King’s Valley, Luxor. L’archeologo Howard Carter, dopo anni di ricerca e dopo il sudato ottenimento di un’ultima campagna di scavo, scoprì un gradino: il primo dei sedici gradini di quella che si rivelò la sua più grande scoperta, nonché una delle scoperte più sensazionali dell’archeologia… La tomba di Tutankhamon. Era il 4 Novembre 1922.
Morto all’alba dei diciannove anni, il “faraone bambino” fu sepolto frettolosamente nella tomba di qualcun altro (si suppone fosse per l’alto funzionario Ay) molti furono i tentativi di nasconderla, a causa dell’eresia di suo padre Akhenaton che, insieme alla moglie Nefertiti, abbandonò Tebe ed il culto di Amon, spostandosi ad Amarna e dedicandosi al culto dell’Aton. Proprio grazie al tentativo di cancellare dalla storia la dinastia di faraoni di Amarna, la tomba di “Tut” è giunta a noi praticamente intatta. I tesori trovati al suo interno lasciarono e lasciano tutt’ora senza fiato. Tra di essi, però, un particolare risveglia la curiosità: una ciocca di capelli.
the elder lady
Un ricordo? Una mancanza, un vuoto incolmabile, una parte di cuore portata con sé anche nell’aldilà?
Una ciocca di capelli color rame, non riconducibile a nessuna mummia presente nel suo ipogeo, che però contribuì nella stesura dell’albero genealogico del famoso faraone della XVIII dinastia. Grazie a TAC ed analisi del DNA un sottile filo rosso ha collegato tra loro una serie di personaggi, riordinando i tasselli di un puzzle di cui si era persa memoria più di tremila anni fa.
Bisogna però fare un salto di qualche anno fino al 1898, anno in cui Victor Loret, un professore di egittologia a cui si devono le più grandi scoperte, individuò la KV35: tomba di Amenhotep II, figlio di Thutmosi III, anch’essa come molte altre tombe depredata. La prima bella sorpresa per Victor Loret fu quella di trovare la mummia del padrone all’interno della tomba, nel sarcofago. Però, è evidente che la mummia di Amenhotep II fosse stata ribendata e che il sarcofago non era il suo d’origine.
Nella stanza numero 1 dell’ipogeo, Loret trovò adagiate a terra le mummie di un uomo e due donne: la donna più anziana, “The elder lady“, è stata identificata pressoché subito, analizzandone proprio i capelli! Essa è la regina Tiy (chiamata anche Tiye o Teye), moglie di Amenhotep III e madre di Akhenaton. Tutankhamon, su base di esami del DNA, è risultato essere figlio naturale della donna giovane nella tomba di Amenhotep II, la quale è figlia di Amenhotep III e di Tiy.
Figlia di Yuya e Thuya, descritta da tutti in chiave positiva, regnò al fianco del marito con amore e dedizione fino alla sua morte, momento in cui salì al trono il figlio Amenhotep IV (Akenhaton). Tiy, nonostante l’eresia del figlio, rimase al suo fianco come regina madre, attribuendo le azioni di esso al tentativo di arricchire ed aumentare il potere della corona.
Non si hanno certezze sulla data della sua morte ma si ipotizza possa essere avvenuta attorno al 1338 a.C e che lasciò un grande vuoto. Si dice anche che il regno subì una fase di declino. L’imbalsamazione fu eseguita con grande attenzione, i lineamenti del viso sono riconoscibili e i capelli perfettamente conservati, la donna non aveva neanche un capello grigio. Nella tomba di Tutankhamon erano presenti sarcofagi in miniatura recanti il nome della nonna. Una nonna tanto amata, della quale portò con sé il ricordo nel suo ultimo viaggio.
C’è un punto fondamentale che allontana Reich dal marxismo ortodosso. Vale a dire che mentre Marx vedeva nella presa di coscienza dello sfruttamento il motore dei sommovimenti sociali, Reich si rende conto di vivere in una società – la Germania nazista – che non si ribella all’oppressione, anzi, la desidera – Hitler fu eletto a stragrande maggioranza dei voti, e la presa che ebbe sulle masse è ben nota. La questione è per Reich di capire come ciò avvenga, e come si possano gettare le basi della liberazione.
Secondo Reich, una leva fondamentale del potere è la repressione sessuale. Attraverso la repressione, la libido che non viene naturalmente soddisfatta può rifluire come passione distruttiva e sadica nelle atrocità del nazismo e della guerra. La repressione dell’individuo genera il servizio entusiastico dello Stato fascista.
Ecco dunque il punto di partenza per Deleuze: il potere non è qualcosa che venga imposto alle masse, al contrario, è da esse desiderato. Attraverso la repressione del desiderio si ottiene l’impotenza dell’individuo. Nei suoi studi su Spinoza, Deleuze può visualizzare “un corpo” nel suo sforzo – conatus – verso ciò che può aumentare la sua “potenza”. Un esempio ne è una bella canzone: essa permette a un corpo di realizzare una potenza, ossia la potenza di emozionarsi per una melodia;
DELEUZE: Obiezioni? [risata di Deleuze]. Divento triste, molto triste. Invece, quando metto la musica che amo, il mio corpo e la mia anima – è chiaro – si combinano con i suoni. Il significato di “la musica che amo” è, dunque: “la mia potenza aumenta”.
Esattamente il problema di Reich: egli nota un problema nei suoi pazienti, che non è l’impotenza erettile, bensì orgastica. I suoi pazienti hanno una buona potenza erettile, ma una scarsa capacità di provare godimento, una scarsa potenza nello sperimentare l’orgasmo. La repressione ha portato i pazienti a costruirsi un’armatura caratteriale che si è incrostata sul corpo, il che consente a Reich di esercitare delle pressioni sul corpo per liberarlo dalla tensione accumulata, correlativa della tensione psichica accumulata.
Le “passioni tristi”, come l’odio, il risentimento, sono il prodotto della repressione delle pulsioni e allo stesso tempo il principio produttivo della violenza fascista. Per questo gli studi di Deleuze su Nietzsche sono tanto importanti: attraverso l’annichilimento della potenza si arriverebbe all’odio per la vita e per ciò che è in grado di provare gioia, essendo incapaci di provarla.
Una soluzione possibile, che trova realizzazione nella pratica psicoanalitica di Reich, è quello della cura del paziente attraverso il suo proprio metodo. Un’altra, quella di una rieducazione della gioventù nella sfera sessuale, consentendogli di raggiungere il massimo soddisfacimento possibile. Tuttavia questo, non coincide con la liberazione vera e propria, bensì ne costituisce la condizione necessaria.
In Deleuze, specialmente nei due testi Anti-Edipo e Millepiani, la liberazione del desiderio dalla repressione familiare e dagli apparati di Stato è vista come mezzo di lotta a livello sociale, generando una guerra contro lo Stato, considerando la guerra un fenomeno di desiderio, una guerra contro lo Stato che però non mira ad impadronirsene; tale guerra, nella concezione di Millepiani, è destinata a non appropriarsi del potere, perché quello sarebbe il caso dei fascismi. Deleuze vedeva nel ’68 non una rivoluzione dove si stava prendendo possesso del potere o dei mezzi di produzione, bensì una rivoluzione del desiderio.
E’ quindi in sintonia con Reich (seppure con le dovute differenze) che si considera la liberazione del desiderio, il suo naturale soddisfacimento, come un grande strumento di liberazione.
Bibliografia
La questione è ampiamente trattata in Wilhelm Reich. La psicologia di massa del fascismo. Giulio Einaudi Editore s.p.a., Torino, 2009
Gilles Deleuze. Che cosa può un corpo?, ombre corte, Verona, 2013
Wilhelm Reich. La funzione dell’orgasmo. Dalla cura delle nevrosi alla rivoluzione sessuale e politica. Il Saggiatore S.r.l., Milano 2016
Gilles Deleuze. Nietzsche e la filosofia. Giulio Einaudi Editore s.p.a., Torino, 2002
Qualche giorno fa, in seguito alla scomparsa del premio nobel per la letteratura Dario Fo, il web è stato invaso da articoli in cui si ricordava e attaccava lo scrittore per il suo “oscuro” passato tra le fila dei “repubblichini” e successivo approdo post bellico nell’antifascismo.
Un cambio di bandiera radicale per un uomo dalla tormentata vita politica, che negli anni lo ha sballottolato letteralmente a destra e sinistra.
Da questi innumerevoli articoli e post comunque è nato un interessantissimo che ripropongo qui proverò a ripercorrere brevemente. E completezza allegherò a questo articolo un articolo di Enzo Tresca, pubblicato il 08 Febbraio 1978, in cui si presenta la “spiegazione” ufficiale fornita dallo stesso Dario Fo, per spiegare il proprio arruolamento tra le fila della RSI (Repubblica sociale Italiana, nota anche come Repubblica di Salò).
Stando alle dichiarazioni dello stesso Fo, Dario si unì alla RSI come “infiltrato” del movimento antifascista. Un incarico molto delicato e soprattutto molto rischioso, se fosse stato scoperto la sua vita sarebbe finita di colpo.
All’epoca dell’istituzione della RSI nel 1943, ovvero dopo la firma dell’armistizio, Dario Fo, nato nel 1926 aveva circa 17 anni, e quali che fossero le sue motivazioni, molto probabilmente la sua “scelta” fu influenzata dall’estero.
