Politica: Tra filosofia, storia e sfera pubblica

Spesso ci riempiamo la bocca con la parola “Politica” usata in modo inopportuno, o peggio, dispregiativo, relegandola a determinati soggetti e categorie di persone, i soli che “possono fare politica” perché sono politica, e se non si fa ha questa etichetta, l’etichetta di politico, allora non si fa, non si può “fare politica”. Ma cos’è la politica, cos’è davvero la politica, cosa vuol dire fare politica e soprattutto chi è il politico, ovvero colui che fa politica?

Nell’uso comune spesso si intende la politica come qualcosa che fare con forme partitiche in qualche modo legate a governi e amministrazioni, ad una sorta di leadership gerarchica della società, ma se andiamo alla radice del termine e del concetto stesso di politica, possiamo osservare che in realtà politica è qualcosa di diverso, molto più semplice e per questo estremamente complesso.

Una delle definizione più semplicistiche e generali che possiamo dare del concetto di politica è “tutto ciò che ha a che fare con la sfera pubblica“, ma in questo senso apparentemente semplificato e generale, tutto può diventare politica. Ed è davvero così? Davvero tutto può diventare politica? un concerto, uno spettacolo teatrale, un dibattito, una scampagnata con gli amici, o delle semplici chiacchiere tra due individui, di persona o sui social, sono tutti esempi diversi di “politica”?

Partendo da questa definizione generale, che comprende letteralmente qualunque interazione tra due o più individui, tutto sembra essere politica. In questo articolo proveremo a “raffinare”, se così si può dire, su base etimologica, storica e filosofica, il concetto di politica.

Alle origini del termine

La prima cosa da individuare è l’etimologia della parola “Politica”, un termine che trova le proprie radici nel termine greco politeia (πολιτεία), parola già in uso e con un concetto ben radicato nella cultura greca classica. Questa parola designa l’essenza stessa dell’organizzazione politica come atto collettivo che si lega ad un altro termine, ben più noto, legato anch’esso alla cultura greca classica, ovvero polis (πόλις), la città-stato greca.

Per capire meglio il significato della Politica quindi, dobbiamo comprendere meglio anche il concetto di Polis, che non è solo un entità geografica e amministrativa, che incontriamo nella penisola ellenica tra il VI e il III secolo avanti cristo, ma anche è un vero e proprio modello di organizzazione etica e sociale, che regola la convivenza umana.

Ed è proprio in quel sistema sociale che nasce la parola politica. Al tempo e nel mondo polis greche infatti, incontriamo i primi utilizzi “formale” della parola politica, o meglio Politeia. Tra questi utilizzatori del termine incontriamo Platone con la sua “Politeia”, un opera meglio nota in italiano come “La Repubblica”.

La Politica in età classica

La Repubblica di Platone, è un opera monumentale, è uno dei testi più importanti della storia della Filosofia, ed è scritto nella forma di un dialogo con Socrate, vero protagonista del libro in cui il filosofo greco, attraverso il proprio maestro, cerca di rispondere alle domande sulla natura della giustizia, di fatto l’opera è per certi versi un indagine sulla natura della giustizia e sulla sua importanza nella vita dell’uomo e nella società e, tra le altre cose, Platone esplora diverse forme di governo, tra quelle note all’epoca ed ipotetiche, individuando con straordinaria lucidità e in maniera quasi profetica, alcune delle maggiori criticità delle democrazie moderne, come ad esempio la “sete di libertà”.

Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.

Platone

Per Platone il concetto di politica è fortemente legato alla moralità, alla conoscenza, alla giustizia e alla capacità del buon governante, che per lui deve essere un Re Filosofo, di prendere decisioni che beneficino l’intera comunità.

Come Platone, anche il suo miglior allievo, Aristotele, userà il termine politica, nell’opera Politica, in greco Tá politiká (Τά πολιτικά) per descrivere le varie forme di governo e la scienza che studia l’organizzazione delle Polis, per il maestro di Alessandro Magno, il politico non è solo un legislatore, ma è qualcosa di più, poiché la politica è finalizzata alla filosofia ed ha il dovere di creare condizioni ottimali affinché si possa coltivare la scholè (tempo libero) e le attività teoretiche (filosofia, matematica, fisica ecc).

