Elon Musk prende le distanza dai Dazi di Trump e i Dazi: Rottura o strategia di “Brand Revitalization”?

Nelle ultime settimane non sono passate inosservate le numerose “trasformazioni” (decisamente troppo repentine), i cambi di posizione e atteggiamento di Elon Musk, il tutto magistralmente e sistematicamente giustificato dalla sindrome di asperger.

L’effetto più evidente di questo “nuovo” Musk che si sta mostrando in queste settimane lo abbiamo nelle dinamiche tra il patron di Tesla e il presidente Trump. Il miliardario che fino a qualche settimana fa era pronto a difendere a spada tratta Trump su qualsiasi posizione avesse assunto, dopo la sconfitta in Winsconsin, ha decisamente cambiato marcia ed ha iniziato a contestare punti fermi della politica di Trump, che lo stesso Musk aveva ampiamente sostenuto in campagna elettorale. Si pensi alla politica dei Dazi doganali fortemente voluta da Trump, ampiamente annunciata in campagna elettorale e sulla quale, in passato, lo stesso Musk si era dimostrato totalmente allineato.

Musk cambia rotta?

Questo cambio di rotta non sembra casuale, e non è il primo.

Musk nella sua storia personale, ha cambiato molte volte posizione, allineandosi il più delle volte con temi di tendenza e fortemente sostenuti dall’opinione pubblica, insomma, una vera e propria banderuola che è sempre andato là dove soffia il vento, e che con la discesa in campo, al fianco di Trump, ha tirato troppo l’asticella, assumendo posizioni radicali e ampiamente contestate che gli hanno causato la perdita di diverse centinaia di miliardi di dollari.

In quest’ottica, un cambio di posizione così radicale e repentino appare come una goffa strategia di brand revitalization, da parte di un uomo convinto che il mondo sia popolato da idioti… e su questo forse non ha poi tutti i torti…

Cos’è la “Brand Revitalization”?

Ho parlato di “brand revitalization” (rivitalizzazione del marchio) ma che cos’è? Si tratta di un processo strategico attraverso cui un’azienda, un marchio, o come in questo caso caso una figura pubblica, cerca di rinnovare e rinvigorire l’immagine del proprio brand che ha perso attrattiva, rilevanza o credibilità nel tempo. Insomma , cerca di svecchiare e/o ripulirsi e in questo caso specifico, non sarebbe tanto una questione di svecchiamento, quanto più di “pulizia”. 

Al di là del caso specifico, l’obiettivo della brand revitalization è quello di riposizionare il brand nella mente del pubblico, adattandolo ai cambiamenti del mercato, ai nuovi valori sociali o per correggere errori passati che ne hanno danneggiato la sua reputazione. Questa trasformazione può avvenire attraverso cambiamenti dei valori comunicati, dei messaggi, delle partnership, ecc. 

Il Caso Musk: Politica e Immagine

Come anticipato, non è la prima volta che Musk fa un’operazione di questo tipo, basti pensare che, prima della Pandemia, Musk è stato un acceso sostenitore di temi di inclusività ed ambientalismo, promotore di energie rinnovabili e pulite, tecnologie a basso impatto ambientale ecc. Poi con la pandemia ha cambiato completamente rotta, diventando praticamente un negazionista dei cambiamenti climatici e schierandosi apertamente contro le politiche di inclusione, fino ad arrivare a sostenere personalità con posizioni fortemente xenofobe e intolleranti nei confronti delle minoranze. 

In definitiva, Musk è passato dall’essere uno dei “nemici pubblici” più attaccati e contestati dall’estrema destra USA ed UE nel 2019, secondo solo a Soros e Bill Gates, ad essere nel 2024 il più grande sostenitore dell’estrema destra in USA ed UE, ed ora, a poco più di 2 mesi dall’insediamento di Trump alla White House, Musk ha iniziato una nuova trasformazione.

Come un rettile che cambia pelle con le stagioni, Musk ha iniziato a dismettere i panni del Trupiano, in cerca di una nuova identità più “accettabile” dall’opinione pubblica globale.

Parliamo di una figura estremamente polarizzante che negli anni ha costruito parte del proprio personal brand sull’immagine dell’innovatore visionario, fuori dagli schemi, ribelle e controcorrente, elemento quest’ultimo che spesso lo ha portato ad assumere posizioni forti e radicali su temi estremamente controversi e divisivi. 

E se questa strategia in passato gli ha sempre portato “fortuna” , l’ultima pelle indossata gli ha portato più danni che benefici, alienandogli una parte significativa del pubblico che in passato lo sosteneva, tra cui anche investitori e potenziali partner commerciali.

Le sue uscite pubbliche, spesso impulsive e provocatorie, e le sue prese di posizione politiche hanno iniziato a proiettare diverse ombre sulle sue aziende, causandogli perdite senza eguali nella storia. 

Stando ai diversi report e analisi di mercato, ad oggi la sua immagine personale è considerata un fattore di rischio, ragione per cui diversi fondi di investimento hanno prontamente liquidato i propri investimenti in aziende associate a Musk, causando un crollo nel valore di titoli come Tesla, crollo che è stato amplificato dalla sfiducia dei consumatori.

La Strategia di “Pulizia” del Brand

Il recente, apparente, ammorbidimento delle posizioni di Musk e le prime prese di distanza da Trump, come la volontà di lasciare il DOGE entro qualche mese, o le aperte critiche ai Dazi imposti dal presidente, possono essere facilmente interpretati come un primo tentativo di “ripulire” il proprio brand personale. Prendere le distanze da figure e politiche divisive, come i dazi sostenuti da Trump (che peraltro potrebbero danneggiare le catene di approvvigionamento globali da cui dipendono le sue stesse aziende), potrebbe essere una mossa finalizzata a Riconquistare Credibilità e Appeal, ma soprattutto, potrebbe essere una mossa per proteggere le sue aziende. Si pensi alla fuga massiva di utenti da X (ex Twitter), il cui valore è passato in meno di due anni da 44 miliardi a 12 miliardi, o alle azioni Tesla, il cui valore, fortemente accresciuto dopo l’elezione di Trump, è tornato ad aprile 2025 ai livelli di ottobre 2024 , registrando un calo di oltre il 42,23% negli ultimi 3 mesi. 

Conclusione

Il presunto cambio di rotta di Elon Musk non è necessariamente un’abiura delle sue convinzioni passate, anche perché non abbiamo idea di quali siano realmente le sue convinzioni. Musk negli anni ha cambiato innumerevoli posizioni, rimanendo costante su un unico punto. Il suo primo e unico interesse è tutelare se stesso, ed è pronto ad abbandonare qualsiasi partner in qualsiasi momento pur di salvarsi.

Appare quindi abbastanza evidente come le sue critiche ai dazi di Trump, che lo stesso Musk aveva sostenuto in campagna elettorale, non siano altro che una grottesca strategia di brand revitalization, costruita partendo dall’assunto che l’opinione pubblica mondiale non se ne accorgerà. 

L’obiettivo delle critiche e l’allontanamento da Trump è chiaro e riassumibile nello slogan, MMGA, Make Musk Great Again, rendere il brand “Musk” nuovamente appetibile a consumatori e investitori, così da rendere meno rischiose le collaborazioni e partnership con le sue aziende e iniziative. 

Musk ha puntato sulla stupidità. Resta da vedere quanto questa strategia sarà efficace, e soprattutto se avrà puntato correttamente, o se questa scommessa segnerà definitivamente la sua rovina. Personalmente temo che se non nel breve periodo, nel medio e lungo termine riuscirà a ripulire il proprio brand.

I Dazi di Trump colpiscono tutti, dalla Cina all’UE ma è salva la Russia

Alla fine i Dazi di Trump sono arrivati come promesso e senza sconti per nessuno, o quasi, tra gli oltre 60 paesi colpiti dai nuovi dazi che vanno da un minimo del 10% ad un massimo del 49% per la Colombia, ci sono ovviamente la Cina, l’India, il Bangladesh, l’UE, Taiwan, c’è persino Israele, ma, con grande sorpresa non ci sono Russia, Corea del Nord e Bieloorussia

Molti si sono chiesti perché mancassero questi paesi, in particolare la Russia e la risposta ufficiale non ha tardato ad arrivare. Ufficialmente, secondo la Casa Bianca, gli USA non hanno innalzato i dazi alla Russia perché le sanzioni imposte alla Russia dagli USA per via della guerra in Ucraina, pregiudicano già gli scambi commerciali in modo significativo. Ma è davvero così?

Scambi tra USA, Russia, Iran e Corea del Nord e Bielorussia

Per quanto riguarda la Corea del Nord, così come per l’Iran, la risposta è si, gli scambi commerciali tra USA e Corea del Nord o Iran, sono praticamente nulli, il discorso si fa invece più complicato per quanto riguarda Russia e Bielorussia.

Non ci sono sanzioni USA contro la Bielorussia, ma neanche grandi scambi commerciali, questo perché sostanzialmente la Bielorussia commerciava solo con i paesi adiacenti e alcuni paesi BRICS, e il suo principale partner commerciale era ed è ancora oggi la Russia le cui esportazioni e importazioni coprono da sole più del 75% del volume degli scambi bielorussi.

Per quanto riguarda gli scambi commerciali tra Russia e USA invece, la situazione è molto più complessa, perché negli ultimi 30 anni tra i due paesi gli scambi sono cresciuti esponenzialmente, in parte perché in epoca sovietica erano prossimi allo zero, e in parte perché la Federazione Russa, la cui economia interna era fortemente indebolita dagli enormi costi dell’URSS, in particolare dall’industria bellica sovietica, aveva necessità di aprire le proprie frontiere commerciali.

Tra le principali esportazioni dalla Russia agli USA abbiamo soprattutto risorse naturali, materie prime e prodotti chimici e, secondo i dati del 2021 gli USA erano il principale mercato di sbocco per i prodotti chimici russi e allo stesso tempo la Russia era il principale mercato estero per l’industria farmaceutica USA.

Nel 2021 gli scambi commerciali tra USA e Russia valgono circa 34,4 miliardi di dollari, rendendo gli USA il quarto partner commerciale non CSI (comunità stati indipendenti), secondo solo a Paesi Bassi (46 miliardi), Germania (57 miliardi) e Cina (140 miliardi). Sappiamo inoltre che nel corso del 2020 (ultimo anno del primo mandato Trump), in piena pandemia, gli scambi tra USA e Russia sono cresciuti più degli scambi tra Russia e Cina, rispettivamente il 143% rispetto al 135%.

Durante il mandato presidenziale Biden, e soprattutto a seguito dell’inizio della guerra in Ucraina, gli scambi commerciali tra Russia e USA sono effettivamente crollati, passando da 35 miliardi nel 2021 a 3,5 miliardi circa nel 2024, di cui, 3 miliardi in esportazioni dagli USA alla Russia e 0,5 miliardi di importazioni dalla Russia.

Sanzioni USA alla Russia

Va detto che il crollo degli scambi commerciali tra USA e Russia non è propriamente legato alle sanzioni imposte dagli USA alla Russia, quanto più alle sanzioni imposte dall’UE alla Russia.

L’UE ha infatti imposto numerose sanzioni, dirette e indirette, alla Russia, sanzioni che hanno compromesso anche gli scambi tra USA e Russia. Dal canto suo, gli USA di Biden non sono rimasti con le mani in mano, e anche loro hanno applicato diverse sanzioni alla Russia, in particolare dazi al 500% sul Gas Naturale e Petrolio, de facto l’unica sanzione.

Ad oggi gli USA continuano ad acquistare materie prime e minerali, in particolare terre rare e uranio, dalla Russia, i cui volumi tuttavia sono sempre stati molto limitati. Non si hanno invece indicazioni chiare sulle importazioni di prodotti chimici, ma sembrano che non ci sia stato un rallentamento significativo.

In sostanza, i rapporti commerciali tra USA e Russia, ad oggi, sono abbastanza unidirezionali, gli USA importano poche risorse minerarie di grande valore ed esportano prodotti lavorati, dall’inizio della guerra in Ucraina tuttavia, le esportazioni dagli USA alla Russia sono crollate per via delle sanzioni USA, mentre le importazioni dalla Russia agli USA non hanno subito molti rallentamenti. E le sole sanzioni USA applicate alla Russia riguardano petrolio e gas naturale.

Di conseguenza, quando Trump dice che le sanzioni compromettono già gli scambi commerciali tra Russia ed USA in parte dice il vero, le sanzioni hanno ridotto ad un decimo gli scambi commerciali tra USA e Russia, tuttavia, quel decimo riguarda una parte di scambi che non ha subito alcuna variazione e anzi, le nuove sanzioni sulle materie prime imposte all’UE potrebbero avere come effetto un incremento delle esportazioni di quelle stesse risorse dalla Russia.

I Dazi sull’UE avvantaggiano la Russia?

In effetti, i nuovi dazi generalizzati degli USA imposti a gran parte del mondo, ma non alla Russia, hanno l’effetto indiretto di limitare l’efficacia delle sanzioni UE contro la Russia e rappresentano un vantaggio strategico soprattutto per la Russia.

Se le increspature commerciali tra USA e UE e la “guerra dei dazi” rischia di danneggiare tanto l’economia UE quanto quella USA, per assurdo, l’economia Russa ne ottiene un vantaggio. Non essendoci infatti sanzioni USA o dazi sulle esportazioni di minerali, ferro, uranio, prodotti chimici, prodotti tessili ecc, dalla Russia agli USA, ed essendo queste risorse che la Russia, fino a qualche anno fa esportava in grande quantità verso l’UE (nel 2021 gli scambi tra Russia ed UE valevano complessivamente circa 200 miliardi, contro i 140 miliardi degli scambi tra Russia e Cina, ed ora sono fermi per effetto delle sanzioni UE, possono ora essere reindirizzate verso il mercato USA per sopperire la carenza di risorse causate dall’incremento dei dazi all’UE.

In definitiva, i dazi USA all’UE potrebbero rilanciare parte delle esportazioni russe verso gli USA.

Fonti

Cosa esporta la Russia e in quali Paesi? – OBICONS
Russia, come sono i rapporti commerciali con Unione europea e Stati Uniti? | Sky TG24
Russia – Esportazioni | 1994-2025 Dati | 2026-2027 Previsione

L’amministrazione trump ha accidentalmente fornito ad un giornalista accesso a piani di guerra

Il consigliere per la sicurezza nazionale degli USA Michael Waltz l’ha fatta grossa, e con un colpo da maestro che neanche il nostro amato Razzi si immaginerebbe, ha erroneamente fornito Jeffrey Goldberg, direttore dell Atlantic, accesso a documenti segreti, piani di guerra e informazioni compromettenti su l’attuale gabinetto del presidente USA.

Tutto ha inizio l’11 marzo, quando Waltz aggiunge Goldberg ad un gruppo su Signal, un’app di messaggistica simile a Whatsapp e Telegram, che il Pentagono considera sicura.

Il gruppo si chiama “Houthi PC Small Group” e non è un gruppo tra amici per organizzare una pizzata. A meno che per pizzata non si intenda un operazione militare nel mar rosso. In quel caso si, è il gruppo per una pizzata.
Nel gruppo ci sono il consigliere per la sicurezza nazionale degli USA Waltz, il vicepresidente JD Vance, il segretario della difesa  Pete Hegseth, e vari altri membri di spicco del gabinetto di Trump.

Nel gruppo si discute, come in un gruppo tra amici, c’è chi spiega le ragioni, chi dice di non essere d’accordo, chi interviene sporadicamente inviando emoji a caso, intanto il tempo passa e arrivati al 15 marzo l’operazione ha inizio e Goldberg si rende conto che in quei 4 giorni ha avuto accesso ad una miniera d’oro di informazioni classificate.

Ha letto i dubbi di Vance, per il quale intervenire significava aiutare Europa e Cina, perché gli Houthi rallentano il traffico marittimo tra Asia ed Europa, e questo non è in linea con la politica di Trump.

Ed ha letto le motivazioni di Heigseth, per il quale bisognava intervenire per dimostrare il fallimento di Biden, attaccare indirettamente e senza ripercussioni l’Iran, accusato di finanziare gli Houthi e in quanto ai dubbi di Vance sottolinea che gli americano neanche sanno chi o cosa sono gli Houthi. Non c’è quindi da preoccuparsi.

