La strage di Addis Abeba del 1937

È è il 19 febbraio 1937, ci troviamo in Etiopia, più precisamente ad Addis Abeba, quel giorno il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani e parte delle autorità italiane presenti in Etiopia stanno partecipando ad una cerimonia presso il recinto del Piccolo Ghebì del Palazzo Guenete Leul. La cerimonia però, viene brutalmente interrotta dall’esplosione di alcune bombe a mano lanciate dalla folla contro le autorità.

Si tratta di un attentato compiuto da due giovani ribelli etiopi che avrebbe innescato il più grande massacro di civili, ad opera dei fascisti nella storia d’Italia, noto come strage di Addis Abeba o massacro di Graziani, sintetizzabile in una rappresaglia di tre giorni di violenze assoluta e indiscriminata ad opera delle milizie fasciste tra il 19 e 21 febbraio 1937. Questa sintesi tuttavia è fin troppo benevola nei confronti dei coloni, poiché non tiene traccia di alcuni tratti peculiari che rendono questa strage molto più di una semplice rappresaglia durata tre giorni.

La violenza sistemica è infatti un tassello importante della strategia coloniale fascista, ed episodi analoghi, se pur di intensità e portata minore, hanno accompagnato l’intera esperienza coloniale dell’Italia degli anni 30.

Ho voluto quindi produrre un racconto, il più possibile ricco di documenti e testimonianze, per inquadrare e contestualizzare al meglio ciò che accadde durante i tre giorni (e non solo) della strage di Addis Abeba. L’analisi di questa tragedia, si basa prevalentemente su documenti ufficiali italiani oltre a testimonianze dirette, lettere e telegrammi, e le più ampie narrazioni di questi eccidi, magistralmente raccontato in “Il massacro di Abbis Ababa, una vergogna italiana” di Ian Campbel, edito in Italia da Rizzoli, e l’opera monumentale di Angelo del Boca, “Italiani Brava Gente?” che a differenza del saggio di Campbell, fornisce un quadro generale sull’italiano nuovo concepito e prodotto dal regime fascista e i suoi crimini dentro e soprattutto fuori dall’Italia geografica e imperiale.

L’attentato a Graziani e la strage di Addis Abeba

Come anticipato, la strage di Addis Abeba di base è una rappresaglia innescata da un attentato al viceré Rodolfo Graziani. Da quel che sappiamo sull’attentato i responsabili furono due giovani etiopi, membri della resistenza e affiliati ad un gruppo noto come Yechebooch Tarik, letteralmente Giovani Etiopi, un movimento costituito prevalentemente da intellettuali, studenti e religiosi, che si opponevano al dominio coloniale italiano. Tra di loro militano anche, Abraha Deboch, un giovane etiope che aveva studiato in Italia e Moges Asgedom, anch’egli educato in istituti italiani e secondo le fonti ufficiali, questi due giovani furono gli organizzatori ed esecutori dell’attentato al viceré Graziani.

La narrazione ufficiale vuole che i due attentatori riuscirono ad infiltrarsi tra la folla, portando con sé alcune bombe a mano nascoste nei cesti della frutta e durante la cerimonia, lanciarono quegli ordigni verso il palco riuscendo a ferire gravemente Graziani e altri cinque ufficiali italiani.

Sempre secondo la narrazione ufficiale, unica testimonianza che abbiamo sull’attentato, poiché tutti i partecipanti non fascisti alla cerimonia non sono sopravvissuti alla strage, il caos scaturito dalle esplosioni offrì ai due attentatori la possibilità di lasciare la piazza, fuggire e nascondersi temporaneamente. Nonostante la fuga, le fonti ufficiali ci dicono che gli attentatori vennero individuati e catturati la stessa mattina del 19 febbraio, e senza troppe cerimonie e indagini, immediatamente giustiziati e i loro corpi esposti pubblicamente come monito per la popolazione.

Si potrebbe discutere ampiamente su questa narrazione che propone una straordinaria efficacia delle autorità fasciste nell’individuare e catturare i due attentatori, ma non è da escludere che sia vera, anzi, è probabile che molti etiopi, pur di evitare rappresaglie, collaborarono con le milizie fasciste. Certo, una collaborazione che col senno del poi fu totalmente inutile visto che le rappresaglie iniziarono ugualmente dopo la cattura dei presunti attentatori, ma questa è un altra storia.

L’esibizione pubblica dei corpi degli attentatori, giocava un ruolo politico, era un messaggio aperto e diretto alla popolazione, stava a significare “questa è la fine di tutti i ribelli”, e non fu un caso unico, l’esposizione in pubblica piazza dei corpi dei ribelli uccisi, era in vero una prassi nel regime fascista che fu presto importata anche dal regime nazista, che fu ampiamente usato dall’Italia in Etiopia, durante l’occupazione dell’Istria e Dalmazia e durante la guerra civile italiana, dove ad essere esibiti erano i corpi dei partigiani italiani.