Più semplicemente, per Aristotele politica, non si limita alla semplice amministrazione statale, ma implica una visione olistica del vivere politico, del vivere pubblico, per cui l’amministrazione e la ogni attore attivo di quel luogo e quello spazio pubblico in cui l’individuo realizza la propria natura di zoon politikón (animale politico). Ciò significa che i tre concetti moderni di politica, pubblico e sociale, per Aristotele coincidono in maniera totale, sono sovrapponibili e sostituibili, di fatto sono la stessa cosa e questo perché per Aristotele, politica non è solo amministrazione, ma anche socialità.

Cambiando “mondo” e spostandoci in avanti nel tempo di qualche circa 2 secoli, arriviamo alla Roma del primo secolo a.c., qui Marco Tullio Cicerone aggiunge il proprio contributo al concetto di Politica con il suo De Republica, in cui il filosofo latino associa la res publica alla legge intesa come fondamento della comunità e definisce la politica come una sorta di scienza del governo, concetto che, in forma più o meno diversa verrà ripreso a più battute in tutto il medioevo culminando con il realismo politico di Machiavelli per il quale la politeia diventa arte del potere, per cui la politica mente o come è più comunemente noto “il fine giustifica i mezzi“.

Possiamo quindi definire politica come un qualcosa che si compone di due elementi, esercizio del potere e partecipazione attiva alla sfera pubblica.

Chi fa Politica? Cittadini e governanti

Che la si guardi in ottica moderna, medievale o classica, la politica ha un forte legame con il pubblico e con il sociale, sia quando è esercizio del potere per governare il popolo, sia quando è espressione della volontà del popolo, sia quando è al servizio del popolo. Ma chi fa politica? chi è il politico?

Nella Grecia classica esiste il termine polites con cui ci si riferisce a coloro che partecipavano attivamente alla vita pubblica, esercitando diritti e doveri, potremmo tradurre questo termine con il moderno “politico” o “cittadino”. Apriamo allora una parentesi sul cittadino, nel mondo antico la cittadinanza era un concetto abbastanza ampio, al punto che in epoca Romana, incontriamo nello stesso stato diverse forme di cittadinanza che riflettono privilegi. Oggi la cittadinanza è qualcosa di diverso rispetto a come era concepita nel mondo antico, dove, semplificando moltissimo, era qualcosa di molto simile al concetto moderno di “sovranità popolare”, di conseguenza il cittadino contribuisce alla formazione della volontà generale e vi è pertanto un rapporto di reciprocità tra cittadino e governante, che insieme, e solo insieme, sono espressione autentica della politica.

Nel mondo classico il politico è in sostanza un attore attivo della vita pubblica, c’è sinergia tra il “politico e il governante”, per Platone i governanti dovessero essere filosofi guidati dalla saggezza e al servizio del benessere collettivo. Nel medioevo tuttavia, Machiavelli rovescia questa prospettiva, descrivendo ne Il principe, il leader come un abile manipolatore delle circostanze, anteponendo la sopravvivenza dello stato alla virtù personale e dopo di lui Hobbes, nel Leviatano, teorizza un sovrano assoluto in grado di garantire sicurezza al popolo, il cui potere tuttavia non è immutabile ed è legittimato da un contratto sociale.

Abbiamo visto prospettive differenti, da Platone ad Hobbes, ma nella sostanza, il politico mantiene un elemento costante, ovvero il suo legame con la sfera pubblica. Politico e pubblico, continuano ad essere, nel XVII secolo, concetti sovrapponibili.

Il confine tra pubblico e politico?

Per gran parte della nostra storia, siamo arrivati ad Hobbes, ma in realtà ancora oggi, pubblico e politico sono concetti ampiamente sovrapponibili, risulta quindi necessario cercare di capire se c’è, e se c’è dov’è questa la linea di demarcazione tra Pubblico e Politico, cosa definisce l’azione politica?

