rivolta del pane milano manzoni
L'anacronistico liberismo di Manzoni che non è presente nei promessi sposi

Leggere, o meglio, rileggere Manzoni in chiave keynesiana e prendere le sue critiche al modo in cui il governo della di Milano, nei promessi sposi, gestì la crisi del pane, frutto di una più profonda crisi agraria, come una critica all’intervento dello stato sul libero mercato, significa non aver capito nulla di Manzoni, del suo pensiero e della sua opera. Anche perché, la crisi che colpì Milano, non colpì altre città in cui vennero prese decisioni simili.

Il tema centrale nei promessi Sposi

L’intero romanzo di Manzoni ruota attorno ad un concetto chiave, uno, fisso, immobile e immutabile, che traspare da ogni parola, da ogni frase, da ogni evento e dinamica raccontata nel libro, ed è la critica alla società tradizionale, la critica alla società feudale, che, nel XIX secolo inoltrato, sopravviveva ancora in Italia, in modo innaturale.

Manzoni crede nei valori della destra storica, è un liberista classico che come John Loke crede nel rispetto dei diritti individuali, ed è fortemente convinto che questi diritti debbano essere garantiti dall’autorità pubblica, per Manzoni, lo stato deve intervenire in difesa e tutela di quei diritti considerati naturali e universali.

Manzoni ambienta il suo romanzo ben due secoli prima, nel pieno del XVII secolo, quando il mondo intero era ancora totalmente immerso nella società feudale, per mettere in evidenza quello stesso tema sollevato da Giuseppe Tommasi di Lampedusa nel Gattopardo e Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli, quest’ultimo più di un secolo e mezzo più tardi rispetto a Manzoni. Ed è il tema della staticità sociale dell’italia, di un italia immobile e immutabile in cui cambiano le elite, cambiano le teste coronate, cambiano gli ordinamenti e gli equilibri, ma in realtà non cambia mai nulla e i contadini e le masse popolari, che Manzoni nel suo romanzo riconosce già nel XVII secolo, vivono una condizione di classe subalterna i cui interessi sono marginali per la politica e la società del tempo, se bene rappresentino la maggioranza della popolazione.

Manzoni guarda a quegli anni in cui il mondo avrebbe conosciuto una delle prime grandi rivoluzioni borghesi della storia, la rivoluzione inglese, e lo fa da uomo del XIX secolo, Manzoni scrive agli inizi del XIX secolo, scrive dopo la rivoluzione francese, scrive dopo Napoleone e dopo la restaurazione, e racconta un mondo immediatamente precedente le prime istanze illuministe, le prime rivendicazioni di universaltià dei diritti, e nonostante siano passati due secoli abbondanti, nonostante le rivoluzioni che ci sono state in europa e fuori dall’europa, come la rivoluzione americana e quella francese, nonostante Napoleone, nulla sembra essere cambiato realmente, non in europa almeno.

Manzoni non è un promotore assoluto del libero mercato, non è un sostenitore del laissez fair e dello stato assente, Manzoni è un conservatore liberale e monarchico e non critica Milano che fissa il prezzo del pane, per l’intervento sul pane, perché, Manzoni non racconta il mercato globale negli anni duemila, e ragionare in termini di economia globale pensando al Manzoni, è folle e anacronistico.

Manzoni racconta un mondo chiuso e racconta la filiera del pane, in un area circoscritta, rappresentata dalle campagne attorno Milano, nel XVII secolo. Ed è una filiera estremamente povera, primitiva e limitata.

Manzoni racconta un mondo in cui il pane non lo comprano i contadini che vivono nelle campagne, loro il pane se lo fanno in casa, con la farina che hanno ottenuto macinando a mano dei cereali o che hanno barattato per dei cereali con il mugnaio.

Di certo non sono i nobili ed i proprietari terrieri ad acquistare il pane, il pane per loro viene prodotto nelle cucine dei palazzi, viene prodotto con il grano e la farina degli affitti, siamo nel XVII secolo, non ci sono agenzie di recupero crediti, siamo in un mondo in cui tasse e affitto della terra sono più o meno la stessa cosa e vengono riscosse porta a porta dall’esattore che bussa e chiede soldi, e se i soldi non ci sono, e nelle campagne i soldi non ci sono, allora l’esattore chiede grano e farina, chiede almeno una decima della produzione.

