Le guerre civili somale, dagli anni 90 ad oggi

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questo articolo il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende degli anni ’90 con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo dell’ONU e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Le Vicende degli Anni ’90

Gli anni ’90 rappresentano un momento cruciale nella storia della somala, l’inizio del decennio, la fine del secolo e della guerra fredda su scala globale, coincidono in Somalia con la caduta del regime di Siad Barre, il generale somalo e segretario del Partito Socialista Rivoluzionario Somalo, che governò il paese ininterrottamente tra il 1969 ed il gennaio del 1991, da qui una sanguinosa “guerra di successione” meglio nota come guerra civile somala, che dura salvo brevi interruzioni, va avanti da oltre 30 anni.

Alla base del conflitto vi era la frammentazione del potere, la proliferazione dei signori della guerra già negli anni ottanta, sostenuti in maniera più o meno diretta dai diversi attorti internazionali. Sul piano politico la Somalia a cavallo tra anni 80 e 90 era una polveriera pronta ad esplodere, serviva solo qualcuno che accendesse la miccia e la miccia si accese con la fine della guerra fredda e la caduta di Siad Barre.

Il Crollo del Regime di Siad Barre (1991)

Siamo nel 1990, la Somalia è governata da oltre 30 anni dal generale Mohamed Siad Barre, ma il suo governo è attraversato da una profonda crisi politica, il popolo somalo vive un profondo malcontento, alimentato da tensioni etniche e rivolte armate contro il regime, così, il 26 gennaio 1991, il governo cade, ma, come anticipato, l’enorme frammentazione del potere porta ad una lotta per la successione che impedisce una transizione politica e porta il paese a sprofondare nel caos.

Nel gennaio del 1991 le truppe ribelli, guidate dal generale Mohamed Farrah Aidid entrano a Mogadiscio, ormai il dado è tratto, le forze governative vengono sconfitte, il presidente destituito e per Siad Barre non resta altra possibilità che la fuga, il generale lascia la città e cerca rifugio nell’area sudoccidentale del paese, regione governata da Mohamed Said Hers, genero di Siad Barre che lo aiutò, nel corso del 1991 e 92 nel tentativo di riprendere la capitale, ma senza successo e alla fine, nel 1992, Mohamed Farrah Aidid decretò l’esilio di Siad Barre.

L’Anarchia e il Ruolo dei Signori della Guerra

Mohamed Farrah Aidid controlla la capitale, ma non il paese, la frammentazione del potere che aveva messo in crisi il precedente regime sembra impedire la creazione di un nuovo stato unitario, e in assenza di un governo centrale, riconosciuto da tutte le fazioni, il paese si frammentò ulteriormente, dando vita ad in una miriade di territori controllati da signori innumerevoli signori della guerra e le loro milizia. Semplificando moltissimo, nessuno di loro riconosce l’autorità del governo centrale e tutti vogliono assumere il controllo del paese, ne consegue una veloce e sanguinosa escalation di violenze, con attacchi indiscriminati alla popolazione civile e saccheggi diffusi, alimentati da scarsità di cibo e acqua per via di una profonda carestia che colpì il paese tra 1991 e 1992.

La carestia colpì l’intero corno d’africa, e per quanto riguarda la Somalia, interessò soprattutto le regioni meridionali del paese, causando solo in Somalia, secondo le stime dell’ONU, la morte di circa 300.000 persone tra il 1991 e il 1992.

L’Intervento delle Nazioni Unite: UNOSOM e Operazione Restore Hope

La Somalia è devastata da una catastrofe umanitaria, aggravata dalla guerra civile che rende impossibile, alle organizzazioni umanitarie, la distribuzione di aiuti, si rese così necessaria la mobilitazione delle Nazioni Unite con la missione UNOSOM (United Nations Operation in Somalia). I caschi Blu dell’ONU, impegnati nella missione UNOSOM tuttavia, non furono in grado di contenere la violenza tra le fazioni in lotta.

La richiesta di aiuto della Somalia e dell’ONU viene accolta, se così si può dire, dagli Stati Uniti. L’amministrazione Bush aveva infatti necessità di un importante successo politico internazionale, così nel dicembre del 1992, a quasi 2 anni dall’inizio della guerra civile somala, venne lanciata l’Operazione Restore Hope. L’obiettivo era quello di garantire la sicurezza necessaria per la distribuzione degli aiuti umanitari, e a tale scopo venne inviato in Somalia un contingente militare di circa 25.000 soldati statunitensi.

I signori della guerra locali, che ambivano al potere nella regione, non videro di buon occhio la presenza militare straniera e anzi, la interpretarono in larga parte come un atto di ostilità e un nuovo tentativo coloniale. Mohamed Farrah Aidid, che controllava ancora Mogadiscio, fu uno dei principali detrattori della presenza straniera in Somalia e le crescenti tensioni tra le forze dell’ORH, e le milizie del generare Aidid, culminarono con la disastrosa Battaglia di Mogadiscio, avvenuta tra il 3 e il 4 ottobre 1993, durante la quale le forze speciali statunitensi, nel tentarono di catturare i luogotenenti di Aidid, vennero accerchiate e attaccate dalle milizie locali. Il bilancio della battaglia fu disastroso, centinaia di somali morti e 18 soldati USA.

Bush era entrato in Somalia in cerca di un successo politico e militare, ma ciò che aveva ottenuto era un disastro politico, l’opinione pubblica statunitense e internazionale spinsero per un ritiro immediato delle truppe, così, ad un passo dalle elezioni di metà mandato, del secondo mandato Bush, gli Stati Uniti lasciarono la Somalia. Era il 1994, e l’anno seguente, nel 1995 fu la volta dell’ONU.

La Somalia era un teatro bellico estremamente importante per l’ONU, perché si trattava del primo vero conflitto post guerra fredda, e il ritiro delle forze internazionali dal paese segnò quello che è forse il più grande fallimento della comunità internazionale nel tentativo di pacificare un paese devastato dalla guerra civile. La fuga della comunità internazionale lasciò la Somalia in uno stato di totale anarchia, immersa in un conflitto permanente che attraversò tutto il decennio.

Nella restante metà degli anni 90, la guerra civile continuò senza sosta, a spese soprattutto della popolazione civile. Soldati bambino, armi illegali, crimini di guerra, stupri di massa, segnarono una ferita indelebile nella memoria di un paese abbandonato a se stesso. In questo clima di disperazione, la fede divenne una risorsa essenziale per la sopravvivenza, e col tempo, un arma e strumento politico. Sul finire del decennio la Somalia vide un crescente aumento dell’influenza dei movimenti islamici favorita dall’assenza di un governo centrale funzionante. Se l’eredità etnica e culturale, il passato coloniale, e le lotte di potere avevano diviso la popolazione somala, l’Islam per molti, apparve come l’anello di congiunzione che poteva sanare la ferita del paese e portare alla nascita di una Somalia Islamica.

Le Rivolte Islamiche dei Primi Anni 2000

Arriviamo così agli inizi degli anni 2000, momento in cui la Somalia assume i tratti che avrebbe avuto nel successivo quarto di secolo. Il decennio di guerra civile appena trascorso aveva portato ad una crescente sfiducia nei confronti dei leader militari e di conseguenza ad un sostanziale declino dell’influenza dei signori della guerra, il cui potere fu presto ereditato dai movimenti islamici. All’inizio degli anni 2000 emersero in Somalia le prime Corti Islamiche, si trattava di gruppi che applicavano la Sharia e offrivano servizi di giustizia e sicurezza nelle aree sotto il loro controllo.

Queste corti grazie al sostegno della popolazione civile, stanca dell’anarchia e della violenza e desiderosa di una fase di serenità fisica e spirituale, riuscirono in breve tempo a pacificare diverse regioni del paese, e nel 2006, molte di queste Corti si unirono nell’Unione delle Corti Islamiche (UCI) che riuscì a prendere il controllo di Mogadiscio e di gran parte della Somalia meridionale.

Sotto la guida dell’UCI, la Somalia meridionale conobbe un periodo di relativa stabilità. Tuttavia, la loro ascesa di uno stato Islamico nel corno d’africa, fu visto come fonte di preoccupazione dai paesi vicini e dalla comunità internazionale, quella stessa comunità che aveva abbandonato la Somalia a se stessa. Siamo nel 2006, la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, hanno già conosciuto il lato violento e feroce dell’estremismo islamico, e soprattutto, si è ormai affermato il principio di guerra preventiva, coniato da G.W. Bush e Tony Blair. Così, su richiesta dell’Etiopia, altra ex colonia Italiana nel corno d’Africa, e il sostegno degli USA, sul finire del 2006 fu avviata un operazione militare finalizzata a rovesciare l’UCI e sostenere l’instaurazione di un Governo Federale di Transizione.

Ci troviamo in una delle fasi più controverse della storia moderna, la Somalia, che da oltre un decennio è abbandonata a se stessa e vive una profonda guerra civile, è stata, in parte, finalmente pacificata da un movimento Nazionalista Islamico, e la comunità internazionale, temendo possibili evoluzioni di questo movimento che è riuscito là dove gli USA e l’ONU, 10 anni prima hanno fallito fuggendo con la coda tra le gambe, decide di portare nuovamente la guerra e morte in quell’angolo di mondo già martoriato e stanco.