C’è però un grande problema, dell’incarico era molto rischioso e delicato, un infiltrato oltre le linee nemiche è una risorsa preziosissima e strategicamente importante, quale folle comandante l’avrebbe affidata ad un ragazzo senza alcuna esperienza condannandolo a morte certa ? Ma soprattutto come fece Fo a sopravvivere in quegli anni senza essere scoperto ?
Stiamo comunque parlando di un giovane ragazzo abbastanza gracile, non certo di 007.
Ad ogni modo, nella RSI dal 1943 al 1945 circa vivono sostanzialmente due tipi di italiani, quelli che hanno scelto di essere lì e quelli che non avevano scelta, perché nati in quelle terre e non poterono fuggire o perché trasportati lì forzatamente durante un qualche rastrellamento nell’Italia centro settentrionale o comunque non troppo più a sud della linea Gustav tra Volturno e Pescara, ed è tra questici uomini condotti con la forza in campi di lavoro che possiamo trovare molte delle “spie” della resistenza.
Tornando alle dichiarazioni di Fo, sembrano non esserci tracce di un trasferimento forzato al Nord, e il motivo della sua presenza nella RSI sembra legato ad una scelta personale. Sembra dunque che Fo abbia scelto di seguire e sostenere il “governo leggittimo del duce” per poi diventare , a guerra finita , un acceso sostenitore del movimento antifascista.
Questa conversazione radicale avvenuta nell’ultimissima fase della guerra, desta non pochi dubbi. Tuttavia sembra non esserci alcuna prova che possa dimostrare la veridicità di una o l’altra.
Per fare chiarezza in merito bisognerebbe spulciare ciò che resta dei registri di guerra della RSI e del Reich in Italia, per scoprire come Dario Fo giunse oltre i confini della linea Gotica che segnava il confine meridionale della Repubblica Sociale Italiana, e l’area di competenza del Feldmaresciallo tedesco Albert Kesselring, tra marea di Massa-Carrara ad ovest e Pesaro sulla riviera Adriatica ad est.
Concludendo, Dal punto di vista storiografico, le numerose dichiarazioni contraddittorie dello scrittore costituiscono un interessante punto di partenza per una ricerca di questo tipo, in grado di far chiarezza su quello che fu un fenomeno potremmo dire “tipico” dell’italia e degli italiani durante il biennio di guerra civile tra il 1943 ed il 1945. Molti uomini, soprattutto i più giovani, nati e cresciuti durante gli anni del regime, erano stati indottrinati ad una visione politica di un certo tipo, che dava loro un senso di appartenenza ed unità. Con la fine della guerra tuttavia, la condanna morale imposta a quel sistema politico si tradusse in un una potenziale messa al bando di chi si fosse dichiarato in qualche modo legato agli ideali del regime.
Va precisato che il ventennio fascista aveva plasmato intere generazioni di italiani, organizzando il ritmo delle loro giornate, e ridefinendo gli aspetti propri della cultura italica oltre che i rapporti sociali. Il militarismo si era insediato in ogni aspetto della società e della vita quotidiana, e quando il fascismo cadde, quella cultura non non cadde con esso, ma sopravvisse, trascinandosi tra i fanghi della guerra civile e ancora oltre, rimanendo assopita nella quotidiana memoria degli italiani nati e divenuti adulti in quegli anni.
Quando la guerra finì, si decise di condannare il fascismo ed i fascisti per i crimini compiuti in circa vent’anni di governo, ma questa condanna non si tradusse realmente in una vera epurazione degli ex-fascisti dall’organismo dello stato, anche perché almeno fino al 1943 “tutti erano stati fascisti” . La vera epurazione arrivò non nel 1945 o nel 1948 ma iniziò quasi vent’anni dopo, con la fine degli anni sessanta e settanta, ovvero quando iniziarono ad affermarsi sulla scena politica ed intellettuale italiana, uomini e donne, nati e formatisi in età repubblicana o che comunque avevano subito poco l’influenza e l’indottrinamento del fascismo.
Non è dunque un caso se nel 1978 Dario Fo e come lui moltissimi altri uomini di rilievo si sentiranno in dovere di condannare ufficialmente l’esperienza fascista, eventualmente giustificando il loro passato tra le camice nere. Un passato che in quegli anni poteva essere problematico, soprattutto per le figure di spicco della nuova cultura italica che in quegli anni prendeva forma.
Qualcuno parla di errore giovanile, qualcuno di incoerenza, qualcuno di sopravvivenza e adattamento al cambiamento, ma quale che sia la verità, probabilmente non lo sapremo mai, poiché non conosceremo mai i veri sentimenti e pensieri di un uomo. La sola cosa che possiamo fare è continuare a studiare, cercando di interpretare al meglio i segni e le testimonianze che ci sono state lasciate, scavando sempre più a fondo nel tentativo di ricostruire il momento di quella scelta nella sua interezza, e solo così, forse, potremmo sapere perché quell’uomo fece quella determinata scelta.
Quest’anno il Premio Nobel per la letteratura è stato assegnato da un autore, e per la prima volta da un musicista che apprezzo tantissimo, e fin dal primo momento in cui ho sentito della sua candidatura ho sperato che fosse lui a ricevere il prestigioso riconoscimento che negli anni ha premiato innumerevoli eccellenze. Il Nobel segna di fatto l’affermazione ultima, in questo caso per un autore e di un musicista, è l’ultimo tassello di un lungo percorso, di crescita che ha scandito la maggior parte della sua vita.
Il premio Nobel per la letteratura di questo 2016 è stato assegnato a Robert Allen Zimmerman, per chi non lo sapesse, è il vero nome di Bob Dylan, un uomo che con le sue parole e la sua musica ha saputo ispirare intere generazioni.
Molti considerano Dylan il padre della musica d’autore e della canzone impegnata, in effetti è probabilmente il cantautore impegnato più celebre in assoluto, tuttavia non è stato il primo, e grazie proprio al suo contributo e alla sua influenza ncertamente non sarà l’ultimo.
La musica d’autore americana, internazionale e anche quella italiana, deve a Bob Dylan un enorme tributo. Qualche tempo fa insieme a Michele Salaris abbiamo tenuto una diretta streaming su Youtube intitolata “Dylan & Son’s” in cui abbiamo parlavato di quanto e come Dylan avesse influenzato alcuni dei più autorevoli cantautori (italiani e non) segnando di fatto una nuova rotta per la storia della musica, rendendola qualcosa di più che un semplice strumento di intrattenimento, trasformandola in ciò che probabilmente, in fondo era sempre stata, ovvero, uno strumento di comunicazione, dei più immediati ed efficaci per raccontare una storia, e Dylan con le sue storie, con le sue parole ha descritto il mondo in cui viveva, la realtà più cruda di un mondo che stava cambiando, diventando in un certo senso uno dei pilastri di quei fermenti che sul finire degli anni sessanta iniziavano a diffondersi nelle nostre piazze e università, contaggiaando milioni di giovani e studenti di tutto il mondo.
Non sono così folle da indicare Dylan comme la sola ed unica colonna portante del sessantotto, quei fermenti esistevano e sarebbero esplosi comunque, a prescindere dal cantautore, Dylan semplicemente incalanò ciò che stava accadendo attorno a lui e sfidando le regole del mercato e i gusti degli americani (e non solo) divenne uno dei primi portabandiera di quel fenomeno culturale che in quegli anni iniziava ad avanzare.
Dylan cavalcò nell’avanguardia culturale di quegli anni, ponendosi alla testa di un esercito disarmato e intenzionato a cambiare il mondo, e Dylan stesso divenne uno dei simboli di quella generazione, riuscendo a sopravvivere al suo tempo per portare i suoi interrogativi fino a noi, e per molte generazioni a venire la sua musica continuerà a risuonare finché gli uomini avranno orecchie per ascoltare, poiché la risposta a quegli interrogativi, come disse lo stesso Dylan in una delle sue più celebri canzoni “the answer my friend is blowin in the wind“.
In quegli stessi anni, in quel vento, dispiegava le sue ali alzandosi in volo un altra grande forza, “parole che dicevano, gli uominii son tutti uguali”, questa forza avrebbe alimentato quello stesso vento caldo e avrebbe continuato a soffiare fino a quando gli uomini non avessero imparato ad ascoltare quelle parole, e, solo in quel momento quel vento avrebbe potuto finalmente posarsi, ma purtroppo, ancora oggi, quelle parole sono ignorate, costringendo quel vento a soffiare ancora.
Molti hanno criticato l’assegnazione del Nobel per la letteratura ad un “cantante”, reputando altri autori, soprattutto poeti e scrittori, decisamente più adatti a quel riconoscimento altissimo.
Io credo invece che non vi sia uomo più adatto di Robert allen Zimmerman, per ricevere il premio nobel per la letteratura nel 2016.
Credo che non vi sia uomo più adatto perchè le sue canzoni e le sue parole sono oggi più attuali che mai, poichè la miseria e la devastazione dell guerra, già cantate da Dylan nei primi anni sessanta, continuano ad affliggere ed insanguinare il nostro mondo, costringendo milioni di persone a fuggire e lasciare la propria terra, la propria casa, che ormai non è più una casa, ma un cumulo di macerie, e con essa tutti i propri averi, in cerca di un posto migliore in cui sopravvivere.
