e infatti la glasnost? (trasparenza) fu la parola d’ordine più efficace adoperata da Gorbačëv. Anche se presto quegli spazi di maggiore libertà, verità, democrazia che si aprirono dentro il PCUS li si volle, a partire dallo stesso Gorbačëv, ampliare all’intera società. L’unica vera idea dell’epoca leninista direi che la si può trovare nelle riforme economiche, analoghe in spirito alla NEP che Lenin impose al X congresso nel marzo 1921 al termine della guerra civile. In questo caso, però, il fallimento delle riforme economiche nel breve periodo non dettero alcun consenso a Gorbačëv che, anzi, trovò proprio in patria le critiche più feroci. Si può dire che il richiamo al leninismo costituì il punto di partenza per legittimare le riforme, per lasciarsi definitivamente alle spalle lo stalinismo e quanto di esso era sopravvissuto nell’epoca brežneviana, con l’idea, però, che occorreva andare oltre, che non ci si poteva limitare al semplice ritorno a Lenin, per esempio sul mantenimento del partito unico. Però quello era l’orizzonte ideologico cui rifarsi per permettere a chi voleva le riforme dentro il partito di uscire allo scoperto senza timore di diventare un traditore o un anticomunista. La spinta della glasnost’, tuttavia, rese rapidamente impossibile restare all’interno dei limiti e dei vincoli del leninismo, perché la pressione per ampliare gli spazi democratici dentro la società divenne troppo forte.
In questi ultimi anni sta emergendo molto l’idea di una storia controfattuale. In che modo questo ha condizionato e condiziona lo studio della storia in generale e anche quella dell’Unione sovietica e del socialismo?
La storia controfattuale ha avuto un momento di gloria qualche anno fa, ma nella maggior parte dei casi è rimasta ancorata a racconti narrativi o giornalistici, come occasione di fantasticare su “cosa sarebbe successo se”. Per gli storici interrogarsi su queste ipotesi significa poter mettere in luce le alternative esistenti anche se non realizzate, significa non accettare una visione meccanicistica e necessaria del divenire storico, per cui le cose non potevano andare che come sono andate, togliendo così ogni possibile libertà agli attori storici. Quello che non si può fare, se non come divertissement giornalistico o come spunto narrativo, è pensare di poter – sulla base delle alternative possibili o esistenti – immaginare come sarebbe evoluto il mondo in questo caso, anche se qualche speculazione, restando nel campo delle pure ipotesi, si può fare e può essere di qualche utilità per la comprensione del divenire storico.
Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studia la storia o si diventa storici. Quindi, in definitiva, professore, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?
Per me studiare la storia è stato un elemento strettamente connesso con l’impegno politico giovanile. La storia, soprattutto la storia contemporanea, rappresentava il terreno che sembrava più utile per meglio comprendere il presente, per dare strumenti che si sarebbero potuti utilizzare anche nell’arena politica. Per fortuna il fascino della storia e dello studio della storia ha preso presto il sopravvento: non perché essa non si sia dimostrata utilissima per la comprensione del presente, ma perché grazie alla lezione dei grandi storici (Bloch primo fra tutti) ho perduto subito una visione un po’ strumentale del suo uso, puntando alla conoscenza come elemento di comprensione di una complessità molto lontano dal giudizio riduttivo, spesso morale o moraleggiante, che emerge quando si lega troppo strettamente la politica alla storia. Guardare alla storia interrogandola con questioni che attengono al presente è qualcosa di diverso che cercare nella storia la legittimazione di quello che si pensa oggi o dell’agire nell’oggi.