Il Ruolo degli Stati Uniti nel Conflitto

come abbiamo visto, l’UCI si espanse rapidamente in Somalia, sfruttando la fede islamica come elemento comune e di appartenenza in grado di superare le diversità ideologiche, etniche e culturali che invece avevano alimentato i conflitti tra clan degli anni 90. Il suo crescente potere e la sua crescente influenza nel paese però, preoccupava la vicina Etiopia, che mal vedeva la formazione di uno stato islamista radicale ai propri confini, e dall’altra parte del mondo, gli Stati Uniti, impegnati in una guerra su larga scala contro il terrorismo e l’estremismo islamico, e soprattutto, sotto la guida di George W. Bush che era il dell’uomo che 10 anni prima aveva sostanzialmente ordinato “la fuga” degli USA dalla Somalia, e forse cercava una qualche rivalsa storica per il proprio nome, decise di sostenere e spingere l’Etiopia nel conflitto contro la Somalia, così, nel dicembre 2006, l’Etiopia, sostenuta dagli Stati Uniti, lanciarono una prima offensiva su larga scala alla Somalia.

L’invasione della Somalia da parete dell’esercito etiope, meglio equipaggiato e addestrato, grazie al sostegno degli USA, riuscì in poco tempo a sconfiggere le forze dell’UCI che furono costrette a ritirarsi. Diversamente dalla precedente battaglia di Mogadiscio, questa volta per gli USA fu un successo e nel dicembre del 2006 la città era passata sotto il controllo etiope e del governo federale di transizione somalo (TFG), sostenuto dalla comunità internazionale.

La Resistenza Islamista e la Nascita di Al-Shabaab

La sconfitta a Mogadiscio dell’UCI e la fuga dei propri leader segnò la fine del movimento, ma non della guerra civile che anzi, riprese con maggior vigore. Dalle ceneri dello sconfitto UCI, come successo nel 91 con la fine del regime di Siad Barre, nacque una nuova formazione, ancora oggi attiva in Somalia, ovvero Al-Shabaab, un gruppo nazionalista islamico, più radicale delle precedenti corti islamiche, considerate troppo moderate. Fin dal 2007 Al-Shabaab è impegnata in uno scontro diretto contro le le forze etiopi e il governo federale somalo, utilizzando prevalentemente tattiche di guerriglia che hanno portato all’organizzazione il sostegno di numerosi gruppi jihadisti internazionali, tra cui al-Qaeda. Il movimento panislamico somalo si è radicalizzato soprattutto nelle aree rurali del paese dove, per via dei dissesti causati da oltre 20 anni di guerra, il governo federale aveva (ed ha tutt’ora) difficoltà ad imporsi.

Per quanto riguarda l’Etiopia invece, la loro permanenza in Somalia è durata circa 2 anni, tra il 2006 ed il 2008. Nel 2008 le forti pressioni internazionali e il timore che Al-Shabaab potesse portare lo scontro anche in Etiopia, spinsero l’Etiopia a dare inizio al proprio ritiro dalla Somalia, lasciando così il paese nelle mani del governo federale somalo, sostenuto dalla comunità internazionale.

Nel 2007, l’Unione Africana entrò in Somalia a sostegno del Governo Federale, e nell’ottica della pacificazione del paese e la lotta ad Al-Shabaab, dispiegò nel paese le forze della missione African Union Mission in Somalia (AMISOM). La missione AMISON ottenne quasi immediatamente il sostegno della comunità internazionale, soprattutto deli Stati Uniti e riuscì ad ottenere, alcuni importanti successi, senza però mai riuscire ad eliminare completamente la minaccia islamista.

Da Al-Shabaab all’ISIS

La parabola islamista della Somalia è stata in un certo senso discendente, i primi movimenti erano fortemente nazionalisti, e, per quanto radicali erano abbastanza moderati, se infatti l’UCI da un lato applicava la Sharia, dall’altro tollerava e permetteva la convivenza con altre religioni, e fondava la propria politica sulla pacificazione attraverso l’Islam, dall’UCI si passa però al più radicale Al-Shabaab, che a differenza dell’UCI è un gruppo jihadista nazionalista somalo, affiliato ad al-Qaeda, ma il cui interesse è circoscritto alla sola Somalia, tale movimento nel corso degli anni ha subito numerose trasformazioni e, come molti dei gruppi affiliati ad al-Qaeda, ha visto, soprattutto a partire dal 2015, una progressiva radicalizzazione e trasformazione che ha avvicinato sempre di più, alcune frange del movimento, al califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.

Il 2015 in effetti, per la Somalia è un altro momento di rottura. L’ascesa e avanzata in Iraq e Siria dell’ISIS, e la sua rapida diffusione in gran parte del mondo Islamico, attrae alcuni esponenti di Al-Shabaab, il movimento fino a quel momento era stato legato ad al-Qaeda, con cui condivideva ideologia, strategie e supporto logistico. Strategie che però non avevano mai avuto l’impatto e soprattutto portato i risultati che invece stava ottenendo l’ISIS, così, diversi comandanti di al-Shabaab videro nell’ISIS il futuro della propria jihad e considerando il califfato più dinamico e influente rispetto a quanto non fosse in quel momento al-Qaeda, decisero di staccarsi al-Shabaab e giurare fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi.

Nasce così, nella regione settentrionale della Somalia, Abnaa ul-Calipha, il gruppo che in sintesi rappresenta la costola somala dell’ISIS. Il leader di questo nuovo schieramento, che entra a gamba tesa nella guerra civile somala, è Abdul Qadir Mumin. Si tratta di un un ex predicatore e ideologo del gruppo che in pochissimo tempo farà della regione del Puntland la propria roccaforte. Si tratta di un area geograficamente e politicamente lontana dalle regioni controllate da Al-Shabaab, ben radicato nel sud del paese, ma anche lontano dal governo federale.

Dal 2015 in poi la Somalia è sostanzialmente divisa tra tre fazioni. Abbiamo un governo federale, sostenuto dalla comunità internazionale, che controlla la capitale Mogadiscio, nelle aree rurali del sud del paese si è radicato Al-Shabaab, erede dell’UCI, e fortemente nazionalista, mentre nelle aree rurali del nord del paese c’è Abnaa ul-Calipha, la costola somala dell’ISIS, staccatasi da Al-Shabaab, con ambizioni transnazionali.

Questa nuova configurazione della Somalia non lascia molto spazio al dialogo, soprattutto tra le due fazioni islamiste la cui rivalità si intensificò rapidamente. Al-Shabaab avviò immediatamente una campagna di epurazione, eliminando tutti i possibili sostenitori dell’ISIS e giustiziando numerosi militanti sospettati di un possibile tradimento. Lanciò inoltre numerosi attacchi contro le basi e i villaggi controllati dalla fazione rivale e lo stesso fece l’ISIS. La lotta intestina tra i due movimenti islamici portò in Somalia una nuova e forse più devastante ondata di morte e violenza, ma riuscì, in parte, a limitare l’efficacia operativa dei due gruppi jihadisti, permettendo, se pur in maniera limitata, un avanzata delle forze governative nelle aree rurali.

Nel contesto generale della guerra civile somala, la scissione di Al-Shabaab e la nascita di una fazione affiliata all’ISIS non ha fatto altro che complicare ulteriormente un quadro già disastroso, a tutto danno della popolazione civile. Il governo somalo e le forze internazionali, già impegnate nella lotta contro Al-Shabaab, hanno dovuto affrontare una nuova minaccia rappresentata dal più aggressivo gruppo affiliato all’ISIS. Mentre L’AMISOM e le forze speciali statunitensi hanno intensificato le operazioni contro entrambe le fazioni, cercando di prevenire un’ulteriore diffusione del jihadismo nella regione.

Gli Interventi degli USA in Somalia (2012-2025)

Dopo il disastro di Mogadiscio nel dicembre del 1994, gli Stati Uniti sono sempre stati molto cauti nell’intervenire in Somalia, e, per oltre un decennio, si sono tenuti a distanza dalla regione. L’ascesa dell’UCI nel 2006 ha portato ad un rinnovato interesse statunitense per la Somalia, e sebbene abbiano fornito un ampio sostegno, tra il 2006 ed il 2008 alle forze Etiopi e successivamente al governo federale somalo e dell’AMISOM, ma solo nel 2012, con l’inizio del secondo mandato di Barack Obama e l’elezione di Hassan Sheikh Mohamud, gli USA sono rientrati direttamente nel conflitto.