Ci si chiede se sia opportuno discutere di un’operazione così delicata, in una chat di gruppo, si osserva la poca attenzione del consigliere alla sicurezza nazionale che ha aggiunto “per errore” un giornalista ad un gruppo in cui sono state condivise informazioni riservate.

Qualche giorno dopo, il 24 marzo, Goldberg ha raccontato in un audio di 24 minuti, di come è stato invitato nel gruppo, allegando alcune screenshot delle conversazioni tra Hegseith e Vance. LA notizia fa immediatamente il giro del mondo, e subito arriva la replica di Waltz che parla di “errore” seguito da un pietoso affondo di Hegseith, ex giornalista Fox, che accusa Goldberg di essere un giornalista “disonesto”, perché ok l’errore di Waltz, ma lui avrebbe dovuto abbandonare immediatamente il gruppo e non rimanere lì a “spiarli” in silenzio.

La responsabilità della fuga di notizia è magistralmente spostata sul giornalista che, pur avendo avuto accesso a materiale classificato dal consigliere della sicurezza nazionale, non lo ha divulgato.

Considerazioni personali

Voglio far presente che, se uno scandalo di questo tipo fosse scoppiato durante l’amministrazione Biden, tutte le personalità politiche presenti nel gruppo (Vance, Waltz e Hegseith) non avrebbero esitato ad attaccare duramente l’amministrazione, accusare il consigliere di tradimento, chiedere di rimuovere dall’incarico tutti i funzionari disattenti che hanno permesso una gravissima fuga di informazioni, avrebbero probabilmente elogiato il giornalista che pur avendo accesso a quel materiale non lo ha divulgato, tutelando la missione, e non è da escludersi che avrebbero chiesto l’impeachement per il presidente, colpevole di aver scelto collaboratori inaffidabili.

Probabilmente ci sarebbero state anche ripercussioni in UE, soprattutto da parte delle destre vicine a Trump, che avrebbero certamente chiesto spiegazioni per le parole ostili spese dal Vicepresidente degli USA nei confronti dell’Europa, de facto, posta sullo stesso piano di Iran e Cina.


Voi cosa ne pensate? Cosa succederà ora a Waltz? Verrà rimosso dall’incarico o gli verrà perdonato l’errore in buona fede?

Ma soprattutto, la responsabilità della fuga di notizie è di Waltz, che ha aggiunto Goldberg al gruppo, o di Goldberg che non ha rivelato la propria presenza e non è uscito dal gruppo?

Fonti :

The Trump Administration Accidentally Texted Me Its War Plans – The Atlantic
L’incredibile autogol dell’Amministrazione Trump. Così ha condiviso in chat i piani di guerra in Yemen (che J.D. Vance non voleva) – Open
Trump, il clamoroso autogol dei suoi: diffusi (per sbaglio) i piani di guerra con tanto di commenti – Affaritaliani.it

Chi sono i cardinali papabili al prossimo conclave? Ecco tutti i nomi dei possibili successori di Papa Francesco

Chi sono i cardinali papabili al prossimo conclave? Ecco tutti i nomi che gli esperti stanno discutendo in queste travagliate ore in cui le condizioni di salute del pontefice, Papa Francesco, sono sempre più complesse e oggetto di preoccupazione e speculazione per i fedeli.

Da quando è stato ricoverato al policlinico Gemelli di Roma è emersa una polmonite bilaterale, sempre più grave, che ha sollevato diversi dubbi e timori sulla possibilità che il papa possa tornare in salute e alla guida della chiesa e , sebbene lo stesso francesco in più occasioni abbia dichiarato di non avere alcuna intenzione di dimettersi e rimanere alla guida della chiesa fino alla fine, si comincia a speculare su possibili dimissioni, come già fatto da Ratzinger prima di lui.

Nel chiacchiericcio generale, sul web iniziano ad apparire le prime voci ed ipotesi sul futuro della chiesa, ipotesi sostenute dalla recente nomina di 22 cardinali, di cui 21 elettori (con meno di 80 anni) , e si discute della direzione che verrà presa dalla chiesa nel prossimo pontificato. La chiesa di domani sarà una chiesa progressista e innovatrice, in continuità con Francesco e Benedetto XVI o sarà una chiesa più conservatrice e tradizionalista? Ci saranno nuove e maggiori aperture, o si andrà verso un nuovo oscurantismo generale?

Figure chiave nell’interpretazione delle due principali correnti politiche attualmente note nella curia romana, sono i cardinali Pietro Parolin, Matteo Maria Zuppi e Gerhard Muller, i primi due progressisti, il terzo un conservatore “trumpiano”, ma non sono i soli e per quanto influenti nelle rispettive correnti, probabilmente non sono realmente “papabili”.

La curia vaticana

La curia vaticana, o romana, è un centro di potere politico di rilevanza globale, e sebbene il papa sia il monarca assoluto dello stato vaticano e della chiesa, non ha in realtà quasi nessun controllo su ciò che fanno i membri della curia, sulla carta il potere del papa è totale, ma, all’atto pratico, non ha il tempo materiale per assicurarsi che migliaia di funzionari vaticani, operino come “il papa comanda” e anzi, nella maggior parte dei casi, questi funzionari sono legati a specifici Cardinali che indicano allo stesso santo padre, possibili nuovi candidati.

La curia è quindi il vero centro di comando, politico, della chiesa cattolica, lì si formano i cardinali che in alcuni casi diventeranno papi, e nella maggior parte dei casi spingono coloro che diventeranno papi.

Prendendo in prestito un termine dal complottismo, il “deep state” del vaticano, è estremamente profondo, radicato, difficile da ripulire. Ciò nonostante, negli ultimi vent’anni circa, i papi Benedetto XVI e Francesco, hanno fatto un enorme lavoro di riorganizzazione della curia romana, rimodellandola affinché potesse emergere e affermarsi la corrente progressista di cui entrambi i papi sono stati esponenti e promotori, rendendo sempre più marginale, almeno in apparenza, la corrente conservatrice.

Ad oggi la curia romana sembra essere prevalentemente progressista, e la maggior parte dei 138 membri elettori del collegio cardinalizio sono stati nominati da papa Francesco e in misura minore da Benedetto XVI.

Configurazione del collegio cardinalizio

Per essere più precisi, sollo 4 cardinali elettori su 138 sono stati nominati da Giovanni Paolo II, per loro quattro quindi il prossimo potrebbe essere il terzo conclave, altri 22 sono stati nominati da Benedetto XVI, per loro quindi il prossimo sarebbe il secondo conclave. I rimanenti 112 sono stati nominati cardinali da papa Francesco, selezionati da una curia rinnovata dallo stesso Francesco e Benedetto XVI.

Non tutti i cardinali nominati da Francesco tuttavia, sono di corrente progressista “bergogliana”, e anzi, uno dei leader della corrente conservatrice della curia vaticana, Gerhard Muller, è stato uno dei primi 16 cardinali creati da Francesco. La sua nomina a cardinale risale al 22 febbraio 2014, in quella stessa data è stato creato cardinale anche Pietro Parolin, attualmente segretario di stato della santa sede, da molti considerato uno dei più stretti collaboratori ed esponenti della corrente bergogliana del “partito progressista” vaticano.

Le correnti politiche del vaticano

Basandoci sulle fonti aperte di cui disponiamo, e trattandosi della politica del vaticano sono davvero pochissime, per lo più dichiarazioni dei singoli cardinali e pochi dati biografici forniti dallo stesso vaticano attraverso un portale dedicato al Collegio Cardinalizio. Possiamo dire che al momento le correnti politiche note in vaticano sono almeno due. Quella progressista e quella conservatrice.

Per quanto riguarda la corrente progressista sappiamo che ci sono diversi attriti tra i progressisti, soprattutto su alcuni punti radicali come l’apertura della curia alle donne e la benedizione delle coppie omosessuali, dando di fatto vita a due correnti progressiste, una che potremmo definire “riformatrice bergogliana” ed una più “moderata“.

Oltre le due correnti progressiste sappiamo esistere almeno una corrente conservatrice, più tradizionalista, che vede in Gerhard Muller, il principale referente e, secondo le parole dello stesso Muller, i conservatori nella curia vaticana potrebbero essere molti di più di quello che sembrano, poiché molti temono Francesco e per questo sono più riservati, militando de facto tra i progressisti moderati.

Per quanto riguarda queste tre “correnti” se da un lato è facile individuare in Gerhard Muller il leader dei conservatori, più difficile è decifrare la leadership progressista, che vede Matteo Maria Zuppi e Pietro Parolin, dallo stesso lato della barricata, entrambi stretti collaboratori di Bergoglio ma con approcci differenti. Zuppi ha più volte espresso pareri a favore di aperture radicali e grandi stravolgimenti nella chiesa, ciò lo rende potenzialmente il punto di riferimento di un ipotetica corrente riformatrice, mentre Paoloni, anche in vista del proprio ruolo politico (è pur sempre il segretario di stato Vaticano) pur esprimendo pareri forti, come il netto no alle deportazioni di palestinesi dalla striscia di Gaza, posizione per la quale ha proprio usato il termine deportazioni, nel complesso risulta tra i più moderati della corrente progressista.

Una partita a tre

I dati che abbiamo sulla curia romana ci suggeriscono almeno uno scontro a tre, tra progressisti riformisti, moderati e conservatori, ma che tuttavia potrebbe essere molto più articolato di così, ed è molto probabile che nelle infinite sfumature tra una corrente e l’altra, si celino quei tasselli mancanti all’opinione pubblica e il mondo esterno, che potrebbero rivelarsi determinanti per far confluire più correnti su uno stesso nome.

È il classico gioco politico del compromesso, dove le varie correnti scendono a patti tra loro, facendosi concessioni reciproche, affinché il prossimo papa possa andare bene più o meno a tutti, e se non va bene, che almeno non vada di traverso.

Ne consegue che in maniera quasi scontata, nello scontro politico che avrà luogo nelle sale chiuse della Cappella Sistina, al fine di ottenere una maggioranza qualificata di due terzi del collegio elettorale (almeno nei primi 33 scrutini, poi sarà sufficiente una maggioranza semplice) per l’elezione del prossimo papa, i nomi con posizioni più radicali verranno quasi certamente esclusi esclusi dai giochi. Anche se in realtà, non è detto e tali nomi potrebbero essere “esclusi” nelle prime fasi, a maggioranza qualificata, e riapparire nella seconda fase in cui per la vittoria è sufficiente la maggioranza semplice.

Ad oggi non sappiamo con certezza quanti progressisti e conservatori e che tipo di progressisti e conservatori ci sono, secondo Muller i conservatori, che la pensano come lui, ed hanno posizioni molto radicali e tradizionaliste, sono molti di più di quanto si pensi e potrebbero esserci significative infiltrazioni conservatrici anche tra i progressisti e i bergogliani.

I papabili secondo la stampa

Secondo la maggior parte dei media, i cardinali papabili al prossimo conclave, se mai dovesse esserci un conclave con questi cardinali elettori, sostanzialmente un conclave nei prossimi due anni, divisi tra progressiti, moderati e conservatori, sono:

Partiamo dai progressisti, il nome più “probabile” sembra essere quello di Matteo Maria Zuppi, seguito da José Tolentino de Mendonça e Robert Francis Prevost.

Matteo Maria Zuppi (69 anni), creato cardinale il 5 ottobre 2019 da Papa Francesco. Monsignor Zuppi nasce a Roma l’11 ottobre 1955 ed è ordinato sacerdote nel 1981. Nella sua carriera ha ricoperto vari ruoli, tra cui quello di ausiliare di Roma e arcivescovo di Bologna e dal 2022 è presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).
Zuppi è una figura di spicco della corrente progressista, ha spesso espresso posizioni a sostegno del dialogo interreligioso e l’impegno per la pace, come dimostrato dalla sua missione in Ucraina per il rientro dei minori ucraini. È visto come un sostenitore della chiesa sinodale e dell’inclusività ed ha suscitato non poche critiche tra i conservatori quando si è espresso a favore della benedizione di coppie omosessuali e l’apertura della curia vaticana alle donne.

José Tolentino de Mendonça (58 anni), creato cardinale il 5 ottobre 2019 da Papa Francesco. Originario del Portogallo, ha ricoperto l’incarico di Archivista e Bibliotecario della Santa Romana Chiesa.
Anche lui progressista di spicco e scrittore prolifico, De Mendonça ha più volte sottolineato l’importanza di un approccio aperto e inclusivo nei confronti delle questioni sociali e spirituali. È promotore di un cattolicesimo che ponga al centro la fede e vada oltre le diversità.

Robert Francis Prevost (68 anni), creato cardinale il 30 settembre 2023 da Papa Francesco. È stato vescovo di Chiclayo in Perù prima di diventare Prefetto del Dicastero per i Vescovi. Le sue posizioni politiche sono apertamente ed espressamente in favore di riforme sociali e pastorali nella Chiesa.

Per quanto riguarda i moderati, il nome più probabile sembra essere quello di Pietro Parolin, seguito da Luis Antonio Gokim Tagle e Claudio Gugerotti

Pietro Parolin (69 anni), creato cardinale il 22 febbraio 2014 da Papa Francesco. Attualmente è il Segretario di Stato della Santa Sede, ed ha alle spalle una lunga carriera diplomatica e politica all’interno della Chiesa. Diplomatico e moderato d’eccellenza, Parolin è considerato uno degli uomini di fiducia di papa Francesco, che ha sempre cercato di mantenere un equilibrio tra le diverse correnti all’interno della chiesa, promuovendo il dialogo soprattutto su temi e questioni globali.

Luis Antonio Gokim Tagle (67 anni), creato cardinale il 24 novembre 2012 da Papa Benedetto XVI, è uno degli ultimi Cardinali creati dal predecessore di Francesco, nonché uno dei 26 cardinali elettori ad aver già preso parte ad un Conclave. Da molti è considerato uno degli uomini di fiducia di Benedetto XVI e potrebbe aver avuto un ruolo chiave nell’elezione di Francesco.
Pur essendo moderato, è aperto a posizioni progressiste su temi come l’immigrazione e la giustizia sociale, ciò lo rende un candidato ideale sia per riformisti che moderati.

Claudio Gugerotti (68 anni), creato cardinale il 30 settembre 2023 da Papa Francesco, è attualmente Prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali, ha una vasta esperienza diplomatica, interreligiosa, interculturale, e soprattutto politica.

Per quanto riguarda i conservatori, Gerhard Muller, figura di spicco della corrente conservatrice in realtà non sembra essere uno dei papabili, tuttavia, ci sono diversi cardinali, a lui molto vicini le cui posizioni più moderate potrebbero rivelare qualche sorpresa. Tra di loro Angelo Fernandez Artime, Roberto Repole e Domenico Battaglia

Angelo Fernandez Artime (63 anni), creato cardinale il 30 settembre 2023 da Papa Francesco è Rettor Maggiore dei Salesiani ed ha alle spalle una lunga carriera nell’educazione cattolica.
Sebbene sia visto come conservatore per il proprio impegno nella formazione tradizionale dei giovani, è da molti considerato il più moderato dei conservatori, e potrebbe essere scelto grazie al sostengo di parte dei moderati e dei conservatori.

Roberto Repole (59 anni), creato cardinale il 7 dicembre 2024 da Papa Francesco, è uno degli ultimi cardinali creati da Papa Francesco (almeno al 19 febbraio 2025), nonché uno dei più giovani tra i papabili. Anche lui è un ibrido Conservatore Moderato, è infatti considerato conservatore su questioni dottrinali, ma aperto al dialogo su questioni sociali. Per molti potrebbe essere uno dei “conservatori” di cui parlava Muller.

Domenico Battaglia (60 anni), creato cardinale il 7 dicembre 2024 da Papa Francesco, anche lui è tra gli ultimi cardinali nominati da Francesco. Arcivescovo di Napoli, noto per il suo impegno nelle periferie sociali, con posizioni non completamente decifrate, anche lui su diversi temi dottrinali risulta un conservatore, tuttavia, l’attenzione e l’impegno molto innovativo sulle problematiche sociali, fanno di lui un soggetto controverso. Non è chiaro se sia un conservatore infiltrato tra i moderati o un moderato infiltrato tra i conservatori.