Esibire i corpi senza vita degli attentatori serviva a diffondere paura e terrore e reprimere la resistenza nell’orrore di quello scempio, tuttavia, quell’esibizione di violenza, incendiò lo spirito dei coloni fascisti, che videro in quell’attentato al viceré Graziani un pretesto per dare libero sfogo a tutto l’odio che provavano nei confronti degli indigeni e così, fin dalla mattina del 19 febbraio, i coloni italiani in Etiopia massacrarono migliaia di persone, i più fortunati vennero passati per le armi, altri vennero bastonati a morte, altri ancora, bruciati vivi insieme alle proprie abitazione, e si stima inoltre che interi villaggi, alle porte di Addis Abeba, vennero sterminatiti con armi chimiche. E sulle armi chimiche usate dall’Italia in Etiopia si potrebbe parlare ancora a lungo, ma non è questo il luogo.

L’insieme di questi elementi rende la strage di Addis Abeba del 1937 uno dei capitoli più oscuri della storia italiana, un episodio caratterizzato da una brutalità e una disumanità senza eguali ne precedenti nella storia, al cui confronto le mutilazioni attuate da Leopoldo del Congo sembrano un trattamento quasi umano. I documenti ufficiali, le lettere, i telegrammi dell’epoca e le testimonianze, ci dicono che, contrariamente a quanto sostenuto da Montanelli, quella rappresaglia non fu un atto isolato, ma era parte di una strategia deliberata per annientare e reprimere nel sangue ogni qualsivoglia forma di resistenza da parte della popolazione etiope.

Contesto storico del massacro

La strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 ed il 21 febbraio 1937, si colloca come anticipato nel contesto generale del colonialismo fascista. L’Italia ha iniziato la propria avventura coloniale nel corno d’africa da poco più di un anno, la campagna di Etiopia è iniziata nell’ottobre del 35 e si è rapidamente conclusa nel maggio del 36, e Graziani è viceré di Etiopia da appena otto mesi, ha ricevuto l’incarico nel 36.

L’attentato non è letale, Graziani sopravvive all’attentato, in effetti Graziani sopravvive anche al Fascismo visto che nel 1953 succede alla guida del Movimento Sociale Italiano, ma anche questa è un altra storia, e sebbene gli attentatori, come abbiamo visto, furono prontamente catturati e giustiziati, la reazione italiana, anzi, la reazione fascista, fu immediata, violenta e soprattutto sproporzionata.

Le rappresaglie dei tre giorni successivi produssero circa 19.000 vittime etiopi nella sola Addis Abeba, numeri che superano i 30.000 se si tiene conto anche delle vittime nei villaggi limitrofi e cresce esponenzialmente se si tiene traccia anche di altre rappresaglie, successive al 21 febbraio, giustificate dalla possibile collaborazione con gli attentatori del 19 febbraio.

Restando ad Addis Abeba, le strade si tinsero di rosso, il cielo fu fu quasi oscurato dalle fiamme delle capanne, al cui interno erano bloccati gli indigeni e sui cui tetti venne versata benzina uccidendo i più fortunati per asfissia mentre altri bruciarono vivi e in preda al terrore. Nella corrispondenza e nei diari dei coloni troviamo un racconto macabro di quei giorni e di quei massacri, alcuni di loro vanno fieri di aver bruciato capanne con dentro intere famiglie, altri ancora di aver bastonato a morte uomini donne e bambini, prima di bruciare i loro corpi. Qualcun’o dichiara di aver stuprato donne di fronte ai mariti e figli prima di ucciderli ‘altro va anche oltre.

Paradossalmente però, nonostante abbiamo una vasta documentazione su tali crimini, e nella maggior parte dei casi sono gli stessi coloni fascisti ad ammettere di aver massacrato civili etiopi, nessuno di loro, durante e dopo il regime fascista, è stato processato. Lo stesso Rodolfo Graziani, che ha ordinato le rappresaglie ed ha chiesto al ministero delle colonie l’autorizzazione ad usare armi chimiche contro la popolazione civile, come forma di rappresaglia per l’attentato subito, non verrà punito e anzi, in età repubblicana grazie alla “grande amnistia” per la pacificazione nazionale, voluta un po’ dalla P2 un pò da pressioni USA, avrà modo di tornare a fare politica e nel 53 succede a Juno Valerio Borghese alla guida del Movimento Sociale Italiano, ma anche questa è un altra storia.

Tornando alla strage di Addis Abeba, in termini puramente numerici essa rappresenta una delle più ampie rappresaglie coloniale di cui abbiamo traccia nella storia italiana, e in termini più ampi intesa come un massacro su larga scala, pochi eventi nella storia hanno fatto più vittime in così poco tempo, vi lascio immaginare quali.