Di sicuro non sono i mugnai ad acquistare il pane, i mugnai non ne hanno bisogno, sono pochi e producono loro la farina per i forni, nella casa del mugnaio pane, salame e formaggio non manca mai.

Ma allora chi è che compra il pane nell’italia del XVII secolo?

Ad acquistare il pane, al tempo dei promessi sposi, così come al tempo di Manzoni, è la piccola e media borghesia, una cerchia sociale a cui lo stesso Manzoni appartiene, sono i mercanti, fabbri, artigiani, commercianti, locandieri, intellettuali, sono i servitori della nobili e dell’alta borghesia che lo acquistano per le proprie famiglie, sono le masse popolari che vivono nelle città e che, a differenza dei contadini nelle campagne, non hanno accesso diretto al cibo. Sono uomini e donne che per sopravvivere sono costretti ad acquistare del cibo, sono i figli della modernità inurbata che dipendono dal mercato, sono parte del mercato, sono la base del mercato e in quanto tali, per Manzoni, dovrebbero essere tutelati dalle entità statali, ma nel 1628, ciò non è possibile, ciò non è neanche pensabile, perché il padre di queste idee, John Loke, è nato nel 1632 e pensare il mondo che precede Loke, secondo i canoni dettati da Loke, rappresenta la perfetta definizione di anacronismo.

Nel mondo descritto dal Manzoni, e in parte anche nel mondo in cui vive il Manzoni, la filiera del pane, non fa il prezzo del pane, e credere che il prezzo del pane dipendesse dal costo della farina che a sua volta dipendesse dal costo di cereali, significa non comprendere la realtà storica del tempo e del mondo descritto da Manzoni, pensare ciò significa attribuire al contadino, l’ultimo anello della catena sociale nella società feudale, un potere enorme, il potere di decidere il prezzo del grano. Significa rileggere il passato in chiave moderna e sovrapporre le odierne meccaniche ad un mondo in cui queste meccaniche non esistevano.

Manzoni in parte da questo errore, lo fa volontariamente e per ragioni politiche, lo fa perché il mondo che racconta non è realmente il XVII secolo, ma p il XIX secolo travestito da XVII, di conseguenza le dinamiche sociali e tutti gli avvenimenti storici presenti nell’opera sono reinterpretati secondo canoni moderni, e se questo, da un punto di vista narrativo può essere interessante, da un punto di vista prettamente storico, è anacronistico, perché distorce il tempo e la storia.

I contadini nel XVII secolo non avevano potere decisionale sul prezzo dei cereali, sul prezzo del grano, ne il mugnaio aveva quel potere sul prezzo della farina. Lo stesso non lo si può dire totalmente nel XIX secolo, dove, i contadini non sono più lavoratori della terra e amministratori dei campi, ma sono semplici operai, soprattutto nelle campagne attorno Milano, e questo lo avrebbe rilevato circa mezzo secolo più tardi il conte Jacini, i contadini sono veri e propri operai della terra, che vengono stipendiati. Nella Milano del XVII secolo però, quando scoppia la rivolta del pane, il prezzo del grano, della farina, era determinato dal fornaio e solo dal fornaio.

Manzoni nei promessi sposi non parla e non cita la filiera, non perché è distratto o perché se n’è dimenticato, un particolare di questo tipo lo avrebbe inserito se fosse stato rilevante, ma non lo è, non nel XVII secolo almeno, Manzoni ha scelto di non inserire la filiera del pane nel libro perché sa perfettamente che le dinamiche economiche che regolano la filiera nel XVII secolo sono diverse dalle meccaniche del XIX secolo e sa anche che nel XVII è irrilevante nel determinare il prezzo finale del pane.

Non a caso, sempre nei Promessi Sposi, se da un lato le città soffrono la fame, le campagne risentono solo marginalmente della crisi. Nelle campagne il problema della peste è marginale e il problema del costo del pane non sussiste, e questo proprio perché nelle campagne i contadini il pane se lo fanno da soli, e i più poveri, si fanno da soli persino la farina, con delle piccole macine a mano che permettevano di macinare i cereali secchi e fare la farina, poca farina, facendo ruotare un disco di pietra in una scodella di pietra, o al più con dei rudimentali mortai in pietra, e strumenti analoghi erano presenti, fin dal primo medioevo, nelle case della maggior parte dei contadini d’europa.