Con l’elezione id Hassan Sheikh Mohamud nel settembre 2012, gli Stati Uniti hanno intensificato la propria presenza militare in Somalia nel paese, iniziando una collaborazione diretta con l’AMISOM e le forze governative. Fino a quel momento gli USA si erano limitati ad addestrare e fornire armi alla Somalia e AMISOM, ma dal 2012 in poi, le forze amate USA, iniziarono ad intervenire direttamente contro Al-Shabaab. Il secondo mandato presidenziale di Obama fu caratterizzato da un massiccio utilizzo dei droni in operazioni belliche, sia in medio oriente e Afghanistan, ma anche in Somalia.

La partecipazione attiva degli USA alla guerra contro i movimenti islamici somali, portò nel 2014 all’uccisione di Ahmed Abdi Godane, leader di Al-Shabaab, causando una temporanea disorganizzazione all’interno del gruppo. Il suo successore, Ahmad Umar è tuttavia riuscito a riorganizzare e rafforzare Al-Shabaab portando a una ripresa delle offensive jihadiste.

Nel 2016 inizia l’era Trump, promuovendo un approccio più aggressivo nei confronti del terrorismo islamico. L’effetto della nuova politica è che dal 2017, il Pentagono ha ampliato l’autorizzazione all’uso della forza letale, aumentando in modo esponenziale il numero di raid aerei e operazioni speciali colpendo decine di obiettivi strategici, che però, spesso, come successo anche in epoca Obama, coinvolsero obbiettivi civili.

Sul finire del primo mandato presidenziale, nell’autunno del 2020, l’amministrazione Trump ha ordinato il ritiro della maggior parte delle truppe statunitensi dalla Somalia, pur mantenendo la capacità di eseguire attacchi aerei e operazioni di intelligence dalla vicina Kenya e da basi nel Golfo.

Il cambio della guardia tra Trump e Biden portò gli USA a riconsiderare la propria strategia militare in Somalia e nel 2022, il presidente ha approvato la reintroduzione di truppe speciali nel paese per rafforzare le forze locali e continuare le operazioni contro Al-Shabaab.

Tra il 2022 e il 2023 gli USA i raid aerei ed attacchi mirati da parte degli USA contro obiettivi strategici legati ad Al-Shabaab sono continuati senza alcun tipo di rallentamento, e anzi, con una certa intensificazione rispetto al 2021 quando il ritiro delle forze speciali dal paese voluto da Trump, aveva ridotto notevolmente la capacità operativa degli USA.

Nel gioco delle parti tra ISIS e al-Shabaab, la diminuzione della capacità operativa e logistica di al-Shabaab porta ad una nuova fase di crescita dell’ISIS che, nel 2024 è tornato ad essere oggetto d’interesse prioritario per le forze militari somale e statunitensi, richiedendo un coordinamento più stretto tra Washington e Mogadiscio e nel 2025, la nuova amministrazione Trump, a inaugurato la propria stagione militare, con un raid aereo che tra gennaio e febbraio, secondo quanto comunicato dallo stesso Trump, ha portato alla capitolazione di alcuni leader dell’ISIS somalo.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

Storia personale della guerra in Somalia – Igiaba Scego – Internazionale
Italia e Somalia – Ambasciata d’Italia Mogadiscio
Guerre civili, crisi climatica, terrorismo: dalla Somalia al Sud Sudan milioni di persone devastate dalla carestia – Valigia Blu
Conflitti dimenticati: Somalia, il collasso di una nazione – Progetto Melting Pot Europa
La guerra civile in Somalia timeline | Timetoast Timelines

Le guerre civili somale, USAx Somalia (parte 3)

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questa serie di 3 articoli il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende della guerra civile somala, dagli anni 90 ad oggi, con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo della comunità internazionale e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Gli Interventi degli USA in Somalia (2012-2025)

Dopo il disastro di Mogadiscio nel dicembre del 1994, gli Stati Uniti sono sempre stati molto cauti nell’intervenire in Somalia, e, per oltre un decennio, si sono tenuti a distanza dalla regione. L’ascesa dell’UCI nel 2006 ha portato ad un rinnovato interesse statunitense per la Somalia, e sebbene abbiano fornito un ampio sostegno, tra il 2006 ed il 2008 alle forze Etiopi e successivamente al governo federale somalo e dell’AMISOM, ma solo nel 2012, con l’inizio del secondo mandato di Barack Obama e l’elezione di Hassan Sheikh Mohamud, gli USA sono rientrati direttamente nel conflitto.

Con l’elezione id Hassan Sheikh Mohamud nel settembre 2012, gli Stati Uniti hanno intensificato la propria presenza militare in Somalia nel paese, iniziando una collaborazione diretta con l’AMISOM e le forze governative. Fino a quel momento gli USA si erano limitati ad addestrare e fornire armi alla Somalia e AMISOM, ma dal 2012 in poi, le forze amate USA, iniziarono ad intervenire direttamente contro Al-Shabaab. Il secondo mandato presidenziale di Obama fu caratterizzato da un massiccio utilizzo dei droni in operazioni belliche, sia in medio oriente e Afghanistan, ma anche in Somalia.

La partecipazione attiva degli USA alla guerra contro i movimenti islamici somali, portò nel 2014 all’uccisione di Ahmed Abdi Godane, leader di Al-Shabaab, causando una temporanea disorganizzazione all’interno del gruppo. Il suo successore, Ahmad Umar è tuttavia riuscito a riorganizzare e rafforzare Al-Shabaab portando a una ripresa delle offensive jihadiste.

Nel 2016 inizia l’era Trump, promuovendo un approccio più aggressivo nei confronti del terrorismo islamico. L’effetto della nuova politica è che dal 2017, il Pentagono ha ampliato l’autorizzazione all’uso della forza letale, aumentando in modo esponenziale il numero di raid aerei e operazioni speciali colpendo decine di obiettivi strategici, che però, spesso, come successo anche in epoca Obama, coinvolsero obbiettivi civili.

Sul finire del primo mandato presidenziale, nell’autunno del 2020, l’amministrazione Trump ha ordinato il ritiro della maggior parte delle truppe statunitensi dalla Somalia, pur mantenendo la capacità di eseguire attacchi aerei e operazioni di intelligence dalla vicina Kenya e da basi nel Golfo.

Il cambio della guardia tra Trump e Biden portò gli USA a riconsiderare la propria strategia militare in Somalia e nel 2022, il presidente ha approvato la reintroduzione di truppe speciali nel paese per rafforzare le forze locali e continuare le operazioni contro Al-Shabaab.

Tra il 2022 e il 2023 gli USA i raid aerei ed attacchi mirati da parte degli USA contro obiettivi strategici legati ad Al-Shabaab sono continuati senza alcun tipo di rallentamento, e anzi, con una certa intensificazione rispetto al 2021 quando il ritiro delle forze speciali dal paese voluto da Trump, aveva ridotto notevolmente la capacità operativa degli USA.

Nel gioco delle parti tra ISIS e al-Shabaab, la diminuzione della capacità operativa e logistica di al-Shabaab porta ad una nuova fase di crescita dell’ISIS che, nel 2024 è tornato ad essere oggetto d’interesse prioritario per le forze militari somale e statunitensi, richiedendo un coordinamento più stretto tra Washington e Mogadiscio e nel 2025, la nuova amministrazione Trump, a inaugurato la propria stagione militare, con un raid aereo che tra gennaio e febbraio, secondo quanto comunicato dallo stesso Trump, ha portato alla capitolazione di alcuni leader dell’ISIS somalo.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

Storia personale della guerra in Somalia – Igiaba Scego – Internazionale
Italia e Somalia – Ambasciata d’Italia Mogadiscio
Guerre civili, crisi climatica, terrorismo: dalla Somalia al Sud Sudan milioni di persone devastate dalla carestia – Valigia Blu
Conflitti dimenticati: Somalia, il collasso di una nazione – Progetto Melting Pot Europa
La guerra civile in Somalia timeline | Timetoast Timelines

Le gurre civili somale, l’ascesa dei movimenti islamici (parte 2)

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questa serie di 3 articoli il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende della guerra civile somala, dagli anni 90 ad oggi, con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo della comunità internazionale e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Le Rivolte Islamiche dei Primi Anni 2000

Arriviamo così agli inizi degli anni 2000, momento in cui la Somalia assume i tratti che avrebbe avuto nel successivo quarto di secolo. Il decennio di guerra civile appena trascorso aveva portato ad una crescente sfiducia nei confronti dei leader militari e di conseguenza ad un sostanziale declino dell’influenza dei signori della guerra, il cui potere fu presto ereditato dai movimenti islamici. All’inizio degli anni 2000 emersero in Somalia le prime Corti Islamiche, si trattava di gruppi che applicavano la Sharia e offrivano servizi di giustizia e sicurezza nelle aree sotto il loro controllo.

Queste corti grazie al sostegno della popolazione civile, stanca dell’anarchia e della violenza e desiderosa di una fase di serenità fisica e spirituale, riuscirono in breve tempo a pacificare diverse regioni del paese, e nel 2006, molte di queste Corti si unirono nell’Unione delle Corti Islamiche (UCI) che riuscì a prendere il controllo di Mogadiscio e di gran parte della Somalia meridionale.