C’è in fine il grande outsider, che in realtà, non sembra essere accreditato tra i papabili, ovvero Gerhard Muller, cardinale conservatore radicale considerato da molti il leader del partito “trumpista del vaticano” per le proprie posizioni politiche e sociali. Muller ad oggi non sembra godere di grandi consensi tra gli altri cardinali, ma a suo dire, i conservatori che la pensano come lui sono molti di più di quanto non sembri. Fuori dal vaticano Muller piace alle destre radicali e soprattutto piace a Trump.

Chi sarà il prossimo papa?

Con l’attuale composizione del Collegio Cardinalizio, e i suoi 138 cardinali elettori, per eleggere il prossimo Papa saranno necessari almeno 96 voti, 19 in più di quelli che furono necessari per eleggere papa Francesco. Sarà quindi una partita molto serrata, che con molte probabilità eleverà al soglio pontificio un progressista moderato o un moderato progressista.

Se da un lato non sappiamo dire con esattezza quale corrente trionferà, possiamo dire con una certa sicurezza che difficilmente verrà eletto un conservatore radicale, poiché gli ultimi 2 pontificati, durati complessivamente un ventennio, hanno visto una chiesa in continua trasformazione e apertura, una chiesa che in quell’apertura ha visto una maggiore crescita. Nel mondo cristiano papa Francesco è generalmente molto più apprezzato rispetto a Benedetto XVI che nel proprio pontificato, pur portando avanti politiche di apertura e rinnovamento della chiesa, ricordiamo che Benedetto XVI è stato il primo papa su Twitter, ha continuato a mostrare un immagine conservatrice di se e della chiesa. Almeno nella dottrina e nell’estetica.

In un momento storico come questo, in cui il mondo sta vivendo sempre più divisioni e conflitti, la chiesa non può mostrarsi impreparata, e non può diventare un ulteriore strumento di divisione, e questo i membri della curia ed i cardinali lo sanno perfettamente. La Chiesa, più che i suoi fedeli, in questo momento, ha bisogno di una guida che ponga l’accento sulla fede, sull’inclusione, sull’attenzione ai deboli, sull’assistenza, sulla cura e sulla pace. Una pace che non può essere una resa alla prepotenza e trionfo della violenza, ma una pace che sia forte e d’esempio. Ritengo quindi che molto probabilmente il prossimo papa sarà una persona di fiducia di Francesco, che erediterà la volontà dei suoi due predecessori e continuerà il percorso di rinnovamento della chiesa cattolica.

I principi della democrazia : Analisi comparativa tra democrazia e sistemi autarchici.

Quando si parla di Democrazia, generalmente si intende un sistema di governo fondato sull’uguaglianza delle opportunità e sulla partecipazione collettiva, tale interpretazione politica si contrappone nettamente ai regimi autarchici, nei quali invece, il potere è concentrato in poche mani o in una singola persona.

Tuttavia, non sempre la democrazia è interpretata in questo modo, e spesso anche in democrazia si rischia di virare verso posizioni autoritarie, superando e denigrando uno dei principi portanti della democrazia stessa, il “compromesso politico” in favore di sistemi maggioritari e più “forti”, basati sul principio che chi “chi ha la maggioranza decide”.

Ma la democrazia non funziona così, o meglio, per come è stata concepita e definita nel corso dei secoli, non dovrebbe, e anzi, per millenni la filosofia ci ha ampiamente messo in guardia dalle ombre che aleggiano e minacciano la democrazia, ombre che periodicamente, e seguendo un copione ben definito, hanno prevalso sulla democrazia, portando alla nascita di sistemi autoritari, sempre più pericolosi.

In questo articolo cercheremo di esplora il concetto di democrazia, le sue origini, le sue criticità, e di identificare le maggiori e più note e facilmente riconoscibili minacce alla democrazia di cui abbiamo conoscenza storica.

Etimologia e significato del termine “democrazia”

Cominciamo con l’etimologia della parola, poiché tutto parte da essa. Il termine “democrazia” deriva dal greco, più precisamente dalla composizione di due parole, demos (popolo) e kratos (potere), e la traduzione letterale dell’unione di queste due parole è “potere del popolo“, ne consegue che tale significato persista e definisca anche (e soprattutto) il termine che deriva dall’unione di queste due parole, ovvero Democrazia.

Democrazia però non è solo il potere del popolo, ma è anche il modo in cui e con cui, il popolo esercita tale potere, ed è usato generalmente per rappresentare diverse forme di governo caratterizzate da una serie di elementi comuni suggerendo l’idea che i governi “democratici” siano in sostanza espressione della volontà del popolo, della collettiva, e non di singoli individui o gruppi ristretti, come potrebbe invece essere in sistemi autocratici o oligarchici dove invece a governare sono rispettivamente un solo individuo o un gruppo elitario.

Se l’idea tali governi siano espressione della volontà colletta, è un qualcosa di solido e persistente nelle varie declinazioni di democrazia, la misura e la dimensione di quella volontà è un qualcosa di più volatie e mutevole, che in sistemi democratici differenti, può assumere forme differenti. Si pensi alle democrazie dirette, alle democrazie presidenziali, alle democrazie parlamentari, ecc.

In queste varie declinazioni, ognuna delle quali interpreta in maniera differente la volontà della collettività, si celano alcune insidie della democrazia, che espongono le varie forme di democrazie a contaminazioni più o meno pericolose. La maggior parte di queste minacce sono sintetizzabili nel rischio che la democrazia possa in qualche modo confluire in sistemi autoritari, in cui si possa prediligere una parte della collettività a scapito della sua interezza, e solo una parte del popolo, della collettività, degli elettori, la “maggioranza”, risulta essere fonte e di legittimazione del potere, con l’effetto di una forte polarizzazione politica, che rende impossibile o quasi, ogni forma di compromesso e confronto politico.

Questa distorsione della democrazia, si radica nell’idea distorta per cui ci sia una parte che ha il compito di governare, e una parte, che deve rimanere in panchina. Come vedremo nella prossima sezione, questa visione non ha nulla a che vedere con la democrazia, e anzi, rappresenta la sua morte.

La filosofia della democrazia

Fin ora abbiamo ragionato sull’etimologia della parola democrazia, visto le sue possibili declinazioni e accennato in via puramente teorica alle sue insidie. Da qui in avanti ripercorreremo la storia filosofica della democrazia, dall’antichità greca ad oggi, nel tentativo di capire che cos’è la democrazia oggi.

Tra i primi filosofi che si sono occupati del concetto di Democrazia, incontriamo, come già successo per il concetto di politica, Platone, e la sua La Repubblica, opera in cui il filosofo greco, narrando un dialogo con il proprio maestro Socrate, si ritrova ad esprimere le proprie idee di governo ideale, e nel fare ciò, dedicherà importanti sezioni dell’opera alla critica dei governi noti, tra cui anche la democrazia ateniese, una forma di governo che per Platone è incline al disordine e alla tirannide. Come vedremo, le critiche che il filosofo greco muove alla democrazia hanno un sapore quasi profetico e ci mostrano con qualche millennio di anticipo e straordinaria lucidità, le problematiche che nel mondo contemporaneo abbiamo riscontrato in modo diversi, in diversi sistemi politici, tra cui l’Unione Sovietica o gli Stati Uniti d’America.

Per Platone la democrazia diretta ateniese è una sorta di regime in cui il popolo detiene il potere senza alcuna qualificazione o competenza specifica per governare, e alla base di questa democrazia diretta vi è un principio di uguaglianza formale che non tiene conto delle differenze qualitative tra gli individui. senza troppi giri di parole, per Platone non tutti hanno la capacità non solo di governare, ma anche di scegliere i governanti, di conseguenza, in un sistema in cui tutti i cittadini hanno lo stesso diritto di partecipare alla vita politica, indipendentemente dalle proprie capacità o virtù, si inibisce la capacità e la possibilità di un buon governo e si favorisce l’ascesa di demagoghi, ovvero di leader populisti in grado di manipolare le passioni, le paure e le opinioni della massa, al fine di ottenere maggiori consensi. Questo fenomeno, conduce inevitabilmente alla tirannide, poiché i demagoghi una volta al potere tendono a consolidare il loro controllo eliminando ogni forma di opposizione.

Altra enorme criticità delle democrazie dirette, secondo Platone, sta nella loro instabilità, poiché esse lasciano ampio all’anarchia delle opinioni e dei desideri individuali, elementi di disturbo che tendono a prevalere sul bene comune. In altri termini, per Platone la democrazia è un regime in cui “ognuno fa ciò che vuole“, dando luogo a una società frammentata e priva di coesione, che tenderà a scegliere come guida chi gli permette di fare ciò che vuole, e allontanerà chi invece punterà al bene comune.

A tale proposito il brano “La sete di libertà” del libro quarto della repubblica, offre un immagine estremamente vivida e profetica.

“Quando un popolo, divorato dalla sete di libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano a sazietà,
fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati despoti.
E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani.
In questo clima di libertà, nel nome della libertà, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.”

Esempi storici di questo tipo, che avverano la profezia di Platone, ne potremmo fare all’infinito, da Cesare ed Augusto, passando per Napoleone ed i dittatori del novecento, fino arrivare ai grandi populisti contemporanei, la storia dell’umanità ha visto l’ascesa di innumerevoli “coppieri“.

Lasciandoci Platone alle e avanzando di una generazione anche Aristotele, maestro di Alessandro Magno e allievo di Platone, si occuperà di definire il concetto di democrazia e le forme di governo democratico. Aristotele ne parla nel libro Politica, dove descrive la democrazia come una forma di governo mista, capace di integrare elementi di monarchia, aristocrazia e politica e come il proprio maestro, anche Aristotele non è esente dal sottolineare alcune criticità e insidie della democrazia, mettendo in guardia soprattutto dal rischio di oclocrazia, ovvero il dominio della folla irrazionale e priva di virtù.

L’etimologia di questo termine è simile a quella di democrazia, il suffisso cratos è lo stesso, ma cambia la radice, da demos (popolo) a oclos (folla), ed indica appunto un regime in cui le decisioni sono prese in modo impulsivo e passionale, senza alcun riguardo per la legge o il bene comune, da quella che sostanzialmente considera una folla irrazionale.

Aristotele critica aspramente questa forma di governo, poiché ritiene che essa sia particolarmente priva di moderazione e di equilibrio tra le classi sociali, elementi che ritiene fondamentali affinché si possa esercitare il potere in maniera giusta.

Per Aristotele quindi, l’oclocrazia è quindi una distorsione della democrazia che e si manifesta quando i cittadini meno virtuosi prendono il sopravvento e corrompono la democrazia, quasi ne abusano.

Tornando ad Aristotele, il filosofo greco ritiene che la deriva della democrazia in oclocrazia possa essere evitato attraverso la politeia (politica), attraverso l’attuazione di forme di governo miste che combina elementi democratici e oligarchici, garantendo così una maggiore stabilità e giustizia sociale. È quasi come se ci stesse dicendo che l’oclocrazia nasce dall’eccesso di democrazia e di libertà, visione ereditata dal proprio maestro.

La storia, soprattutto recente, è ricca di esempi di democrazie evolute in oclocrazie, alcune delle quali hanno permesso l’ascesa di vere e proprie dittature, non solo in Europa e non solo nel novecento.

Tornando al concetto di democrazia, ha accompagnato la nostra storia solo per brevi tratti e nella maggior parte dei casi, l’umanità ha preferito altre forme di governo. Se l’Europa classica ha conosciuto varie forme di democrazia, in particolare quella di alcune polis greche e la repubblica romana, a partire dal primo secolo a.c., in particolare da Cesare in avanti, le democrazie classiche sono sparite, lasciando il passo a nuove forme di governo, come l’Impero e le monarchie, tutt’altro che democratiche.

Eccezion fatta per la breve esperienza dei comuni dell’Italia medioevale, la democrazia è tornata ad affacciarsi sull’Europa solo di recente. Più precisamente torna a far parte del dibattito politico e filosofico a partire dal XVII secolo, soprattutto con autori come John Locke e Jean-Jacques Rousseau, che nei propri scritti hanno ridefinito il concetto di democrazia, gettando le basi per le democrazie moderne, che all’atto pratico sono un esperienza politica totalmente nuova e profondamente diversa dalle democrazie “classiche”.

Le democrazie moderne pongono l’accento sul ruolo dei diritti individuali e della volontà generale, con alcune differenze tra i vari filosofi che si sono susseguiti nel tempo. Per Locke ad esempio, l’esercizio del potere doveva basarsi sul consenso dei governati, mentre per Rousseau, la democrazia diretta rappresentava l’unica forma legittima di governo, poiché solo in questo modo era possibile avere un espressione autentica della volontà collettiva. Di tutt’altro avviso invece è Hobbes che critica la democrazia ritenendola instabile e preferendo un sovrano assoluto per garantire ordine e sicurezza.

Kant vede la democrazia come una repubblica razionale e giuridica, ponendo tutta l’attenzione sul diritto e le regole, poiché solo il diritto, metodico e rigoroso è in grado di produrre un sistema politico che possa garantire pace e libertà. E se per Kant, alla base della democrazia c’è il diritto, per Marx, la democrazia è altro, non è infatti solo una forma di governo, ma una “fonte di governo” che sposta la costruzione istituzionale dal basso, immaginando una società autogestita. C’è quindi una sorta di ritorno alla democrazia diretta.

Come per Platone e Aristotele anche gli altri autori, citati e non, che si sono occupati del concetto di democrazia, ne hanno intravisto possibili criticità, rendendo evidente un principio, la democrazia non è perfetta perché riguarda gli esseri umani, e il rischio più comune, evidenziato in tutte le declinazioni della democrazia, vede la maggioranza assumere posizioni autoritarie, per imporre decisioni.

Compromesso politico vs. dittatura della maggioranza

In sostanza, la democrazia è una questione da gentiluomini, richiede un certo rispetto reciproco, l’ammissione e il riconoscimento reciproco dei propri limiti e il ricorso al compromesso politico, inteso come la capacità di mediare tra interessi diversi per raggiungere soluzioni condivise. In teoria, nei sistemi democratici, il compromesso è essenziale per garantire stabilità e inclusività ed evitare che le decisioni siano dettate unilateralmente dalla parte vincente. Qualunque essa sia. Poiché, in caso contrario, avremmo a che fare con una tirannia, una dittatura della maggioranza.

Tale principio fondante, non è tuttavia implicito e spesso viene oscurato dal principio deviante e deviato per cui “chi vince decide“, e in quei casi si rischia di trasformare la democrazia in una vera e propria “dittatura della maggioranza“, un sistema politico in cui, a seconda della maggioranza, le minoranze vengono marginalizzate e i loro diritti e le loro istanze quasi del tutto ignorate. Tale dinamica si contrappone in maniera netta e radicale ai principi fondanti della democrazia, e riflette in vero quel rischio da cui giuristi e filosofi ci hanno messo in guardia per secoli.

La dittatura della maggioranza non è solo un sintomo della tirannia e dell’oclocrazia, ma è anche causa ed effetto di alti fenomeni, tra cui, la polarizzazione politica, che rendono estremamente difficile, se non del tutto impossibile, il dialogo tra schieramenti diversi e contrapposti, alimentando tensioni sociali.

Ma la natura pluralistica degli schieramenti politici non dovrebbe essere fonte di divisione, ma un punto cardine per la ricerca di un compromesso che però, in alcuni casi viene visto come una rinuncia ai propri valori e principi, un “inciucio” che non fa bene alla propria parte, poiché non fa l’interesse esclusivo della propria parte, puntando invece agli interessi comuni di tutte le parti. E così, il bene comune, che per Aristotele era il punto d’arrivo della politica, diventa il suo principale ostacolo. Qualcosa da scardinare e superare.

