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La Caduta di Cartagine secondo Polibio, Diodoro e Appiano

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La Caduta di Cartagine durante la terza guerra punica, raccontata da Polibio Diodoro e Appiano

La Caduta di Cartagine è l’atto finale delle guerre puniche uno scontro tra civiltà che per portata potremmo associare alle guerre mondiali del XX secolo, e sul piano simbolico potremmo considerare al pari della guerra fredda. In questo parallelo, la caduta di Cartagine è paragonabile alla fine dell’Unione Sovietica, un passaggio che, negli anni novanta, alcuni audaci ipotizzarono essere il segnale della fine della storia. Anche al tempo della caduta di Cartagine (e nei decenni successivi) qualcuno pensò alla fine della storia.

Caduta Cartagine al mondo rimaneva solo Roma, un unica potenza mondiale, circondata da tribù barbariche, per gli uomini dell’epoca Roma era consacrata all’eternità, e avrebbe dominato il mondo per l’eternità, ma nei suoi scritti Polibio racconta di una visione di Scipione Emiliano, il condottiero che aveva sconfitto Cartagine.Scipione, nel racconto di Polibio, viene mostrato in lacrime di fronte alle macerie di Cartagine, queste lacrime sono dettate dall’idea che come Cartagine, non troppo tempo prima la più grande potenza mondiale nell’antichità, anche Roma, prima o poi, avrebbe conosciuto il proprio Declino.

L’idea che Roma, la padrona indiscussa del mondo potesse capitolare nel II secolo a.c. appare anacronistica, e autori come Diodoro (I secolo a.c.) e Appiano (II secolo d.c.) pensano di non riportare questi dubbi che, dopo la battaglia, assalirono la mente di Scipione Emiliano, ma noi oggi sappiamo, che nessuna civiltà dura per sempre, che persino l’ineluttabile Roma, può cader, come già era successo a Cartagine, alla civiltà Greca, quella Persiana, e quella Fenicia, Sumera, Egizia, ecc ecc prima di Roma, e come sarebbe successo all’impero bizantino, gli imperi islamici, quello Ottomano, il regno di spagna, di francia, l’impero britannico, il sacro romano impero germanico, ecc ecc ecc…

Polibio a modo suo lo aveva intuito, forse perché da uomo greco ostaggio a roma che assiste alla caduta di Cartagine, aveva un punto di vista differente da quello dei propri contemporanei, o forse è stato solo un caso.In questo post parliamo di Polibio, Diodoro e Appiano e del loro racconto della capitolazione di Cartagine.

Quando Cartagine capitola il suo declino era in vero iniziato ormai da molto tempo, in parte alimentato dalle numerose sconfitte subite nel corso della prima e seconda guerra punica, ma è solo nella terza guerra punica che, nel 146 a.c si sarebbe conclusa per sempre e in maniera definitiva, quella guerra combattuta a più riprese fin dal 264 a.c.

Se vuoi approfondire la storia cartaginese ti rimando a questo articolo riassuntivo della storia di Cartagine

Ma le guerre puniche non sono solo uno scontro di civiltà, dettato dalla rivalità e dalle ambizioni politiche delle due più grandi potenze del mediterraneo dell’epoca, sono anche espressione di una più intima rivalità tra due famiglie di alto lignaggio, la famiglia Barca, una delle due case reali cartaginesi, di cui facevano parte Annibale Barca e suo fratello maggiore Asdrubale Barca, entrambi figli di Amilcare Barca, e dall’altra parte, per Roma, la gens Cornelia, antica famiglia romana cui apparteneva Publio Cornelio Scipione Africano, detto Scipione l’Africano, padre adottivo di Publio Cornelio Scipione Emiliano, detto Africano Minore, figlio naturale di Lucio Emilio Paolo Macedonico.

Noi oggi conosciamo le vicende della terza guerra punica, e della conseguente caduta di Cartagine, grazie soprattutto al racconto di tre autori greco romani, questi sono Polibio, Diodoro e Appiano.

Il racconto che questi tre autori fanno presenta alcune differenze, dovute prevalentemente alle posizioni politiche degli stessi, e al momento in cui scrissero, è molto probabile tuttavia che oltre questi tre autori ve ne siano molti altri, che per ragioni differenti non sono giunti fino a noi.

Voglio quindi parlare in questo post degli autori, che ci hanno raccontato la caduta di Cartagine, e la prima cosa che voglio portare all’attenzione è il momento storico in cui Polibio, Diodoro e Appiano scrissero della caduta di Cartagine.