Raccontare Manzoni come un liberista moderno, agli inizi del XIX secolo, è certamente anacronistico, ma non totalmente errato, in fondo Manzoni era un liberale, un diverso tipo di liberale, ma pur sempre un liberale che credeva negli ideali della società borghese, Manzoni crede negli ideali della destra storica, che però non è da confondere con il liberismo moderno, figlio delle teorie di Keynes. Usare le pagine dei promessi sposi per tracciare una qualche analogia con l’attualità, significa distorcere un opera, significa distorcere la realtà storica che racconta, già ampiamente distorta dall’autore per un preciso motivo storico oltre che politico, significa decontestualizzare quel racconto e ignorare tutto ciò che Manzoni ha scritto, detto e pensato, mancando totalmente di rispetto all’opera e all’autore.

Nei promessi sposi il prezzo del pane aumenta, aumenta tanto, e nell’aumentare rimane invenduto, questo è un qualcosa che nella realtà storica del XVII accade realmente, sia a Milano che altrove, ma ci sono anche altre zone d’italia e dell’europa in cui ciò non accade, come ad esempio Napoli, a Roma, a Firenze, ecc ecc.

Osservando e analizzando ciò che accade in quegli anni, possiamo notare che non c’è un modello unico, ci sono realtà in cui fissando il prezzo del pane, non scoppia una rivolta, e realtà in cui il prezzo del pane non aumenta, come ad esempio a Napoli.

A Napoli in particolare, e cito Napoli semplicemente perché è il caso che conosco meglio, la corona sosteneva una teoria economica particolare, a Napoli e nelle altre grandi città del “regno”, il grano non doveva mai mancare e in effetti, durante la peste del XVII secolo, il grano a Napoli e in altre città dell’italia meridionale, non venne a mancare e non ci furono grandi rivolte per il pane, il che può apparire surreale se si pensa che Napoli all’epoca era una delle più grandi megalopoli al mondo, la terza città più popolosa d’europa seconda solo a Londra e Parigi, città che di disordini ne avevano avuti diversi.

La crisi a Napoli e lo sa bene anche Manzoni, non si era verificata grazie all’intervento statale sul prezzo del grano e su quello del pane, fissato da molto prima che la crisi iniziasse, e lo stesso era successo anche altrove. Manzoni sa perfettamente, e dovremmo saperlo anche noi contemporanei, che non fu la decisione di fissare il prezzo del pane ad innescare la crisi del pane a Milano, quella decisione fu presa a crisi già iniziata e non fu sufficiente ad arginarla. fingere che la rivolta del pane sia in qualche modo connessa al blocco messo sul prezzo del pane, significa confondere causa ed effetto. Bloccare il prezzo del pane, ci dice Manzoni, non è stata la soluzione alla crisi, ma neanche il fattore scatenante.

Del resto, noi sappiamo che, durante la rivolta del pane, nel novembre del 1628, ciò che accadde fu che le masse popolari assaltarono i forni e i magazzini con la farina, e rubarono pane e farina. La presenza di enormi riserve di grano, pane e farina nei magazzini, di Milano come di Napoli, rendeva possibile e sostenibile la produzione, e a parità di crisi agraria di fondo, legata alla grande mortalità nelle città e nelle campagne, causata dalla peste, il pane continuava ad essere sfornato, ma, in città come Napoli la produzione non si arresta, il prezzo non lievita, e il pane viene venduto, a Milano invece, il pane viene prodotto nonostante la peste, ma il prezzo lievita e di conseguenza rimane in larga parte invenduto, cosa che normalmente farebbe crollare il prezzo del pane, ma ciò non avviene, il pane invenduto rimane nei forni per giorni, settimane, e questo alimenta l’insofferenza popolare che, in preda alla fame, insorse assaltando fornai e granai.

L’inchiesta Jacini

Poco dopo l’ultimata unificazione italiana, negli anni settanta e i primi anni ottanta del XIX secolo, il conte Stefano Francesco Jacini, fu messo a capo di una commissione agraria, con il compito di studiare e analizzare al situazione delle campagne italiane in quel dato momento storico, la commissione realizzò un documento, noto oggi come Inchiesta Jacini (oggi liberamente consultabile sul portale dell’archivio dei beni culturali della direzione generale dei beni culturali), in cui venne presentata una mappa della struttura agraria italica, viene definito il profilo delle campagne, delle città, della distribuzione dei contadini, inoltre raccoglie dati sulle evoluzioni e trasformazioni delle campagne italiane nell’ultimo secolo, e nel farlo scopre che, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, diverse zone d’italia avevano adottato soluzioni differenti.