Quegli stessi uomini, donne e bambini in fuga dagli orrori della guerra, nel lungo pellegrinaggio perdono ogni cosa, compreso il proprio nome, e la propria storia… questi uomini senza volto diventando semplicemente dei numeri, numeri enormi che indicano masse in movimento, private della propria umanità, che di tanto in tanto, assumono il volto di qualche bambino mai nato o annegato, mentre i poveri sopravvissuti vengono chiamati “invasori” e a causa del proprio “egoistico desiderio di sopravivenza” sono messi al bando da uomini “che difendono la propria terra“.
Nel 1962 Dylan scriveva Blowin in the Wind, la cui prima strofa in italiano farebbe più o meno così “quante le strade che un uomo farà, prima di poteressere chiamato uomo ?“…
Non credo ci sia molto da aggiungere in merito, non credo ci sia molto da spiegare, il suo significato è fin troppo chiaro, e come dicevo, fin troppo attuale, basti guardare a ciò che ogni giorno accade lungo le coste del mediterraneo e lungo le frontiere europee (e non solo), basti guardare come vengono etichettati quegli uomini, donne, vecchi e bambini che, semplicemente, hanno avuto la sfortuna di nascere “dalla parte sbagliata di un muro” un muro che cresce giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, diventando sempre più alto.
Le muraglie costruite per mantenere fuori gli altri,”barbari invasori e raziatori“, non sono certo un’invenzione del nostro tempo, basti qui citare il celebre Vallo di Adriano, costruitoo dai Roma per tenere lontane le popolazioni celtiche a cui aveva strappato la propria terra, portando civiltà, modernità e progresso, che nessuno aveva chiesto, o ancora, la grande muraglia cinese, innalzata nel IV secolo avanti cristo per la medesima ragione, e ancora prima, le mura di cinta che proteggevano le antiche città.
Insomma, la nostra storia è piena di muri costruiti per migliaia di anni, al fine di dividere e separare gli uomini, creando la finta illusione di proteggere quallcuno dal nemico all’esterno, mentre il vero pericolo si nasconde da sempre dentro le mura.
La presenza di muri rende difficile percpire l’umanità di chi si trova dall’altra parte, ma basta un semplice sguardo dall’alto per capire che, sia dentro che fuori, vi sono uomini, donne, vecchi e bambini, e questi possono vivere insieme, basta semplicemente abbattere quei muri, ed è proprio questo che fanno da oltre sessant’anni le canzoni di Dylan, ci ricordano che ogni muro può essere abbattuto.
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un articolo di Rino Camilleri, pubblicato su Il Giornale intitolato “L’Impero romano ? cadde per le poche nascite e i troppi stranieri” l’articolo si basa sul libro “Gli ultimi giorni dell’impero romano”, un romanzo spacciato per saggio storico, scritto da Michel De Jaeghere, un giornalista francese, che sta facendo discutere la Francia per il presunto legame con l’attualità.
Non ho avuto modo di leggere il libro e se le premesse sono quelle esposte nell’articolo di Camilleri non sono molto interessato a leggerlo.
In questa sede mi limiterò a dare una risposta critica all’articolo e indirettamente al libro.
Per chi conosca un minimo la storia romana, saprà che la scala sociale sia in età imperiale che repubblicana, e addirittura in età monarchica, era molto dinamica, diciamo pure che il famoso “sogno americano” dove il figlio di un contadino può ambire a diventare presidente degli stati uniti d’america, all’epoca era il sogno romano, poiché anche l’ultimo degli schiavi, poteva ambire a migliorare la sua condizione e ascendere alle più alte cariche dello stato, non dimentichiamo che sotto Tiberio, i suoi liberti (ex schiavi dell’imperatore liberati) controllavano la burocrazia imperiale.
Certo, non era “facile” ma neanche impossibile.
Allo stesso modo gli stranieri, saranno un elemento fondamentale per l’ascesa e la crescita di Roma che già in età monarchica, vedrà tra i suoi re, un certo Tarquinio Prisco, e se detto così può non avere nulla di strano, le sue origini danno molto a cui pensare. Tarquinio Prisco, a differenza dei suoi predecessori non aveva origini Sabine ma Etrusche, di fatto era un forestiero che giunto a Roma si era arricchito fino a diventare talmente influente da ascendere alla monarchia.
Aggiungo un ultimo esempio, questa volta non politico, ma semplicemente economico, e che tocca da vicino il mondo religioso e il personaggio biblico di San Paolo, nato Saulo di Tarso. Stando al racconto Biblico, San Paolo una volta arrestato fu condotto a Roma per essere giustiziato, e fu giustiziato a roma perché cittadino romano. Paolo/Saulo non era nato a Roma, e come lui nessuno della sua famiglia probabilmente neanche erano mai stati nella capitale imperiale, e pure la sua famiglia era una famiglia romana.
L’esempio di Paolo è importante per ricordare che anche un forestiero poteva ottenere, conquistare o comprare la cittadinanza romana, e non solo negli ultimi anni dell’impero, ma già nella prima età imperiale e anche in età repubblicana.
L’immigrazione e la grande mobilità della società romana non sono la causa della sua fine, ma bensì la causa della sua ascesa. E trovo inammissibile che in un articolo (e spero nel libro non sia così, ma purtroppo non avrò mai modo di scoprirlo) di questo tipo, non si faccia alcun riferimento alla più grande e insostenibile delle spese che l’impero era chiamato a sostenere, ovvero il mantenimento dell’esercito permanente, una risorsa che per lungo tempo si era auto alimentata durante l’età delle espansioni, ma che da un certo momento in poi, divenne troppo costosa, rendendo necessarie diverse manovre di svalutazione della moneta, aumento della tassazione, e svendita della cittadinanza romana.
La causa del crollo di Roma, secondo questo articolo/libro, ha a sua volta una causa scatenante, ben precisa, e nota da tempo, che tuttavia non viene citata nell’articolo, creando confusione e caos.
Continuando a ragionare su questa linea, se davvero fosse vera l’ipotesi della fine dell’impero a causa della forte immigrazione, causata dai costi eccessivi dello stato romano, e soprattutto dell’esercito, allora, la riforma dell’ordinamento militare, realizzata da Gaio Mario tra il secondo ed il primo secolo avanti cristo, rappresenterebbe l’inizio della fine dell’impero romano, una fine iniziata prima ancora che Roma potesse raggiungere la sua massima espansione territoriale.
Questa situazione alquanto paradossale, solleva inevitabilmente molti dubbi sulla tesi di Michel De Jaeghere e del suo collega italiano Rino Camilleri, che probabilmente colpiti dall’enfasi del momento, hanno dato una lettura frettolosa e anti storica dei fatti.
Personalmente reputo la tesi poco mal concepita e soprattutto mal esposta, epurata di numerosi elementi fondamentali per la comprensione di una problematica estremamente ampia, e infinitamente più complessa di come viene proposta (nell’articolo) quale la fine dell’impero romano, una problematica talmente ampia che è impossibile ridurla ad uno ed un solo ed unico elemento.
Temo che, nella frettolosa euforia del momento, dettata dalla possibilità di dare una “motivazione storica” all’intolleranza e alle attuali crisi umanitarie, sempre più diffuse ai confini dell’europa, unita al desiderio di proporre un articolo provocante e soprattutto acchiappa click, il giornalisti non abbia effettivamente letto le oltre seicento pagine del testo di De Jaeghere, ne sfogliato un qualsiasi altro libro sulla storia di Roma, arrivando a proporre un articolo fuorviate, basato su un libro, temo dettato dalle medesime motivazioni.
Come dicevo, non ho avuto modo di leggere “Gli ultimi giorni dell’impero romano” e non credo di voler spendere più di 35 euro per acquistare un saggio storico, che propone una tesi anti storica.
Se amate la musica di Springsteen vi consiglio la lettura di Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni di Alessandro Portelli.
Ho avuto modo di assistere alla presentazione del libro e scambiare qualche parola con l’autore, uno storico appassionato, attualmente docente di letteratura anglo americana presso l’università degli studi di roma La Sapienza.
Alessandro Portelli, storico e critico musicale, autore del libro Badlands edito Donzelli
Il rock prima di Springsteen per quanto trasgressivo e audace era ancora impregnato di un certo tipo di poetica, che disegnava un mondo incantato e fiabesco, ma con Springsteen quel mondo va in frantumi e nuovi temi, decisamente più “maturi” e disincantati, più vicini alla quotidianità del ceto medio americano, irrompono nelle radio e sul palco donando un nuovo volto a quel genere musicale trasgressivo che fino a quel momento si era connotato di fasti ed eccessi fin troppo lontani dalla realtà.
Nella musica del Boss per la prima volta i sogni sono chiamati a fare i conti con la realtà rompendo la magia e l’incanto di quel mondo onirico descritto da mille canzoni, quel mondo che tutti sognavano ma che in pochi, per non dire nessuno, potevano avere.
Parafrasando le parole di Alessandro Portelli, prima di Springsteen tutti scopavano senza conseguenza, nessuna ragazza rimaneva incinta, nessuno si ammalava, nessuno aveva bisogno di lavorare, erano tutti felici e spensierati, come dei piccoli Gianni Morandi mentre andavano a comprare il latte, poi però quei ragazzi iniziano a crescere, e non c’è più la mamma a dar loro i soldi per andare a prendere il latte, e quel momento è il momento in cui arriva Springsteen che con le sue canzoni fa quel passo in più, si rompe la magia e si piomba nella cruda realtà. Il sesso non è più privo di conseguenze.
