La folla e la storia: intervista al professor Emilio Gentile

Emilio Gentile, storico di fama internazionale, è professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza e socio dell’Accademia dei Lincei. Nel 2003 ha ricevuto dall’Università di Berna il Premio Hans Sigrist per i suoi studi sulle religioni della politica. Collabora al “Sole 24 Ore”.

  • Ultimamente, grazie anche all’opera di molti storici, il connubio tra storia e narrativa sta riscuotendo un successo sempre più crescente. Nell’opera di gestazione di un testo, qual è il rapporto che vuole che si instauri tra lei ed un ipotetico lettore?

Un rapporto basato fondamentalmente sul proposito di comunicare al lettore nella forma più chiara e interessante il risultato delle mie ricerche, nella speranza che possano aiutarlo a conoscere e a comprendere meglio l’evento storico narrato. Cerco di esporre i fatti lasciando parlare i documenti – dalle citazioni testuali alle illustrazioni –  affidando all’intreccio narrativo l’interpretazione che io ritengo sia più prossima alla realtà storica. Nei miei libri, lo sforzo costante è intrecciare narrazione e interpretazione, ma ritengo che compito primario dello storico sia raccontare le esperienze umane del passato cercando attraverso la sensibilità dei contemporanei del passato, evitando di incorrere nel peggiore dei peccati storiografici, cioè la sovrapposizione prevaricante dello  storico sui  soggetti che egli studia

  • Quali furono le spinte che lo portarono a scegliere di studiare storia? Che ruolo ha avuto in questo il suo maestro Renzo de Felice?

Ho raccontato nel libro Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio (Laterza 2003) e nel libro  Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento, a cura di Simonetta Fiori (Laterza 2011) come è sorta in me la passione per la conoscenza storica fin dall’infanzia, quando osservavo, prima intimorito, poi incuriosito, le stele funerarie di epoca romana che erano esposte nei giardini del paese in cui sono nato. Cominciò allora il desiderio di conoscere gli esseri umani nel passato in tutte le forme della loro esistenza. Con gli anni scolastici, fino all’università, la curiosità è cresciuta a dismisura, man mano che si ampliavano con lo studio gli orizzonti delle civiltà nel passato. All’università scelsi subito di studiare storia, anche se mi iscrissi alla Facoltà di filosofia perché, appassionato lettore di Benedetto Croce al liceo, consideravo lo studio della filosofia propedeutico alla storiografia. I miei primi entusiasmi furono per la Storia medievale, seguendo i corsi sugli eretici tenuto da Arsenio Frugoni. Poi mi entusiasmai per gli “eretici dell’età giolittiana”, da Prezzolini a Gobetti, che erano materia di un corso di Nino Valeri.  Accademicamente, non fui allievo di Renzo De Felice. Nell’ultimo anno di liceo, nel 1965, avevo letto il primo volume della biografia di Mussolini, ma all’università non frequentai i suoi corsi di lezione, non feci con lui alcun esame,  e mai lo incontrai prima della preparazione della tesi di laurea in Storia moderna, iniziata con Valeri e proseguita, dopo il suo pensionamento, con Ruggero Moscati. Conobbi De Felice quando fu nominato come correlatore della mia tesi di laurea. Dopo la laurea, ho insegnato per alcuni anni nei licei varie materie, italiano e latino, storia dell’arte, storia della filosofia; poi, quando vinsi una borsa di studio, iniziai a collaborare con la cattedra di De Felice e col gruppo dei suoi allievi. La sua personalità umana e l’esempio scientifico del suo lavoro storiografico mi aiutarono a proseguire le ricerca e a migliorare il metodo, la riflessione e il concreto lavoro storiografico.

  • Il tema trattato nel suo saggio “Il capo e la folla” è stato per alcuni anni al centro del dibattito storiografico, ma negli anni successivi l’attenzione su questo argomento è andata scemando. Cosa l’ha spinta a scrivere un libro su questo tema?

 

Fin dai primi saggi sul nazionalismo italiano e nel  primo libro, La Voce e l’età giolittiana (1972),  il problema delle masse nella storia contemporanea è stato presente nelle mie ricerche e nella mia riflessione. Dalle avanguardie e dagli  che volevano influire con la cultura e con l’arte sulle masse per formare una coscienza nazionale moderna,  al fascismo, al totalitarismo, alle religioni della politica, fino al capo e la folla, vi è stato un sviluppo continuo della mia riflessione sulla politica di massa, sia in regimi democratici sia in regimi totalitari. Chi avesse la pazienza di ripercorrere attraverso i miei libri, lo svolgimento delle mie ricerche e delle mie interpretazioni, forse giungerebbe alla conclusione che in cinquanta anni ho studiato sempre un unico fenomeno, da molte prospettive e in diverse epoche.

Il capo e la folla (laterza, 2016)

 

  • Un momento di cambiamento nel  rapporto tra il capo e la folla, viene da lei individuato con l’aumento demografico. In che modo tale aumento condizionò questo cambiamento?

 

La politica di massa è fenomeno contemporaneo derivato e connesso ai mutamenti sociali che hanno posto fine all’isolamento delle sparse comunità di villaggio, soggette alla periodica falcidia demografica delle malattie, delle carestie, delle guerre, della fame, e nello stesso tempo hanno accelerato l’aumento progressivo della popolazione, l’urbanizzazione, l’agglomerazione sociale nelle nuove attività produttive, la differenziazione delle classi sociali con la modernizzazione, l’industrializzazione, le migrazioni di massa. Sono questi fenomeni che hanno a loro volta generato le organizzazioni di massa, partiti e sindacati,  e nello stesso tempo hanno generato lo Stato delle masse, dall’ampliamento della scuola pubblica alla leva di massa, alla guerra di massa. Dall’epoca delle rivoluzioni democratiche del Settecento, non si può fare politica ignorando la massa, anche se a farla sono singoli individui, minoranze, élites, oligarchie o consorterie.

