L’articolo originale è stato pubblicato il 18 aprile 1999 dall’allora primo ministro britannico Tony Blair, sulla rivista Neewsweek, a pagina 40. L’articolo è stato tradotto e pubblicato anche in italia il 4 maggio 1999 da La Rapubblica, come Dossier.
Segue la traduzione dell’articolo.
Chiunque, in Occidente, abbia assistito agli eventi del Kosovo non può dubitare che l’ azione della Nato sia giustificata. In una delle sue frasi celebri, Bismarck aveva detto che i Balcani non valevano le ossa di un solo granatiere della Pomerania. Ma chi ha visto i volti rigati di lacrime di centinaia di migliaia di rifugiati mentre attraversavano il confine, o ascoltato i loro strazianti racconti di atrocità, o immaginato il destino di chi è rimasto indietro, sa che Bismarck era in errore. Questa è una guerra giusta, basata non su ambizioni territoriali ma su valori.
Noi non possiamo permettere che continui l’ orrore della pulizia etnica. Non dobbiamo fermarci finché non si sarà invertita questa rotta. Abbiamo appreso per ben due volte, nel corso di questo secolo, che la pacificazione non serve. Se lasciassimo che un dittatore perverso spadroneggi incontrastato, alla fine dovremmo spargere infinitamente più sangue e più risorse per fermarlo. Ma la gente non chiede soltanto se avevamo ragione di intraprendere quest’ azione; vuole sapere anche se i nostri obiettivi erano chiari, e se riusciremo a conseguirli. I nostri obiettivi sono cinque: la cessazione verificabile di tutte le attività belliche e dei massacri; il ritiro delle forze militari, paramilitari e di polizia serbe dal Kosovo; il dispiegamento di una forza militare internazionale; il ritorno di tutti i profughi e il libero accesso di aiuti umanitari; e infine, un quadro politico per il Kosovo, basato sugli accordi di Rambouillet. Non negozieremo su questi obiettivi. Milosevic deve accettarli. Con la nostra campagna aerea abbiamo distrutto la maggior parte delle forze aeree operative di Milosevic, un quarto dei suoi sistemi radar Sam (mentre la parte restante non viene utilizzata per timore della sua distruzione), le sue raffinerie di petrolio e le vie di comunicazione verso il Kosovo, le sue infrastrutture militari, compresi gli strumenti di comando e di comunicazione, e buona parte dei suoi depositi di munizioni.
Il morale dell’ esercito jugoslavo sta incominciando a crollare. Mentre l’ Uck è ora più forte, e gode di un sostegno più ampio di quando Milosevic iniziò la sua campagna. Abbiamo sempre detto chiaramente che questa campagna richiederà tempo. Non potremo riportare il successo finché non siano entrate in Kosovo forze internazionali, che consentano ai profughi di far ritorno nelle loro case. Milosevic non potrà opporre un veto all’ ingresso di questa forza internazionale. Così come a mio parere non vi erano alternative all’ azione militare, ora che è iniziata non vi sono alternative al suo successo. Quella del successo è l’ unica strategia d’ uscita che sono disposto a prendere in considerazione. Ora dobbiamo incominciare a lavorare per ciò che verrà dopo il nostro successo in Kosovo. Quello che serve è un nuovo Piano Marshall per il Kosovo, così come per la Macedonia, l’ Albania e la stessa Serbia, se passerà alla democrazia. è necessario un nuovo quadro per la sicurezza dell’ intera regione dei Balcani. Dovremo inoltre assistere il Tribunale per i crimini di guerra per portare davanti alla giustizia chi ha commesso questi spaventosi crimini. Vent’ anni fa, non ci saremmo battuti nel Kosovo. Gli avremmo voltato le spalle. Il nostro impegno è il risultato di un’ ampia serie di cambiamenti: la fine della guerra fredda, il cambiamento tecnologico, la diffusione della democrazia. Ma i cambiamenti sono anche maggiori. Io credo che il mondo sia mutato in un senso più fondamentale. La globalizzazione ha trasformato le nostre economie e il nostro modo di lavorare. Ma la globalizzazione non è soltanto economica. è un fenomeno che investe anche la politica e i problemi della sicurezza. Molti dei nostri problemi interni hanno origine in un’ altra parte del mondo.
L’ instabilità finanziaria in Asia distrugge posti di lavoro sia a Chicago che nella mia circoscrizione elettorale, nella Contea di Durham. L’ indigenza nei Caraibi fa aumentare la droga per le strade di Washington e di Londra. Il conflitto nei Balcani accresce l’ afflusso dei profughi in Germania e negli Stati Uniti. Tutti questi problemi possono essere affrontati soltanto attraverso la cooperazione internazionale. Oggi siamo tutti internazionalisti, che ci piaccia o meno. Non possiamo rifiutare di partecipare al mercato internazionale se vogliamo la prosperità. Non possiamo ignorare le nuove idee politiche di altri paesi, se vogliamo innovare. Non possiamo voltare le spalle ai conflitti e alle violazioni dei diritti umani in altri paesi, se vogliamo rimanere al sicuro. Alla vigilia del nuovo millennio, viviamo ormai in un nuovo mondo. Abbiamo bisogno di nuove regole per la cooperazione internazionale, di nuove forme di organizzazione delle nostre istituzioni internazionali.
Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo creato una serie di istituzioni internazionali per affrontare lo sforzo della ricostruzione di un mondo devastato: Bretton Woods, le Nazioni Unite, la Nato. Già allora era chiaro che il mondo stava diventando sempre più interdipendente. La dottrina dell’ isolazionismo è caduta vittima di una guerra mondiale, quando gli Stati Uniti (insieme ad altri) si resero conto infine che quella di assistere passivamente non era una scelta da prendere in considerazione. Oggi, l’ impulso all’ interdipendenza è incommensurabilmente più forte. Stiamo assistendo al sorgere di una nuova dottrina sulla comunità internazionale. Mi riferisco con ciò all’ implicito riconoscimento del fatto che oggi siamo reciprocamente dipendenti, più di quanto lo siamo mai stati in passato, e che gli interessi nazionali sono governati in misura significativa dalla collaborazione internazionale; si avverte quindi la necessità di un dibattito chiaro e coerente sulla direzione in cui questa dottrina ci conduce in ogni campo dell’ impegno internazionale. Tuttavia, finora abbiamo sempre affrontato i problemi caso per caso. Siamo continuamente alle prese con il rischio di lasciare che dovunque siano le scene inquadrate dalla Cnn nei suoi continui spostamenti a fare da pungolo per indurci a prendere sul serio un conflitto globale. Abbiamo ormai dieci anni di esperienza dalla fine della guerra fredda. è stato certo un periodo meno facile di quanto molti avessero sperato, nell’ euforia seguita al crollo del muro di Berlino. Le nostre forze armate hanno avuto più che mai da fare per fornire aiuti umanitari, svolgere azioni deterrenti contro aggressioni a popolazioni indifese, sostenere le risoluzioni dell’ Onu e impegnarsi occasionalmente in guerre di più vasta portata, come quella del Golfo del 1991 e l’ attuale impegno nei Balcani. Possiamo vedere nelle difficoltà di quest’ ultimo decennio semplici ripercussioni della fine della guerra fredda? La situazione si stabilizzerà tra breve, o prefigura invece un modello destinato a estendersi in futuro?
Molti dei nostri problemi sono stati causati da due uomini pericolosi e spietati: Saddam Hussein e Slobodan Milosevic. Entrambi erano pronti a scatenare aggressioni perverse contro settori della propria comunità. Come risultato di queste politiche distruttive, entrambi hanno attirato calamità sulle proprie popolazioni. L’ Iraq, che pure avrebbe potuto mettere a frutto le proprie ricchezze petrolifere, è stato ridotto all’ indigenza, e le intimidazioni hanno soffocato la sua vita politica. Milosevic era alla testa di uno Stato etnicamente variegato, con notevoli risorse e buone possibilità di trarre vantaggio dalle nuove opportunità economiche. Ma a causa della sua ossessione per la concentrazione etnica, si ritrova oggi con un paese molto ridimensionato, un’ economia distrutta e presto anche un apparato militare azzerato. Una delle ragioni per le quali ora è tanto importante vincere il conflitto è assicurare che altri non commettano lo stesso errore in futuro. Questo è di per sé della massima importanza per assicurare che nel prossimo decennio e nel prossimo secolo vi siano minori difficoltà che in passato. Se la Nato dovesse fallire nel Kosovo, un dittatore che in futuro fosse minacciato di un intervento militare potrebbe non credere nella nostra risoluzione di dare attuazione alla minaccia. La fine di questo secolo vede emergere gli Usa come lo Stato di gran lunga più potente. Questo paese non sogna conquiste mondiali, né sta cercando di colonizzare terre. Gli americani sono fin troppo inclini a non vedere alcuna necessità di farsi coinvolgere negli affari del resto del mondo. Per i suoi alleati, la disponibilità dell’ America a farsi carico degli oneri e delle responsabilità inerenti al suo status di unica superpotenza è sempre motivo di sollievo e di gratificazione. Noi comprendiamo di non avere il diritto di dare per scontata questa disponibilità, e di dover contribuire a questo sforzo con il nostro impegno.