Sotto la guida dell’UCI, la Somalia meridionale conobbe un periodo di relativa stabilità. Tuttavia, la loro ascesa di uno stato Islamico nel corno d’africa, fu visto come fonte di preoccupazione dai paesi vicini e dalla comunità internazionale, quella stessa comunità che aveva abbandonato la Somalia a se stessa. Siamo nel 2006, la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, hanno già conosciuto il lato violento e feroce dell’estremismo islamico, e soprattutto, si è ormai affermato il principio di guerra preventiva, coniato da G.W. Bush e Tony Blair. Così, su richiesta dell’Etiopia, altra ex colonia Italiana nel corno d’Africa, e il sostegno degli USA, sul finire del 2006 fu avviata un operazione militare finalizzata a rovesciare l’UCI e sostenere l’instaurazione di un Governo Federale di Transizione.

Ci troviamo in una delle fasi più controverse della storia moderna, la Somalia, che da oltre un decennio è abbandonata a se stessa e vive una profonda guerra civile, è stata, in parte, finalmente pacificata da un movimento Nazionalista Islamico, e la comunità internazionale, temendo possibili evoluzioni di questo movimento che è riuscito là dove gli USA e l’ONU, 10 anni prima hanno fallito fuggendo con la coda tra le gambe, decide di portare nuovamente la guerra e morte in quell’angolo di mondo già martoriato e stanco.

Il Ruolo degli Stati Uniti nel Conflitto

Come abbiamo visto, l’UCI si espanse rapidamente in Somalia, sfruttando la fede islamica come elemento comune e di appartenenza in grado di superare le diversità ideologiche, etniche e culturali che invece avevano alimentato i conflitti tra clan degli anni 90. Il suo crescente potere e la sua crescente influenza nel paese però, preoccupava la vicina Etiopia, che mal vedeva la formazione di uno stato islamista radicale ai propri confini, e dall’altra parte del mondo, gli Stati Uniti, impegnati in una guerra su larga scala contro il terrorismo e l’estremismo islamico, e soprattutto, sotto la guida di George W. Bush che era il dell’uomo che 10 anni prima aveva sostanzialmente ordinato “la fuga” degli USA dalla Somalia, e forse cercava una qualche rivalsa storica per il proprio nome, decise di sostenere e spingere l’Etiopia nel conflitto contro la Somalia, così, nel dicembre 2006, l’Etiopia, sostenuta dagli Stati Uniti, lanciarono una prima offensiva su larga scala alla Somalia.

L’invasione della Somalia da parete dell’esercito etiope, meglio equipaggiato e addestrato, grazie al sostegno degli USA, riuscì in poco tempo a sconfiggere le forze dell’UCI che furono costrette a ritirarsi. Diversamente dalla precedente battaglia di Mogadiscio, questa volta per gli USA fu un successo e nel dicembre del 2006 la città era passata sotto il controllo etiope e del governo federale di transizione somalo (TFG), sostenuto dalla comunità internazionale.

La Resistenza Islamista e la Nascita di Al-Shabaab

La sconfitta a Mogadiscio dell’UCI e la fuga dei propri leader segnò la fine del movimento, ma non della guerra civile che anzi, riprese con maggior vigore. Dalle ceneri dello sconfitto UCI, come successo nel 91 con la fine del regime di Siad Barre, nacque una nuova formazione, ancora oggi attiva in Somalia, ovvero Al-Shabaab, un gruppo nazionalista islamico, più radicale delle precedenti corti islamiche, considerate troppo moderate. Fin dal 2007 Al-Shabaab è impegnata in uno scontro diretto contro le le forze etiopi e il governo federale somalo, utilizzando prevalentemente tattiche di guerriglia che hanno portato all’organizzazione il sostegno di numerosi gruppi jihadisti internazionali, tra cui al-Qaeda. Il movimento panislamico somalo si è radicalizzato soprattutto nelle aree rurali del paese dove, per via dei dissesti causati da oltre 20 anni di guerra, il governo federale aveva (ed ha tutt’ora) difficoltà ad imporsi.

Per quanto riguarda l’Etiopia invece, la loro permanenza in Somalia è durata circa 2 anni, tra il 2006 ed il 2008. Nel 2008 le forti pressioni internazionali e il timore che Al-Shabaab potesse portare lo scontro anche in Etiopia, spinsero l’Etiopia a dare inizio al proprio ritiro dalla Somalia, lasciando così il paese nelle mani del governo federale somalo, sostenuto dalla comunità internazionale.

Nel 2007, l’Unione Africana entrò in Somalia a sostegno del Governo Federale, e nell’ottica della pacificazione del paese e la lotta ad Al-Shabaab, dispiegò nel paese le forze della missione African Union Mission in Somalia (AMISOM). La missione AMISON ottenne quasi immediatamente il sostegno della comunità internazionale, soprattutto deli Stati Uniti e riuscì ad ottenere, alcuni importanti successi, senza però mai riuscire ad eliminare completamente la minaccia islamista.

Da Al-Shabaab all’ISIS

La parabola islamista della Somalia è stata in un certo senso discendente, i primi movimenti erano fortemente nazionalisti, e, per quanto radicali erano abbastanza moderati, se infatti l’UCI da un lato applicava la Sharia, dall’altro tollerava e permetteva la convivenza con altre religioni, e fondava la propria politica sulla pacificazione attraverso l’Islam, dall’UCI si passa però al più radicale Al-Shabaab, che a differenza dell’UCI è un gruppo jihadista nazionalista somalo, affiliato ad al-Qaeda, ma il cui interesse è circoscritto alla sola Somalia, tale movimento nel corso degli anni ha subito numerose trasformazioni e, come molti dei gruppi affiliati ad al-Qaeda, ha visto, soprattutto a partire dal 2015, una progressiva radicalizzazione e trasformazione che ha avvicinato sempre di più, alcune frange del movimento, al califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.

Il 2015 in effetti, per la Somalia è un altro momento di rottura. L’ascesa e avanzata in Iraq e Siria dell’ISIS, e la sua rapida diffusione in gran parte del mondo Islamico, attrae alcuni esponenti di Al-Shabaab, il movimento fino a quel momento era stato legato ad al-Qaeda, con cui condivideva ideologia, strategie e supporto logistico. Strategie che però non avevano mai avuto l’impatto e soprattutto portato i risultati che invece stava ottenendo l’ISIS, così, diversi comandanti di al-Shabaab videro nell’ISIS il futuro della propria jihad e considerando il califfato più dinamico e influente rispetto a quanto non fosse in quel momento al-Qaeda, decisero di staccarsi al-Shabaab e giurare fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi.

Nasce così, nella regione settentrionale della Somalia, Abnaa ul-Calipha, il gruppo che in sintesi rappresenta la costola somala dell’ISIS. Il leader di questo nuovo schieramento, che entra a gamba tesa nella guerra civile somala, è Abdul Qadir Mumin. Si tratta di un un ex predicatore e ideologo del gruppo che in pochissimo tempo farà della regione del Puntland la propria roccaforte. Si tratta di un area geograficamente e politicamente lontana dalle regioni controllate da Al-Shabaab, ben radicato nel sud del paese, ma anche lontano dal governo federale.

Dal 2015 in poi la Somalia è sostanzialmente divisa tra tre fazioni. Abbiamo un governo federale, sostenuto dalla comunità internazionale, che controlla la capitale Mogadiscio, nelle aree rurali del sud del paese si è radicato Al-Shabaab, erede dell’UCI, e fortemente nazionalista, mentre nelle aree rurali del nord del paese c’è Abnaa ul-Calipha, la costola somala dell’ISIS, staccatasi da Al-Shabaab, con ambizioni transnazionali.

Questa nuova configurazione della Somalia non lascia molto spazio al dialogo, soprattutto tra le due fazioni islamiste la cui rivalità si intensificò rapidamente. Al-Shabaab avviò immediatamente una campagna di epurazione, eliminando tutti i possibili sostenitori dell’ISIS e giustiziando numerosi militanti sospettati di un possibile tradimento. Lanciò inoltre numerosi attacchi contro le basi e i villaggi controllati dalla fazione rivale e lo stesso fece l’ISIS. La lotta intestina tra i due movimenti islamici portò in Somalia una nuova e forse più devastante ondata di morte e violenza, ma riuscì, in parte, a limitare l’efficacia operativa dei due gruppi jihadisti, permettendo, se pur in maniera limitata, un avanzata delle forze governative nelle aree rurali.