Per Hannah Arendt la politica è l’essenza stessa dell’azione collettiva e della vita pubblica. Non si tratta più semplicemente di istituzioni, di procedure, ma di un esperienza umana fondamentale, che affonda le proprie radici nella capacità degli individui di agire insieme. La politica è a tutti gli effetti uno spazio d’incontro tra individui, un luogo di dialogo e di decisioni collettive, uno spazio vitale per il funzionamento delle democrazie.

La Politeia oggi

Oggi la Politica è un concetto dinamico, ridefinito innumerevoli volte nel corso dei secoli e dalle trasformazioni storiche e filosofiche, ma alcuni elementi sono sopravvissuti nel tempo, passando, almeno in Europa e nel Mediterraneo, dalle Polis all’impero di Alessandro a quello Romano, ai regni romano barbarici a gli stati nazione e le monarchie assolute europee, per poi sfociare negli imperi risorgimentali, nei totalitarismi e giungere, in fine, alle democrazie moderne.

Della politica oggi rimane fondamentalmente un amalgama sociale, che non è solo istituzioni statali, ma anche e soprattutto movimenti sociali, organizzazioni nazionali e internazionali, è dibattiti pubblici e digitali, mantenendo nel suo insieme un focus unico ancora fisso sull’ideale aristotelico del bene comune, che la storia ha piegato e adattato rendendolo ad oggi compatibile con un mondo follemente e ferocemente interconnesso, dove il “pubblico” supera ampiamente i confini tradizionali e dove, come scriveva Sandro Pertini, «la moralità dell’uomo politico consiste nel perseguire il bene comune».

Quella linea di demarcazione tra pubblico e politico a conti fatti, non l’abbiamo trovata e questo perché la sfera pubblica e sociale è qualcosa di interconnesso, in maniera indissolubile all’esercizio politico, è politica. D’altro canto però, negare l’appartenenza alla sfera pubblica e cercare di ostacolare la natura pubblica e sociale della politica, chiudere quello spazio collettivo, baluardo della libertà e della democrazia, aiuta alla creazione di terreno fertile per i sistemi totalitari, e non è un caso se nel proprio percorso storico, uomini come Mussolini, Hitler, Stalin, e qualsiasi altro dittatore mai esistito, abbiano costruito i propri regimi partendo proprio dalla censura e il “diritto alla censura”, rivendicando per se quella stessa libertà che negavano ai propri oppositori.

Si entra qui nel paradosso della tolleranza di Popper che possiamo esprimere parafrasando Luca Marinelli nei panni di Mussolini in M il figlio del Secolo “La democrazia è una cosa straordinaria, ti da la libertà di fare ogni cosa, anche di distruggerla”, e nel farlo, concretizza la profezia platonica dei Coppieri che ubriacano il popolo assetato di libertà, permettendo alla mala pianta della tirannia di germogliare.

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Esportare Oligarchie: la Colonizzazione della Grecia Arcaica

Aristotele nella Politica mette in relazione la colonizzazione arcaica con lo sviluppo di oligarchie territoriali e con le dinamiche (o lotte) di classe. Ha ragione? Si tratta di una testimonianza attendibile? Per affrontare questo problema dobbiamo fare un passo indietro e ripercorrere le tappe fondamentali della colonizzazione arcaica.

Tra l’VIII e il VI secolo a.C. i Greci si sono spostati in terre abitate da popolazioni “barbare” e vi hanno fondato delle città (o poleis) del tutto simili alle metropoleis di provenienza, ma da esse indipendenti (Finley 1976; Lepore 1978 e 1981). Sappiamo che avevano un termine specifico per connotare questo fenomeno: apoikía, che significa letteralmente lontano da casa. Si può dunque facilmente intuire come la fondazione di una città lontano da casa abbia ben poco in comune, istituzionalmente parlando, con il concetto di colonia (e colonialismo). Con colonialismo si intende la fase moderna della colonizzazione, un fenomeno che conosciamo a partire dal Quindicesimo secolo, e che è connesso alla creazione di un vero e proprio sistema coloniale, del tutto dipendente e in certo modo funzionale a una divisione internazionale del lavoro e allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali.