Nonostante ciò Badlands non è un libro che parla di musica, non solo almeno, ma usa la musica e nello specifico la musica e le canzoni del Boss per tracciare un ritratto della storia sociale e della cultura americana a partire dagli anni settanta fino ad oggi, mostrando la realtà che si cela oltre il velo dell’illusione, mostrandoci la vera america, quella vissuta e sudata tra campi e fabbriche, da contadini e operai, insomma, l’america del ceto medio che non possiede auto di lusso ma auto di seconda mano e vive in mastodontici condomini con così tanti appartamenti da rendere impossibile conoscere persino il nome dei propri vicini.
Il 7 aprile del 1498, il popolo fiorentino si rivolta contro il predicatore Girolamo Maria Francesco Matteo Savonarola, rivolta che avrebbe portato alla sua morte per impiccagione e successivamente fu messo al rogo, il 23 Maggio di quello stesso anno. Ma chi era Savonarola e perché i fiorentini arrivarono ad odiarlo così tanto ?
Per rispondere a questa domanda occorre fare un asso in dietro di oltre un decennio e tornare al 1487, anno in cui lasciò, all’età di 35 anni, il convento di San Marco che lo aveva accolto fin dal suo arrivo nella firenze medicea nel 1482. Prima di giungere a Firenze Savonarola aveva vissuto in un altra illustri città, roccaforte di una delle grandi famiglie mecenate dell’epoca, la natale Ferrara, dove la sua famiglia si era trasferita fin dal 1440, ma non fu l’unica, e prima di stabilirsi definitivamente a Firenze nel 1490, Savonarola viaggiò in molte città dell’italia centrosettentrionale.
Suo nonno Giovanni Michele Savonarola, uno dei più illustri luminari della medicina quattrocentesca, docente nell’università dell’originaria Padova e successivamente all’università di Ferrara, incarico che gli avrebbe permesso di legarsi alla famiglia d’Este, diventando Archiatra (una sorta di protomedico) personale di Niccolò III d’Este.
Alla scomparsa di suo nonno avvenuta nel 1468, Girolamo Savonarola fu introdotto allo studio delle arti liberali da suo padre Niccolò Savonarola. Tra le sue letture più appassionate vi furono i dialoghi di Platone, a cui dedico un appassionato commento purtroppo distrutto dallo stesso Savonarola, probabilmente perché non reputava se stesso nella posizione di poter commentare un classico del calibro di Platone. Col progredire dei suoi studi il giovane studente ferrarese si avvicinò ai testi aristotelici e al tomismo.
Nell’aprile del 1475 Girolamo Savonarola lascia la casa paterna e la natale Ferrara per entrare nel convento di San Domenico Bologna. Qui viene introdotto al noviziato dall’abate Giorgio da Vercelli e l’anno successivo sarà ordinato Suddiacono e per volontà dei suoi superiori indirizzato allo studio della teologia per diventare predicatore domenicano, nel 1482 sarebbe tornato a Ferrara giusto il tempo di ricevere la nomina che avrebbe segnato la sua vita, il 28 aprile 1482 fu nominato lettore del convento fiorentino di San Marco.
Qui, nella Firenze Medicea del 1482 inizia la storia nota di Girolamo Savonarola, il predicatore domenicano che si scagliò contro la decadenza e la corruzione della chiesa, i cui “cattivi pastori” si erano macchiati di crimini e peccati imperdonabili, omicidi, lussuria, sodomia, idolatria, credenze astrologiche, simonia, eccetera eccetera eccetera.
Ma procediamo con ordine, come dicevamo, Girolamo Savonarola giunge a Firenze con l’incarico di lettore del convento di San Marco, la cui parte monumentale fu progettata e realizzata dall’architetto Michelozzo, l’edificio sarebbe stato modello e della biblioteca laurenziana di firenze, mentre oggi è sede del museo nazionale di San Marco. Tornando a Savonarola, il suo accento romagnolo appariva barbaro alle forbite orecchie dei ricchi mecenati fiorentini, tra cui Lorenzo di Piero de’ Medici, meglio noto come Lorenzo il Magnifico, e come avrebbe scritto lo stesso Savonarola :
“io non aveva né voce, né petto, né modo di predicare, anzi era in fastidio a ogni uomo il mio predicare” aggiungendo poi che “ad ascoltare venivano solo certi uomini semplici e qualche donnicciola”.
Nonostante ciò, seguono anni di predicazioni itineranti, tra Firenze e San Gimignano in terra senese, poi, nel 1487 un importante evoluzione nella sua carriera “ecclesiastica”, Girolamo Savonarola viene nominato maestro nello Studium generale presso il convento di Domenico a Bologna, luogo in cui aveva conseguito i propri studi, nel quale sarebbe rimasto soltanto per un anno, poi, nel 1488 una nuovo incarico, questa volta nella natia Ferrara, dove fu assegnato al monastero di Santa Maria degli Angeli.
Il lavoro in monastero permise al Savonarola di muoversi e spostarsi più frequentemente che mai, non a caso, tra il 1488 ed il 1490 anno del suo ritorno a firenze, su richiesta esplicita di Lorenzo, Girolamo Savonarola predicò in numerose città tra cui Brescia, Modena, Piacenza e Mantova.
Come preannunciato, nel 1490 Lorenzo de Medici richiede esplicitamente al generale della compagnia dei frati predicatori l’assegnazione di “Hieronymo da Ferrara“.
Questa nuova esperienza in terra fiorentina sarà, almeno inizialmente, molto più fortunata e longeva, rimarrà infatti nella città medicea fino al momento della sua morte, condannato da quella stessa città che aveva invocato il suo ritorno, ma a questo arriveremo più avanti.
Fin dal suo ritorno Savonarola ottenne molto successo con le sue prediche, ascoltato e apprezzato soprattutto da poveri, scontenti, e soprattutto dagli oppositori della famiglia de Medici. Questo perché nelle sue prediche Savonarola non temette di denunciare la decadenza e la corruzione della chiesa, e non mancò di chiamare in causa, lanciando numerose accuse a governanti e prelati.
Il Magnifico più volte ammonì il frate domenicano affinché non continuasse su quella linea, ma il rinnovato spirito del predicatore era infiammato dai suoi più fedeli ascoltatori e seguaci, e ciò lo spinse a continuare imperterrito su quella strada che lo avrebbe condotto al priorato nel convento di San Marco nel 1492, quello stesso anno, il 5 aprile, un fulmine colpì la lanterna del duomo, l’avvenimento fu letto come un cattivo presagio dal superstizioso popolo fiorentino, presagio sembrò confermato dalla morte del signore della città Lorenzo de Medici avvenuta appena tre giorni più tardi. Qualche mese dopo, il 25 luglio morì anche Papa Innocenzio VIII, succeduto da Rodrigo Borgia che assunse il nome di Alessandro VI.
Rodrigo Borgia sembrava incarnare tutto ciò contro cui Girolamo Savonarola aveva sempre predicato, eppure quest’uomo dalla dubbia moralità era il nuovo pontefice, vicario di Dio in terra, capo e alla guida della chiesa cattolica romana.
Quasi contemporaneamente, a partire dal 1494, il re di Francia, Carlo VIII di Valois inaugurò una serie di campagne militari in Italia, campagne che Niccolò Machiavelli avrebbe definito, le “horrende guerre d’italia“. In questa sede non indagheremo ulteriormente le campagne d’Italia e la discesa dello stesso Carlo di Valois in Italia, ci basti sapere che nel 1495 Savonarola incontrò Carlo VIII di ritorno in Francia, questo incontro, avvenuto su iniziativa di Savonarola e destinato a ricevere parole di rassicurazione per il destino di Firenze, pare abbia suggerito a Ludovico Sforza detto Il Moro, signore di Bari, un’elaborata congiura per mettere fine ai legami tra Firenze e la Francia e strumento inconsapevole della congiura fu proprio Girolamo Savonarola.
La congiura ordita da Ludovico avrebbe al crescente rancore della popolazione fiorentina nei confronti del frate domenicano, e secondo alcuni, sarebbe alle origini della sua caduta. Senza disperderci troppo, cerchiamo di capire cosa accadde.
Ludovico il Moro denunciò di aver intercettato due lettere di Savonarola, probabilmente per screditarlo, una delle quali era indirizzata a Carlo VIII. La congiura pare abbia avuto successo e Girolamo Savonarola fu scomunicato nel 1497.
Per quanto riguarda la scomunica alcune teorie ipotizzano un intromissione nella vicenda di Cesare Borgia, figlio del papa Alessandro VI che, grazie all’aiuto di alcuni alti prelati a lui molto vicini, riuscì a produrre una falsa Scomunica, tuttavia questa teoria non è stata ancora dimostrata e di fatto si tratta di solo di una teoria, molto discussa e certamente molto affascinante, ma per il momento priva di basi documentarie, la cito in questo articolo soltanto perché considerata da molti come una nuova verità, e rappresenta sicuramente un interessante campo di indagine che coinvolge numerosi studi, filologici oltre che storici.
Tornando a Girolamo Savonarola, una volta perso l’appoggio francese e ufficialmente scomunicato, le antiche accuse politiche lanciate contro la famiglia de Medici, gli si rivoltarono contro. Al termine delle guerre d’Italia il partito dei Medici erano tornato al potere, mentre i Medici erano ancora in esilio e e non avrebbero messo piede a firenze prima del 1512. Savonarola, ormai in rovina sul piano politico, godeva soltanto dell’appoggio di qualche frate e dei “disperati” di Firenze, e una volta scomunicato, fu processato e condannato per eresia.