Come già detto, quella strage non fu l’unica, ne la prima o l’ultima. Episodi analoghi, seppur di portata minore, accompagnano l’intera esperienza coloniale dell’Italia fascista poiché, come vedremo a breve, la violenza era una delle colonne portanti del regime. Nel solo contesto coloniale le autorità fasciste cercarono, ovunque si insediarono, di consolidare il proprio potere ed il controllo sulla popolazione civile attraverso l’uso sistemico della violenza.

Documenti Ufficiali e Fonti Primarie

Ciò che sappiamo della strage di Addis Abeba ci arriva prevalentemente da documenti ufficiali, in particolare documenti dell’allora Ministero delle Colonie, tra questi documenti anche lettere e telegrammi, ma anche diari privati. Tra i documenti più importanti che possiamo consultare una serie di telegrammi tra gli uffici di Graziani ad Addis Abeba e il ministero delle colonie, in cui il viceré chiede l’autorizzazione a reprimere la rivolta, usando anche armi chimiche, e le rispettive risposte da parte di funzionari di Roma tra cui lo stesso Mussolini. Tra questi documenti spicca un telegramma datato 19 febbraio 1937, si tratta di una risposta inviata da Mussolini in persona, in cui si diceva che “Tuitti i civili e religiosi, comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi.”

Questo telegramma fa parte di un più ampio scambio di comunicazioni, di cui però non abbiamo traccia nella sua interezza. Sappiamo però che una delle risposte, datata 20 febbraio, è un telegramma inviato dal generale Pietro Maletti al ministero delle colonie, con cui il generale fornisce un resoconto dettagliato delle misure adottate per “punire esemplarmente” la popolazione locale, ed è importante sottolineare che Maletti parla di punire la popolazione, non i ribelli.

Altri documenti ci forniscono una panoramica più ampia sulla strage, fornendo una serie di dettagli macabri sulle atrocità commesse, prima, dopo e durante i tre giorni di rappresaglia. Particolarmente significativa alcune lettere del capitano Luigi Frusci inviate al comando centrale, lettere in cui scriveva che “La lezione deve essere severa affinché nessuno osi più sfidare la potenza dell’Italia“, si confermano poi esecuzioni sommarie e la distruzione di interi villaggi.

Scavando tra questi documenti è possibile imbattersi in testimonianze estremamente crude e raccapriccianti, alcuni di essi ad esempio ci raccontano la metodologia, estremamente efficiente e crudele, con cui si giustiziavano i ribelli. Angelo del Boca in Italiani brava gente? Riporta alcuni di questi episodi, uno dei quali è così riducibile. Decine di uomini in catena venivano condotti in una cava, lì, un telo copriva le loro teste e uno alla volta venivano scoperti e passati per le armi. Uno dopo l’altro tutti i prigionieri venivano giustiziati, tuttavia, essi incatenati tra loro, non avevano modo di sapere quando sarebbe stato il proprio turno per morire.

La maggior parte dei documenti che abbiamo a testimonianza della strage di Addis Abeba e degli eccidi sistemici nell’Italia coloniale, sono diventati di pubblico dominio solo molti anni dopo la fine del regime fascista e la fine della prima repubblica. Basti pensare che per un ammissione del Ministero degli Esteri sull’uso di armi chimiche in Etiopia durante la guerra coloniale, tra 1935 e 1936, abbiamo dovuto aspettare il 1996. In effetti la maggior parte di questi documenti sono diventati “accessibili intorno alla metà degli anni novanta.

Oggi telegrammi e lettere tra funzionari al seguito del viceré Graziani e il ministero delle colonie e le varie corrispondenze tra governo e le cancellerie estere, sono conservati principalmente presso l’archivio di stato diplomatico, altri documenti, come ordini operativi e rapporti sono invece conservati presso l’archivio centrale dello stato, per quanto riguarda lettere private e diari, alcuni di questi sono relativamente di pubblico dominio e fanno parte di fondi e collezioni private aperte al pubblico, altre invece sono completamente blindate.

La reazione internazionale alla strage

Un avvenimento così violento e incisivo, come la strage di Addis Abeba, non poteva passare inosservato alle cancellerie estere o alla Società delle Nazioni. Sappiamo a tale proposito che il regime cercò di minimizzare l’avvenimento, mettendo in funzione a pieno regime la macchina della censura ma alcune informazioni riuscirono comunque fuoriuscire dall’Etiopia causando alcune critiche, che tuttavia si risolsero in un nulla di fatto.