Da questa base ha preso le mosse una mia recente iniziativa, in accordo con il presidente francese Jacques Chirac, per migliorare l’ assetto difensivo dell’ Europa. Dobbiamo ora stabilire un nuovo quadro. La nostra esistenza in quanto Stati non è più minacciata. Oggi le nostre azioni sono guidate da una più sottile commistione tra i nostri propri e reciproci interessi e l’ intento di difendere i valori morali che ci stanno a cuore. In definitiva, i valori e gli interessi si fondono. Se possiamo stabilire e diffondere i valori della libertà, dello stato di diritto, dei diritti umani e di una società aperta, ciò corrisponde anche ai nostri interessi nazionali. La diffusione dei nostri valori ci garantisce una maggiore sicurezza. Come ebbe a dire John Kennedy, “la libertà è indivisibile. Se un solo uomo è schiavo, chi può dirsi libero?”. Il problema di politica estera più pressante è quello di identificare le circostanze nelle quali saremo attivamente coinvolti nei conflitti di altri popoli. La non interferenza è stata considerata a lungo un principio importante dell’ ordine internazionale. Non è un principio che si possa gettare a mare troppo facilmente. Uno Stato non può ritenersi in diritto di cambiare il sistema politico di un altro Stato, o di fomentare la sovversione, o di impossessarsi di parti di un territorio sul quale ritenga di avere dei diritti. Ma il principio della non interferenza deve essere qualificato per alcuni aspetti importanti. Atti di genocidio non possono mai costituire una questione puramente interna. Se uno stato di oppressione dà luogo a un flusso massiccio di profughi, tale da destabilizzare i paesi vicini, si può parlare a ragione di una “minaccia alla sicurezza internazionale”. Se un regime è dominato da una minoranza, perde la propria legittimità: si pensi al caso del Sudafrica. Se ci guardiamo intorno, nelle varie parti del mondo vediamo molti regimi antidemocratici, che commettono atti di barbarie. Se volessimo raddrizzare tutte le storture cui assistiamo nel mondo moderno, praticamente non potremmo più far altro che intervenire negli affari di altri paesi; e non saremmo in grado di far fronte a tutto. Quindi, come decidere quando e se intervenire? Io penso che dobbiamo attenerci a cinque principali considerazioni. Prima di tutto, siamo sicuri di ciò che sosteniamo? La guerra è uno strumento imperfetto per porre rimedio a drammi umani; ma le forze armate costituiscono a volte il solo mezzo per affrontare un dittatore. In secondo luogo, sono state esaurite tutte le possibilità della diplomazia? Dobbiamo sempre dare ogni opportunità alla pace, come abbiamo fatto in questo caso per il Kosovo. Terzo: a fronte di una valutazione pratica delle situazioni, quali operazioni militari possiamo intraprendere su basi di ragionevolezza e di prudenza? Quarto: siamo pronti al lungo termine? In passato abbiamo parlato troppo di strategie d’ uscita. Ma avendo preso un impegno, non possiamo semplicemente andarcene dopo la battaglia; meglio rimanere con una forza militare ridotta che dover tornare a ripetere azioni con un impegno militare maggiore. E infine, i nostri interessi nazionali sono coinvolti? L’ espulsione di massa della popolazione albanese dal Kosovo esigeva l’ attenzione del resto del mondo. Ma il fatto che ciò stia avvenendo in una parte così infiammabile del mondo modifica i termini del problema? Non intendo affermare che questi criteri debbano avere carattere assoluto; ma sono queste le questioni sulle quali dobbiamo riflettere al momento di decidere, in futuro, quando e se intervenire. Nuove regole potranno comunque essere funzionali soltanto quando avremo riformato le istituzioni internazionali che provvederanno alla loro applicazione. Se vogliamo un mondo fondato sul diritto e sulla cooperazione internazionale, dobbiamo sostenere l’ Onu come pilastro centrale. Ma è necessario trovare un modo nuovo per far funzionare l’ Onu e il Consiglio di Sicurezza, se non vogliamo tornare alla situazione di stallo che ha eroso l’ efficacia del Consiglio di Sicurezza durante la guerra fredda. Questo compito dovrà essere affrontato dai cinque membri permanenti del Consiglio una volta concluso il conflitto nel Kosovo. La Terza Via è un tentativo da parte dei governi di centro e di centro-sinistra di ridefinire un programma politico diverso rispetto alla vecchia sinistra come rispetto alla destra degli anni 80. Anche in campo politico, le idee si stanno globalizzando. Nella misura in cui i vari problemi – competitività, cambiamento tecnologico, criminalità, droga, crisi della famiglia – acquistano carattere globale, lo stesso deve avvenire per quanto riguarda la ricerca di soluzioni. Nelle mie conversazioni con i leader di altri paesi, non mi sono tanto sorpreso delle differenze quanto dei punti che abbiamo in comune. Ci troviamo tutti ad affrontare gli stessi problemi: come conseguire la prosperità in un mondo in rapida trasformazione economica e tecnologica, o la stabilità sociale, a fronte dei cambiamenti nella famiglia e nella comunità; il ruolo dei governi, in un’ era in cui abbiamo imparato che le cose funzionano male quando lo Stato è ipertrofico, ma ancora peggio quando è inesistente. La decisione più importante che dovremo affrontare nei prossimi due decenni è il rapporto della Gran Bretagna con l’ Europa. Per troppo tempo, l’ ambivalenza britannica nei confronti dell’ Ue ha reso irrilevante la nostra posizione in Europa, e di conseguenza ha sminuito la nostra importanza anche nei rapporti con gli Stati Uniti. Abbiamo finalmente sgombrato il campo da una falsa pregiudiziale: quella di dover scegliere tra due strade divergenti, vale a dire tra il rapporto transatlantico o l’ Europa. Per la prima volta da tre decenni, abbiamo un governo a un tempo europeista e filo-americano. Io credo fermamente che questo sia nell’ interesse della Gran Bretagna, ma anche in quello degli Usa e dell’ Europa.