Stando alle cronache del tempo Savonarola ed alcuni frati si barricarono nel convento di San Marco, tentando in vano di resistere all’arresto avvenuto il 7 aprile del 1498 e meno di due mesi più tardi, il 23 maggio 1498, fu condannato a morte per impiccagione e successivamente messo al rogo.
Se non siete membri della Flat Earth Society dovreste sapere che la forma della Terra è, approssimativamente, sferica. L’ipotesi della Terra sferica fu proposta dai filosofi greci verso il VI secolo a.C. e già nel III a.C. secolo Eratostene riuscì a calcolare la circonferenza terrestre con incredibile precisione.
Da allora l’idea del globo non è stata più messa seriamente in discussione, nemmeno nel Medioevo, contrariamente a un noto pregiudizio diffuso nell’Ottocento. Rimase qualche dubbio solo sulla misura della circonferenza (clamoroso fu il fortunato errore di Colombo che la sottostimò fortemente), fino a quando la spedizione guidata da Magellano tra il 1519 e il 1522 (ma Magellano morirà l’anno prima) riuscì nell’impresa di circumnavigare il pianeta.
Ben prima di individuare la forma sferica, gli uomini si preoccuparono di fissare un centro ideale del pianeta, l’Ombelico del mondo. Questa idea, presente sin dagli albori dalla civiltà, perdurerà ben oltre la scoperta della forma sferica. La necessità di fissare un punto di origine è, infatti, ben più forte della banale constatazione geometrica che la superficie della sfera non ha un centro. Ancora oggi basti guardare un planisfero per costatare come siamo ancora legati all’idea eurocentrica, ma anche cinesi e americani si mettono al centro delle loro mappe.
Avete mai immaginato che il mondo si possa rappresentare anche così?
Tuttavia l’idea di Ombelico del mondo è molto più forte che semplici considerazioni geografiche, perché è quasi sempre intrinsecamente legata a convinzioni religiose.
Per i greci fu Zeus a trovare l’esatto centro del mondo. Il re degli Dei liberò due aquile agli antipodi, per scoprire dove si sarebbero incontrate. Questo luogo era Delfi e qui sarebbe sorto il più importante santuario dell’antichità, dedicato al dio Apollo. Il luogo dell’incontro è rappresentato da una pietra a forma di cupola che rappresenta l’Omphalos (l’ombelico), cioè l’esatto centro del mondo.
Omphalos di Delfi
Il santuario di Delfi era legato anche ai celebri responsi dati dal Dio tramite la sua sacerdotessa, la Pizia. La Pizia era scelta tra le vergini del luogo, dopo essersi purificata nella fonte Castalìa e aver bruciato nel tempio foglie di lauro (pianta sacra ad Apollo) e farina d’orzo. La sacerdotessa scendeva nella cella sotterranea (àdyton) e cadeva in una sorta di trance (forse indotta da fumi o sostanze naturali) nel corso della quale la divinità la ispirava. Per accedere alla profezia, i fedeli sacrificavano generalmente un animale e portavano doni in denaro.
Alla Pizia, però, non si poteva chiedere il futuro, ma solo se fosse opportuno intraprendere qualche cosa. I responsi erano spesso molto ambigui e di non facile interpretazione. Celebre è l’episodio di Creso, il re di Lidia, che chiese se fosse opportuno intraprendere una guerra contro i persiani. L’oracolo gli rispose che un grande impero sarebbe crollato e Creso, fiducioso, mosse guerra senza sapere che l’impero destinato a cadere sarebbe stato il suo.
Tempio di Apollo a Delfi
Dopo le guerre persiane, durante le quali il tempio tenne un atteggiamento ambiguo, il centro di Delfi perse progressivamente d’importanza. Il santuario rimarrà, comunque, attivo fino al 381 d.C., quando Teodosio I ne sancì la chiusura.
Una nuova religione aveva, infatti, preso il posto degli antichi culti: il mondo aveva bisogno di un nuovo centro.
Per gli ebrei il centro del mondo era situato nel tempio di Gerusalemme, dove era custodita l’Arca dell’Alleanza. Con l’avvento della religione cristiana e il declino del paganesimo, l’Omphalos da Delfi troverà una nuova collocazione all’interno della chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. In questa città, Santa per le tre grandi religioni monoteiste, gli uomini fisseranno il nuovo centro del mondo. Come Delfi, l’Omphalos di Gerusalemme è un luogo di contatto tra la terra, la divinità e il mondo ctonio (sotterraneo, gli inferi).
Mappamondo a T
Nel corso del medioevo saranno prodotti diversi splenditi mappamondi tutti con al centro Gerusalemme. I mappae mundi medievali erano molto diversi dalle moderne mappe geografiche, perché avevano uno scopo differente. Non erano un semplice strumento geografico, ma rappresentavano un mondo ideale costruito intorno alle Bibbia e a Cristo. Più che di rappresentazioni del territorio, si tratta di apparati simbolici atti a fornire la chiave cosmologica dell’universo cristianamente inteso. Ne consegue che i luoghi reali si mischiano con luoghi biblici come l’Eden o il monte del Purgatorio. I mappae mundi più grandi, come quello di Ebstorf, furono delle vere e proprie enciclopedie del sapere medioevale.
Mappamondo di Ebstorf
La tradizione dell’ombelico del mondo non è solo una pratica occidentale. Quasi tutti i popoli cercarono di stabilire il proprio centro ideale. Nel caso di Cusco, l’ombelico corrispondeva addirittura al centro dell’universo oltre che, similmente a Delfi e Gerusalemme, essere il luogo d’incontro tra inferno, paradiso e terra.
Cusco
Cusco (o Cuzco) fu la capitale dell’impero Inca. Il suo nome in lingua quechua è Qusqu che significa ombelico del mondo. Era il punto d’incontro delle quattro grandi regioni in cui era diffuso l’impero. La leggenda ne attribuisce la fondazione a un re leggendario, Manco Capat. Il punto esatto per fondare la città gli era stato fornito dal Dio del sole Inti.
Dopo la conquista da parte di Francisco Pizarro nel 1534, la città rimase un centro cardine per la nuova amministrazione coloniale e fu arricchita da eleganti edifici barocchi. Ma aveva ormai perso il ruolo di centro del mondo.
Spostandosi all’estremo oriente, il monte Kailash è un luogo sacro per almeno quattro religioni. I buddisti la considerano il centro dell’universo, per gli Induisti è la residenza di Shiva e anche i Giainisti e i Bön lo considerano un luogo sacro.
La montagna si trova in Tibet e fa parte della catena dell’Himalaya. Nonostante sia meno alta (6638 metri) e difficile di altre cime tibetane, il Kailash non è mai stato scalato proprio per il suo altissimo valore religioso. Ogni anno, però, la montagna è meta di pellegrinaggio per migliaia di persone. Percorrere i 52 Km alla base del Kailash è, infatti, considerato di buon auspicio ed è una tradizione vecchia di migliaia di anni.
Monte Kailash
Il centro del mondo può essere posto in cima a un monte altissimo, oppure in un’isola sperduta in mezzo al mare. Se sei un abitante dell’isola di Pasqua la tua isola è l’unica terra emersa che conosci. Non c’è quindi da stupirsi che gli indigeni di Rapa Nui chiamassero la loro isola “Te Pito The Henua” che significa nuovamente ombelico del mondo.
Luoghi lontanissimi e pure così simili perché frutto del pensiero della medesima umanità. Stesso tentativo di mettere ordine e trovare un centro ideale cui guardare. Il maestro Zen Harada-Roshi diceva “Dovete arrivare a comprende e rendere reale che il centro dell’universo è il vostro Ombelico!”.
In fondo per la fisica non è nemmeno del tutto falso, perché l’universo è in continua espansione e ogni punto potrebbe essere considerato il centro.
Certo, ora sappiamo che siamo un minuscolo pianeta sparso nel cosmo, come ci hanno mostrato le fotografie dallo spazio.
Un piccolo puntino in cui vive una specie che ha coscienza di sé in continua ricerca “di un Centro di Gravità permanente” per dirla alla Battiato.
Chiudiamo in chiave pop. Negli anni 90 l’Ombelico del mondo è legato a una celebre canzone di Jovanotti (a molti sarà la prima cosa venuta in mente leggendo il titolo dell’articolo). Nel motivetto, semplice ma efficace, c’era lo spirito degli anni 90, quando i muri cadevano e l’ecumenismo e l’europeismo erano obiettivi condivisi. Le paure dell’11 settembre 2011 erano di là da venire e la speranza, ingenua ma genuina pervadeva il vecchio continente.
Pal Blue Dot
Molte cose sono accadute da allora. Ma guardando la terra da oltre l’orbita di Nettuno, da sei miliardi di Km, come la celebre fotografia Pale Blue Dot fatta da Voyager I, dovremmo riuscire a capire siamo tutti figli dello stesso pianeta. Abbiamo le stesse paure e aspirazioni. La Terra è un enorme ombelico che ci nutre ogni giorno e che viaggia nel cosmo cinto da miliardi di miliardi di stelle. Una piccola sfera da salvare dalle nostre follie.
La scorsa estate, nella regione di Kirov, in Russia centro settentrionale, è stata fatta una delle più grandi scoperte legate alla seconda guerra mondiale.