Polibio

Polibio era uno storico greco, ostaggio a durante la terza guerra punica, cui era stata affidata, da Scipione l’Africano, l’educazione del suo figlio adottivo l’Africano Minore, colui che avrebbe condotto Roma alla vittoria finale su cartagine.

Polibio è nato in Grecia presumibilmente nel 206 a.c. e nel 166 a.c. fu uno dei 1000 nobili greci inviati come ostaggio a Roma. Polibio, tra i tanti nobili greci, aveva attirato l’attenzione dei romani già prima della vittoria romana, conseguita dal console Lucio Emilio Paolo nella battaglia di Pidna del 168, per le posizioni neutrali del proprio Partito.

Inviato a Roma come ostaggio rimase nella futura capitale imperiale per circa 17 anni, e immediatamente si legò alla gens Cornelia, diventando precettore di Publio Cornelio Scipione Emiliano, con cui, lo storico strinse un legame di amicizia che sarebbe perdurato per molti anni.

L’amicizia tra Polibio e Scipione Emiliano, lo coinvolse direttamente nelle vicende della terza guerra punica, poiché il comando dell’esercito romano era affidato al suo allievo, e sembra che lo stesso Polibio fosse al fianco di Scipione durante l’assedio finale e i due camminarono insieme tra i resti della città dopo la sua capitolazione.

Diodoro

Diodoro, come anche Polibio, non è propriamente uno storico romano, e nelle sue opere autobiografico si riferisce a se stesso come ad uno storico greco, anche se nato in Sicilia, ad Agyrion, odierna Agiria in provincia di Enna, una città fortemente influenzata e per lungo tempo direttamente controllata, dalle polis greche e successivamente sotto l’influenza cartaginese.

Diodoro è nato presumibilmente nel 90 a.c. molti anni dopo la caduta finale di Cartagine e più di un secolo dopo la fine della prima guerra punica, durante la quale, l’intera Sicilia era passata sotto il controllo Romano.

Anche se cresciuto in Sicilia e sotto il controllo di Roma, Diodoro considera se stesso un uomo Greco, ed è oggi considerato da molti storici come uno dei maggiori annalisti e storici romani, oltre che un fine e meticoloso filologo ante litteram.

Le sue posizioni politiche sembrano essere di estrema neutralità, non particolarmente accomodante o critico nei confronti di Roma e dell’imperialismo romano, e, nel proemio della propria opera magna, la colossale Bibliotheca Historica, composta originariamente da circa 40 libri, di cui a noi sono pervenuti integralmente soltanto i primi cinque, Diodoro presenta quest’ultima come un storia universale, dalle origini del mondo alle campagne di cesare, raccontando quindi tutto ciò che è stato prima di lui e terminando il racconto, per ragioni pratiche, agli anni della propria vita.

Nel suo racconto Diodoro si avvale di innumerevoli fonti, tra cui numerosi altri autori, cronisti e annalisti, da Ecateo di Mileto a Polibio, da Eforo a Posidonio, ecc.

È molto probabile che, gran parte del racconto fatto da Diodoro in merito alla terza guerra punica, parta in larga parte dagli scritti di Polibio, ma, essendoci delle divergenze, è quasi certo che abbia consultato anche altri autori di cui noi oggi non abbiamo traccia, probabilmente abrasi e sovrascritti dai copisti medievali

Appiano

Appiano, come Diodoro non è testimone diretto della terza guerra punica, egli infatti visse nel secondo secolo dopo cristo, in piena età imperiale sotto il regno di Traiano, Adriano e Antonino Pio.

Appiano è nato ad Alessandria d’Egitto, presumibilmente nel 95 dopo cristo, e si ipotizza che abbia trascorso i primi venticinque anni della propria vita nella città che ospitava una delle più grandi biblioteche del mondo antico, la biblioteca di Alessandria, luogo in cui Appiano compì la propria formazione, almeno fino al 120 d.c anno in cui sembra si sia trasferito a Roma, dove intraprese la carriera giuridica diventando e, tra il 147 e il 161, nel periodo di co-reggenza tra Marco Aurelio e Antonino Pio, grazie ad una lettera di Cornelio Frontone scritta per conto di Appiano, e della conseguente risposta fornita da Antonino Pio, sappiamo che Appiano ottenne il titolo di Procuratore romano, anche se molti storici oggi ipotizzano che la sua nomina fu più un onorificenza che un incarico.