All’atto pratico abbiamo tanto fumo ma poca sostanza, dovuta soprattutto alla debolezza della Società delle Nazioni, l’organo internazionale più significativo dell’epoca, il cui potere tuttavia era pressocché nulla. La società era in effetti già intervenuta nel 1935 ammonendo l’Italia per la propria iniziativa coloniale, ammonizione che tuttavia non scosse minimamente il regime e non ebbe nessun effetto, così, nel 37, all’indomani della strage di Addis Abeba, la società delle nazioni, scelse il silenzio e la neutralità.

Come dicevamo, nonostante i tentativi di censura di Graziani e del Regime in Italia, qualche notizia sulla gestione delle rappresaglie trapelò e negli uffici diplomatici di Francia e Regno Unito troviamo traccia di queste informazioni, iniziarono infatti a circolare numerosi rapporti che rivelavano una crescente preoccupazione per le violenze perpetrate dal regime fascista in Etiopia. In un documento del Foreign Office Britannico la repressione italiana viene descritta come “una campagna di terrore senza precedenti”. Nonostante queste partole però, ciò che preoccupava realmente Francia e Regno Unito era altro, è il febbraio del 1937 e da lì a qualche mese il ministro degli esteri britannico, Lord Halifax, avrebbe rassicurato persino Hitler, considerando la Germania Nazista l’ultimo baluardo dell’Europa civilizzata contro la barbarie bolscevica.

Lo stesso vale per l’Italia, la brutale repressione dei “ribelli” etiopi passa in secondo piano rispetto all’ombra più minacciosa e imminente che aleggia sull’Europa, ovvero la minaccia Sovietica che il fascismo aveva sradicato dall’Italia come si fa con una pianta infestante, di conseguenza, temendo di compromettere i buoni rapporti con Mussolini, in vista di un possibile scontro con i sovietici, si decise di per il non intervento.

L’unica potenza estera che espresse formalmente la propria preoccupazione, pur rimanendo comunque neutrale nei confronti dell’Italia, furono gli Stati Uniti. Sappiamo infatti che alcuni diplomatici statunitensi, non direttamente presenti in Etiopia, inviarono a Washington diversi rapporti basati su testimonianze indirette con cui documentavano in modo dettagliato le atrocità commesse dalle truppe italiane in Etiopia. Questi resoconti sono conservati presso gli archivi del dipartimento di stato e sono pubblicamente consultabili.

C’è in sostanza una marginale preoccupazione internazionale per le violenze italiane in Etiopia, ma siamo sul finire degli anni 30 del novecento, e l’opinione pubblica mondiale non è più solo l’opinione e la posizione ufficiale dei governi. Esistono in quel tempo e si stanno diffondendo su scala globale i primi movimenti anticoloniali, e questi, appresa la notizia della strage di Addis Abeba, ne fecero un simbolo, un evento emblematico delle ingiustizie del dominio coloniale.

Tali movimenti, va detto che nel 37 erano poco più che delle voci minori e con poco seguito ed ebbero maggior successo dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma già nel 37 provarono a far sentire la propria voce, coinvolgendo intellettuali e attivisti di tutto il mondo, denunciarono pubblicamente le violenze italiane con pamphlet e articoli sui propri giornali indipendenti che mettevano in evidenza la sistematicità delle rappresaglie italiane e chiedevano giustizia per le vittime. Tale mobilitazione però, non ebbe molto successo.

Anche in Italia, nonostante il tentativo di censura voluto dal regime, qualche notizia trapelò, suscitando qualche critica nei confronti delle politiche coloniali del regime stesso, considerato promotore e mandante di tali violenze, critiche che tuttavia venne etichettate quasi immediatamente come propaganda del Partito Comunista Italiano che attraverso i propri pamphlet e articoli pubblicati soprattutto all’estero, cercava di mettere in cattiva luce l’opera civilizzatrice del governo fascista e dell’impresa coloniale italiana in Etiopia.

L’emblematico caso di Debre Libanos e la testimonianza diretta

Scavando tra le lievi voci fuori dal coro, che sopravvissero alla macchina della censura del fascismo, troviamo una delle testimonianze più agghiacciante degli eventi di quei giorni, si tratta della testimonianza diretta di un monaco del monastero di Debre Libanos, dove settimane dopo la fine delle rappresaglie da parte dei civili, i soldati italiani massacrarono oltre 2000 persone tra monaci e pellegrini accusati di aver partecipato e sostenuto la resistenza. Il monaco, in un intervista degli anni 60 ha raccontato dettagliatamente cosa accadde agli inizi di maggio del 1937 nel monastero di Debre Libanos e la sua testimonianza integrale è riportata nel libro di Ian Campbell, Il Massacro di Addis Abeba, una vergogna italiana, qui lascio solo un breve estratto.