Nei sistemi autarchici tuttavia, il compromesso politico è praticamente assente, il potere è centralizzato e le decisioni sono imposte dall’alto senza alcuna reale consultazione pubblica. Questo perché fondamentalmente non serve, perché il governante è stato eletto dal popolo e in quel momento il popolo ha esercitato ed esaurito il proprio potere, può quindi tornare ad essere spettatore fino alle prossime elezioni, se mai ci saranno prossime elezioni.

In questi contesti, o nei contesti che tendono in questa direzione, il concetto stesso di compromesso diventa irrilevante, poiché non esiste un reale spazio comune per il confronto tra diverse visioni del mondo. El più esiste un luogo in cui le forze politiche possono accusarsi a vicenda, in quelle che risultano essere sterili e inutili dibattitti polarizzati. Ma che dovrebbero invece essere luoghi di confronto finalizzati al compromesso.


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Nasce l’ufficio della Fede alla Casa Bianca

trump mette in scena l’ultima cena nello studio ovale. Si autoproclama santo e inaugura l’ufficio della Fede, per reprimere i propri oppositori, in una moderna a suo dire, in difesa dei valori del cristianesimo. Tra i suoi obbiettivi, anche il pontefice e la santa sede.

Nel pieno di uno scontro politico senza precedenti tra la Casa Bianca e la Santa Sede, ma soprattutto, mentre si tagliano dipartimenti federali, vitali per la democrazia USA, il presidente Donald Trump sembra abbia attivato l’Ufficio della Fede alla Casa Bianca, al fine di rafforzare il ruolo della religione nella sfera pubblica e politica degli Stati Uniti. In altri termini un tentativo di rendere gli USA una “teocrazia laica“. Trump aveva infatti già espresso in passato la propria volontà di rimettere la religione, non la fede sia chiaro, al centro del Paese, e l’istituzione di questa nuova struttura rappresenta un passo importante e soprattutto concreto verso tale obiettivo.

Ma cosa implica e cosa significa tutto ciò? cerchiamo di capirlo in maniera analitica, e per farlo ci serve qualche informazioni sul ruolo della religione (non la fede) nella politica. Passeremo rapidamente al setaccio i vari utilizzi politici della religione nel corso dei secoli, dall’antichità pre-cristiana, fino alle dittature novecentesche, cercando di individuare gli elementi chiave. Prima però, cosa sta succedendo negli USA?

Contesto e simbolismo

Secondo quanto riportato dai media internazionali, Trump ha di recente organizzato una cerimonia nello Studio Ovale, che i più hanno descritto come una sorta di “ultima cena”, in cui il presidente si mostra al popolo statunitense come una sorta di messia, circondato leader religiosi e dalla telepredicatrice evangelica Paula White, da tempo consigliera spirituale di Trump.

L’evento è stato immortalato una foto è stato poi condiviso su X, dall’account ufficiale della Casa Bianca, accompagnato da una citazione della Bibbia e un messaggio dello stesso presidente Trump, che si augura di lasciare al mondo la sua opera “pacificatrice e unificatrice” come eredità.

Messaggio che per molti è in aperto contrasto con le politiche anti immigratorie, fortemente divisive, xenofobe, e di forte intolleranza etnica e religiosa, promosse da Trump e i suoi sostenitori.

Durante l’evento, la predicatrice e consigliera spirituale di Trump è intervenuta sostenendo che “opporsi a Trump equivale a opporsi a Dio” per poi sostenere di avere “l’autorità per dichiarare la Casa Bianca luogo santo” grazie alla sua presenza dello stesso Trump, qualcosa che forse neanche Napoleone, che si è autoincoronò imperatore dicendo che la corona l’aveva ricevuta da Dio, avrebbe avuto l’ardire di sostenere per se stesso.

Di cosa si occuperà l’ufficio della fede di Trump?

Al momento i dettagli operativi dell’Ufficio della Fede non sono ancora stati ancora resi noti, ma basandosi sui discorsi elettorali e il programma di Trump, l’intenzione del presidente sembrerebbe essere quella di contrastare ciò che Trump definisce “discriminazioni anticristiane” e “attacchi contro la religione”, e in questi attacchi, potrebbero rientrare anche le “aperture” del Vaticano e le critiche mosse da papa Francesco nei confronti di Trump e delle politiche discriminatorie e della sua amministrazione, soprattutto per quanto riguarda la striscia di Gaza, la gestione e deportazione dei Migranti e il trattamento di omosessuali.

In passato Trump aveva anche annunciato la creazione di una task force speciale, il cui obbiettivo sarebbe stato quello di fermare tutte le forme di discriminazione e attacco anticristiano all’interno del governo federale, e l’ufficio della Fede alla casa bianca potrebbe essere direttamente collegato a tale progetto che, sempre secondo le accuse di Trump, potrebbe mobilitarsi contro DOJ (Dipartimento di Giustizia), l’Internal Revenue Service (IRS) e l’FBI, a più riprese accusate da Trump, di qualsiasi cosa, e in questo caso specifico, di aver adottato politiche ostili nei confronti dei valori cristiani.

L’iniziativa ha sollevato dibattiti e critiche, soprattutto tra coloro che vedono in questa mossa un tentativo di favorire una visione religiosa specifica (il cristianesimo) e pretestuosa, a discapito della neutralità dello Stato, al fine unico di perpetuare la vendetta di Trump su coloro che non ha potuto colpire perché in posizioni blindate dalla costituzione. Diversi osservatori hanno inoltre sottolineato come Trump abbia spesso utilizzato il tema della religione come strumento politico, accusando i democratici di essere “contro la religione e contro Dio”. Questo approccio polarizzante rischia di alimentare ulteriori tensioni sociali, specialmente in un contesto caratterizzato da crescenti divisioni culturali e ideologiche, spesso alimentate proprio dallo stesso Trump.

Uso della religione come strumento politico

L’uso della religione come strumento politico è un fenomeno che attraversa tutta la storia umana, e alcuni sociologi particolarmente critici nei confronti della religione, ritengono che essa, si sia diramata dal mito, strumento di comprensione del mondo, proprio per essere uno strumento di controllo politico.

Dal mondo pagano pre-cristiano alle moderne “religioni laiche” dei regimi dittatoriali, la religione ha quasi sempre avuto due funzioni politiche, legittimare il potere dei governanti, generalmente intermediari tra divinità spirituali o laiche, e il popolo.

Nell’antico Egitto, i faraoni erano considerati divinità viventi e qualcosa di analogo avveniva nel mondo romano, l’imperatore era oggetto di culto religioso, il “culto dell’imperatore”, che serviva a consolidare l’unità dell’impero e rafforzare la sua autorità. tale culto è stato ripreso in epoca cristiana, per legittimare e rafforzare l’autorità del Papa, e più di recente, nel XX secolo, da dittature moderne come il Fascismo che elevarono Mussolini a nume vivente, e come lui e dopo di lui anche Hitler e Stalin.

Il cristianesimo rese la religione un elemento cardine delle strutture politiche della tarda antichità e dell’Europa medievale, in particolare il sacro romano impero, provò e in parte riuscì a fondere il potere temporale e quello spirituale, tale fusione, che portò per secoli l’imperatore a ricercare la legittimazione dalla Chiesa cattolica, fu anche ragione e motore di importanti conflitti epocali tra papato ed impero.

In età moderna, Machiavelli teorizzò l’uso politico della religione come strumento strategico per mantenere il controllo e garantire ordine ed obbedienza da parte dei sudditi. Teorie che avrebbero profondamente influenzato il pensiero politico da lì in avanti.

Nel XIX e XX secolo, l’uso della religione come strumento politico si manifestò in forme nuove e più radicali, soprattutto nelle dittature moderne. Mussolini fu il primo nume vivente della storia, e riuscì a costruire attorno a se una vera e propria fede laica che permane tutt’oggi. Un tentativo analogo venne fatto, con altrettanto successo e declinazioni diverse, da Adolf Hitler e Iosif Stalin. I tre dittatori, pur non essendo particolarmente religiosi, utilizzarono elementi del cristianesimo e del paganesimo per costruire una narrazione ideologica che legittimasse il proprio potere, nel caso di Stalin il cristianesimo venne sostituito dal “vangelo secondo Marx” che si tradusse in una repressione sistematica delle religioni in nome di un ateismo di Stato, che altro non era che una religione laica.

Usare la religione per reprimere

Nel mondo in cui viviamo, la religione e la fede hanno preso strade sempre più lontane, da un lato vi è la fede intima e personale di ogni individuo, che trascende le diverse ritualità ed ha una valenza universale, in cui l’uomo che tende al divino ha il dovere di “comportarsi bene” e prendersi cura degli altri, e dall’altro, vi è la religione che si è fusa con la “politica” e le politiche di stato, creando regimi per lo più chiusi e oppressivi.

La maggior parte degli stati in cui la religione è oggi fortemente fusa con il potere politico, fanno un uso sistemico della religione e l’appartenenza religiosa, come strumenti di repressione, guardiamo ad esempio all’Afghanistan, all’Iran, ma anche ad Israele e nella declinazione laica del concetto religioso, alla Cina. Da questo punto di vista gli Stati Uniti non sono nuovi all’uso della religione come strumento di repressione.

Un esempio concreto lo possiamo riscontrare negli anni della caccia alle streghe, che raggiunse il proprio apice durante i processi di Salem (1692-1693). Tale fenomeno fu emblematico di come la religione, in combinazione con paure sociali e politiche, possa essere facilmente strumentalizzata per reprimere il diverso e consolidare il controllo sociale.

Il XVII secolo può sembrare lontanissimo da noi, eppure, il ricorso alla religione, alla fede, per contrastare la paura del diverso, è qualcosa che ci accompagna ancora oggi. Pensiamo alla diffidenza da parte di una fetta enorme dell’opinione pubblica nei confronti di Islamici, o Ebrei, o Comunisti, e in altre parti del mondo, come il mondo islamico, nei confronti di Ebrei, Comunisti e Cristiani.

Il mondo occidentale, soprattutto le destre più radicali, dagli USA all’Europa, criticano aspramente e duramente la repressione basata su canoni religiosi operata dai Talebani in Afghanistan o dalla Guardia rivoluzionaria in Iran, alcuni guardano con diffidenza alla repressione compiuta dalla destra del governo Israeliano, eppure, quella stessa “destra” radicale e conservatrice che trova iniqua la discriminazione religiosa, propone a sua volta, una narrazione politica di esaltazione di una religione da porre al di sopra delle altre e, in nome della tradizione, chiede e in alcuni casi prova a mettere in atto una forte repressione nei confronti di altre religioni.

La censura dei libri negli Stati Uniti

La censura di libri è un abominio culturale, non c’è molto altro da aggiungere a riguardo se non qualche breve cenno storico che lo vede come strumento di controllo per reprimere masse, più o meno in ogni epoca storica. Nell’Europa medievale i copisti “censuravano” attraverso l’abrasione, distruggendo testi antichi, considerati blasfemi e pagani, per poi riutilizzare quelle pergamene per copiare scritti teologici o copie dei vangeli canonici. In età moderna, dal XVI secolo in poi, con l’avvento della stampa si diffuse il famigerato e temuto indice dei libri proibiti, un elenco di testi vietati che non solo era proibito stampare e distribuire, ma anche possedere e leggere, indice la cui ultima edizione, prima dell’abolizione, risale al 1959 ad opera del sant’uffizio, mentre la sua abolizione è datata ufficialmente 1966 per volontà di Papa Paolo V.

La fine dell’indice non significa fine della censura o dei roghi di libri, anzi, la storia ci insegna che anche in regimi non “cristiani” la censura fu ed è tutt’ora largamente usata, è il caso di citare i roghi di libri dei regimi Nazi-Fascista in Italia e Germania, il divieto fascista di pubblicare letteratura scientifica straniera, anche se tradotta, il Samizdat sovietico, una sorta di analogo laico comunista all’indice cristiano, con cui si vietava in URSS la distribuzione e il possesso di innumerevoli libri considerati pericolosi o l’indice islamico, con cui il governo di Tehran vieta innumerevoli libri in Iran, e così via.

Storicamente va detto che la censura non si è abbattuta sui libri solo attraverso il loro divieto integrale, in numerosi casi infatti, essa ha colpito in modo più subdolo, imponendo modifiche trasformazioni o eliminazione di sezioni più o meno ampie del testo. Un caso esemplare arriva sempre dagli USA con la Bibbia, più precisamente una versione della bibbia che era riservata agli schiavi nelle piantagioni da cui erano omesse intere sezioni dell’antico testamento, in particolare tutta la parte del libro della genesi che riguardava la schiavitù in Egitto e la liberazione da parte di Mosè.

In tempi più recenti il divieto di distribuzione e possesso dei libri è parzialmente sfumato, ed oggi interessa per lo più paesi fortemente radicali, esempi lampanti sono la Cina, Iran, Russia e Israele, ma non sono gli unici esempi, anzi, in forme più moderate e circoscritte, la censura dei libri interessa anche l’Unione Europea e gli USA. In USA ad esempio, se bene non ci siano leggi che vietino di possedere o distribuire libri, o leggi che obbligano la distruzione di libri, ci sono numerose leggi, per lo più statali e non federali, che vietano l’uso pubblico di alcuni libri.

Per quanto vorrei parlare di tutti gli “indici” moderni, farlo in un unico articolo richiederebbe un lavoro smisurato, quindi mi concentrerò caso per caso, ed oggi analizzeremo gli ultimi 20 anni circa di censura negli USA, anche perché sono quelli di maggiore intensità.

Il ritorno della censura negli USA

La censura dei libri negli USA non è un fenomeno moderno, già nei secoli scorso è stata ampiamente promossa e praticata, tuttavia, dal secondo dopoguerra in poi, e soprattutto negli anni post guerra fredda, si è respirata un’aria di maggior tolleranza. Tra Regan e Obama gli USA hanno visto la maggior libertà letteraria della propria storia e a darci testimonianza di come negli ultimi anni la libertà di stampa si sia fortemente deteriorata, abbiamo le analisi e i rapporti periodici di American Library Assosation (ALA) e PEN America, due associazioni/organizzazioni che promuovono la libertà di stampa e di espressione e che, almeno dagli anni 60, monitorano l’attività legislativa e i tentativi di censura a livello federale e statale in tutti gli USA.

Come anticipato, fino alla presidenza Obama, gli USA hanno vissuto un periodo fiorente, con grandi libertà editoriali e anche nei programmi scolastici c’era molta “libertà”. Per fare un esempio pratico, durante la presidenza di G.W. Bush, in alcuni libri scolastici si arrivava a parlare, in maniera anche abbastanza critica, della disastrosa fuga dalla Somalia del 94 durante la presidenza Bush senior e durante la presidenza Obama la situazione sostanzialmente non cambia, la censura di libri è ancora relativamente contenuta rispetto a quanto sarebbe successo negli anni successivi. Ciò non significa che sia del tutto assente, anche perché non lo è mai stata. L’ALA documenta, negli 8 anni di presidenza Obama, sporadici casi di divieto di libri, per lo più legati a temi sensibili come la religione, la sessualità e la violenza. Questo divieto non è però assoluto, e in realtà anche negli anni successivi non lo sarà mai.

Il bando è circoscritto alle scuole pubbliche, e all’epoca, soprattutto durante la campagna elettorale del 2012, scaturì in un forte dibattito legato alle politiche di inclusione promosse da Obama e l’apparente contraddizione tra queste e il divieto di usare nelle scuole e nelle biblioteche scolastiche, alcuni libri che affrontavano tematiche LGBTQ+ e riscrivevano la tradizione americana, testi che per inciso, erano fortemente antiscientifici e antistorici.

L’accesa discussione attorno a questi bandi tuttavia, fu significativa, perché spianò la strada a ciò che sarebbe successo nella successiva presidenza Trump.

Polarizzazione culturale e attacchi alla scienza durante la presidenza Trump

Se come abbiamo visto, durante la presidenza Obama, il divieto di utilizzo nelle scuole è “federale” e riguarda soprattutto libri antiscientifici, durante la prima amministrazione Trump si è registrato il vero punto di svolta, ovvero la nomina di Betsy DeVos come Segretaria dell’Istruzione. DeVos è stato una forte promotrice di politiche in favore delle scuole private e di riduzione del controllo federale sui materiali didattici. In altri termini DeVos da una maggiore autonomia alle scuole, soprattutto quelle private, di decidere la forma dei propri programmi scolastici, i libri da utilizzare ecc e allo stesso tempo aumentava indirettamente il potere dei governatori locali che, senza un controllo federale, erano chiamati a regolamentare a livello locale i limiti dell’insegnamento, programmi scolastici e di conseguenza, autorità quasi totale in materia di censura o liberalizzazione di libri antiscientifici nelle scuole.