Oggi vorrei fare qualche riflessione sulla colonizzazione arcaica non solo per rimarcarne le differenze rispetto ai movimenti moderni, che in questa sede rimarranno sullo sfondo, ma per rendere esplicita una caratteristica del mondo arcaico o, almeno, del modo di intendere e di vivere l’esportazione di usi, costumi e leggi: il conservatorismo. Cosa si intende per colonizzazione arcaica? Con questo termine si indica lo spostamento, anche non coordinato e non “in massa”, di uno o più ecisti o fondatori (oikistés in greco antico significa fondatore) con l’obiettivo di organizzare una nuova città che doveva avere delle caratteristiche particolari.

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Tutte le nuove città erano infatti associate alla città-madre, o metrópolis, nel senso che quest’ultima si occupava dei preparativi della spedizione e della nomina dell’ecista, una figura chiave poiché aveva il compito di organizzare la comunità, di istituire i culti e le leggi, di spartire il territorio organizzando gli spazi cittadini. E non faceva questo di sua iniziativa personale ma utilizzando come modello gli usi, costumi e le leggi della città-madre. La madrepatria restava quindi un punto di riferimento anche per la fondazione delle sub-colonie, ma le relazioni finivano qui: etimologicamente apoikía implica distacco e spesso ai “coloni” era perfino preclusa la possibilità di tornare a casa!

Ad un conservatorismo istituzionale e culturale corrisponde (o sembra corrispondere, dai documenti che abbiamo) un’indipendenza economica solo relativa. Se proprio volessimo trovare delle analogie con qualche esperienza moderna, dovremmo fare appello al sistema coloniale britannico, “l’unico che sviluppò contemporaneamente tutti i tipi di colonizzazione (dalla colonia commerciale a quella di piantagione, fino a quella penale) produsse anche una colonia di insediamento, formata in terra vergine a liberi agricoltori. Questo modello di colonizzazione moderna è l’unico che si possa avvicinare a quello di certe fondazioni greche in territorio non greco, salva restando la ovvia differenza dei rapporti di produzione esportati”, (Federica Cordano, Antiche Fondazioni Greche, p.16).

La colonizzazione greca ha dunque delle caratteristiche peculiari che affondano le radici nei processi di formazione della polis, che la differenziano non solo dalle esperienze europee in epoca moderna, in cui esiste un complesso rapporto di dipendenza istituzionale, sociale, culturale ed economico con la madrepatria, ma anche con le precedenti esperienze vissute nella storia della Grecia arcaica. Sto pensando al passaggio in Asia Minore degli Ioni e degli Eoli e ai contatti micenei stabiliti nel II millennio.

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Come sottolinea molto bene Federica Cordano, anche se le fonti antiche definiscono queste esperienze come esempi di colonizzazione, il termine va inteso cum grano salis: questi spostamenti rispondono a tutt’altra logica e appartengono a un periodo in cui la Grecia era teatro di migrazioni, non di spostamenti esplicitamente finalizzati alla fondazione di una polis (che nemmeno esisteva istituzionalmente parlando, visto che la Grecia non era ancora Hellás, ossia un insieme di città-stato in grado di “esportare” le istituzioni politiche tipiche di questa forma di aggregazione sociale).

Le città della Ionia e dell’Eolide, concepite (come abbiamo accennato) comunque come apoikíai, in quanto la tradizione posteriore non ha saputo interpretare gli spostamenti in massa se non in questi termini, nascono dalla dissoluzione del mondo miceneo e il loro sviluppo si deve a presupposti etnici e ad ecisti mitici. Tra queste due esperienze, impropriamente designate con lo stesso termine, si colloca infatti il cosiddetto rinascimento greco, un processo che conduce la Grecia ad uscire da un’età buia e che è ben attestato nelle pagine di Esiodo (e dalla documentazione archeologica tra il IX e l’VIII secolo).