“Le truppe arrivarono all’alba, bruciarono le case e uccisero chiunque cercasse di fermarli. Molti furono costretti a scavare le proprie fosse prima di essere fucilati”

Ciò che emerge dalle testimonianze dei superstiti di Debre Libanos, oltre all’inaudita violenza di quelle ore, è il modo surreale e pretestuoso con cui i gli le milizie fasciste giustificarono quelle azioni. Nel monastero di Debre Libanos i soldati italiani giunsero alle prime luci dell’alba, mesi dopo la fine della strage e accusarono i monaci di aver partecipato o sostenuto attivamente la resistenza etiope, accuse infondate e pretestuose, finalizzate esclusivamente a legittimare un massacro di innocenti, ma che partono dal telegramma di Mussolini del 19 febbraio. Quello in cui dice di passare per le armi tutti i civili e religiosi, sospettati di un coinvolgimento con la resistenza.

Non era importante che ci fosse un collegamento reale, era sufficiente un pretesto, per giustiziare decine, centinaia, migliaia di persone. L’episodio di Debre Libanos è collegato solo indirettamente agli eccidi del 19-21 febbraio 1937, poiché fu una delle innumerevoli rappresaglie scaturite dall’attentato a Graziani, rappresaglie che continuarono per mesi e che ci permettono di comprendere la reale dimensione, portata e natura di quanto accadde in quei giorni di fine febbraio 1937, una strage che uno fu solo una rappresaglia, ma un autentico crimine d’odio.

Conclusione

La strage di Addis Abeba del 1937 non si limita ai soli 3 giorni di violenza indiscriminata intercorsi tra il 19 ed il 21 febbraio e rappresenta uno dei capitoli più bui del colonialismo italiano e della storia italiana.

Si tratta di un evento la cui la brutalità senza eguali e precedenti svela una metodologia sistematica, con cui il regime fascista cercò di consolidare il proprio dominio assoluto sull’Etiopia.

Le dimensioni della violenza furono immense, si contano migliaia di vittime civili in soli tre giorni di rappresaglie, le stime ufficiali parlano di un numero di vittime civili che oscilla tra le 19.000 e le 30.000 ma è probabile che siano molte di più. La maggior parte delle vittime tra il 19 ed il 21 febbraio non furono causate dai soldati fascisti, ma dai coloni italiani, fascisti convinti che cercavano solo un pretesto per dar sfogo alla propria crudeltà, e quel pretesto arrivò con l’attentato al viceré Rodolfo Graziani. Questo massacro come abbiamo visto, non fu un atto isolato ma faceva parte di una più ampia strategia, o forse sarebbe meglio dire, di una consolidata metodologia, per reprimere nel terrore ogni forma di resistenza. E si protrasse nel tempo e lo spazio ben oltre i limiti temporali del colonialismo fascista.

La portata di questa strage va infatti ben oltre il numero delle vittime. Essa fu un espressione del reale volto del fascismo, Rodolfo Graziani era agli occhi di Mussolini uno dei migliori esempi di Italianità, era un “fascista ideale” il prototipo di un fascista esemplare che il regime stava cercando di costruire. Questa strage va oltre il colonialismo fascista e simboleggia la natura brutale che muoveva lo stesso fascismo, evidenzia quella logica di violenza indiscriminata usata come strumento di controllo politico e sociale e che rendeva la colonia d’Africa, lontana da occhi indesiderati, un perfetto laboratorio per testare la propria efficacia, del resto, la popolazione indigena era agli occhi dei colonizzatori una popolazione sostanzialmente priva di diritti, considerata sporca e selvaggia, da civilizzare o eliminare.

L’Italia fascista era impegnata in una campagna “civilizzatrice” concetto che nella sua applicazione assomiglia più a quello di “pulizia etnica” che ad altro. Poiché il rango di “civilizzato” spettava unicamente alla popolazione bianca. La strage di Addis Abeba ci dice chiaramente che la maggior parte dei coloni italiani in Etiopia erano razzisti e che il razzismo e le teorie sulla superiorità della razza non furono importate dalla Germania nazista. Va infatti ricordato che siamo nel febbraio del 1937 e in Italia le leggi raziali verranno introdotte solo nel novembre del 1938. Questa strage nel complesso porta con se un significato storico profondo e complesso, essa è un monito sulla natura distruttiva del colonialismo e del fascismo, della violenza politica e delle conseguenze devastanti delle teorie sulla supremazia razziale e militare.

È una strage che nella sua crudeltà ha qualcosa da insegnarci e la memoria di questo evento nefasto è qualcosa che andrebbe protetto e conservato nel patrimonio culturale dell’intera umanità, tuttavia, il suo ricordo, soprattutto in Italia, è ancora fortemente ostacolato, è come se gli italiani avessero cercato di rimuovere e dimenticare questo capitolo di inaudita violenza e crudeltà dalla propria memoria. Tuttavia, sempre più studi a partire dagli anni 90, stanno contribuendo a riportare alla luce la verità su quanto accadde ad Addis Abeba tra il 19 ed il 21 febbraio 1937.