Nel 2020, sempre l’amministrazione Trump, fa un ulteriore passo in direzione della censura, vietando l’uso scolastico, sempre nella scuola pubblica, di pubblicazioni che includessero termini come “inclusione”, “diversità di genere” e “disabilità”. Questo divieto ha avuto un doppio effetto, sia editoriale che politico scolastico. A livello editoriale sono aumentati, in maniera quasi esponenziale, i tentativi di rimuovere dai testi, le sezioni che trattavano temi sensibili, come la storia razziale americana e l’identità di genere, inoltre, per evitare di incorrere nella censura federale, molti editori hanno ritirato dal mercato numerosi libri e rifiutato innumerevoli nuove proposte. Sul piano politico scolastico invece, i governi locali, già fortemente autonomi, hanno avviato una crescente corsa alla censura vietando sempre di più l’uso di libri che trattavano temi vietati.

ALA e Pen America a tale proposito documentano una delle fasi più cupe della storia editoriale statunitense, e della censura libraria, dai tempi del proibizionismo.

Un’inattesa escalation dei divieti durante la presidenza Biden

Finito il mandato di Trump molti si aspettavano importanti passi indietro da parte del nuovo presidente, e così è stato, i primi mesi di presidenza Biden come sappiamo furono investiti dal presidente democratico, per smantellare gran parte delle politiche trumpiane inaugurate a fine mandato, tuttavia, sulla questione scuola e censura, non troviamo il passo indietro che molti si aspettavano, ma anzi, troviamo un apparente escalation. Secondo quanto riportato dall’ALA, nel primo semestre del 2022 sono stati registrati 681 tentativi di messa al bando che hanno interessato circa 1.651 libri, con un’enfasi particolare su temi razziali, di genere e sessuali. Una tendenza preoccupante che secondo ALA è ulteriormente cresciuta nel 2023, quando il numero di libri banditi nelle scuole pubbliche è triplicato, passando dai 3.362 del 2023 a oltre 10.000 nel 2024.

Diversamente dall’era Obama però, i libri al bando non sono testi anti-scientifici, letteratura scientifica, saggistica e narrativa, e protagonisti di questa escalation sono stati come la Florida, guidati nella maggior parte dei casi da governatori conservatori repubblicani molto vicini a Trump. In florida ad esempio incontriamo diverse leggi statali il cui fine è limitare l’insegnamento di concetti come la “teoria critica della razza” e “l’identità di genere”. L’adozione di queste politiche locali ha portato alla rimozione di oltre 10.000 libri dalle biblioteche scolastiche statunitensi, e come ci si potrebbe aspettare, ha innescato un forte dibattito nazionale sulla libertà di espressione e il ruolo dell’istruzione pubblica.

Colpa di Biden o di Trump?

L’ondata di censura durante la presidenza Biden, come anticipato, ha innescato un forte dibattito pubblico, tutt’ora attivo, sulla responsabilità di tale escalation, da una parte c’è chi incolpa Trump e dall’altra chi incolpa Biden.

I dati di ALA e Pen America mostrano un chiaro aumento della censura di libri negli Stati Uniti, soprattutto durante la presidenza Biden e Trump, con picco esponenziale durante la presidenza Biden, tuttavia, tale incremento è circoscritto a stati repubblicani e guidati da governatori vicini all’ex presidente Trump, mentre, secondo i dati riportati da ALA e Pen America negli stati democratici il ricorso ai divieti è rimasto molto limitato, e in linea con quanto accadeva in passato, ovvero con il bando dalle scuole di testi anti-scientifici e anti-storici. Alla base di questo incremento dei bandi abbiamo le leggi promosse da DeVos e Trump durante la prima amministrazione Trump, leggi che come abbiamo visto in precedenza, hanno creato un clima culturale favorevole alla censura, attraverso l’adozione di politiche anti-scienza e pro-censura e che, durante la successiva amministrazione Biden, non sono state superate, e più precisamente neanche ci ha provato.

Censura fuori dalla scuola?

Finora abbiamo parlato di censura scolastica, di divieto di insegnamento, di bando dalle biblioteche pubbliche, ma fuori dalla sfera pubblica ci sono libri vietati negli USA?

La risposta più semplice è, tecnicamente no, ma è una risposta incompleta, perché se da un lato la costituzione garantisce la totale libertà di stampa e quindi è teoricamente consentita la possibilità di pubblicare qualsiasi libro, anche il più controverso, in realtà molte cose, per ragioni politiche e di sicurezza non sono e non possono essere pubblicate. Un editore non può ad esempio pubblicare un libro che divulga documenti classificati, o che insegna a costruire bombe, e più in generale, e se in alcuni casi gli editori non possono, in altri non vogliono. Di conseguenza molti editori, soprattutto quelli più grandi ed esposti, come anche in altre parti del mondo, preferiscono evitare la pubblicazione di libri che affrontino tematiche considerate controverse e problematiche. Religione, sessualità, identità di genere, questioni razziali, sia narrativa che saggistica, difficilmente arrivano al grande pubblico, da grandi editori ed autori alle prime armi. Dall’altro lato però, il fenomeno del self publishing negli USA è ampiamente diffuso, e la possibilità di pubblicare in totale autonomia, consente a molti autori di pubblicare, passatemi il termine, alcune delle peggiori porcherie letterarie di tutti i tempi, con una conseguente abbondanza di letteratura, come mai prima.

Il paradosso è che da un lato la letteratura anti-scientifica e controfattuale sta attraversando una fase fiorente, mentre la letteratura scientifica e narrativa , che affronta alcune tematiche politicamente calde, sessualità religione, orientamento sessuale, identità di genere, ecc è sempre più oscurata.

Conclusioni

La censura di libri negli Stati Uniti è un fenomeno complesso che riflette enormi tensioni culturali e politiche. Abbiamo visto come durante la presidenza Obama, nonostante il dibattito, lo scenario non era dissimile rispetto agli anni precedenti e il resto del mondo occidentale. Successivamente, con l’inizio della prima amministrazione Trump, ha avuto inizio anche quella che molti definiscono epoca oscura per la letteratura, un epoca che è continuata senza particolari tentativi di ammortizzazione sotto la presidenza Biden e che ora, durante il secondo mandato di Trump rischia di vedere la sua massima espressione, alimentata da numerosi membri del congresso che, durante la propria campagna elettorale, hanno portato avanti vere e proprie crociate, con tanto di lanciafiamme e roghi di libri, contro alcune forme di letteratura e temi letterari.

Politica: Tra filosofia, storia e sfera pubblica

Spesso ci riempiamo la bocca con la parola “Politica” usata in modo inopportuno, o peggio, dispregiativo, relegandola a determinati soggetti e categorie di persone, i soli che “possono fare politica” perché sono politica, e se non si fa ha questa etichetta, l’etichetta di politico, allora non si fa, non si può “fare politica”. Ma cos’è la politica, cos’è davvero la politica, cosa vuol dire fare politica e soprattutto chi è il politico, ovvero colui che fa politica?

Nell’uso comune spesso si intende la politica come qualcosa che fare con forme partitiche in qualche modo legate a governi e amministrazioni, ad una sorta di leadership gerarchica della società, ma se andiamo alla radice del termine e del concetto stesso di politica, possiamo osservare che in realtà politica è qualcosa di diverso, molto più semplice e per questo estremamente complesso.

Una delle definizione più semplicistiche e generali che possiamo dare del concetto di politica è “tutto ciò che ha a che fare con la sfera pubblica“, ma in questo senso apparentemente semplificato e generale, tutto può diventare politica. Ed è davvero così? Davvero tutto può diventare politica? un concerto, uno spettacolo teatrale, un dibattito, una scampagnata con gli amici, o delle semplici chiacchiere tra due individui, di persona o sui social, sono tutti esempi diversi di “politica”?

Partendo da questa definizione generale, che comprende letteralmente qualunque interazione tra due o più individui, tutto sembra essere politica. In questo articolo proveremo a “raffinare”, se così si può dire, su base etimologica, storica e filosofica, il concetto di politica.

Alle origini del termine

La prima cosa da individuare è l’etimologia della parola “Politica”, un termine che trova le proprie radici nel termine greco politeia (πολιτεία), parola già in uso e con un concetto ben radicato nella cultura greca classica. Questa parola designa l’essenza stessa dell’organizzazione politica come atto collettivo che si lega ad un altro termine, ben più noto, legato anch’esso alla cultura greca classica, ovvero polis (πόλις), la città-stato greca.

Per capire meglio il significato della Politica quindi, dobbiamo comprendere meglio anche il concetto di Polis, che non è solo un entità geografica e amministrativa, che incontriamo nella penisola ellenica tra il VI e il III secolo avanti cristo, ma anche è un vero e proprio modello di organizzazione etica e sociale, che regola la convivenza umana.

Ed è proprio in quel sistema sociale che nasce la parola politica. Al tempo e nel mondo polis greche infatti, incontriamo i primi utilizzi “formale” della parola politica, o meglio Politeia. Tra questi utilizzatori del termine incontriamo Platone con la sua “Politeia”, un opera meglio nota in italiano come “La Repubblica”.

La Politica in età classica

La Repubblica di Platone, è un opera monumentale, è uno dei testi più importanti della storia della Filosofia, ed è scritto nella forma di un dialogo con Socrate, vero protagonista del libro in cui il filosofo greco, attraverso il proprio maestro, cerca di rispondere alle domande sulla natura della giustizia, di fatto l’opera è per certi versi un indagine sulla natura della giustizia e sulla sua importanza nella vita dell’uomo e nella società e, tra le altre cose, Platone esplora diverse forme di governo, tra quelle note all’epoca ed ipotetiche, individuando con straordinaria lucidità e in maniera quasi profetica, alcune delle maggiori criticità delle democrazie moderne, come ad esempio la “sete di libertà”.

Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.

Platone

Per Platone il concetto di politica è fortemente legato alla moralità, alla conoscenza, alla giustizia e alla capacità del buon governante, che per lui deve essere un Re Filosofo, di prendere decisioni che beneficino l’intera comunità.

Come Platone, anche il suo miglior allievo, Aristotele, userà il termine politica, nell’opera Politica, in greco Tá politiká (Τά πολιτικά) per descrivere le varie forme di governo e la scienza che studia l’organizzazione delle Polis, per il maestro di Alessandro Magno, il politico non è solo un legislatore, ma è qualcosa di più, poiché la politica è finalizzata alla filosofia ed ha il dovere di creare condizioni ottimali affinché si possa coltivare la scholè (tempo libero) e le attività teoretiche (filosofia, matematica, fisica ecc).

Più semplicemente, per Aristotele politica, non si limita alla semplice amministrazione statale, ma implica una visione olistica del vivere politico, del vivere pubblico, per cui l’amministrazione e la ogni attore attivo di quel luogo e quello spazio pubblico in cui l’individuo realizza la propria natura di zoon politikón (animale politico). Ciò significa che i tre concetti moderni di politica, pubblico e sociale, per Aristotele coincidono in maniera totale, sono sovrapponibili e sostituibili, di fatto sono la stessa cosa e questo perché per Aristotele, politica non è solo amministrazione, ma anche socialità.

Cambiando “mondo” e spostandoci in avanti nel tempo di qualche circa 2 secoli, arriviamo alla Roma del primo secolo a.c., qui Marco Tullio Cicerone aggiunge il proprio contributo al concetto di Politica con il suo De Republica, in cui il filosofo latino associa la res publica alla legge intesa come fondamento della comunità e definisce la politica come una sorta di scienza del governo, concetto che, in forma più o meno diversa verrà ripreso a più battute in tutto il medioevo culminando con il realismo politico di Machiavelli per il quale la politeia diventa arte del potere, per cui la politica mente o come è più comunemente noto “il fine giustifica i mezzi“.

Possiamo quindi definire politica come un qualcosa che si compone di due elementi, esercizio del potere e partecipazione attiva alla sfera pubblica.

Chi fa Politica? Cittadini e governanti

Che la si guardi in ottica moderna, medievale o classica, la politica ha un forte legame con il pubblico e con il sociale, sia quando è esercizio del potere per governare il popolo, sia quando è espressione della volontà del popolo, sia quando è al servizio del popolo. Ma chi fa politica? chi è il politico?

Nella Grecia classica esiste il termine polites con cui ci si riferisce a coloro che partecipavano attivamente alla vita pubblica, esercitando diritti e doveri, potremmo tradurre questo termine con il moderno “politico” o “cittadino”. Apriamo allora una parentesi sul cittadino, nel mondo antico la cittadinanza era un concetto abbastanza ampio, al punto che in epoca Romana, incontriamo nello stesso stato diverse forme di cittadinanza che riflettono privilegi. Oggi la cittadinanza è qualcosa di diverso rispetto a come era concepita nel mondo antico, dove, semplificando moltissimo, era qualcosa di molto simile al concetto moderno di “sovranità popolare”, di conseguenza il cittadino contribuisce alla formazione della volontà generale e vi è pertanto un rapporto di reciprocità tra cittadino e governante, che insieme, e solo insieme, sono espressione autentica della politica.

Nel mondo classico il politico è in sostanza un attore attivo della vita pubblica, c’è sinergia tra il “politico e il governante”, per Platone i governanti dovessero essere filosofi guidati dalla saggezza e al servizio del benessere collettivo. Nel medioevo tuttavia, Machiavelli rovescia questa prospettiva, descrivendo ne Il principe, il leader come un abile manipolatore delle circostanze, anteponendo la sopravvivenza dello stato alla virtù personale e dopo di lui Hobbes, nel Leviatano, teorizza un sovrano assoluto in grado di garantire sicurezza al popolo, il cui potere tuttavia non è immutabile ed è legittimato da un contratto sociale.

Abbiamo visto prospettive differenti, da Platone ad Hobbes, ma nella sostanza, il politico mantiene un elemento costante, ovvero il suo legame con la sfera pubblica. Politico e pubblico, continuano ad essere, nel XVII secolo, concetti sovrapponibili.

Il confine tra pubblico e politico?

Per gran parte della nostra storia, siamo arrivati ad Hobbes, ma in realtà ancora oggi, pubblico e politico sono concetti ampiamente sovrapponibili, risulta quindi necessario cercare di capire se c’è, e se c’è dov’è questa la linea di demarcazione tra Pubblico e Politico, cosa definisce l’azione politica?

Per Hannah Arendt la politica è l’essenza stessa dell’azione collettiva e della vita pubblica. Non si tratta più semplicemente di istituzioni, di procedure, ma di un esperienza umana fondamentale, che affonda le proprie radici nella capacità degli individui di agire insieme. La politica è a tutti gli effetti uno spazio d’incontro tra individui, un luogo di dialogo e di decisioni collettive, uno spazio vitale per il funzionamento delle democrazie.

La Politeia oggi

Oggi la Politica è un concetto dinamico, ridefinito innumerevoli volte nel corso dei secoli e dalle trasformazioni storiche e filosofiche, ma alcuni elementi sono sopravvissuti nel tempo, passando, almeno in Europa e nel Mediterraneo, dalle Polis all’impero di Alessandro a quello Romano, ai regni romano barbarici a gli stati nazione e le monarchie assolute europee, per poi sfociare negli imperi risorgimentali, nei totalitarismi e giungere, in fine, alle democrazie moderne.

Della politica oggi rimane fondamentalmente un amalgama sociale, che non è solo istituzioni statali, ma anche e soprattutto movimenti sociali, organizzazioni nazionali e internazionali, è dibattiti pubblici e digitali, mantenendo nel suo insieme un focus unico ancora fisso sull’ideale aristotelico del bene comune, che la storia ha piegato e adattato rendendolo ad oggi compatibile con un mondo follemente e ferocemente interconnesso, dove il “pubblico” supera ampiamente i confini tradizionali e dove, come scriveva Sandro Pertini, «la moralità dell’uomo politico consiste nel perseguire il bene comune».