Comparazione degli autori

Il racconto generale che i tre autori fanno della caduta di Cartagine è generalmente coerente e costante, la maggior parte dei fatti riportati da Polibio vengono ripresi e riportati, in modo leggermente differente dai successivi scritti di Diodoro, circa cinquant’anni dopo, e di Appiano, circa due secoli dopo, anche se, alcune informazioni ed aneddoti non vengono riportati da tutti, specie il racconto del pianto di Scipione Emiliano che appare esclusivamente nel racconto di Polibio.

Il pianto di Scipione

Il perché Polibio abbia scelto di raccontare la dramma del pianto di Scipione Emiliano che, dopo aver sconfitto Cartagine in quell’ultimo assedio, in quell’ultima battaglia decisiva, ricevendo l’ordine di distruggere la città, e nel vedere Cartagine in fiamme, un tempo la più grande potenza commerciale, navale e militare del mediterraneo (che all’epoca era il mondo), è dovuto al forte legame che univa lo storico al generale romano.

Polibio era stato il precettore ed era un fidato consigliere e confidente di Scipione Emiliano, quel racconto appare estremamente intimo e personale, mette a nudo la sensibilità, l’intelligenza e le preoccupazioni di Scipione, ed è facile intuire perché non solo Polibio abbia scelto di riportare quei passaggi, ma anche perché Diodoro e Appiano abbiano scelto di non riportarli.

Nel racconto del pianto di Scipione, Polibio ci dice che questi, nel vedere Cartagine bruciare, abbia avuto una visione del futuro e del destino che prima o poi avrebbe colpito anche Roma.

Polibio, come già detto era un uomo Greco trapiantato a Roma, e nella sua memoria, nella sua cultura, vi è quella che un tempo era stata la più grande civiltà del mondo Antico, la civiltà ellenica, madre delle Polis Greche e dell’impero alessandrino, e pure, la Macedonia di Alessandro Magno, così come le Polis Greche, al tempo della caduta di Cartagine, erano ormai decadute e ridotte a province romane. Una sorte analoga aveva scosso Cartagine, un tempo la più fiorente e potente città del mediterraneo, ma dopo la terza guerra punica, di Cartagine non rimaneva altro che un cumulo di macerie.

Dopo la vittoria nella terza guerra punica la volontà romana fu quella di distruggere per sempre la capitale dell’ex impero punico, e per farlo, oltre alla distruzione materiale della città, vi fu anche la volontà di impedire che per cinque lustri il suolo su cui sorgeva Cartagine non venisse occupato.

Assistendo alla distruzione di Cartagine e la ferocia con cui Roma aveva deciso di porre fine alla storia cartaginese, Polibio, attraverso il racconto del pianto di Scipione, nel ricordo di ciò che era già successo altrove, arriva alla conclusione che ogni civiltà nella storia, compresa quella romana è destinata, prima o poi, ad un processo di declino, un processo che più essere rallentato grazie ad una serie di trasformazioni politiche, ma che rimane comunque inevitabile. Ed è proprio quello che sarebbe successo a Roma di lì a poco, che, con le varie guerre sociali e civili e riforme ad opera di uomini come Gaio Mario e i Gracchi e personaggi come Silla, Giulio Cesare e Ottaviano, subì un processo di trasformazione, appena un secolo più tardi, che trasformò la Repubblica nell’Impero Romano, e lo stesso impero subì a sua volta numerose trasformazioni politiche e sociali, che ad occidente culminarono con la deposizione di Romolo Augustolo, e ad oriente con la caduta di Costantinopoli per mano ottomana.

Diodoro ed Appiano, diversamente da Polibio, almeno dai testi giunti fino a noi, in parte perché più distanti e distaccati dalla vicenda e dai suoi protagonisti, in parte perché vivono e scrivono in un contesto storico differente, non ritengono rilevane il pianto di Scipione e preferiscono soffermarsi sul significato epocale della caduta di Cartagine, che tuttavia, i due autori interpretano in modo e con segno differente.

Diodoro in particolare, scrivendo in anni di grande espansione territoriale per Roma ormai prossima a diventare un Impero e non solo una potenza imperialista, ha difficoltà ad immaginare il declino di Roma, un declino ipotizzato da Polibio, ma che per Diodoro è un qualcosa di impossibile poiché la Roma in cui vive è ormai padrona del mondo, e tutto ciò che si trova all’esterno dei confini romani sono terre e popolazioni selvagge.

Come Diodoro, anche Appiano vive le guerre puniche con distacco e lontananza determinati dal tempo e dal mondo in cui scrive, oltre che dagli ambienti politici e sociali che frequenta, ambienti che, anche se simili a quelli frequentati da Polibio, sono profondamente diversi a causa del contesto storico.