Mi permetto una piccola considerazione personale, quella strage è una ferita aperta, forse più per gli italiani che per gli Etiopi, poiché ricordare quei momenti, quella strage, significa fare i conti con un passato nefasto che abbiamo chiuso in un vergognoso armadietto di Roma, più di 75 anni fa, e lì lo abbiamo abbandonato sperando che prima o poi svanisse dalla storia.

Bibliografia e letture consigliate

Libri

Etiopia, lontano dall’Occidente – Marco de Paoli – Mimesis
Il massacro di Addis Abeba – Ian Campbell – Rizzoli Libri
Debre Libanos 1937 – Paolo Borruso – Editori Laterza
Italiani brava gente? – Angelo Del Boca – BEAT

Articoli

La memoria rimossa. «Il Massacro di Addis Abeba”
La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos
Yekatit 12 | Febbraio 19. Ricordiamo i crimini del colonialismo italiano
Addis Abeba 1937, ventimila vittime degli italiani brava gente
Il massacro di Addis Abeba e la ferocia del colonialismo italiano
L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia nel 1936-37

FOIBE || La strage di italiani insabbiata dal governo

La questione delle stragi delle Foibe e il “silenzio della politica italiana di quegli anni” , da qualche anno è diventato un elemento centrale nel dibattito pubblico che viene ad originarsi sul web durante alcune manifestazioni della memoria, volte a non dimenticare, i crimini di guerra compiuti durante la seconda guerra mondiale. Il tema delle Foibe è spesso utilizzato in modo improprio, estraendo quegli avvenimenti dal contesto storico in cui si verificarono, mi riferisco al silenzio politico oltre che ovviamente alle stragi.

Possiamo sintetizzare il tutto in questa breve frase, dietro l’insabbiamento degli eccidi delle foibe, si celano profonde ragioni di stato e politiche, legate al principio di reciprocità. Più espressamente, procedere nel dopoguerra con i processi a carico die criminali di guerra Jugoslavi, avrebbe implicato processi analoghi contro criminali di guerra italiani (responsabili di crimini in Jugoslavia) tra cui anche nomi illustri, come Gabriele D’annunzio.

La neonata repubblica Italiana, che stava godendo in quel momento dell’immagine di “brava gente vittima del fascismo e di Mussolini” non poteva e non voleva rischiare di rivangare il proprio passato, di ammettere una complicità estesa, soprattutto nelle periferie coloniali, con il regime. Per cui, la dove possibile, bisognava insabbiare.

Ripulire le mani degli italiani però non è l’unica ragione, vedremo infatti che vi era in sentito timore che lo scontro giuridico ed i processi politici avrebbero potuto prolungare il conflitto ben oltre la sua fase di belligeranza armata, e per l’Italia che giocava un ruolo strategico nel Mediterraneo per effetto di un nuovo ordinamento mondiale che andava delineandosi, era di vitale importanza, mantenere il più possibile rapporti “pacifici” con i vicini Jugoslavi, il cui collocamento geopolitico era ancora incerto.

Tante ragioni quindi, politiche, strategiche, storiche, riassumibili nel concetto di “ragion di stato” spinsero la classe politica dell’epoca ad insabbiare tutto.

Ho avuto la possibilità, qualche anno fa, di recuperare un vecchio “intervento” di Giulio Andreotti, risalente al febbraio 2007, un intervento che segue di 3 anni l’istituzione della giornata della memoria per le vittime delle foibe e che, in un modo o nell’altro, ci dice tanto.

Integrerò la dichiarazione di Andreotti con alcune spiegazioni, estratte dai miei appunti inerenti un ciclo di lezioni all’Università di Pisa risalente al 2016, in modo da rendere il più chiaro possibile cosa accadde sul piano politico nell’Italia a ridosso della seconda guerra mondiale e l’inizio dell’età repubblicana, tra il 1945 ed il 1948.

“Credo sia mio dovere intervenire perché questa espressione di riferimento ad un lungo silenzio può essere equivoca. Ho vissuto quel periodo e quindi lo conosco direttamente e vorrei dire perché noi abbiamo coscientemente evitato di fare di quell’argomento un motivo che dividesse.”

L’intervento di Andreotti è una risposta all’intervento dell’allora presidente del Senato Franco Marini sulla questione delle Foibe, in cui Andreotti spiega perché all’epoca (nell’immediato dopoguerra) l’argomento fu a suo dire “coscientemente evitato“. Andreotti ricordiamo che, prima di essere un politico di lunga data, protagonista quasi indiscusso della prima repubblica, fu uno dei più giovani membri dell’Assemblea Costituente, uno dei pochi a dire il vero a non avere un passato politico tra le fila del Fascismo.