Quella linea di demarcazione tra pubblico e politico a conti fatti, non l’abbiamo trovata e questo perché la sfera pubblica e sociale è qualcosa di interconnesso, in maniera indissolubile all’esercizio politico, è politica. D’altro canto però, negare l’appartenenza alla sfera pubblica e cercare di ostacolare la natura pubblica e sociale della politica, chiudere quello spazio collettivo, baluardo della libertà e della democrazia, aiuta alla creazione di terreno fertile per i sistemi totalitari, e non è un caso se nel proprio percorso storico, uomini come Mussolini, Hitler, Stalin, e qualsiasi altro dittatore mai esistito, abbiano costruito i propri regimi partendo proprio dalla censura e il “diritto alla censura”, rivendicando per se quella stessa libertà che negavano ai propri oppositori.

Si entra qui nel paradosso della tolleranza di Popper che possiamo esprimere parafrasando Luca Marinelli nei panni di Mussolini in M il figlio del Secolo “La democrazia è una cosa straordinaria, ti da la libertà di fare ogni cosa, anche di distruggerla”, e nel farlo, concretizza la profezia platonica dei Coppieri che ubriacano il popolo assetato di libertà, permettendo alla mala pianta della tirannia di germogliare.

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Le guerre civili somale, dagli anni 90 ad oggi

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questo articolo il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende degli anni ’90 con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo dell’ONU e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Le Vicende degli Anni ’90

Gli anni ’90 rappresentano un momento cruciale nella storia della somala, l’inizio del decennio, la fine del secolo e della guerra fredda su scala globale, coincidono in Somalia con la caduta del regime di Siad Barre, il generale somalo e segretario del Partito Socialista Rivoluzionario Somalo, che governò il paese ininterrottamente tra il 1969 ed il gennaio del 1991, da qui una sanguinosa “guerra di successione” meglio nota come guerra civile somala, che dura salvo brevi interruzioni, va avanti da oltre 30 anni.

Alla base del conflitto vi era la frammentazione del potere, la proliferazione dei signori della guerra già negli anni ottanta, sostenuti in maniera più o meno diretta dai diversi attorti internazionali. Sul piano politico la Somalia a cavallo tra anni 80 e 90 era una polveriera pronta ad esplodere, serviva solo qualcuno che accendesse la miccia e la miccia si accese con la fine della guerra fredda e la caduta di Siad Barre.

Il Crollo del Regime di Siad Barre (1991)

Siamo nel 1990, la Somalia è governata da oltre 30 anni dal generale Mohamed Siad Barre, ma il suo governo è attraversato da una profonda crisi politica, il popolo somalo vive un profondo malcontento, alimentato da tensioni etniche e rivolte armate contro il regime, così, il 26 gennaio 1991, il governo cade, ma, come anticipato, l’enorme frammentazione del potere porta ad una lotta per la successione che impedisce una transizione politica e porta il paese a sprofondare nel caos.

Nel gennaio del 1991 le truppe ribelli, guidate dal generale Mohamed Farrah Aidid entrano a Mogadiscio, ormai il dado è tratto, le forze governative vengono sconfitte, il presidente destituito e per Siad Barre non resta altra possibilità che la fuga, il generale lascia la città e cerca rifugio nell’area sudoccidentale del paese, regione governata da Mohamed Said Hers, genero di Siad Barre che lo aiutò, nel corso del 1991 e 92 nel tentativo di riprendere la capitale, ma senza successo e alla fine, nel 1992, Mohamed Farrah Aidid decretò l’esilio di Siad Barre.

L’Anarchia e il Ruolo dei Signori della Guerra

Mohamed Farrah Aidid controlla la capitale, ma non il paese, la frammentazione del potere che aveva messo in crisi il precedente regime sembra impedire la creazione di un nuovo stato unitario, e in assenza di un governo centrale, riconosciuto da tutte le fazioni, il paese si frammentò ulteriormente, dando vita ad in una miriade di territori controllati da signori innumerevoli signori della guerra e le loro milizia. Semplificando moltissimo, nessuno di loro riconosce l’autorità del governo centrale e tutti vogliono assumere il controllo del paese, ne consegue una veloce e sanguinosa escalation di violenze, con attacchi indiscriminati alla popolazione civile e saccheggi diffusi, alimentati da scarsità di cibo e acqua per via di una profonda carestia che colpì il paese tra 1991 e 1992.

La carestia colpì l’intero corno d’africa, e per quanto riguarda la Somalia, interessò soprattutto le regioni meridionali del paese, causando solo in Somalia, secondo le stime dell’ONU, la morte di circa 300.000 persone tra il 1991 e il 1992.

L’Intervento delle Nazioni Unite: UNOSOM e Operazione Restore Hope

La Somalia è devastata da una catastrofe umanitaria, aggravata dalla guerra civile che rende impossibile, alle organizzazioni umanitarie, la distribuzione di aiuti, si rese così necessaria la mobilitazione delle Nazioni Unite con la missione UNOSOM (United Nations Operation in Somalia). I caschi Blu dell’ONU, impegnati nella missione UNOSOM tuttavia, non furono in grado di contenere la violenza tra le fazioni in lotta.

La richiesta di aiuto della Somalia e dell’ONU viene accolta, se così si può dire, dagli Stati Uniti. L’amministrazione Bush aveva infatti necessità di un importante successo politico internazionale, così nel dicembre del 1992, a quasi 2 anni dall’inizio della guerra civile somala, venne lanciata l’Operazione Restore Hope. L’obiettivo era quello di garantire la sicurezza necessaria per la distribuzione degli aiuti umanitari, e a tale scopo venne inviato in Somalia un contingente militare di circa 25.000 soldati statunitensi.

I signori della guerra locali, che ambivano al potere nella regione, non videro di buon occhio la presenza militare straniera e anzi, la interpretarono in larga parte come un atto di ostilità e un nuovo tentativo coloniale. Mohamed Farrah Aidid, che controllava ancora Mogadiscio, fu uno dei principali detrattori della presenza straniera in Somalia e le crescenti tensioni tra le forze dell’ORH, e le milizie del generare Aidid, culminarono con la disastrosa Battaglia di Mogadiscio, avvenuta tra il 3 e il 4 ottobre 1993, durante la quale le forze speciali statunitensi, nel tentarono di catturare i luogotenenti di Aidid, vennero accerchiate e attaccate dalle milizie locali. Il bilancio della battaglia fu disastroso, centinaia di somali morti e 18 soldati USA.

Bush era entrato in Somalia in cerca di un successo politico e militare, ma ciò che aveva ottenuto era un disastro politico, l’opinione pubblica statunitense e internazionale spinsero per un ritiro immediato delle truppe, così, ad un passo dalle elezioni di metà mandato, del secondo mandato Bush, gli Stati Uniti lasciarono la Somalia. Era il 1994, e l’anno seguente, nel 1995 fu la volta dell’ONU.

La Somalia era un teatro bellico estremamente importante per l’ONU, perché si trattava del primo vero conflitto post guerra fredda, e il ritiro delle forze internazionali dal paese segnò quello che è forse il più grande fallimento della comunità internazionale nel tentativo di pacificare un paese devastato dalla guerra civile. La fuga della comunità internazionale lasciò la Somalia in uno stato di totale anarchia, immersa in un conflitto permanente che attraversò tutto il decennio.

Nella restante metà degli anni 90, la guerra civile continuò senza sosta, a spese soprattutto della popolazione civile. Soldati bambino, armi illegali, crimini di guerra, stupri di massa, segnarono una ferita indelebile nella memoria di un paese abbandonato a se stesso. In questo clima di disperazione, la fede divenne una risorsa essenziale per la sopravvivenza, e col tempo, un arma e strumento politico. Sul finire del decennio la Somalia vide un crescente aumento dell’influenza dei movimenti islamici favorita dall’assenza di un governo centrale funzionante. Se l’eredità etnica e culturale, il passato coloniale, e le lotte di potere avevano diviso la popolazione somala, l’Islam per molti, apparve come l’anello di congiunzione che poteva sanare la ferita del paese e portare alla nascita di una Somalia Islamica.

Le Rivolte Islamiche dei Primi Anni 2000

Arriviamo così agli inizi degli anni 2000, momento in cui la Somalia assume i tratti che avrebbe avuto nel successivo quarto di secolo. Il decennio di guerra civile appena trascorso aveva portato ad una crescente sfiducia nei confronti dei leader militari e di conseguenza ad un sostanziale declino dell’influenza dei signori della guerra, il cui potere fu presto ereditato dai movimenti islamici. All’inizio degli anni 2000 emersero in Somalia le prime Corti Islamiche, si trattava di gruppi che applicavano la Sharia e offrivano servizi di giustizia e sicurezza nelle aree sotto il loro controllo.

Queste corti grazie al sostegno della popolazione civile, stanca dell’anarchia e della violenza e desiderosa di una fase di serenità fisica e spirituale, riuscirono in breve tempo a pacificare diverse regioni del paese, e nel 2006, molte di queste Corti si unirono nell’Unione delle Corti Islamiche (UCI) che riuscì a prendere il controllo di Mogadiscio e di gran parte della Somalia meridionale.

Sotto la guida dell’UCI, la Somalia meridionale conobbe un periodo di relativa stabilità. Tuttavia, la loro ascesa di uno stato Islamico nel corno d’africa, fu visto come fonte di preoccupazione dai paesi vicini e dalla comunità internazionale, quella stessa comunità che aveva abbandonato la Somalia a se stessa. Siamo nel 2006, la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, hanno già conosciuto il lato violento e feroce dell’estremismo islamico, e soprattutto, si è ormai affermato il principio di guerra preventiva, coniato da G.W. Bush e Tony Blair. Così, su richiesta dell’Etiopia, altra ex colonia Italiana nel corno d’Africa, e il sostegno degli USA, sul finire del 2006 fu avviata un operazione militare finalizzata a rovesciare l’UCI e sostenere l’instaurazione di un Governo Federale di Transizione.

Ci troviamo in una delle fasi più controverse della storia moderna, la Somalia, che da oltre un decennio è abbandonata a se stessa e vive una profonda guerra civile, è stata, in parte, finalmente pacificata da un movimento Nazionalista Islamico, e la comunità internazionale, temendo possibili evoluzioni di questo movimento che è riuscito là dove gli USA e l’ONU, 10 anni prima hanno fallito fuggendo con la coda tra le gambe, decide di portare nuovamente la guerra e morte in quell’angolo di mondo già martoriato e stanco.

Il Ruolo degli Stati Uniti nel Conflitto

come abbiamo visto, l’UCI si espanse rapidamente in Somalia, sfruttando la fede islamica come elemento comune e di appartenenza in grado di superare le diversità ideologiche, etniche e culturali che invece avevano alimentato i conflitti tra clan degli anni 90. Il suo crescente potere e la sua crescente influenza nel paese però, preoccupava la vicina Etiopia, che mal vedeva la formazione di uno stato islamista radicale ai propri confini, e dall’altra parte del mondo, gli Stati Uniti, impegnati in una guerra su larga scala contro il terrorismo e l’estremismo islamico, e soprattutto, sotto la guida di George W. Bush che era il dell’uomo che 10 anni prima aveva sostanzialmente ordinato “la fuga” degli USA dalla Somalia, e forse cercava una qualche rivalsa storica per il proprio nome, decise di sostenere e spingere l’Etiopia nel conflitto contro la Somalia, così, nel dicembre 2006, l’Etiopia, sostenuta dagli Stati Uniti, lanciarono una prima offensiva su larga scala alla Somalia.

L’invasione della Somalia da parete dell’esercito etiope, meglio equipaggiato e addestrato, grazie al sostegno degli USA, riuscì in poco tempo a sconfiggere le forze dell’UCI che furono costrette a ritirarsi. Diversamente dalla precedente battaglia di Mogadiscio, questa volta per gli USA fu un successo e nel dicembre del 2006 la città era passata sotto il controllo etiope e del governo federale di transizione somalo (TFG), sostenuto dalla comunità internazionale.

La Resistenza Islamista e la Nascita di Al-Shabaab

La sconfitta a Mogadiscio dell’UCI e la fuga dei propri leader segnò la fine del movimento, ma non della guerra civile che anzi, riprese con maggior vigore. Dalle ceneri dello sconfitto UCI, come successo nel 91 con la fine del regime di Siad Barre, nacque una nuova formazione, ancora oggi attiva in Somalia, ovvero Al-Shabaab, un gruppo nazionalista islamico, più radicale delle precedenti corti islamiche, considerate troppo moderate. Fin dal 2007 Al-Shabaab è impegnata in uno scontro diretto contro le le forze etiopi e il governo federale somalo, utilizzando prevalentemente tattiche di guerriglia che hanno portato all’organizzazione il sostegno di numerosi gruppi jihadisti internazionali, tra cui al-Qaeda. Il movimento panislamico somalo si è radicalizzato soprattutto nelle aree rurali del paese dove, per via dei dissesti causati da oltre 20 anni di guerra, il governo federale aveva (ed ha tutt’ora) difficoltà ad imporsi.

Per quanto riguarda l’Etiopia invece, la loro permanenza in Somalia è durata circa 2 anni, tra il 2006 ed il 2008. Nel 2008 le forti pressioni internazionali e il timore che Al-Shabaab potesse portare lo scontro anche in Etiopia, spinsero l’Etiopia a dare inizio al proprio ritiro dalla Somalia, lasciando così il paese nelle mani del governo federale somalo, sostenuto dalla comunità internazionale.

Nel 2007, l’Unione Africana entrò in Somalia a sostegno del Governo Federale, e nell’ottica della pacificazione del paese e la lotta ad Al-Shabaab, dispiegò nel paese le forze della missione African Union Mission in Somalia (AMISOM). La missione AMISON ottenne quasi immediatamente il sostegno della comunità internazionale, soprattutto deli Stati Uniti e riuscì ad ottenere, alcuni importanti successi, senza però mai riuscire ad eliminare completamente la minaccia islamista.

Da Al-Shabaab all’ISIS

La parabola islamista della Somalia è stata in un certo senso discendente, i primi movimenti erano fortemente nazionalisti, e, per quanto radicali erano abbastanza moderati, se infatti l’UCI da un lato applicava la Sharia, dall’altro tollerava e permetteva la convivenza con altre religioni, e fondava la propria politica sulla pacificazione attraverso l’Islam, dall’UCI si passa però al più radicale Al-Shabaab, che a differenza dell’UCI è un gruppo jihadista nazionalista somalo, affiliato ad al-Qaeda, ma il cui interesse è circoscritto alla sola Somalia, tale movimento nel corso degli anni ha subito numerose trasformazioni e, come molti dei gruppi affiliati ad al-Qaeda, ha visto, soprattutto a partire dal 2015, una progressiva radicalizzazione e trasformazione che ha avvicinato sempre di più, alcune frange del movimento, al califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.

Il 2015 in effetti, per la Somalia è un altro momento di rottura. L’ascesa e avanzata in Iraq e Siria dell’ISIS, e la sua rapida diffusione in gran parte del mondo Islamico, attrae alcuni esponenti di Al-Shabaab, il movimento fino a quel momento era stato legato ad al-Qaeda, con cui condivideva ideologia, strategie e supporto logistico. Strategie che però non avevano mai avuto l’impatto e soprattutto portato i risultati che invece stava ottenendo l’ISIS, così, diversi comandanti di al-Shabaab videro nell’ISIS il futuro della propria jihad e considerando il califfato più dinamico e influente rispetto a quanto non fosse in quel momento al-Qaeda, decisero di staccarsi al-Shabaab e giurare fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi.

Nasce così, nella regione settentrionale della Somalia, Abnaa ul-Calipha, il gruppo che in sintesi rappresenta la costola somala dell’ISIS. Il leader di questo nuovo schieramento, che entra a gamba tesa nella guerra civile somala, è Abdul Qadir Mumin. Si tratta di un un ex predicatore e ideologo del gruppo che in pochissimo tempo farà della regione del Puntland la propria roccaforte. Si tratta di un area geograficamente e politicamente lontana dalle regioni controllate da Al-Shabaab, ben radicato nel sud del paese, ma anche lontano dal governo federale.