Un ritrovamento impressionante di quella che si presentava come una mastodontica fossa comune, risalente agli anni della guerra, dalle indagini sui corpi potrebbero arrivare tantissime nuove informazioni, qualcuno azzarda l’ipotesi che alcune pagine di storia legate a quegli avvenimenti potrebbero essere riscritte.
Per ora una cosa è certa, migliaia di uomini creduti dispersi in battaglia, ora potranno finalmente tornare a casa per riposare in pace.
L’oscura scoperta ha riacceso immediatamente il ricordo dei Gulag, rigidissimi campi di concentramento, volti ad ospitare detenuti e prigionieri politici e di guerra, disseminati un po ovunque tra le regioni più rigide del vasto impero sovietico, la cui esistenza tenuta segreta per molti anni ha alimentato numerosi miti sull’effettiva natura di quei campi, di cui, ancora oggi si discute su quanti effettivamente fossero e quanti prigionieri ospitarono nei numerosi anni di attività.
Tralasciando la parentesi gulag, e soffermandoci sulla recente scoperta, ho deciso di parlarne con un po di ritardo rispetto all’ufficializzazione della scoperta perché, prima di esprimermi in merito volevo essere sicuro di ciò che è stato effettivamente trovato e qualche giorno fa è stata annunciata un’importantissima scoperta collaterale che mi ha convinto a parlarne, qualche settimana fa, sono stati identificati i resti di un soldato italiano tra le migliaia di ossa depositate in quella fossa comune.
L’uomo in questione si chiamava Lazzarotti Giulio, classe 1922, originario di parma, era soldato del regio esercito al servizio del corpo degli Alpini, disperso dal 20 gennaio 1943, in seguito alla battaglia di Nowo Postolajowka, nel corso della quale molti soldati italiani e tedeschi caddero prigionieri dell’armata rossa.
La vita di Giulio sembra finire in quella data, mentre la sua famiglia continua ad aspettare il suo ritorno, un ritorno che probabilmente non si sarebbe mai compiuto.
La lunga attesa della famiglia Lazzarotti tuttavia è finalmente giunta a termine quando recentemente il suo corpo è stato identificato nella fossa comune di Kirov.
Al di la della drammatica storia personale di Lazzarotti e la sua famiglia, è importante chiedersi, perché Kirov ? dove si trova e come hanno fatto Giulio e gli altri soldati impegnati nella campagna di Russia, ad arrivare fino a lì ?
Kirov si trova a circa 800KM a nord-est da Mosca, a molti chilometri di distanza dalle linee nemiche, e ben nascosta all’interno dell’immenso territorio dell’impero sovietico.
Da queste prime informazioni preliminari è facile dedurre che probabilmente la regione ospitasse un centro di detenzione e prigionia per prigionieri di guerra, c’è però un enorme punto interrogativo che aleggia su questo ipotetico centro, Giulio era disperso, e come lui gran arte delle vittime ritrovate in quella fossa comune, teoricamente, la convenzione di Ginevra del 1899 imponeva ai vari paesi aderenti, ivi compresa l’Unione Sovietica, di stilare una lista di prigionieri detenuti nei propri campi di prigionia, e fornire questo elenco alla croce rossa internazionale, va tuttavia detto che, durante la seconda guerra mondiale e non solo, era comune la pratica di omettere alcuni nomi dalla lista di prigionieri, e in alcuni casi estremi, si verificava l’omissione stessa di interi campi di detenzione e prigionia.
Nel caso specifico del campo di prigionia di Kirov, la sua esistenza è nota da tempo, così come il presunto numero di prigionieri contenuti al suo interno. Prima di questa scoperte le stime parlavano di 1.136 prigionieri italiani, di cui si ha una traccia documentaria e di cui si conoscevano i nomi, tuttavia, tra quei nomi però, sembra non figurasse quello di Giulio Lazzarotti. Questa omissione (o errore di trascrizione) apre la porta ad infinite possibilità, e le speculazioni in merito non mancano. Tra le tante, le ipotesi più plausibili ed interessanti sembrano essere due.
La prima ipotesi fa riferimento ad un ipotetico campo nascosto al resto del mondo, di conseguenza il numero reale dei prigionieri di Kirov andrebbe ricalcolato e quasi certamente accresciuto di diverse migliaia di unità.
L’altra ipotesi, a mio avviso interessante, fa riferimento ad una prematura morte di alcuni prigionieri, non abituati alle temperature estreme della Russia settentrionale in pieno inverno, in questo senso la battaglia di Nowo Postolajowka avvenuta il 10 gennaio del 1943 è perfettamente collocata nello scenario, e alcuni soldati feriti più o meno gravemente potrebbero non essere sopravvissuti al lungo viaggio di oltre 1000 chilometri che li avrebbe condotti al lontano e rigido campo di prigionia.
Se questa ipotesi fosse vera, significherebbe che Giulio e presumibilmente tutte le migliaia di uomini ritrovati nella fossa comune, sarebbero morti prima di giungere al campo, e ciò giustificherebbe la loro assenza dai registri ufficiali.
Quale che sia la verità soltanto il tempo e nuove ricerche potranno rivelarlo.
La guerra fredda è conclusa da oltre un quarto di secolo ed il disgelo sta finalmente portando alla luce elementi chiave per risolvere antichi misteri, risalenti alla seconda guerra mondiale.
L’8 aprile 1933 il Western Australia è chiamato alle urne per votare un referendum secessionista per uscire dal Commonwealth Australiano, sorprendentemente i secessionisti riescono ad ottenere la vittoria e pure, quella secessione democraticamente votata, non è mai avvenuta.
Lo scorso 19 Agosto Jack Peacock ha pubblicato un interessantissimo articolo, ed una splendida analisi della vicenda, ispirato dai recenti avvenimenti del Brexit, per sollevare una questione importante. Più volte nella storia i movimenti secessionisti ed indipendentisti sono riusciti ad ottenere una votazione per una possibile indipendenza e se in alcuni casi questi sono riusciti effettivamente ad ottenere la vittoria e successivamente conquistare la tanto agognata indipendenza, altre volte, dinanzi alle urne, la popolazione ha scelto per il mantenimento dello status quo.
Ma c’è un caso, un precedente storico estremamente curioso ed interessante, quello del Western Australia, che, come già detto, l’8 aprile 1933 votò per la propria indipendenza, riuscendo a conquistare la vittoria, tuttavia il progetto secessionista sarebbe arenato a causa di una errata valutazione da parte del movimento u quello che sarebbe stato l’atteggiamento Britannico nei confronti del suo impero.
Vi lascio alla lettura della traduzione dell’articolo di Jack Peacock, accompagnandolo in chiusura con una mia chiusura al suo intervento.
Il referendum di quest’anno sulla partecipazione del Regno Unito dell’Unione Europea e quello tenutosi nel 2014 sull’indipendenza della Scozia sono solo gli ultimi di una lunga serie di eventi simili. Mentre la Scozia si è unito il Quebec (1995) votò per lo status quo, mentre altri, come la Norvegia (1905) e Montenegro (2006) hanno votato in favore della separazione. Un tema che sembra comune a tutti i referendum è che alla fine gli elettori ottenere ciò che votano per. Una maggioranza per la separazione significa separazione. Eppure ci sono eccezioni a questa regola. L’8 aprile del 1933, il Western Australia ha votato a favore della secessione dal Commonwealth Australiano, tuttavia, ancora oggi, a distanza di oltre ottanta anni, continua a farne parte.
Vine dunque da chiedersi, cosa ha permesso di ignorare la volontà democraticamente espressa dal popolo? E che cosa ha significato per l’Australia e il suo rapporto con l’impero britannico?
Lo spirito indipendente del Western Australia è apparso nel momento in cui ha ottenuto il diritto all’auto-governo. Questo è avvenuto nel 1890, un anno dopo il discorso di federalizzazione iniziata. Non volendo rinunciare alla sua sovranità di nuova acquisizione, l’Australia Occidentale non ha partecipato alla convenzione costituzionale del 1891 e solo sporadicamente e senza troppa convinzione ha preso parte a convenzioni successive.
Il movimento secessionista ha sempre sostenuto che il Western Australia è stato educato al federatismo e in un certo senso questo è vero. E ‘stata una corsa all’oro a determinare da che parte sarebbe andato l’ago della bilancia. I coloni accorrevano da est, portando con se le proprie opinioni pro-federali, e quando hanno sentito che il governo australiano occidentale era contro la federazione, hanno dato il via ai vari movimenti separatisti. Così il Western Australia rappresentava una scelta per l’intera Australia: Rifiutare la federazione potenzialmente vedere le proprie terre, ricche di oro, staccarsi, alternativamente accogliere la federazione, significava mantenere la sua integrità territoriale. Hanno quindi optato per la federazione. Ma non ci volle molto tempo prima che gli australiani occidentali cominciassero a rimpiangere quella decisione.
Prima della fine del 1902, il parlamento australiano ascoltò i primi inviti ad una nuova proposta secessionista. Nel 1919, il Sunday Times (uno dei giornali più importanti del Western Australia) avevano assunto un atteggiamento apertamente secessionisti e si svolsero manifestazioni pubbliche. Il movimento ispirò politici, poeti e musicisti e ricevette anche il sostegno da parte dei governi della Tasmania e Sud Australia, che, proprio come il Western Australia, minacciavano referendum secessionistici. Quando l’elettorato del Western Australia andò alle urne, il 68 per cento dei votanti votò a favore della secessione.