Nel contesto generale della guerra civile somala, la scissione di Al-Shabaab e la nascita di una fazione affiliata all’ISIS non ha fatto altro che complicare ulteriormente un quadro già disastroso, a tutto danno della popolazione civile. Il governo somalo e le forze internazionali, già impegnate nella lotta contro Al-Shabaab, hanno dovuto affrontare una nuova minaccia rappresentata dal più aggressivo gruppo affiliato all’ISIS. Mentre L’AMISOM e le forze speciali statunitensi hanno intensificato le operazioni contro entrambe le fazioni, cercando di prevenire un’ulteriore diffusione del jihadismo nella regione.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

Storia personale della guerra in Somalia – Igiaba Scego – Internazionale
Italia e Somalia – Ambasciata d’Italia Mogadiscio
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Conflitti dimenticati: Somalia, il collasso di una nazione – Progetto Melting Pot Europa
La guerra civile in Somalia timeline | Timetoast Timelines

Le guerre civili somale. Caduta del regime di Barre, fuga degli USA e ascesa dell’Islam (Parte 1)

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questa serie di 3 articoli il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende della guerra civile somala, dagli anni 90 ad oggi, con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo della comunità internazionale e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Da Siad Barre alla guerra civile

Gli anni ’90 rappresentano un momento cruciale nella storia della somala, l’inizio del decennio, la fine del secolo e della guerra fredda su scala globale, coincidono in Somalia con la caduta del regime di Siad Barre, il generale somalo e segretario del Partito Socialista Rivoluzionario Somalo, che governò il paese ininterrottamente tra il 1969 ed il gennaio del 1991, da qui una sanguinosa “guerra di successione” meglio nota come guerra civile somala, che dura salvo brevi interruzioni, va avanti da oltre 30 anni.

Alla base del conflitto vi era la frammentazione del potere, la proliferazione dei signori della guerra già negli anni ottanta, sostenuti in maniera più o meno diretta dai diversi attorti internazionali. Sul piano politico la Somalia a cavallo tra anni 80 e 90 era una polveriera pronta ad esplodere, serviva solo qualcuno che accendesse la miccia e la miccia si accese con la fine della guerra fredda e la caduta di Siad Barre.

La caduta del regime di Barre

Siamo nel 1990, la Somalia è governata da oltre 30 anni dal generale Mohamed Siad Barre, ma il suo governo è attraversato da una profonda crisi politica, il popolo somalo vive un profondo malcontento, alimentato da tensioni etniche e rivolte armate contro il regime, così, il 26 gennaio 1991, il governo cade, ma, come anticipato, l’enorme frammentazione del potere porta ad una lotta per la successione che impedisce una transizione politica e porta il paese a sprofondare nel caos.

Nel gennaio del 1991 le truppe ribelli, guidate dal generale Mohamed Farrah Aidid entrano a Mogadiscio, ormai il dado è tratto, le forze governative vengono sconfitte, il presidente destituito e per Siad Barre non resta altra possibilità che la fuga, il generale lascia la città e cerca rifugio nell’area sudoccidentale del paese, regione governata da Mohamed Said Hers, genero di Siad Barre che lo aiutò, nel corso del 1991 e 92 nel tentativo di riprendere la capitale, ma senza successo e alla fine, nel 1992, Mohamed Farrah Aidid decretò l’esilio di Siad Barre.

L’anarchia e il ruolo dei signori della guerra

Mohamed Farrah Aidid controlla la capitale, ma non il paese, la frammentazione del potere che aveva messo in crisi il precedente regime sembra impedire la creazione di un nuovo stato unitario, e in assenza di un governo centrale, riconosciuto da tutte le fazioni, il paese si frammentò ulteriormente, dando vita ad in una miriade di territori controllati da signori innumerevoli signori della guerra e le loro milizia. Semplificando moltissimo, nessuno di loro riconosce l’autorità del governo centrale e tutti vogliono assumere il controllo del paese, ne consegue una veloce e sanguinosa escalation di violenze, con attacchi indiscriminati alla popolazione civile e saccheggi diffusi, alimentati da scarsità di cibo e acqua per via di una profonda carestia che colpì il paese tra 1991 e 1992.

La carestia colpì l’intero corno d’africa, e per quanto riguarda la Somalia, interessò soprattutto le regioni meridionali del paese, causando solo in Somalia, secondo le stime dell’ONU, la morte di circa 300.000 persone tra il 1991 e il 1992.

L’Intervento delle Nazioni Unite: UNOSOM e Operazione Restore Hope

La Somalia è devastata da una catastrofe umanitaria, aggravata dalla guerra civile che rende impossibile, alle organizzazioni umanitarie, la distribuzione di aiuti, si rese così necessaria la mobilitazione delle Nazioni Unite con la missione UNOSOM (United Nations Operation in Somalia). I caschi blu dell’ONU, impegnati nella missione UNOSOM tuttavia, non furono in grado di contenere la violenza tra le fazioni in lotta.

La richiesta di aiuto della Somalia e dell’ONU viene accolta, se così si può dire, dagli Stati Uniti. L’amministrazione Bush aveva infatti necessità di un importante successo politico internazionale, così nel dicembre del 1992, a quasi 2 anni dall’inizio della guerra civile somala, venne lanciata l’Operazione Restore Hope. L’obiettivo era quello di garantire la sicurezza necessaria per la distribuzione degli aiuti umanitari, e a tale scopo venne inviato in Somalia un contingente militare di circa 25.000 soldati statunitensi.

I signori della guerra locali, che ambivano al potere nella regione, non videro di buon occhio la presenza militare straniera e anzi, la interpretarono in larga parte come un atto di ostilità e un nuovo tentativo coloniale. Mohamed Farrah Aidid, che controllava ancora Mogadiscio, fu uno dei principali detrattori della presenza straniera in Somalia e le crescenti tensioni tra le forze dell’ORH, e le milizie del generare Aidid, culminarono con la disastrosa Battaglia di Mogadiscio, avvenuta tra il 3 e il 4 ottobre 1993, durante la quale le forze speciali statunitensi, nel tentarono di catturare i luogotenenti di Aidid, vennero accerchiate e attaccate dalle milizie locali. Il bilancio della battaglia fu disastroso, centinaia di somali morti e 18 soldati USA.

Conseguenze della fuga statunitense

Bush era entrato in Somalia in cerca di un successo politico e militare, ma ciò che aveva ottenuto era un disastro politico, l’opinione pubblica statunitense e internazionale spinsero per un ritiro immediato delle truppe, così, ad un passo dalle elezioni di metà mandato, del secondo mandato Bush, gli Stati Uniti lasciarono la Somalia. Era il 1994, e l’anno seguente, nel 1995 fu la volta dell’ONU.

La Somalia era un teatro bellico estremamente importante per l’ONU, perché si trattava del primo vero conflitto post guerra fredda, e il ritiro delle forze internazionali dal paese segnò quello che è forse il più grande fallimento della comunità internazionale nel tentativo di pacificare un paese devastato dalla guerra civile. La fuga della comunità internazionale lasciò la Somalia in uno stato di totale anarchia, immersa in un conflitto permanente che attraversò tutto il decennio.

Nella restante metà degli anni 90, la guerra civile continuò senza sosta, a spese soprattutto della popolazione civile. Soldati bambino, armi illegali, crimini di guerra, stupri di massa, segnarono una ferita indelebile nella memoria di un paese abbandonato a se stesso. In questo clima di disperazione, la fede divenne una risorsa essenziale per la sopravvivenza, e col tempo, un arma e strumento politico. Sul finire del decennio la Somalia vide un crescente aumento dell’influenza dei movimenti islamici favorita dall’assenza di un governo centrale funzionante. Se l’eredità etnica e culturale, il passato coloniale, e le lotte di potere avevano diviso la popolazione somala, l’Islam per molti, apparve come l’anello di congiunzione che poteva sanare la ferita del paese e portare alla nascita di una Somalia Islamica, di cui parleremo, in maniera più approfondita, nel prossimo articolo.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

Storia personale della guerra in Somalia – Igiaba Scego – Internazionale
Italia e Somalia – Ambasciata d’Italia Mogadiscio
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Conflitti dimenticati: Somalia, il collasso di una nazione – Progetto Melting Pot Europa
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Bella Ciao è una canzone di Destra

Bella ciao il canto partigiano per eccellenza, un canto che i partigiani non cantavano, e che nel tempo è diventato un simbolo della sinistra, pur raccontando concetti nazionali che tradizionalmente sono associati alle idee di destra.

Il titolo di questo post è una provocazione ovviamente, però pensateci, fate finta, per un attimo, di dimenticare o di ignorare tutto quello che sapete o credete di sapere sui partigiani e sulla resistenza, ovvero l’ambiente in cui è nata questa canzone. Estrapolata dal contesto storico in cui è stata concepita, quel che rimane è una canzone che parla di unità nazionale, un brano che racconta un concetto di patria, una patria che qualcuno ha tradito, consegnando la patria ad un invasore straniero, è una canzone che racconta un popolo unico, unito e unitario, mobilitato contro quell’invasore straniero.

Questa canzone è l’emblema del nazionalismo, concetto che nella storia recente appartiene più ai movimenti di destra che a quelli di sinistra (tradizionalmente di visione più internazionalista).

Bella Ciao in realtà non è una canzone di destra, ne una canzone di sinistra, è semplicemente un canto popolare, che parla al popolo di un popolo che si trova a confrontarsi con il fascismo reale.

Questo brano racconta un concetto di patria e di antifascismo e nel farlo, ci ricorda qualcosa qualcosa di semplice, qualcosa che un tempo sapevamo e che abbiamo dimenticato, ovvero che Patria e Antifascismo, non sono concetti di destra o di sinistra, ed è per questo che nel tempo, Bella Ciao è diventata un fenomeno Globale.