Dal 2015 in poi la Somalia è sostanzialmente divisa tra tre fazioni. Abbiamo un governo federale, sostenuto dalla comunità internazionale, che controlla la capitale Mogadiscio, nelle aree rurali del sud del paese si è radicato Al-Shabaab, erede dell’UCI, e fortemente nazionalista, mentre nelle aree rurali del nord del paese c’è Abnaa ul-Calipha, la costola somala dell’ISIS, staccatasi da Al-Shabaab, con ambizioni transnazionali.

Questa nuova configurazione della Somalia non lascia molto spazio al dialogo, soprattutto tra le due fazioni islamiste la cui rivalità si intensificò rapidamente. Al-Shabaab avviò immediatamente una campagna di epurazione, eliminando tutti i possibili sostenitori dell’ISIS e giustiziando numerosi militanti sospettati di un possibile tradimento. Lanciò inoltre numerosi attacchi contro le basi e i villaggi controllati dalla fazione rivale e lo stesso fece l’ISIS. La lotta intestina tra i due movimenti islamici portò in Somalia una nuova e forse più devastante ondata di morte e violenza, ma riuscì, in parte, a limitare l’efficacia operativa dei due gruppi jihadisti, permettendo, se pur in maniera limitata, un avanzata delle forze governative nelle aree rurali.

Nel contesto generale della guerra civile somala, la scissione di Al-Shabaab e la nascita di una fazione affiliata all’ISIS non ha fatto altro che complicare ulteriormente un quadro già disastroso, a tutto danno della popolazione civile. Il governo somalo e le forze internazionali, già impegnate nella lotta contro Al-Shabaab, hanno dovuto affrontare una nuova minaccia rappresentata dal più aggressivo gruppo affiliato all’ISIS. Mentre L’AMISOM e le forze speciali statunitensi hanno intensificato le operazioni contro entrambe le fazioni, cercando di prevenire un’ulteriore diffusione del jihadismo nella regione.

Gli Interventi degli USA in Somalia (2012-2025)

Dopo il disastro di Mogadiscio nel dicembre del 1994, gli Stati Uniti sono sempre stati molto cauti nell’intervenire in Somalia, e, per oltre un decennio, si sono tenuti a distanza dalla regione. L’ascesa dell’UCI nel 2006 ha portato ad un rinnovato interesse statunitense per la Somalia, e sebbene abbiano fornito un ampio sostegno, tra il 2006 ed il 2008 alle forze Etiopi e successivamente al governo federale somalo e dell’AMISOM, ma solo nel 2012, con l’inizio del secondo mandato di Barack Obama e l’elezione di Hassan Sheikh Mohamud, gli USA sono rientrati direttamente nel conflitto.

Con l’elezione id Hassan Sheikh Mohamud nel settembre 2012, gli Stati Uniti hanno intensificato la propria presenza militare in Somalia nel paese, iniziando una collaborazione diretta con l’AMISOM e le forze governative. Fino a quel momento gli USA si erano limitati ad addestrare e fornire armi alla Somalia e AMISOM, ma dal 2012 in poi, le forze amate USA, iniziarono ad intervenire direttamente contro Al-Shabaab. Il secondo mandato presidenziale di Obama fu caratterizzato da un massiccio utilizzo dei droni in operazioni belliche, sia in medio oriente e Afghanistan, ma anche in Somalia.

La partecipazione attiva degli USA alla guerra contro i movimenti islamici somali, portò nel 2014 all’uccisione di Ahmed Abdi Godane, leader di Al-Shabaab, causando una temporanea disorganizzazione all’interno del gruppo. Il suo successore, Ahmad Umar è tuttavia riuscito a riorganizzare e rafforzare Al-Shabaab portando a una ripresa delle offensive jihadiste.

Nel 2016 inizia l’era Trump, promuovendo un approccio più aggressivo nei confronti del terrorismo islamico. L’effetto della nuova politica è che dal 2017, il Pentagono ha ampliato l’autorizzazione all’uso della forza letale, aumentando in modo esponenziale il numero di raid aerei e operazioni speciali colpendo decine di obiettivi strategici, che però, spesso, come successo anche in epoca Obama, coinvolsero obbiettivi civili.

Sul finire del primo mandato presidenziale, nell’autunno del 2020, l’amministrazione Trump ha ordinato il ritiro della maggior parte delle truppe statunitensi dalla Somalia, pur mantenendo la capacità di eseguire attacchi aerei e operazioni di intelligence dalla vicina Kenya e da basi nel Golfo.

Il cambio della guardia tra Trump e Biden portò gli USA a riconsiderare la propria strategia militare in Somalia e nel 2022, il presidente ha approvato la reintroduzione di truppe speciali nel paese per rafforzare le forze locali e continuare le operazioni contro Al-Shabaab.

Tra il 2022 e il 2023 gli USA i raid aerei ed attacchi mirati da parte degli USA contro obiettivi strategici legati ad Al-Shabaab sono continuati senza alcun tipo di rallentamento, e anzi, con una certa intensificazione rispetto al 2021 quando il ritiro delle forze speciali dal paese voluto da Trump, aveva ridotto notevolmente la capacità operativa degli USA.

Nel gioco delle parti tra ISIS e al-Shabaab, la diminuzione della capacità operativa e logistica di al-Shabaab porta ad una nuova fase di crescita dell’ISIS che, nel 2024 è tornato ad essere oggetto d’interesse prioritario per le forze militari somale e statunitensi, richiedendo un coordinamento più stretto tra Washington e Mogadiscio e nel 2025, la nuova amministrazione Trump, a inaugurato la propria stagione militare, con un raid aereo che tra gennaio e febbraio, secondo quanto comunicato dallo stesso Trump, ha portato alla capitolazione di alcuni leader dell’ISIS somalo.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

Storia personale della guerra in Somalia – Igiaba Scego – Internazionale
Italia e Somalia – Ambasciata d’Italia Mogadiscio
Guerre civili, crisi climatica, terrorismo: dalla Somalia al Sud Sudan milioni di persone devastate dalla carestia – Valigia Blu
Conflitti dimenticati: Somalia, il collasso di una nazione – Progetto Melting Pot Europa
La guerra civile in Somalia timeline | Timetoast Timelines

Trump chiede a 3 milioni di dipendenti federali, di dimettersi ed essere pagati fino a settembre

Il taglio della spesa pubblica, attraverso il licenziamento del 60% della forza lavoro federale, era non programma elettorale di Donald Trump, non c’è quindi da sorprendersi se il presidente ha mosso i primi passi in quella direzione, ciò che invece lascia sconvolti è la modalità con cui quel primo passo è stato fatto, si perché a quanto apprendiamo dalla stampa internazionale, Trump inviato una mail ai dipendenti federali, chiedendo loro di dimettersi, in cambio di una buona uscita di 8 mesi e un grazie da parte dell’amministrazione.

Per dimettersi i dipendenti devono semplicemente rispondere alla mail con “Resign”. Facile no?.

Nella mail si parla di nuovi standard di idoneità e condotta, di affidabilità e soprattutto, di lealtà, non all’America, quella la si dimostra “dimettendosi”, ma Trump. In altri termini, puoi lavorare per il governo se sei leale a Donald Trump, altrimenti via, e ti conviene dimetterti, così almeno ottieni una buona uscita di 8 mesi di stipendio, altrimenti, se non risulterai idoneo, avendo condiviso sui social critiche al presidente, non essendo iscritto a Truth, avendo sostenuto Kamala Harris, verrai cacciato.

Ok, questo non è detto esplicitamente, nella mail si parla soltanto di nuovi standard di lealtà e merito, ma è anche vero che da anni Trump sta attaccando il “deep-state”, uffici e dipendenti pubblici, di cospirare contro di lui, ed è quindi abbastanza evidente che in questi nuovi standard di cui non si conoscono ancora i dettagli, vi sarà quasi certamente un riferimento al presidente eletto più che al partito del presidente.

Ma Trump può davvero licenziare in massa 2/3 dei dipendenti federali?

In realtà no, non può farlo, o meglio, può, muovendosi all’interno di determinati limiti, standard e regole che però, potrebbero portare al licenziamento di numerosi fedeli trumpisti. Può infatti provare a mischiare le carte in tavola, con un ordine esecutivo, ma quell’ordine esecutivo, esattamente come quello relativo allo Ius Soli, verrebbe quasi certamente bloccato dalla corte suprema, per via di una serie di leggi che trascendono i poteri del presidente.

Di queste, la prima, forse più importante, è il Civil Service Reform Act (CSRA) del 1978, che già nel 2020 Trump ha provato ad aggirare con l’OE 13957 (ci torneremo più in avanti). Questa legge, molto brevemente, istituisce il principio di “merito” nel servizio pubblico, principio che sostanzialmente vieta i licenziamenti basati su motivi politici, discriminazioni o azioni arbitrarie. Perché si, prima del 1978 e della presidenza Carter si poteva licenziare, anche a livello federale, qualcuno perché nero, messicano, italiano, repubblicano o democratico, a seconda della presidenza. Solo con la presidenza Carter questo enorme problema viene superato, anche se solo parzialmente, perché il CSRA è comunque una legge e non un emendamento della costituzione, e quindi in realtà, il presidente può, con un ordine esecutivo, provare a sospendere, abrogare o più semplicemente modificare i limiti del CSRA, che è quello che ha fatto nel 2020.

Il CSRA non si limita a questo, la legge infatti prevede che sia un agenzia indipendente ed esterna, a valutare caso per caso eventuali licenziamenti pubblici. Questo significa che tecnicamente, il DOGE guidato da Elon Musk, in quanto agenzia/dipartimento, voluto dall’amministrazione Trump e legato all’amministrazione Trump, non dovrebbe avere l’autorità per indicare chi dovrà essere licenziato e chi no.

In teoria questa è una buona notizia per i dipendenti pubblici statunitensi che non hanno votato Trump o che si sono sbilanciati contro il presidente, in pratica, non lo so, perché in realtà nulla impedisce a Musk o qualsiasi altro imprenditore vicino a Trump, di fondare un agenzia di valutazione privata, e a Trump di assegnare a quell’agenzia di comodo, il compito di valutare e indicare chi licenziare.

L’altra legge che tutela, in parte, i lavoratori pubblici statunitensi è il Pendleton Act, del 1883, che sostanzialmente, mette fine allo spoils system e introduce nuovi criteri per assumere e licenziare i dipendenti federali, stabilendo che, gli unici dipendenti federali che possono essere assunti e rimossi dai propri incarichi, in maniera arbitraria, sono i dipendenti che ricoprono posizioni politiche, i membri del gabinetto, eventuali consiglieri presidenziali e dipendenti in posizioni “confidenziali” ovvero direttori e vicedirettori di agenzie governative.

Anche se la costituzione USA non prevede il caso specifico di licenziamenti di massa, il quinto emendamento, del 1791, che abbiamo imparato a conoscere da film e serie tv, lo stesso emendamento che sancisce il diritto a non autoincriminarsi, prevede anche che il governo possa privare una persona della proprietà senza un giusto processo, e questo diritto, grazie alla sentenza della corte suprema del 1985 (Cleveland Board of Education v. Loudermill) si estende anche al lavoro. In altri termini, per licenziare un dipendente federale è necessario, oltre al preavviso, garantire a questi la possibilità di contestare le accuse.

Il caso dei tagli strutturali

Lo scenario in cui si trova l’America in questo momento, riguarda una riorganizzazione delle risorse, in altri termini, entrano in gioco le normative in termini di tagli strutturali e riduzione del personale.

Come anticipato, già nell’ottobre 2020, sul finire del primo mandato e a pochi giorni dalle elezioni, Donald Trump ha provato ad aggirare le normative sul ridimensionamento e licenziamento dei dipendenti pubblici, emanando l’Ordine Esecutivo 13957 con cui eliminava lo “Schedule F” e riclassificando alcuni ruoli tecnici come posizioni politiche che, come abbiamo visto in precedenza, per effetto del Pendleton Act, possono essere nominati e revocati, assunti e licenziati, a discrezione del presidente. L’ordine Esecutivo 13957 è stato revocato nel 2021 dal neoeletto Joe Biden, tuttavia l’intervento di Biden si è limitato ad annullare il precedente ordine esecutivo e non è invece stato prodotto alcun atto normativo che impedisse di convertire determinate categorie di dipendenti pubblici in posizioni politiche, pertanto, Trump potrebbe tirare fuori dal cassetto il suo vecchio OE e riproporlo in chiave moderna, in questo modo renderebbe politiche alcune categorie di dipendenti ottenendo così il potere di licenziare in maniera arbitraria.

Potere che, come già detto, e ci tengo a ripeterlo, ad eccezione di ruoli politici e confidenziali, il presidente non ha. Significa quindi che il presidente non può licenziare in massa e in maniera discrezionale, circa 2/3 del personale federale, come promesso in campagna elettorale e comunicato via mail a 3 milioni di dipendenti pubblici.

I nuovi standard di merito e lealtà di cui si parla nella mail, prima di diventare realtà, dovranno essere approvati dal congresso e non possono essere imposti con un ordine esecutivo.

Può però richiedere un ridimensionamento dei pubblici uffici, e ottenere così la creazione di apposite commissioni che dovranno decidere al congresso, in che misura tagliare personale federale, rimanendo però all’interno delle normative vigenti, e questo significa che potenzialmente verrebbero licenziati più democratici che repubblicani, almeno secondo le stime del Cooperative Congressional Election Study del 2020, che ha rilevato che, circa il 60% dei dipendenti federali si identificano con il Partito Democratico, contro il 30% che si identifica con il partito repubblicano.

Nordio contro il Gioco di Ruolo… cosa dice la scienza?

In un recente intervento alla Camera, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio si è scagliato contro il Gioco di Ruolo, dichiarando che, possono causare gravi danni psicologici e sono associati ad episodi di suicidi.

Alle accuse di Nordio ha immediatamente replicato Federludo, la federazione italiana delle associazioni ludiche, contestando tali affermazioni ed evidenziando come il gioco di ruolo sia riconosciuto dalla comunità scientifica, per gli effetti benefici che ha sulla crescita della persona, lo sviluppo delle competenze sociali e il benessere psicologico. In sintesi quindi, l’esatto contrario di ciò che sostiene Nordio.

Ma chi dei due ha ragione? Cosa dice la scienza in merito? cerchiamo di capirlo ripercorrendo la storia del gioco di ruolo e soprattutto gli studi sul gioco di ruolo.

Breve storia del gioco di ruolo

Cominciamo col dire che il gioco di ruolo (“Role-Playing Game”, GdR) rappresenta un fenomeno culturale unico, che integra aspetti ludici, culturali, creativi, psicologici e sociali. Il nostro obiettivo non è trarre conclusioni, ma porci delle domande, cercando di essere il più possibile superpartes (e mi rendo conto che, da giocatore di ruolo, potrebbe essere difficile). Cercheremo comunque di tracciare in questa sezione la storia del gioco di ruolo, dalle sue origini che affondano in alcune intuizioni e pratiche psicoterapeutiche e nei wargame militari del XIX secolo, fino alla sua evoluzione in un fenomeno globale a partire dagli anni settanta e ottanta del XX secolo.

Il gioco di ruolo, inteso come dorma di intrattenimento basato sulla narrazione e l’interazione tra giocatori, come anticipato, affonda le proprie radici in due ambiti profondamente diversi, distinti ma allo stesso tempo complementari, ovvero la psicoterapia e i wargame.

Le prime forme di GdR infatti furono concepite come strumenti educativi e terapeutici, e ancora oggi la pedagogia moderna, suggerisce l’utilizzo del gioco di ruolo come strumento didattico, nel GdR però vi è anche una forte influenza dei giochi strategici militari, quale base strutturale della parte ludica, che ha permesso al gioco di ruolo di uscire dall’ambito terapeutico e e diventare un elemento ludico. In sintesi, il gioco di ruolo nasce come strumento terapeutico e didattico, per poi fondersi con i wargame, diventando un gioco a tutti gli effetti.