Eppure la tanto attesa e votata secessione non è mai avvenuta. Nel giro di pochi anni la fede secessionista ha mandato in frantumi l’impero britannico e con esso il movimento secessionista australiano si sbriciolò.
Allo stesso tempo, come il referendum, il Western Australia ha tenuto elezioni statali. Nonostante l’enorme sostegno da parte del movimento, l’elettorato ha votato contemporaneamente contro il governo liberale pro-indipendenza per eleggere il partito laburista pro-unione, che prontamente cercò di mettere in stallo il processo di secessione. Ma il nuovo governo non riuscì a frenare completamente la scissione e dopo un anno di dithering, infine, portato avanti un piano per raggiungere l’indipendenza.
Il metodo che hanno scelto per raggiungere questo obiettivo è stata la realizzazione di una petizione di 500 pagine pieno di mappe, argomenti e la volontà democraticamente espressa dal popolo. L’idea era quella di consegnare questa petizione al Parlamento britannico che, si suppone, dovrebbe approvare una legge che concedeva loro l’indipendenza. Una delegazione guidata da Keith Watson, presidente della Lega secessionista Dminion, lasciò Perth per Londra con molto clamore e tutti si aspettavano che le cose sarebbero andate avanti senza intoppi.
La petizione è stata presentata ad entrambe le Camere del Parlamento nel dicembre 1934 ed è stato formato un comitato congiunto per esaminarla. Ma il compito del comitato non era quello di giudicare i meriti del caso per la secessione; il suo compito è stato quello di determinare se il Parlamento britannico avesse o meno il diritto di ricevere la petizione. Questo è stato un terribile errore di valutazione da parte dei secessionisti nel giudicare l’atteggiamento della Gran Bretagna rispetto al suo impero.
La Conferenza Imperiale 1926 aveva portato alla Dichiarazione Balfour (che ha portato a 1931 Statuto di Westminster). La dichiarazione effettuata un passaggio importante; ha dichiarato la Gran Bretagna e le sue Domini:
comunità autonome all’interno dell’impero britannico, pari a stato, in alcun modo subordinata l’un l’altro in ogni aspetto della loro affari interni o esterni, anche se uniti da un comune fedeltà alla Corona, e liberamente associati in qualità di membri del Commonwealth britannico.
La Gran Bretagna aveva effettivamente rinunciato a qualsiasi controllo sui domini. Ciò significava che la Gran Bretagna non sarebbe più stata nella condizione di interferire. Il Comitato misto ha quindi respinto il ricorso del Western Australia perché semplicemente il parlamento britannico non aveva alcuna autorità per riceverlo. Il Western Australia avrebbe dovuto negoziare con il parlamento Australiano a Canberra, che tuttavia non era incline ad ascoltare.
“La storia ricorderà questo come la più grande e più spregevole abdicazione di tutti i tempi”
-Keith Watson
è stata la risposta di Keith Watson alla relazione della commissione mista. Anche l’anti-secessionista, il Premier di stato Filippo Collier sostenne che non era la fine della questione e ha predetto che se non fosse avvenuta un importante riforma costituzionale, il Commonwealth australiano non sarebbe durata altri dieci anni.
La lega Dminion non ha accettato immediatamente la relazione della commissione mista, continuando a fare pressioni e spingere per un dibattito Parlamentare. Tra gli altri fu interrogato anche il primo ministro Ramsay MacDonald, che non si pronunciò in risposta. Le autorità britanniche erano in fase di stallo e non successe nulla. Questa situazione scoraggiò Watson e la sua delegazione, che, una volta tornato in Australia promise di continuare la lotta, ma lo stato d’animo in Australia occidentale era cambiato.
Era iniziata una forte ripresa economica e l’opinione popolare aveva accusato l’incompetenza della delegazione Watson per la mancata indipendenza. Così, proprio come la vita in Australia occidentale ha cominciato a guardare ad un futuro più luminoso, la reputazione dei secessionisti era stata intaccata.
Nel 1935 La Lega Dominion propose un disegno di legge al parlamento australiano occidentale chiedendo una separazione unilaterale, ma l’interesse stava svanendo. Lo stesso anno, il Sunday Times annunciò un cambio di proprietà, con un nuovo editore ed una nuova ideologia di fondo. Senza il sostegno di questo giornale, il movimento di secessione si ridusse a nulla.
Se la Lega Dominionn avesse presentato una dichiarazione unilaterale di indipendenza già nel 1933, probabilmente il risultato sarebbe stato diverso, ma la storia non è fatta da se e da ma, non esistono alternative ed il passato non può essere modificato.
La leggerezza e la superficialità con cui il movimento secessionista portò avanti la sua battaglia, una battaglia che secondo il referendum era già stata vinta in partenza, portò il progetto indipendentista ad arenare, sbriciolando la fiducia nel movimento e il movimento stesso. Questi eventi rappresentano un importante lezione, ed un più che evidente precedente storico a situazioni analoghe, non basta vincere un referendum per ottenere quanto richiesto, ma continuare a lavorare seriamente e con impegno a quel progetto affinché questi dia i suoi frutti. In questo caso il movimento secessionista non ha svolto un buon lavoro, scontentando il proprio elettorato, non a caso, all’indomani della vittoria al referendum, lo stesso movimento non conquistò la presidenza.
Oggi, ad oltre un secolo dalle prime istanza indipendentiste, il Western Australia è ancora parte importante ed integrante del Commonwealth Australiano, i cui fermenti indipenentisti sono solo un lontano ricordo.
Articolo originale di Jack Peacock, pubblicato il 19 agosto 2016 sulla rivista History Tooday, Cliccare qui per leggere l’articolo originale in lingua inglese.
Il termine idolo ha molte applicazioni e soprattutto diverse definizioni, che se pur affini tra loro, differiscono in diversi punti.
Tra le varie definizioni di Idolo presenti nel dizionario italiano, la sua definizione estesa è sicuramente quella più interessante, un idolo non è altro che un oggetto o un entità che gode di un’ammirazione e/o di una dedizione gelosa o fanatica.
La definizione di idolo dunque va di pari passo con quella di fanatico e di fanatismo, di fatto il fanatico è una persona dominata dal fanatismo (sempre secondo il dizionario della lingua italiana) ed il fanatismo non è altro che una forma di “Intollerante, esclusiva e acritica sottomissione a una fede religiosa o politica, spesso causa d’intolleranza, e talvolta di violenza, nei confronti di chi ne professa una diversa.”
In entrambe le definizioni siamo inseriti all’interno della sfera religiosa o politica e in questo mio ragionamento voglio proporre un estensione, se così la si può chiamare, del paradigma politico, andando a lavorare sulla figura dell’idolo e del fanatismo digitale.
Per sviluppare il mio ragionamento farò largo uso delle argomentazioni e delle osservazioni di due importanti antropologi europei, da una parte Rudolph Otto, storico delle religioni autore del monumentale Das Heilige (il sacro) pubblicato nel 1917 e dall’altra Ernesto de Martino, antropologo, o per meglio dire etnologo italiano, padre dell’antropologia ed etnologia italiana, autore di Sud e Magia, un saggio antropologico incentrato sullo studio della tradizione magica in Lucania, terra che l’etnologo napoletano avrebbe studiato per gran parte della sua vita, ma mettiamo ora da parte Ernesto de Martino e torniamo al soggetto di questo mio intervento, ovvero l’idolo Digitale.
Iniziamo col definire cosa intendo esattamente con idolo digitale, e perché si è resa necessaria questa premessa con riferimenti a due importanti antropologi del secolo scorso.
L’elemento cardine di questa discussione è l’ampliamento degli elementi identificativi dell’idolo e se al tempo di de Martino e Otto questi elementi erano legati unicamente alle sfere della religione e della politica, oggi esulano da questi ambiti per dilagare in altri lidi quali possono essere il mondo delle arti, dello spettacolo dello sport e come nel nostro caso, nel mondo digitale.
L’idolo digitale al pari dell’idolo religioso e ancora di più dell’idolo politico, è di fatto un individuo o un portale che “gode di un’ammirazione e/o di una dedizione gelosa o fanatica” e non è affatto un caso se sul web abbiamo a che fare soprattutto con “fandom” ovvero comunità di Fan, termine che ricordiamo derivare dall’inglese Fanatic ovvero Fanatico. Il cerchio dunque potrebbe chiudersi qui, l’idolo digitale non è altro che una nuova espressione del fanatismo, già conosciuto nel mondo dello spettacolo in gran parte del secondo ventesimo, esportato in nuovi contesti.
C’è però una differenza sostanziale tra gli “idoli canori e televisivi degli anni sessanta, settanta, ottanta e novanta” ed i nuovi idoli digitali, che va oltre le opinabili capacità artistiche di uno o l’altro personaggio più o meno popolare, attorno a cui può radunarsi o meno una comunità di fan, e questa differenza è dovuta al fatto che, sempre più spesso, i nuovi idoli in maniera più o meno volontaria, finiscono con l’imporsi come modello di riferimento in un determinato settore e ciò va oltre la persona arrivando a coinvolgere anche elementi totalmente impersonali.