Fine della premessa, ora parliamo della canzone e della sua vera genitrice, la guerra italica del 1943-1945.

Le due Italie

Tra il 1943 ed il 1945 l’Italia, come è noto, fu attraversata da un grande conflitto interno, che intrecciava insieme le tre componenti della guerra sociale, della guerra civile e della guerra di resistenza o liberazione, questa divisione tripartitica del conflitto, è stata formulata per la prima volta da Claudio Pavone, lo storico italiano che ha introdotto il concetto di guerra civile applicato al conflitto italico interno alla seconda guerra mondiale, e in quel conflitto, coesistevano diverse energie.

Vie erano due forze straniere in gioco, nell’Italia settentrionale gli ex alleati tedeschi che, non rispettando l’armistizio italiano, passarono dall’essere una forza alleata ed amica ad una forza ostile, vi erano poi, nell’Italia meridionale, gli ex nemici angloamericani, vincitori del conflitto e ai quali il legittimo governo italico e il capo dello stato, il re, si erano arresi.

Nel mezzo, vi erano simpatizzanti dell’una o dell’altra potenza straniera, mobilitati in diverse configurazioni. Vi erano due italie, una monarchica nel meridione ed una finta repubblica controllata dal terzo Reich nella parte settentrionale del paese, che prendeva il nome di Repubblica Sociale Italiana, vi era poi da un lato una parte dell’alta borghesia italica, in debito e fedele al Fascismo, che scelse di schierarsi con RSI e vi era una parte dell’alta borghesia italica che vedeva nell’alleanza con gli USA, nuovi orizzonti commerciali ed una potenziali interessi economici, vi era una classe popolare, operaia e contadina, che vedeva nell’unione sovietica un futuro radioso, migliore della realtà popolare conosciuta durante il ventennio fascista, ma anche una folta schiera di operai e contadini che grazie al fascismo non avevano sofferto la fame ed avevano avuto, per così dire e ai quali, in fondo, delle limitate libertà politiche e civili del regime, non importava molto, in fondo loro erano bianchi e cattolici, e non gli serviva altro.

La terza Italia

Vi era poi il grande gigante dormiente, degli italiani a cui non importava nulla di tutto ciò, quell’enorme massa insipida di italiani, pronti a dichiararsi fascisti, comunisti, cattolici, atei e liberali, e se le necessità lo avessero richiesto, si sarebbero dichiarati tali, contemporaneamente.

L’Italia tra il 1943 ed il 1945 è forse il luogo più confuso, caotico e imprevedibile del pianeta, ma anche il paese più rassicurante del mondo, poiché, nonostante la guerra, quel paese era certo che avrebbe seguito i vincitori, o comunque i migliori offerenti, senza fare troppe domande, ma questo è solo un modo edulcorato per descrivere mamma Italia, la grande proletaria, come il paese più opportunista e inaffidabile della storia.

E nella propria sterminata ipocrisia morale, gli italiani che parteciparono attivamente a quella guerra deforme e ambigua, produssero tanti canti popolari, alcuni guardavano a destra, altri guardavano a sinistra, altri ancora guardavano l’orizzonte, e poi, vi è quel capolavoro nazional popolare che avrebbe avuto successo soprattutto dopo la guerra, e che era l’incarnazione perfetta dell’essere italico, mi riferisco a Bella Ciao, una canzone il cui testo, assolutamente meraviglioso, avrebbe potuto competere e probabilmente vincere il festival di Sanremo, perché nelle sue parole andava bene per chiunque.

Che si stesse combattendo un conflitto sociale o una guerra civile, che fosse una guerra di resistenza o liberazione, che il nemico, l’invasore, fosse angloamericano o teutonico, Bella Ciao, andava bene per chiunque.

Poi però è successo che qualcuno quella guerra l’ha vinta, e qualcun altro l’ha persa, ed è anche successo che, una classe politica, si appropriasse indebitamente di quell’opera popolare dalle origini sconosciute.

Chi ha scritto il testo di Bella Ciao?

Noi non sappiamo chi ha scritto il testo di Bella Ciao, sappiamo però che durante la guerra non la cantava nessuno, e non è un caso se all’epoca questa canzone non venisse cantata.

Gli italiani, durante la guerra civile no la cantavano, perché il suo testo era fin troppo criptico, e non era chiaro chi fosse realmente l’invasore.

Non vi è alcun dubbio sul dove sia nata questa canzone, il suo testo è nato nel mondo partigiano, e, chiunque abbia scritto il testo di questo brano, l’ha fatto con in mente una precisa idea di patria e di nazione. Certo, è il 1943, e un intera generazione è nata ed è cresciuta nel mito della patria italica, una nazione, fiera, forte e orgogliosa, una nazione che era stata tradita e abbandonata dal resto del mondo e che aveva dovuto rialzarsi e farsi da sola, dopo la prima guerra mondiale.

Bella Ciao nasce dalla mente di uomini e donne che non stanno vivendo una guerra civile, il nemico descritto e temuto in questa canzone, non sono altri italiani, non nasce da chi stava vivendo una guerra sociale, non è una canzone che contrappone il popolo all’elite aristocratica o borghese, è invece un canto di resistenza, che racconta un unico popolo, diviso da idee politiche, che si sente morire per un grande tradimento subito, ma che in fondo sa di essere un unico popolo e sa che gli italiani nelle città, nei villaggi, sui monti in appennino, anche se avevano scelto di sposare cause diverse, erano pur sempre italiani, erano in fondo sempre fratelli.

Questa canzone, ha un enorme valore patriottico, nazionale e nazionalista, nata in un momento in cui il paese Italia, era estremamente frammentario e diviso, soprattutto, è una canzone che, raccontando un concetto di patria, non trova molto spazio nella visione internazionalista sovietica, insomma, e questo è molto significativo, perché dona alla canzone un carattere certamente antifascista, ma di un antifascismo ampio e reale, che non aveva un unico e preciso colore. A differenza di altri canti popolari che, durante la guerra civile ebbero maggior successo, Bella Ciao, non era una canzone che strizzava l’occhio al mondo sovietico/comunista.

Bella Ciao dopo la Guerra

Passano gli anni, cambiano le stagioni, nell’Italia post bellica nasce e cresce una nuova generazione, la prima generazione libera dal fascismo e non è un caso se, nella seconda metà degli anni sessanta, tra fenomeni di massa e rivoluzioni culturali immerse nel contesto generale della guerra fredda, Bella Ciao esplode e si afferma, inserendosi di prepotenza, nella memoria collettiva di un paese che non aveva ancora fatto e mai avrebbe fatto, i conti col passato.

L’attività politica di una certa classe politica negli anni cinquanta e sessanta, che si è impossessata dei simboli della resistenza e del concetto di antifascismo, hanno tinto di rosso la resistenza, il CLN e dato una connotazione politica ad un canto nazionale e fortemente nazionalista, come Bella Ciao, una canzone che, per le sue parole, oggi dovrebbe trovare il proprio spazio, nei cori di militanti di movimenti Nazionalisti, e pure, quei movimenti, quelle forze, quelle energie che premono con forza sul concetto di nazione, quasi si sentono offesi e ripudiano, un canto che tra le sue parole racconta proprio l’unità nazionale durante una guerra contro un ex amico, traditore, divenuto da un giorno all’altro un invasore straniero.

Protetto: Le sette guerre mondiali

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I problemi della Guerra Civile italiana

Tra l’estate del 1943 alla primavera del 45 l’Italia è stata attraversata da una lunga guerra civile, che avrebbe fatto da contenitore per innumerevoli altri conflitti interni all’Italia del tempo. Dalla lotta politica a quella sociale, dalla guerra di liberazione a quella di resistenza, dalla guerra civile a quella contro gli invasori stranieri

Sono passati circa 30 anni da quando Claudio Pavone ha sdoganato la questione della guerra civile italiana nel 1943-1945, utilizzando per la prima volta il termine guerra civile invece che i tradizionali guerra di liberazione o guerra di resistenza, e osservando che, in quel conflitto made in italy, al di la delle varie interpretazioni politico filosofiche che si potessero dare al conflitto, alla fine, a combattere erano semplicemente italiani contro altri italiani, riproponendo le dinamiche e le meccaniche di una guerra civile, senza se e senza ma.

Questo conflitto interno all’Italia e allo stesso tempo inserito nel più ampio contesto della seconda guerra mondiale, si porta dietro non poche complicazioni che, per decenni, l’utilizzo di termini come guerra di resistenza e di liberazione, avevano in qualche modo messo a tacere, deviando l’attenzione su una più generale dinamica di contrapposizione tra italiani buoni e stranieri cattivi. E in questo paradigma in cui gli italiani, tutti gli italiani, siano essi dalla parte del Re o della RSI, combattevano contro delle potenze straniere e resistevano all’invasione e l’occupazione straniera dell’italia, gli italiani che si trovavano “dall’altra parte”, “dalla parte sbagliata” erano semplicemente delle vittime, innocenti, delle politiche di occupazione straniera, e questo, all’indomani della fine del conflitto, permetteva una più moderata riappacificazione delle due parti, dando così, agli italiani che avevano combattuto per la RSI e quelli che avevano combattuto per il CLN, di tornare ad essere buoni amici, in alcuni casi ricongiungendo famiglie che la guerra aveva tenuto lontane.