“Certamente eravamo ispirati da due fattori: innanzitutto, non doveva essere un motivo di polemica interna, perché i Comunisti Italiani non c’entravano niente”

Credo le sue parole siano fin troppo chiare, e non diano molto spazio ad interpretazioni, eravamo in un momento , nel 45, di grande fermento politico, una fase di transizione storica a cavallo tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda, le prime tensioni tra le due superpotenze vincitrici della guerra iniziavano a manifestarsi in maniera concreta e apertamente dichiarata, e di conseguenza iniziavano anche le prime pressioni internazionali per limitare l’azione politica dei gruppi e partiti più vicini all’una o l’altra parte, in particolare si cercava di arginare, nel mondo occidentale e in Italia, quelle formazioni in qualche modo vicine all’unione sovietica, era quindi impossibile affrontare un tema che riguardasse un paese comunista come la Jugoslavia, senza che le sue responsabilità ricadessero di riflesso sui comunisti italiani, che però, come osserva e ricorda lo stesso Andreotti, non c’entravano nulla.

“in secondo luogo vi era un dovere di cercare quanto più possibile di instaurare con un Paese vicino, con il quale vi era stato più di un motivo di grandissimo contrasto, un clima di comprensione che guardasse al futuro e non al passato.”

In questo passaggio Andreotti fa un tacito riferimento alla “clausola di reciprocità”, un cavillo giuridico utilizzato dall’Italia nell’immediato dopoguerra per prendere le distanze dai crimini del nazismo, e “proteggere” gli italiani da un destino analogo a quello dei condannati a Norimberga.

Sono anni in cui il dibattito internazionale sui crimini di guerra e contro l’umanità è particolarmente acceso, e allo stesso tempo oscuro, non ci sono in quel momento organi di diritto internazionale universalmente riconosciuti, non c’è la Corte di Giustizia Internazionale o la Corte Penale internazionale, e il tribunale speciale di Norimberga, nel suo tentativo di fare giustizia si è presto trasformato in un tribunale dei vincitori sui vinti, che fece venir meno uno dei principi fondamentali del diritto, ovvero la non retroattività di un crimine. Passaggio che però fu necessario vista la brutalità senza precedenti dei crimini nazisti.

A livello giuridico un tale operato fu necessario per punire quelli che erano i crimini, più che evidenti, compiuti dal regime Nazista, che de facto, nell’ordinamento giuridico dell’epoca tecnicamente non erano crimini, poiché compiutisi in modalità e portata totalmente nuova e non prevista da nessun codice nazionale o internazionali. Inoltre, nella Germania Nazista, e successivamente nell’Italia Fascista, tutto ciò era legale.

In quel meccanismo criminale, messo in atto dai regimi Nazi-fascisti, furono coinvolti numerosi ufficiali militari e leader politici italiani, tra cui molti “eroi del fascismo” che in seguito avrebbero voltato le spalle al fascismo e supportato Pietro Badoglio, tra cui lo stesso Badoglio, che in Africa aveva compiuto quelli che dopo Norimberga potevano essere definiti crimini di guerra e contro l’umanità, e lo stesso valeva per molti degli italiani che avevano occupato e amministrato l’area balcanica durante la guerra.

Con la fine della guerra iniziano a diffondersi in tutti i paesi coinvolti, numerose liste di “criminali di guerra”, la Francia prepara la lista dei criminali stranieri attivi in Francia, così come avrebbe fatto la Germania, la Russia, la Polonia, l’Italia e la Jugoslavia.

La maggior parte dei nomi presenti in quelle liste erano ufficiali tedeschi, ma nelle liste non c’erano solo loro, c’erano in realtà molti italiani, ma non mancarono accuse nei confronti di francesi, jugoslavi, britannici, statunitensi, russi ecc.

Alcuni nomi erano presenti in diverse liste, e per semplicità e convenienza politica, si decise di condividere quelle liste, ordinare i criminali per nazionalità e procedere caso per caso, nazione per nazione, attraverso tribunali nazionali che avrebbero avuto il compito di giudicare e punire i propri criminali di guerra, in altri termini l’Italia avrebbe dovuto giudicare e punire i criminali italiani, la Francia i francesi, la Jugoslavia i jugoslavi ecc, ed è proprio qui che entra in gioco la sopracitata “clausola di reciprocità”, prevista dai codici militare, in particolare quello italiano e che permetteva all’Italia di processare i propri criminali di guerra a condizione che i criminali accusati dall’Italia, fossero a loro volta processati, di conseguenza se in Jugoslavia non fossero stati avviati dei processi, l’Italia non avrebbe processato i propri criminali, e viceversa, perché la Jugoslavia processasse i propri criminali, chi aveva commesso crimini in Jugoslavia doveva essere processato.