Polibio è un nobile greco che vive a stretto contatto con la nobiltà romana, diversamente, Appiano non è un nobile ma, come Polibio vive a stretto contatto con la nobiltà romana, una nobiltà che nella prima metà del II secolo dopo cristo è profondamente mutata rispetto alla nobiltà del II secolo avanti cristo, poiché la stessa Roma è mutata.

Dei tre autori, Appiano è l’unico che vive in età imperiale, diversamente Diodoro e Polibio vivono in età repubblicana, più precisamente Diodoro vive al tramonto della repubblica, mentre Polibio vive nel momento di massimo splendore dell’età repubblicana.

La vita a Roma in età imperiale, influenza il modo in cui Appiano vede il mondo e si rapporta al mondo antico. Appiano è testimone indiretto della conquista traianea della Dacia, ultimo grande slancio espansionista dell’impero romano, ma è anche consapevole che non tutte le battaglie possono essere vinte e che la superiorità tecnologica e organizzativa dell’elefantesco esercito romano, non assicura la vittoria in battaglia, ne garantisce una facile difesa del territorio se questi, come la Dacia, è sprovvisto di difese naturali. Appiano guarda alla Dacia e vede il suo enorme costo non bilanciato dal flusso di argento che arriva a Roma, ma si guarda anche alle spalle e vede la sconfitta di Adriano, appena pochi decenni prima, che lo costrinsero a frenare la conquista ed innalzare l’emblematico vallo di Adriano. Guardando ancora più in dietro vede la sconfitta di Varo, al tempo di augusto, contro primitive tribù germaniche.

Appiano vive in quegli anni in cui molti storici pongono l’inizio del declino di Roma, e nel vivere in una civiltà prossima al declino, come Cartagine appena prima dell’inizio delle guerre puniche, ma allo stesso tempo così vicino alle elite e alle istituzioni romane, pone appiano in una posizione ambigua e criptica.

Oggi non sappiamo se Appiano intuì cosa stava accadendo a Roma in quegli anni, e scelse di omettere dal proprio racconto della caduta di Cartagine l’episodio del pianto di Scipione per ragioni politiche, o perché non totalmente consapevole dei cambiamenti che stavano avvenendo in quegli anni, mentre continuava a guardare a Roma con lo sguardo di chi crede invincibile la civiltà che in quel momento dominava il mondo.

La caduta di Cartagine

La caduta di Cartagine negli scritti di Polibio, Diodoro e Appiano rappresenta un evento centrale nella storia romana, tutti e tre gli autori sono perfettamente consapevoli della portata epocale di quell’avvenimento che segnò la fine definitiva di una delle più grandi e imponenti civiltà del mondo antico.

La conquista romana di Cartagine descritta da Polibio è certamente influenzata dall’amicizia tra Polibio e Scipione Emiliano, il racconto di Diodoro è alienato dalla condizione di una Roma, in quel momento apparentemente invincibile, e la caduta di Cartagine viene presentata come un passaggio inevitabile per il compimento della storia, una storia che appare forse già scritta e sembra puntare in un unica direzione, quello di una roma universale, concetto che sarebbe stato ripreso circa 1200 anni più tardi dagli storici medievali, il racconto di Appiano invece è forse il più ambiguo e criptico, che guarda alla caduta di Cartagine da lontano, senza riuscire ad andare troppo oltre l’immagine quasi statica di una serie di eventi determinati dalla risolutezza di una Roma ineluttabile e imperialista.

Tutti e tre gli autori, per ragioni differenti, concordano nel dire che Cartagine durante la terza guerra punica non aveva alcuna possibilità di successo nello scontro con Roma e probabilmente l’unica speranza di sopravvivenza dell’antica colonia fenicia, era quella di sottomettersi a Roma, fondendo la propria civiltà con quella romana.

Se così fosse stato, se Annibale ed Asdrubale non fossero stati così ostinati da sfidare Roma, forse oggi Cartagine esisterebbe ancora e forse, l’intera storia mondiale sarebbe differente, ma la storia non si scrive con i se e con i ma, e nella realtà storica, alla fine Scipione Emiliano ebbe ragione dei fratelli Barca, assediò Cartagine e la rase al suolo e per 25 anni fu impedita l’occupazione del suolo su cui un tempo sorgeva Cartagine.

Bibliografia

E. Lo Cascio, Storia romana. Antologia delle fonti 
G.Geraci,A.Marcone, Fonti per la stoira romana
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