Guarda anche il Video di approfondimento 

Questo precario equilibri però, si fondava su un drammatico equivoco storico, un equivoco voluto per ragioni politiche e alimentato da un errata percezione popolare della storia e delle vicende storiche che in esso confluivano, impedendo, per decenni, di analizzare in maniera chiara e completa, le dinamiche del conflitto intercorso in italia tra l’estate del 43 e la primavera del 45. Si tratta di un periodo apparentemente breve e pure estremamente lungo, in cui l’italia, e soprattutto gli italiani, hanno dovuto fare i conti con loro stessi e con il proprio passato, si tratta di un periodo in cui, il conflitto bellico dava spazio a pregressi conflitti interni all’Italia stessa che il paese si portava dietro fin dalla sua nascita, fin dalla propria unificazione avvenuta quasi un secolo prima e che, nonostante il grande potere unificatore del ventennio fascista, non erano mai stati completamente debellati. Nel 1943 non esisteva una sola Italia, ma neanche due o tre Italie, esistevano in realtà decine di italie differenti, ognuna con le proprie ragioni e le proprie necessità, ognuna con i propri interessi e la propria voglia di esprimersi ed espandersi al resto del paese.

Vi era l’italia dei fascisti legata a Mussolini e incarnata nella RSI, ben radicata nell’area più settentrionale del paese, appoggiata e supportata dal tradizionale alleato italico, la Germania del terzo Reich, al cui fianco l’Italia aveva iniziato la guerra, vi era poi l’italia tradizionale, l’italia monarchica ancora fedele al Re, ben radicata nell’area più meridionale del paese, appoggiata e supportata dai nuovi alleati anglo americani, dopo l’armistizio del settembre del 1943, vi era poi l’italia degli “ignavi”, quell’Italia che semplicemente lasciava che le cose accadessero, senza prendere parte alle vicende storiche in corso, senza scegliere se stare con il re o con il duce, insomma, quell’Italia che non sapeva da che parte stare e banalmente aspettava la fine del conflitto per esultare alla vittoria, indipendentemente dalle sorti della guerra e da chi fossero stati i vincitori. Vi era poi l’italia del CLN, che si contrapponeva alla RSI e combatteva contro la RSI, rivendicando la necessità di creare una nuova italia lontana dal Re e lontana dal Fascismo e nel disegnare una nuova italia di divideva tra chi inseguiva sogni ed orizzonti liberali guardando ad occidente, guardando all’America e chi invece guardava dall’altra parte, chi guardava ad Est, sognando la Russia e l’Unione Sovietica.

Tutte queste realtà sono solo la punta dell’Iceberg, e scavando più a fondo incontriamo sempre maggiori differenze tra gli italiani, oltre al conflitto politico sopra descritto, incontriamo anche un conflitto sociale, anzi, incontriamo diversi conflitti sociali, conflitti che contrapponevano le masse popolari all’alta borghesia e all’aristocrazia e in questa contrapposizione il modello Nazifascista da una parte, il modello Americano da un altra parte e quello Sovietico da un altra parte ancora, si manifestavano come tre possibili vie da seguire e da inseguire, tre possibili realtà per cui valeva la pena combattere e questo solo per quanto riguarda le fasce popolari della popolazione italiana, perché poi anche aristocratici e borghesi avevano i propri interessi e combattevano per i propri interessi.

Vi erano gli aristocratici, grandi proprietari terrieri vicini sia al Re che al regime, vi erano gli imprenditori e l’alta borghesia vicina soprattutto al regime (e non perché tutta la borghesia italiana fosse fascista ma perché, semplicemente, la sola borghesia sopravvissuta al ventennio era quella vicina al fascismo), vi erano poi gli operai e i lavoratori dipendenti, che si riavvicinavano al partito comunista, e poi c’erano i contadini, affittuari e mezzadri del mezzogiorno che, soprattutto nelle campagne più remote della penisola, vivevano in realtà fuori dal tempo e dalla storia, totalmente immersi in un mondo alieno al tempo in cui vivevano e in cui cristo, inteso come la modernità, per citare Carlo Levi, non era mai giunto, si tratta di realtà arcaiche immerse in dinamiche quasi feudali e culturalmente in uno stadio molto primitivo di civiltà.

Ognuna di queste realtà ha degli interessi, dei desideri, delle ambizioni da seguire, ognuna di queste realtà storiche, politiche, sociali e culturali, aveva degli obbiettivi da raggiungere e un modo di vivere da difendere, ognuna di queste realtà aveva una ragione per combattere in quella guerra civile e a seconda dei casi, scegliere da che parte stare.

Chi rivendicava l’ideologia e i valori del fascismo, chi credeva in Mussolini e vedeva negli anglo americani degli stranieri che stavano penetrando e occupando militarmente l’Italia, chi rivendicava un primato nella tradizione e nella cultura italica e reclamava un ruolo egemone dell’italia nel Mediterraneo e nel mondo, combatteva contro gli alleati.

Chi rivendicava i valori della tradizione, chi credeva nel Re e vedeva nelle forze del Reich presenti in Italia una presenza straniera che stava occupando militarmente il paese, chi desiderava una rivoluzione sociale e temeva la deriva nazifascista, chi desiderava la nascita di una nuova italia libera e democratica, combatteva contro la RSI.

La guerra civile italiana del 1943-1945 si configura quindi con un grande, enorme calderone, al cui interno sono confluiti innumerevoli conflitti differenti, nati in momenti diversi e per ragioni diverse ed esplosi in un momento di grande fermento e caos e limitare il conflitto ad una soltanto delle sue componenti, guerra di liberazione dagli angloamericani o dal reich, guerra di resistenza all’avanzata degli angloamericani o del reich, guerra sociale, guerra di classe tra masse popolari e aristocratici, tra contadini e proprietari terrieri, tra operai e imprenditori, o più generalmente tra servi e padroni, tra atei o laici e cristiani, tra italiani e stranieri, ecc ecc , sarebbe estremamente riduttivo, e se oggi si predilige l’utilizzo di guerra civile è perché, al di la di tutte le componenti del conflitto, di tutte le ragioni e di tutte le possibili implicazioni e le diverse interpretazioni, alla fine, a combattere da una parte e dall’altra c’erano semplicemente degli italiani, e se a combattere erano due parti dello stesso popolo, della stessa nazione, allora non c’è chiave interpretativa che tenga, si tratta semplicemente di una guerra civile.

Fonti

C.Pavone, Una guerra Civile, https://amzn.to/2S0Tb19
M.Battini, Peccati di memoria, https://amzn.to/2CbSV9N
L.Paggi, Il popolo dei morti, https://amzn.to/2zWiMBm
C.Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, https://amzn.to/2zSmjAz
E.De Martino, Sud e magia, https://amzn.to/2BthKgb

Siria, una Guerra Giusta ?

Queste sono le due diverse chiavi interpretative di ciò che sta succedendo in queste ore.

“Trump ha “smesso di fare l’idiota” ed ha deciso di intervenire in Siria.”
“L’intervento in Siria è un azione unilaterale di USA, UK e Francia.”

Il dibattito in corso su scala globale sulla legittimità e la giustizia di un intervento militare in Siria è qualcosa che mi tocca da vicino, in quanto il mio percorso di studi storici si è concluso con una tesi di laurea sul dibattito italiano sulla guerra giusta, nei conflitti del golfo e dei Balcani avvenuti negli anni novanta, e ciò che sto leggendo e sentendo in questi giorni sa di già visto, di già sentito, poiché le ragioni di chi è favorevole ad un intervento e chi si oppone ad esso sono le medesime utilizzate negli anni novanta.

Per quanto riguarda la legittimità dell’intervento è indubbio che, sul piano giuridico questa guerra non sia una guerra giusta, ma anzi, sia un operazione illegittima che non rispetta la volontà delle nazioni unite, ma andiamo con ordine.

Sul piano “giuridico” questo intervento non può considerarsi legittimo poiché mancando l’autorizzazione dell’ONU, di conseguenza questo intervento è da considerarsi “illegittimo” ed è illegittimo perché la carta delle nazioni unite vieta ogni intervento militare internazionale non approvato dal consiglio di sicurezza dell’ONU, e perché un intervento militare internazionale venga approvato è necessario che prima si cerchi una soluzione diplomatica, se questa non avviene, l’ONU prevede l’utilizzo di strumenti di pressione diplomatici e non violenti, come Embargo, blocchi navali e l’allontanamento dalla comunità internazionale con la chiusura dei rapporti diplomatici. In fine, e solo in fine, l’articolo 42 riconosce che, nell’eventualità in cui siano state tentate tutte le possibili soluzioni non violente e questi tentativi diplomatici non abbiano dato risultati, allora, e solo allora, il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite può autorizzare la formazione di una coalizione internazionale, che faccia rapporto allo stesso CDS.