Tuttavia, Italia, Francia e Jugoslavia in primis che vedevano tra i propri criminali numerosi nomi legati alla politica post bellica, volevano evitare di andare a processo e questo cavillo era esattamente ciò di cui avevano bisogno tutti, poiché avrebbe garantito un’importante scappatoia, in particolare all’Italia e alla Jugoslavia.

La maggior parte dei criminali jugoslavi erano coinvolti direttamente nel neonato governo di Tito, e Tito non avrebbe mai smantellato la nuova classe dirigente del neonato stato di Jugoslavia “solo” per obbligare l’Italia a processare i propri criminali di guerra. E lo stesso valeva per l’Italia.

“Ritengo quindi che il silenzio sia stato più che giusto e che siano state molto opportune le parole dette. Ognuno, del resto, ha la propria opinione e guai se dovessimo avere tutti la stessa! Dal momento che l’ho vissuto, però so che la grande maggioranza degli italiani di quelle zone riteneva di dover guardare verso il futuro e non creare dei solchi che aggravassero ulteriormente la situazione”

L’ultima parte dell’intervento di Andreotti si riferisce alla crescente tensione tra l’Italia e la Jugoslavia nell’immediato dopoguerra, sulla questione del territorio Istriano, di Trieste e parte dell’odierno Friuli, poiché queste regioni che l’Italia rivendicava, durante la guerra furono “liberati” dall’occupazione nazi-fascista, dalle milizie di Tito prima dell’arrivo degli alleati, e di conseguenza alla fine della guerra la Jugoslavia di Tito rivendicò il proprio controllo su quell’area territoriale, che l’Italia aveva occupato alla fine della prima guerra mondiale.

Entrambe le parti volevano quelle regioni e come è facile intuire, ne scaturì una profonda crisi diplomatica che avrebbe sottoposto quelle aree (soprattutto Trieste) ad un controllo internazionale.

In Italia, che aveva partecipato a due guerre mondiali per assicurarsi il controllo di quelle regioni, c’era una profonda volontà politica di mantenere l’unità nazionale e riportare sotto il controllo italiano almeno una parte dei territori controllati da Tito a partire dal 1943 e alla fine, solo una parte di essi tornò effettivamente all’Italia, dopo quasi un decennio di controllo internazionale dell’area di Trieste, terminato nel 1954.

 La mancata Norimberga italiana

Il mancato processo dei criminali “comunisti” che massacrarono oltre 300.000 italiani tra i mondi del carso, del Friuli e della Dalmazia, attraverso gli eccidi delle Foibe, fu un atto politico, largamente voluto dalla politica italiana del secondo dopoguerra. Una politica che antepose le ragioni di stato alla giustizia.

L’Italia avrebbe potuto fare pressioni e richieste alla Jugoslavia affinché avviasse dei processi contro i responsabili degli eccidi, ma non lo fece, anzi, scelse apertamente di non farlo, per tante ragioni, la prima di queste riducibile nella volontà di proteggere se stessa e l’Italia.

Quanto alle vittime delle foibe e gli eccidi stessi, questi furono un crimine d’odio raziale e intolleranza, imperdonabile, che si fondò sulla generalizzazione e che venne oscurato per quella stessa ragione. Per i criminali di guerra Jugoslavi, gli Italiani occupanti erano tutti criminali nazifascisti, complice di quel regime che per vent’anni, in quelle regioni, aveva sottratto terre agli indigeni rastrellato, stuprato, massacrato e umiliato la popolazione locale, in nome della superiorità dell’Italia Fascista. E quella rabbia, quel risentimento, quel desiderio di vendetta, si abbatté su tutti, colpevoli e innocenti, ed è questo ciò che va ricordato, perché quei crimini vanno condannati per ciò che furono. Rappresaglie generalizzate contro gli Italiani, non perché Italiani, ma perché gli Italiani fino a quel momento erano stati Fascisti.

Omettere questa parte della vicenda, significa fingere che gli Italiani da un giorno all’altro, dismisero le camice nere e diventarono tutti brava gente, significa passare una mano di spugna su 20 anni di crimini compiuti in Italia e fuori dall’Italia, e fingere che non sia mai successo.

Le vittime delle Foibe non erano tutti criminali fascisti, e anche se lo fossero stati, non meritavano di essere massacrati in modo così brutale e disumano, ciò che meritavano, tutti, era un processo che giudicasse e punisse i criminali Italiani e Jugoslavi, e assolvesse gli innocenti, ma quel processo, come abbiamo visto, non c’è stato e anzi, è stato volutamente insabbiato, da Italia e Jugoslavia, per ragioni di stato. E a tale proposito, possiamo dire che quell’insabbiamento fu forse la prima (e non unica) “porcheria” commessa dall’Italia repubblicana in nome delle ragioni di stato.

Bibliografia