Moses I. Finley ha tracciato uno schema dei tipi di colonie antiche partendo dall’analisi della terminologia coloniale inglese e francese per mettere in guardia dalle facili sovrapposizioni. Ettore Lepore ha ripreso il discorso ampliando l’esame della bibliografia specifica. Egli mette in particolare rilievo come le interpretazioni modernistiche della colonizzazione greca abbiano ‘viziato il dibattito sulle sue cause anche in avvedute e acute analisi’ conducendo alla schematica divisione in colonie agrarie e colonie commerciali, divisione che si trova anche nei fondamentali studi sulla colonizzazione greca di Dunbabin e Bérard e, diversamente rielaborata, di Cl. Mossé. L’aver preso in prestito il vocabolo colonia ha trascinato con sé tutta la terminologia coloniale. […] Questa terminologia non è stata adottata solo per ragioni di comodo, ma perché l’interesse espresso dagli storici moderni per la colonizzazione greca non è mai completamente disgiunto da quello per la colonizzazione moderna ed europea. Questo è avvenuto soprattutto nei secoli passati e nella prima metà del nostro”, (Federica Cordano, Antiche Fondazioni Greche, p.16).

Una principessa micenea.

La colonizzazione in Sicilia: un esempio conservatore? Le fondazioni siciliane sono solo uno dei numerosi esempi che potremmo fare per mostrare come i nuovi insediamenti non erano intesi come luoghi in cui costruire un nuovo modello di società ed eventualmente migliorare le istituzioni vigenti nelle metropoleis, ma erano vissute come “copie” delle poleis da cui provenivano i fondatori. Probabilmente non poteva andare diversamente, visto che si era appena innescato il processo di recupero e revisione delle legislazioni, le strutture familiari e sociali si stavano consolidando e siamo ancora lontani dal periodo classico, da ciò che accadrà tra V e IV secolo. Detto ciò, è interessante riflettere sulle letture filosofiche che vennero date di questo fenomeno proprio nel periodo classico.

L’analisi delle fonti provenienti dalla riflessione filosofica sembra deporre in favore della necessità del processo di colonizzazione e del conservatorismo nella gestione delle nuove città. Nelle Leggi Platone afferma chiaramente che si possono ottenere coloni da fenomeni di sovrappopolazione, ossia in quei casi in cui le terre e le derrate alimentari si rivelano insufficienti per il sostentamento degli abitanti della regione (707e). Precisa, in seguito, che a causa delle lotte civili può accadere che un intero partito sia costretto all’esilio e che, nei casi più estremi, un’intera popolazione sia costretta a spostarsi a causa di rivolgimenti sociali o peggio a causa di una guerra (708b). Il concetto è chiaro: una colonia viene fondata per necessita, non perché dietro vi sia un preciso progetto politico o sociale.

Come ho accennato all’inizio, Aristotele sembra andare addirittura oltre. L’idea platonica viene infatti in qualche misura assolutizzata, se si leggono alcuni passi della Politica in cui si parla dell’esigenza di limitare il numero dei cittadini (1265a e 1326b), di controllare le nascite (1265b, 1266b, 1270b) e di mantenere fisso il numero dei lotti familiari anche tramite le adozioni (1274a-b). Infine, e qui Aristotele è molto chiaro, è proibito alienare la proprietà terriera (1265b-1266b, 1270a, 1319a).

Tutte queste istanze sono evidenti nell’intero processo di colonizzazione, in particolare nelle colonie calcidesi che diedero vita a Zancle (Messina) che fondò Mylai (Milazzo) e Imera per motivi strettamente commerciali, Reggio, Nasso (734), Leontini e Catania (728). La struttura politica delle colonie calcidesi riprende quella della madrepatria: Calcide ed Eretria avevano infatti elaborato un sistema oligarchico fondato su criteri aristocratici e censitari, basato sui privilegi di nascita e ricchezza. Ed è proprio Aristotele a porre in contemporaneità questi regimi con la colonizzazione arcaica e, quindi, ad indicare nelle dinamiche di classe il motore di questo processo, che diventerebbe la via di fuga privilegiata per coloro che non trovavano in patria possibilità di successo. Oligarchia e mobilità economica sembrano quindi i suoi ingredienti essenziali.