Caso esemplare quello di Wikipedia, l’enciclopedia libera, uno dei simboli del web e dell’informazione accessibile a chiunque, uno strumento sicuramente molto prezioso ma allo stesso tempo labile e di dubbia affidabilità, in un altro articolo qui su Historicaleye il nostro collaboratore Aramis ha dimostrato in maniera esemplare la fallacità di Wikipedia, mostrando come il lettore possa essere tratto in inganno da eventuali informazioni errate, ma ben argomentate.
È stato proprio questo articolo di Aramis e soprattutto la reazione di numerosi lettori casuali, a spingermi a ragionare sulla natura degli idoli digitali.
Nell’articolo di Aramis viene evidenziata una falla enorme nel sistema di wikipedia che per quanto possa essere uno strumento utilissimo, si presta, per sua natura, alla libera manipolazione da parte degli utenti e allo stesso tempo si presenta come portatrice di verità.
Il lettore medio, non attento alla verifica dell’informazione è portato automaticamente a prendere per vero e in maniera quasi dogmatica ciò che legge su Wikipedia (o altri portali, compreso questo) anche quando quel qualcosa di vero non ha assolutamente nulla, rassicurato dal fatto che quel portale sia “affidabile”, e quell’affidabilità è determinata dalla reputazione del portale più che dalle informazioni effettivamente riportate.
Ma cosa succede se se quell’affidabilità viene messa in discussione ? e cosa succede se qualcuno prova a sollevare un dubbio sulla sua affidabilità ?
Le reazioni riscontrate in risposta all’articolo di Aramis e del mio video “Chi corregge Wikipedia ?” sono state particolarmente aggressive e violente, arrivando ad additarci, per mantenere un parallelismo col mondo religioso, di blasfemia ed eretismo. Sembrava di essere improvvisamente ritornati nelle aule del tribunale dell’inquisizione, quasi costretti a scegliere tra l’Abiura ed il Rogo.
Mi rendo conto che questo parallelismo con tempi cupi e oscuri a qualcuno potrà sembrare eccessivo, di fatto si tratta di un esagerazione volta a sottolineare un qualcosa che per me è fin troppo evidente.
Il web e alcuni dei suoi prodotti hanno sostituito il misticismo e la magia, andando a fornire una nuova, più tecnologica, soluzione a quella che Ernesto de Martino definiva la crisi della presenza, tema appena accennato in Sud e Magia e trattato in maniera estremamente più articolata e completa in opere come “Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo”.
La presenza è intesa da Ernesto de Martino come la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato ad una determinata situazione, partecipandovi attivamente attraverso l’iniziativa personale e andandovi oltre attraverso l’azione.
La presenza demartiniana significa dunque “esserci” nel senso heideggeriano del termine e in questa sua lettura, l’uomo ha bisogno di un aiuto per superare una sorta di “crisi della presenza” nei confronti della natura e per fare ciò, per superare insomma questo senso di inferiorità nei confronti del mondo circostante, l’uomo demartiniano si rifugia nel rito e nel sacro, secondo le definizioni fornite da Rudolph Otto nel suo Das Heilege.
I riti offrono rassicuranti modello da seguire andando a costruire quella che de Martino definisce come tradizione, ma nell’era digitale, fatta di informazioni sempre più immediate, dove ognuno può fingersi esperto e dire la sua su tutto ciò che la sua mente è in grado di afferrare, l’uomo apparentemente più consapevole del complicato universo che lo circonda è sempre meno incline ad appoggiarsi a definizioni religiose ed ha quindi bisogno di un nuovo rifugio, di una nuova ritualità e di una nuova tradizione.
Questa nuova ritualità al pari della ritualità nel mondo antico, ha bisogno punti fissi, ancore nel caotico mare digitale in continuo movimento e perenne rinnovamento e questa stabilità può essere ritrovata in vecchi paradigmi adattati al mondo digitale.
Si vengono quindi a creare nuove verità dogmatiche non opinabili, alle quali si può solo scegliere se credere o non credere, senza possibilità d’appello e senza possibilità di discussione.
Nascono così gli idoli digitali, figure, simboli, personaggi e portali, la cui voce è sacra e inopinabile. Inizia qui, nell’epoca di internet, un nuovo medioevo, una nuova era di transizione fatta di fede cieca in moderni miti, mentre le verità non vere, scoppiano spargendosi d’intorno.
Avete mai sentito parlare della battaglia di Menfi, dove le truppe bizantine guidate da Niceforo Foca il Vecchio sconfissero, nientemeno che, l’imperatore carolingio Ludovico II? Se la risposta è sì, c’è da preoccuparsi, perché questa battaglia non è mai esistita. Eppure in questi giorni su Wikipedia è presente una ricca pagina dedicata a questo scontro. Una pagina che descrive la battaglia anche con alcuni particolari, come lo sfondamento dell’ala destra carolingia da parte dei bizantini con l’impiego dei catafratti, i celebri reparti di cavalleria corazzata.
Una pagina con tanto di antefatti e conseguenze, entrambi per altro piuttosto rispondenti alla realtà, l’unica cosa mai esistita è appunto questa battaglia.
La pagina è stata creata da un utente anonimo e revisionata da diversi utenti registrati. Ammirevoli volontari che hanno adattato la voce allo standard di Wikipedia, senza sapere che il contenuto creato da IP 79.54.68.79 era frutto della fantasia del suo autore.
Il motivo per cui la battaglia è sfuggita al vaglio dei censori è presto detto: la voce è verosimile, fa riferimento a personaggi reali, racconta cose che potrebbero essere realmente accadute. Per di più la voce ha perfino una biografia, in cui è citato un testo famosissimo, la Storia dell’impero bizantino di G.Ostrogorsky la più importante e nota opera sui romani d’oriente (i bizantini continueranno a chiamarsi romani fino al 1453). L’altro testo citato è, invece, un volume del tutto immaginario Bisanzio in Italia nell’età di mezzo (ma il titolo è plausibile no?).
Scovare i vandalismi su Wikipedia è molto facile, capire che è una voce scritta benino è falsa è invece molto complesso. Le chance per farcela sono due: avere una conoscenza tale del periodo da sapere che la battaglia non esiste (ma ben pochi possono vantare una simile preparazione), oppure verificare tramite le fonti, un’attività che difficilmente un volontario che si occupa di Wikipedia a tempo perso si metterebbe a fare.
Ecco perché la voce è sopravvissuta e rischia di continuare a farlo se qualcuno che ha letto quest’articolo non interviene.
L’intelligenza collettiva ha i suoi pregi, ma non è il risultato di una somma quanto, più tosto, di una media. Non ci credete? Basta guardare le preferenze elettorali.
Il problema di Wikipedia, non è tanto e solo il fatto che sia gratuita, ma il fatto che sia anonima. In un’enciclopedia normale o in un articolo scientifico le voci sono firmate e l’autore, per così dire, ci mette la faccia. Ovvero garantisce per quello che ha scritto e si assume la responsabilità dei propri errori. Questo è esattamente quello che non avviene nel caso di 79.54.68.79.
Quest’articolo non vuole, però, sminuire Wikipedia, strumento potentissimo e di comoda consultazione. Io l’ho sempre usata e apprezzata: è una delle più belle creazioni degli ultimi anni. Però Wikipedia non potrà mai essere affidabile al 100%, può servire per farsi un’idea preliminare sulle cose, non per ritenersi degli esperti. Serve per cercare rimandi bibliografici, non per essere citata in lavori seri come tesi di laurea o articoli scientifici.
L’ovvia obiezione è che anche i testi stampati non sono affidabili: verissimo. Come dimostra questo piccolo aneddoto.
C’era uno studioso della storia della Sicilia che trovava in tantissimi testi citato un libro, stampato nel 1911, e titolato “Popolarismo e fascismo in Sicilia”. Ovviamente pensava fosse un testo sui fasci siciliani, movimento politico sorto in Sicilia negli anni Novanta dell’Ottocento che non ha nulla a che fare col fascismo di Mussolini. Questo professore cercò questo libro ovunque, finché un bel giorno scopre il testo “Popolarismo e Nasismo in Sicilia” uscito nel 1911. (Nasismo da Nunzio Nasi, politico del tempo). Qualcuno aveva citato il libro in maniera sbagliata e quella citazione era stata ricopiata in svariate opere senza che nessuno avesse mai visto il libro!
Questa vicenda realmente accaduta (ma di negligenze come questa potrei citarne un’infinità), dimostra che è opportuno diffidare anche dei testi scritti, specie se sono testi di storia.
Ma i libri spesso sono firmati o comunque sappiamo chi li ha scritti. Non è una garanzia di verità, ma almeno possiamo distinguere gli autori che lavorano seriamente dai ciarlatani.
Viviamo in un’epoca in cui tutti si sentono autorizzati a parlare di storia, anche se magari non hanno letto un libro. Una volta un tizio voleva spiegarmi l’Unità d’Italia, tracimando analisi così tranchant e definitive che nessun storico si sognerebbe di azzardare. Alla fine del suo discorso gli chiesi quando era avvenuta l’Unità d’Italia: non sapeva nemmeno il secolo!
Se Wikipedia diventa una palestra per valutare le informazioni può diventare uno strumento eccezionale. Viviamo in un’epoca in cui siamo sommersi dalle informazioni, imparare a capire a quali affidarsi non è cosa da poco. Se i mezzi d’informazione o i politici che mentono fossero subito scoperti semplicemente non esisterebbero. Forse è una delle cose in cui la storia, quella vecchia disciplina ritenuta ormai inutile dai più, potrebbe aiutarci.
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