 

  • Negli anni 30 in Europa cambia il rapporto tra il leader politico e la folla. Quali sono le cause che portarono a questo cambiamento?

 

Prima di tutto, l’impatto violento della Grande Guerra nel processo di organizzazione e mobilitazione delle masse iniziato con la rivoluzione francese. I nuovi capi delle masse sono quasi ovunque uomini di guerra, che hanno fatto la guerra e partecipato alla nascita di una militanza di massa modellata sull’esperienza della guerra. Anche capi democratici come Churchill e Franklin D. Roosevelt erano capi formati in periodo della Grande Guerra: Churchill era per educazione un guerriero, aveva partecipato alle guerra coloniali, era  ministro della marina durante la Grande Guerra e dopo il disastro dei Dardanelli combattè in trincea sul fronte occidentale. Roosevelt fu sottosegretario alla marina durante la Grande Guerra, si rivolgeva a milioni di americani che avevano vissuto, direttamente o indirettamente, l’esperienza della guerra in Europa, e nella sua oratoria presidenziale usò metafore di guerra per incitare gli americani a combattere contro la depressione per salvare le democrazia. Lo stesso si può osservare, e ancor di più, per il generale De Gaulle divenuto improvvisamente capo politico e fondatore di una Quinta repubblica. Quanto ai capi dei nuovi movimenti e regimi totalitari, sia di destra che si di sinistra, l’esperienza della Grande Guerra fu decisiva nel renderli consapevoli del modo di mobilitare e organizzare le masse per conquistare il potere e instaurare regimi a partito unico, che nel costante rapporto con le masse svolsero i loro esperimenti totalitari per future conquiste imperiali o rivoluzioni sociali mondiali.

 

Alla fine del suo libro, lei professore tratta il tema della personificazione del potere alla fine degli anni 50 del 1900, con gli esempi di Kennedy e De Gaulle. Secondo lei ci sono stati esempi italiani nello stesso periodo?

L’unico esempio italiano che mi sentirei di proporre è Alcide De Gasperi, che negli anni in cui fu al governo partecipò al compimento di un’opera gigantesca per ridare all’Italia lo slancio di una democrazia industriale dopo la catastrofica disfatta che aveva travolto tutto il paese nella guerra feroce fra eserciti stranieri e fra italiani. Per il resto, ci sono stati fra i politici italiani degli anni sessanta numerosi aspiranti De Gaulle e aspiranti Kennedy, ma nessuno è riuscito ad essere effettivamente l’uno o l’altro, diventando un mito nella tradizione nazionale. Nessun politico italiano della Repubblica ha avuto una trasfigurazione mitica.

 

Come si è modificato il rapporto tra il capo e la folla rispetto agli anni 50?

 

Da una parte, il rapporto si è svolto nella scia inaugurata da De Gaulle e da Kennedy, soprattutto attraverso la televisionizzazione dell’appello alla folla. Inoltre, è stato un rapporto che si è svolto, fino agli anni più recenti, attraverso le organizzazione dei partiti di massa. Oggi, la televisionizzazione del rapporto fra il capo e la folla è quel che resta dell’esperienza di De Gaulle e di Kennedy, mentre ai partiti di massa come organizzazioni permanenti di formazione della volontà politica e dei dirigenti, si vanno sostituendo fluidi aggregati coagulati attorno a un capo spesso improvvisato, che fonda movimenti o partiti personali o personalizza i partiti esistenti fluidificandone le strutture tradizionali per trasformarli in sodali al proprio seguito.

 

Il rapporto che istaura il fascismo con Mussolini tra il capo e la folla si può considerare innovativo e moderno? In che modo si differenzia con gli altri regimi totalitari?

 

Il rapporto fra Mussolini e la folla fu innovativo e moderno rispetto alla tradizionale politica italiana dei notabili parlamentari, che governavano con consorterie parlamentari e il suffragio limitato di grandi elettori. La differenza del fascismo dagli altri regimi totalitari, per quanto riguarda il rapporto specifico fra capo e folla, consiste principalmente nella primogenitura dell’esperimento ducesco rispetto al culto staliniano della personalità, che fu instaurato quando da alcuni anni già esisteva, caso unico alla fine degli anni venti, il culto mussoliniano della personalità. Penso che non solo Hitler e altri duci di movimenti e regimi fascistizzanti abbiamo seguito il modello mussoliniano, ma lo abbia seguito anche Stalin.

 

Quanto rimane del “fascismo-movimento” cioè portatore di alcune istanze di rinnovamento nella Repubblica sociale italiana?

Non mi ha mai convinto la distinzione fra “fascismo movimento” e “fascismo regime” come contrapposizione fra innovazione e conservazione nell’esperimento totalitario fascista. I capi più importanti della Repubblica sociale erano stati gerarchi del regime fascista, e le istanze di rinnovamento erano la prosecuzione, radicalizzata dalla esigenza di dare un più accentuato carattere sociale al regime, istanza già presenti negli ultimi anni del regime totalitario, specialmente nelle giovani generazioni fasciste.