Più nello specifico il gioco di ruolo fa la propria apparizione, in ambito clinico, grazie ad un intuizione dello psichiatra Jacob L. Moreno che, negli anni 30 del novecento elaborò e sviluppò il concetto di psicodramma.

Lo Psicodramma è sostanzialmente l’antenato proveniente dalla psichiatria, del moderno GdR. Moreno infatti concepì lo psicodramma come un’esperienza in cui i partecipanti potevano esplorare emozioni, conflitti e ruoli attraverso l’interpretazione attiva di situazioni simulate. Con tanto di inversione dei ruoli tra i partecipanti, generalmente paziente e terapista, ma non necessariamente, lo psicodramma infatti superò rapidamente i limiti delle sessioni individuali, aprendosi a sessioni e terapie di gruppo ed è ancora oggi ampiamente utilizzato in percorsi di recupero collettivi. Questo approccio, all’epoca era estremamente innovativo in quanto incoraggiava i partecipanti a esplorare le proprie identità in modo sicuro e controllato, promuovendo il benessere psicologico e la crescita personale.

Nei propri scritti Moreno descrive lo psicodramma come una sorta di “teatro della spontaneità” in cui il soggetto può rivivere e affrontare situazioni difficili, reali o immaginarie, al fine di sviluppare nuove prospettive, nuovi punti di vista, elemento fondamentale per superare il trauma.

L’altro antenato del moderno gioco di ruolo sono i Wargame, ampiamente diffusi in Europa tra XVIII e XX secolo. Uno degli esempi di maggiore successo fu il Kriegsspiel, un wargame ideato da Georg Leopold Von Reisswits, un ufficiale prussiano, nel 1812. Questo “gioco”, era tutt’altro che ludico, si trattava in realtà uno strumento didattico e di addestramento tattico strategico, pensato per gli ufficiali prussiani che consentiva ai “giocatori” di simulare un campo di battaglia, disporre le proprie truppe e muoversi così in una battaglia simulata contro un altro giocatore al fine di trionfare in battaglia. Ancora oggi i Wargame sono ampiamente diffusi e utilizzati in campo militare, in versioni più raffinate e sofisticate, e rappresentano uno strumento essenziale per l’addestramento degli ufficiali della maggior parte delle forze armate del pianeta.

Nel XX secolo i wargame subiscono una trasformazione epocale, passano dall’essere uno strumento didattico militare a vero e proprio hobby per appassionati di storia e strategia. Alessandro Barbero, Storico e divulgatore italiano ad esempio, è un grandissimo appassionato di Wargame, e non è l’unico, nel corso dei miei studi in storia, mi sono imbattuto in innumerevoli docenti e studenti appassionati di Wargame. La fortuna dei Wargame Ludici arriva grazie a titoli come Little Wars di H.G. Wells, pubblicato nel 1913, per poi diffondersi, soprattutto in Europa, nel primo dopoguerra e negli anni 20 e 30, grazie anche ad una certa spinta da parte di politiche fortemente militariste che volevano cittadini perfettamente inquadrati in ranghi militari.

Dagli anni 30 in poi abbiamo quindi lo Psicodramma e successivamente il teatro dell’improvvisazione, come strumento terapeutico, che privilegia la narrazione e l’interpretazione e il Wargame, come strumento didattico e ludico che invece si focalizza su aspetti tattici e strategici, ed è solo negli anni 70 del 900 che questi due mondi si incontrano grazie a Gary Gygax e Dave Arneson, che diedero vita a quello che è per molti il primo gioco di ruolo moderno, ovvero Dungeon’s & Dragon’s (D&D), pubblicato la prima volta nel 1974 e che nel 2024 ha compiuto 50 anni, ha visto diversi aggiornamenti nel corso del tempo ed è ancora oggi ampiamente giocato e apprezzato, io stesso sono un giocatore di D&D anche se preferisco titoli più narrativi in cui il “potere decisionale” del dado è meno incisivo, come ad esempio i più moderni e narrativi Apocalypse World o Not The End.

Con l’avvento e la popolarità di D&D il gioco di ruolo, soprattutto negli anni 80 e 90, diventa un vero e proprio fenomeno culturale e nacquero numerosi altri giochi con elementi e caratteristiche più o meno simili tra loro, riuscendo a contaminare anche, a partire dagli anni 90, il mondo del videogioco, con la nascita dei primi RPG e più in avanti, grazie ad internet, dei GdR ByChat, e gli MMORPG.

Gioco di ruolo e scienza

Come abbiamo visto dalla sua storia, il gioco di ruolo nasce sostanzialmente dall’unione di wargame e psicodramma ma questo non ci dice ancora se effettivamente, come sostiene Federludo, aiuta il benessere psicologico o invece come sostiene Nordio, lo danneggia.

Cercando articoli relativi al gioco di ruolo su Google Scholar, motore di ricerca per le pubblicazioni accademiche e PubMed, la National Library of Medicine, sostanzialmente il più grande archivio digitale con pubblicazioni cliniche, troviamo per lo più articoli che parlano dei benefici del gioco di ruolo che, come anticipato, è ancora oggi ampiamente utilizzato in ambito didattico e terapeutico, sia in sessioni individuale che in sessioni di gruppo, inoltre, in ambito pedagogico è un eccellente strumento didattico.

Troviamo però anche altro, alcuni studi ad esempio suggeriscono che in casi rari, il coinvolgimento eccessivo nei GdR, e l’esposizione prolungata all’ambiente di gioco, possa portare a un distacco dalla realtà sociale. In tale senso l’articolo di Zaheer Hussain e Mark D. Grtiffiths, The attitudes, feelings, and experiences of online gamers: a qualitative analysis, del 12 Dicembre 2009, DOI 10.1089/cpb.2009.0059 rappresenta una delle principali e più autorevoli fonti scientifiche.

L’articolo però, va precisato, non parla propriamente di Gioco di Ruolo, quanto più della sua declinazione on-line, come si può infatti leggere nell’abstract, il soggetto dello studio sono “massively multiplayer online role-playing games (MMORPGs)” e non il GDR in sè.

Altro contributo degno di nota è il libro “Dangerous Games: What the Moral Panic over Role-Playing Games Says about Play, Religion, and Imagined Worlds” di Joseph P. Laycock, del 2015“, in questo libro, presente su Jstor, si affronta storicamente l’associazione del gioco di ruolo al satanismo e il panico satanista che si diffuse tra anni 80 e 90, e di come, studi successivi agli anni 90 , hanno dimostrato che queste paure erano infondate e alimentate da pregiudizi culturali.

Più interessante invece è il saggio “The Fantasy Role-Playing Game: A New Performing Art. McFarland” di Mackay, D. (2001), in cui si osserva come in alcuni soggetti vulnerabili, il gioco di ruolo potrebbe essere lesivo, amplificando le tendenze ossessive o dinamiche interpersonali problematiche. Nel saggio si osserva inoltre che queste casi sono tuttavia estremamente rari e non superiori ad altri hobby o giochi, più precisamente, questo tipo di effetto collaterale del gioco di ruolo, non è in realtà legato al gioco di ruolo ma al giocatore, e queste problematiche, per quei soggetti, si presenterebbero in qualunque hobby, compreso il gioco di ruolo.

Conclusioni personali

Per questa sezione metto un disclaimer, da qui in avanti ci saranno osservazioni personali, considerazioni soggettive, basate sulla documentazione scientifica presentata e citata nella sezione precedente.

La scienza ci dà risposte abbastanza chiare a proposito del gioco di ruolo, è probabilmente uno degli hobby e delle attività ludiche più sane che si possano avere, poiché stimola la creatività e le interazioni sociali. A differenza di altri giochi, quando giochi di ruolo, non puoi stare da solo, il gioco ti forza a collaborare con gli altri giocatori, a confrontarti con loro, e soprattutto ad interagire con loro. Si tratta di uno strumento incredibilmente potente, in grado di creare e rafforzare legami interpersonali, come nessun’altra tipologia di gioco è in grado di fare.

Come qualsiasi altro gioco tuttavia, non è esente da problematiche, e il rischio che i giocatori possano isolarsi e chiudersi in un mondo utopico e di fantasia, è presente, ma tale rischio riguarda prevalentemente soggetti fragili che ricadrebbero in quella stessa problematica con qualsiasi gioco, dal calcio al monopoly ai videogiochi, e come osservato e documentato in innumerevoli articoli scientifici e saggi, non è un problema che va dal gioco al giocatore, ma è un problema che parte dal giocatore e indipendentemente dal media, riguarda esclusivamente il giocatore.

Prendiamo ad esempio una persona con diverse difficoltà fisiche, impossibilitato per qualche motivo a muoversi e fare esperienza con il mondo. Quella persona non potrebbe viaggiare e potrebbe fruire del mondo solo ed esclusivamente in maniera passiva, attraverso la lettura, attraverso film, serie tv, ecc. Tuttavia, a quella persona, il gioco di ruolo, in particolare il gioco di ruolo on-line, offre un opportunità unica, gli offre la possibilità di vivere una vita che altrimenti gli sarebbe negata, di fare esperienze impossibili che i comuni mortali possono solo vedere in un film. Un giocatore di ruolo paralizzato dalla vita in già può vivere l’esperienza di lanciarsi all’inseguimento di un avversario fenomenale, e scegliere nella più totale e assoluta autonomia, senza alcun limite “meccanico” presente invece nei videogiochi.

In definitiva un giocatore di ruolo, nel momento in cui inizia il gioco, può essere eroe, esploratore, mente eccelsa o folle mercante, e fare qualsiasi cosa, dalla più nobile alla più deplorevole, e una volta finito il gioco, tornare alla propria routine quotidiana, e in questo, non c’è assolutamente nulla che possa danneggiare la sua psiche, perché semplicemente, nel gioco di ruolo, il giocatore sogna e gioca con la fantasia.

Personalmente trovo assurdo che un politico che ha calcato il palco di un festival che prende il nome di “Atreju”, il fantastico protagonista de la storia infinita, che esalta la fantasia, i sogni e l’immaginazione, possa dire che sognare, giocare con la fantasia e l’immaginazione è qualcosa che può apportare gravi danni psicologici. Come ci insegna proprio Atreju, l’uomo muore quando smette di sognare e il nulla divora ogni cosa.

Il pericoloso precedente delle rivendicazioni di Trump su Panama

Negli ultimi mesi dell’amministrazione Biden e nei primi giorni della seconda amministrazione Trump, il presidente degli USA Donald Trump ha più volte rilanciato un concetto, il canale di Panama appartiene agli USA, perché costruito e finanziato dagli USA, e la repubblica di Panama lo aveva ricevuto in “affidamento” come dono, ma tale dono può essere revocato dagli USA in qualsiasi momento e gli USA di Trump faranno di tutto per riprendersi il canale.

Argomentazioni che per qualcuno lasciano il tempo che trovano, per altri sono provocazioni , per altri ancora una dichiarazione di intenti e una concreta minaccia alla sovranità di Panama, e forse, tutte e tre le ipotesi sono vere, in misura differente.

Probabilmente si tratta di dichiarazioni radicali e provocatorie, volte a testare l’opinione pubblica internazionale e i limiti del diritto internazionale, per sondare con mano fin dove gli USA possono spingersi. Tuttavia, va osservato anche che tali dichiarazioni nascondono un pericoloso precedente, soprattutto per l’Europa.

La questione del canale di Panama in Europa appare lontana, interessa prevalentemente gli scambi navali tra Americhe ed Asia, e solo in misura marginale gli interessi Europei, o almeno così sembra.

Se si guarda più da vicino la retorica di Trump nasconde un concetto pericoloso, ossia la possibilità per gli USA di rivendicare la propria sovranità, ed esercitare diritti, ovunque gli USA abbiano investito negli anni, soprattutto se con fondi pubblici. E se il canale di Panama, costruito a ridosso della prima guerra mondiale, in America Latina, appare qualcosa di lontano dagli interessi europei, le infrastrutture europee, soprattutto in Germania, Italia, Francia e Regno Unito, costruite, ricostruite e ampiamente finanziate nel secondo dopoguerra con gli aiuti del Piano Marshall, lo sono un po’ meno.

L’Europa, distrutta dai bombardamenti di alleati e nazisti nella seconda guerra mondiale, è stata ampiamente ricostruita, ed ha potuto fondare la sua nuova economia, proprio grazie agli aiuti dell’European Recovery Program, meglio noto come Piano Marshall. Ed è proprio in quegli aiuti che si annida la minaccia all’Europa, rappresentata dalle rivendicazioni di Donald Trump sul canale di Panama.

Senza troppi giri di parole, così come Trump può dire che il canale di Panama deve “servire” gli interessi USA, perché è stato costruito dagli USA, lo stesso vale per l’industria europea, per i porti, ferrovie, autostrade, ecc, che negli anni 50 e 60 poterono prendere forma grazie agli aiuti USA.

Se si guarda ai dati puri, il canale di Panama ha visto investimenti per circa 2 miliardi di dollari dell’epoca, mentre gli aiuti del piano Marshall furono di circa 12 miliardi, solo in valore assoluto, senza contare l’inflazione, l’ERP costò diverse volte più della costruzione del canale, se però si tiene conto anche dell’inflazione, il dato appare sorprendente.

I 2 miliardi investiti per Panama ad oggi equivarrebbero a decine di miliardi di dollari, mente i 12 miliardi del Piano Marshall, equivarrebbero a diverse centinaia di miliardi di dollari.

Ad un primo sguardo può sembrare inverosimile e improbabile, che Donald Trump rivendichi gli aiuti del piano Marshall, tuttavia, non è proprio così, parlando infatti della Russia di Putin, in merito al conflitto in Ucraina, Donald Trump ha dichiarato che la Russia ha giocato un ruolo cruciale nella vittoria alleata della seconda guerra mondiale, e tale impegno non può essere “dimenticato”, insomma, l’Europa è in debito con la Russia, quindi bisognerebbe accettare le sue rivendicazioni, e se la Russia erede dell’Unione Sovietica, può rivendicare il solo impegno nella seconda guerra mondiale contro i regimi Nazi-Fascisti, gli USA possono rivendicare molto di più.

La retorica di Trump sta andando in una direzione pericolosa, una minaccia concreta per l’Europa, un Europa che, per il presidente è in debito con gli USA, e che non ha il diritto di opporsi ad essa.

Il debito europeo nei confronti degli USA si compone di 3 elementi, la liberazione dai regimi nazifascisti, la ricostruzione e la difesa attraverso il patto atlantico. E proprio in termini di NATO abbiamo le prime rivendicazioni di Trump sull’Europa, Trump chiede che l’Europa aumenti i propri finanziamenti alla NATO fino almeno al 5% del proprio PIL, una cifra significativa che, in vero, neanche gli USA coprono.

Secondo gli accordi, i membri della NATO contribuiscono all’alleanza, con investimenti per la difesa, stimati intorno al 2%, cifra ridimensionata rispetto agli anni della guerra fredda quando il contribuito era stimato intorno al 3% del PIL. Dal 1992 in poi, con la fine dell’URSS, i vari stati membri hanno progressivamente tagliato la propria spesa militare, arrivando ad investire mediamente tra l’! ed il 2% del PIL, ad eccezione degli USA, unico paese NATO ad aver mantenuto investimenti per la difesa nell’ordine del 3% del proprio PIL.

In conclusione, oggi Trump sta rivendicando la propria autorità sul Canale di Panama, e allo stesso tempo sta provando a determinare gli investimenti militari dei membri della NATO e dell’Europa, minacciando l’Europa stessa di conseguenza e ripercussioni se non si adegueranno al dictat statunitense. Usa un registro diverso, apparentemente più moderato, più amichevole, ma in realtà, l’argomentazione di fondo, appare la stessa, per Trump, l’Europa, così come Panama, “appartiene” agli USA, poiché gli USA l’hanno finanziata e resa libera. Una libertà di facciata dunque, con buon piacere dei cospirazionisti antiamericani, una libertà ad ore, un premio per i fedeli alleati ma che, per il presidente 47° presidente degli USA, Donald Trump, evidentemente può essere revocata in qualunque momento se ci si oppone alla sua volontà.

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