Nell’immagine vediamo le colonie in Magna Grecia e in Sicilia. Le fondazioni campane, lucane e della Sicilia nordorientali sono ioniche, quelle pugliesi e della Sicilia meridionale sono invece doriche; le restanti fondazioni sono di coloni greci provenienti dall’Acaia. (CC BY-SA 4.0).

E questo può aiutarci a sfatare qualche mito in merito alle cause della colonizzazione arcaica. È importante a questo punto non farsi fuorviare e non cadere nella trappola del dibattito tra motivazioni commerciali, agricole e o di popolamento. È del tutto legittimo interrogarsi sulle cause della colonizzazione arcaica e sul suo significato; illegittimo è invece usare idee, concetti moderni e trovare una risposta nella loro retroazione acritica.

È naturale che chi si allontana dalla propria patria lo fa anche (e forse soprattutto) per cercare terre fertili e per fare fortuna; ciò rientra nella specificità dell’economia antica che, pur conoscendo le dinamiche introdotte dalle attività commerciali e artigianali, resta essenzialmente legata all’agricoltura. Motivazioni più evidenti sono di natura politico-religiosa, come mostra bene Aristotele. Ragioni demografiche e territoriali, accompagnate da discriminazioni sociali e religiose, portano a uno scontro tra chi non ha il pieno possesso dei diritti politici e le ristrette oligarchie conservatrici.

Concludo con un chiaro esempio di conservatorismo istituzionale. Basti pensare alle legislazioni antiche. Si tratta di una vera e propria “esportazione” di usi, costumi, tradizioni e leggi già in vigore nella madrepatria. Le figure di riferimento sono in bilico tra la storia e il mito: Zaleuco di Locri Epizefiri (il nome significa bianco splendente) secondo la tradizione era monocolo e viene descritto con tutte le caratteristiche tipiche delle divinità solari. Molti sono infatti i dubbi sulla sua reale esistenza (e non ce ne meravigliamo). La legge del taglione e le pene capitali per il furto vengono di solito attribuite a lui o, meglio alle tradizioni diffuse in quel periodo.

Con Caronda di Catania il discorso è simile. Invece a Draconte (il cui nome significa serpente, l’animale sacro ad Atena) si devono le leggi scritte addirittura col sangue. Ma qui il punto importante è che siamo nel 621/620 e che Solone nel 594 conservò la parte relativa agli omicidi, che costituisce un notevole passo avanti verso l’affermazione del potere dello Stato. L’iniziativa dell’azione penale è in capo alla famiglia, ma è il legislatore che stabilisce tempi, modi e limiti della punizione. Distinguendo, poi, tra delitto volontario, preterintenzionale e giustificato si supera l’idea dell’oggettività della colpa e si prende in considerazione la soggettività del colpevole. Poco ci importa dunque se sia stato Draconte o meno; il punto importante è l’atteggiamento conservatore nella fondazione delle “colonie” greche. Il tutto per dire che la testimonianza di Aristotele mi sembra abbastanza attendibile.

Bibliografia e Fonti:
Platone, Le Leggi, BUR.

Aristotele, Politica, Laterza.

F. Cordano, Antiche Fondazioni Greche, Sellerio.

M. I. Finley, Colonies. An Attempt at a Typology, “Transaction of the Royal Historical Society”, 1976/26, pp. 166-188.

E. Lepore, La fioritura delle aristocrazie e la nascita della polis, “Storia e Civiltà dei Greci”, 1978/1, pp. 183-253.

E. Lepore, I Greci in Italia, “Storia della Società Italiana I. Dalla Preistoria all’Espansione di Roma”, 1981/1, pp. 213-268.

C. Mossé, La colonisation das l’antiquité, Paris, 1970.

D. Musti, L’economia in Grecia, Laterza.

C. Bearzot, Manuale di storia greca, Il Mulino.

L. Braccesi, F. Raviola, Guida allo studio della storia greca, Laterza.

D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Laterza.