C’è però da considerare anche altri fattori, uno su tutti è la conformazione del Consiglio di Sicurezza delle nazioni unite e in particolare i suoi membri permanenti ed il loro diritto di veto.

In questo momento, così come è accaduto durante tutta la guerra fredda, il CDS dell’ONU è bloccata dal veto di uno dei membri permanenti del CDS, ovvero la Russia, il cui diritto di veto, da diversi anni, sta ostacolando ogni tentativo di l’intervento diplomatico della comunità internazionale nella risoluzione della questione siriana, di fatto bocciando ogni risoluzione proposta dall’ONU nella gestione della crisi. Alla base di questo ostruzionismo non ci sono certamente ragioni umanitarie, o giuridiche, vi sono invece diversi interessi di carattere economico, strategico e geopolitico, rafforzati da una grande amicizia che lega il governo di Mosca al governo di Damasco, oltre ad un amicizia personale tra Putin ed Assad.

Nella vicenda siriana la Russia di Putin non si è certamente comportata “in maniera responsabile”, ostacolando ripetutamente l’operato delle nazioni unite, arrivando a minacciare, in alcuni casi, interventi militari in risposta alle domande e le richieste dalla stessa ONU e questo atteggiamento bellicoso e violento della Russia di Putin ha, come già detto, bloccato totalmente le azioni legittime del consiglio di sicurezza, spianando la strada ad un intervento internazionale “illegittimo” poiché non autorizzato dall’ONU.

Da questa vicenda emerge l’impossibilità di agire dell’ONU, il cui operato può essere ostacolato dalle decisioni individuali dei singoli membri permanenti del consiglio di sicurezza. De facto, al momento è sufficiente che una sola di queste cinque nazioni, ovvero Cina, Francia, Russia, UK e USA, abbia un qualsiasi interesse personale per rendere illegittima una qualsiasi operazione internazionale e bloccare ogni risoluzione dell’ONU, compreso il semplice invio di osservatori internazionali e tutto questo a discapito delle popolazioni civili che vivono in quella regione e stanno affrontando una determinata crisi umanitaria da non si sa quanti anni.

Nel caso specifico della crisi siriana, l’ostruzionismo della Russia ha reso impossibile l’accertamento dei presunti crimini di guerra attribuiti al governo di Damasco, ed ha reso impossibile l’intervento internazionale anche quando c’erano prove più che evidenti di azioni illegali compiute dal governo a discapito della popolazione civile, come ad esempio l’utilizzo di armi chimiche e il coinvolgimento della popolazione civile nei bombardamenti.

Questa vicenda, mette in luce la necessità di un aggiornamento dello statuto dell’ONU, mette in evidenza la necessità di rinnovare la carta delle nazioni unite, questo aggiornamento era già necessario e da molti anche richiesto quasi 30 anni fa, quando, finita la guerra fredda e superata un iniziale collaborazione tra USA e Russia, il sistema dei veti incrociati era tornato a bloccare l’operato del CDS e di conseguenza dell’ONU, vedi Jugoslavia, vedi Ruanda, vedi crisi del Kosovo ecc.

L’attuale conformazione del CDS è solo un retaggio della seconda guerra mondiale e della sua conclusione, un eredità lasciata dai vincitori della guerra in cui, era riconosciuto il diritto di veto alle potenze vincitrici della guerra e questo diritto dava loro il potere di di decidere non dove intervenire, ma dove non era possibile intervenire, in questo modo Cina, Francia, Russia, UK e USA potevano tutelare i propri imperi coloniali e le rispettive reti di alleanze.

Sono passati più di settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e ancora le sue dinamiche postbelliche riescono ad influenzare il mondo, ancora oggi i vincitori della seconda guerra mondiale hanno il potere di decidere dove non è possibile intervenire, per tutelare i propri interessi personale e se da una parte Francia ed UK nel frattempo hanno perso i propri imperi coloniali, USA e Russia hanno, nel frattempo, ampliato o rielaborato la propria rete di alleanze.

Settant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale l’ONU dovrebbe evolvere e diventare ciò per cui è nato, dovrebbe riuscire a superare il veto e solo così potrà finalmente assolvere alla sua finzione primaria di garante della pace e della sicurezza globale, poiché finché esisterà il diritto di veto, le cinque potenze vincitrici della seconda guerra mondiale potranno rendere illegittimo ogni tentativo internazionale di porre fine ad una crisi regionale che in qualche modo, direttamente o indirettamente, garantisce loro un qualche tipo di vantaggio o la cui risoluzione porterebbe un potenziale vantaggio ad una potenza rivale.

Nel 2018 è inaccettabile che con un organismo internazionale come l’ONU, il cui compito primario è quello di garantire la pace e la sicurezza internazionale si debba ancora fare ricorso alle azioni individuali delle nazioni e ci si debba affidare ad un gruppo di cowboy solitari, chiamati ad intervenire fuori dalla legalità e che prima sparano e poi fanno domande, per risolvere una crisi che invece l’ONU potrebbe risolvere utilizzando strumenti di pressione non violenti e senza ricorrere all’uso della forza.

Personalmente non approvo interventi internazionali non approvati dalle Nazioni Unite e vorrei sempre che l’iter previsto dalla carta delle nazioni nel capitolo VII, in cui gli articoli dal 39 al 51 vanno a definire proprio l’ “Azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione” venisse rispettato. Purtroppo, l’esistenza stessa del diritto di veto, riconosciuto esclusivamente ai vincitori della seconda guerra mondiale, il più delle volte rende impossibile l’attuazione dell’iter previsto dall’ONU e nella maggior parte dei casi rappresenta il più grande ostacolo alla corretta esecuzione di queste procedure.

Nel caso specifico della crisi Siriana, finché la Russia di Putin avrà diritto di veto ed utilizzerà questo suo privilegio per proteggere i propri interessi nella regione, l’ONU non potrà utilizzare i propri strumenti diplomatici per porre fine alla crisi e di conseguenza le opzioni che restano alla comunità internazionale sono soltanto due.

  • la mobilitazione internazionale senza l’autorizzazione delle Nazioni Unite.
  • fingere che ciò che succede in quella regione non riguardi l’intera umanità e dunque lasciare che la guerra continui a spese di milioni di civili.

La mobilitazione dell’ONU è auspicabile ma in questa particolare circostanza è impossibile poiché la Russia ha il diritto ed il potere di bloccare ogni risoluzione del consiglio di sicurezza e come si è visto negli ultimi anni, proprio nella crisi siriana, la Russia esercita sistematicamente questo suo diritto per bloccare le risoluzioni del CDS che possono minacciare i propri interessi esteri.

Dall’altra parte, vista l’impossibilità di un intervento legittimo e la mancata volontà di restare in disparte a guardare silenziosamente milioni di vite spazzate via, ciò che resta è un intervento, non autorizzato dall’ONU che, oltre ad avere una natura illegittima, almeno sul piano giuridico, presenta un ulteriore problema di fondo, poiché, diversamente da un intervento autorizzato dall’ONU che porrebbe come obbiettivo dell’intervento la sola pacificazione della Siria e la fine della guerra civile, impedendo così alla coalizione internazionale che verrebbe a formarsi di superare questo limite dettato dal rispetto della carta delle nazioni, per conseguire altri obbiettivi quali ad esempio la riorganizzazione dello stato siriano. Purtroppo senza l’autorizzazione dell’ONU per la coalizione internazionale non ci sarà alcun limite imposto dall’ONU, verrà a mancare l’obbligo di rispettare la sovranità nazionale siriana e di conseguenza, lo scenario più probabile è che il fine ultimo dell’intervento, oltre alla pacificazione della Siria e la fine della guerra civile, molto probabilmente prevederà anche la deposizione e l’arresto di Bashar al Assade che, nel migliore e più auspicabile dei casi, verrà condotto di fronte ad una corte internazionale per rispondere dei crimini di guerra compiuti dal governo siriano durante la crisi.

Per quanto riguarda le posizioni dell’Europa, temo che l’Unione Europea abbia sprecato un importante occasione di mostrarsi unita, forte e compatta nell’affrontare una questione internazionale, piegandosi ancora una volta all’influenza, le pressioni e le minacce della Russia di Putin che, tuttavia, nella vicenda può vantare la piena legittimità delle proprie azioni, in quanto la Russia ha agito nel pieno dei propri diritti internazionali di potenza alleata della Siria e di membro permanente del CDS.

È una situazione al limite del paradossale, in cui la legittimità e la legalità viene utilizzata per insabbiare abusi e probabili crimini di guerra e dall’altra, un intervento apparentemente umanitario è di fatto un intervento illegittimo, perché illegale, in quanto non autorizzato dalle nazioni unite ed è reso illegale dall’opposizione della Russia. Un opposizione giuridicamente legittima ma dettata da ragioni non del tutto chiare trasparenti.