Napoli aveva fatto costruire grandi granai e la corona borbonica, dal 1772 circa, aveva quasi totalmente monopolizzato l’acquisto del grano e dei cereali dalle campagne attorno alle città, che veniva venduto ad un prezzo basso e costante ai forni cittadini, oltre che distribuito attraverso razioni, alle fasce più povere delle città. Contemporaneamente, le campagne non avevano subito molte variazioni e il grande latifondo continuava ad essere, come in passato, il modello su cui si fondavano le campagne, controllate da pochi nobili, e lavorate da masse di contadini poveri, ma raramente affamati.

Milano e la lombardia invece, avevano subito, nell’ultimo secolo un processo di lottizzazione, che aveva portato alla nascita di una piccola borghesia contadina, in cui i contadini non erano più affittuari, ma proprietari, questa autonomia li aveva in parte arricchiti ma allo stesso tempo, li aveva allontanati dalla terra.

Jacini, nella sua inchiesta rileva che la maggior parte dei proprietari terrieri dell’area intorno Milano, non viveva in campagna ma in città, e il lavoro della terra era stato affidato a contadini stipendiati, questa trasformazione caratterizza in modo particolare la prima metà del XIX secolo, e disegna una cartina delle campagne milanesi profondamente diversa rispetto a due secoli prima, ciò nonostante, le dinamiche sociali sono invariate. La piccola borghesia contadina, avrebbero osservato alcuni storici, si rapporta alle masse contadine, secondo gli antichi schemi, della società feudale, con la differenza, rispetto al passato, che le paratie che separavano le classi sociali erano ora, esclusivamente economiche, e non avevano più alcuna connotazione dinastica.

Conclusione

Leggere oggi, la rivolta del pane di milano del 1628, raccontata da Manzoni nel 1827, in chiave liberista moderna, è errato e anacronistico, perché si commette l’errore di reinterpretare il pensiero di un uomo del XIX secolo che a sua volta reinterpreta fatti del XVII secolo. Inoltre, questa reinterpretazione liberista del Manzoni appare ancora più fallace se la si guarda al netto di ciò che è emerso dall’inchiesta Jacini sul finire del XIX secolo.

Il mondo che descrive Jacini è il mondo in cui vive Manzoni, e Manzoni mentre il mondo che descrive Manzoni, è il mondo antico, un mondo che sopravvive parzialmente in Italia settentrionale, e in maniera più radicata nell’Italia meridionale, ma è un mondo al tramonto e prossimo al tracollo, Manzoni sa o almeno ipotizza che quel mondo sta per finire, Manzoni conosce il malcontento popolare, sa bene che l’europa è in subbuglio, e se bene non sappia esattamente cosa sta per accadere, percepisce la tensione che allo scoppio di nuove rivoluzioni di lì a poco tempo, Manzoni è immerso nella storia e frequenta precisi ambienti in cui circolano idee liberali.

Alessandro Manzoni è un uomo dell’ottocento, che reinterpreta il seicento rivestendolo delle dinamiche sociali dell’ottocento, e fin qui, è tutto ok, Manzoni lo perdoniamo perché dà lui stesso una motivazione ben precisa alla sua scelta narrativa.

Il racconto di Manzoni non anacronistico, la sua è narrativa che fa critica sociale e politica utilizzando un escamotage narrativo.

Quello che invece non va bene, e ricade nel problema dell’anacronismo è prendere la narrazione ottocentesca del Manzoni, fingere che quella narrazione rielaborata sia una realtà storica e porla al confronto con il XXI secolo.

Se vogliamo parlare della rivolta del pane di Milano del 1628, dobbiamo valutare i fatti per ciò che sono, e non in base alla narrazione revisionata dal Manzoni.

Se invece vogliamo parlare della questione agraria nel XIX secolo, vi consiglio il libro di Corrado Barberis, Le campagne italiane dall’ottocento ad oggi.

Bibliografia

A.Manzoni, I promessi sposi.
C.Barberis, Le campagne italiane dall’ottocento ad oggi.
C.Barberis, Le campagne italiane da Roma antica al settecento.

Di Antonio Coppola

Studente di storia contemporanea, geopolitica e relazioni internazionali. Appassionato di musica, tecnologia e interessato ad un po tutto quello che accade nel mondo.

Rispondi

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi