Aldo Moro. Lo statista e il sua dramma. Intervista al professor Guido Formigoni

Ho deciso di intervistare  il Prof. Guido Formigoni  che insegna Storia contemporanea nell’Università IULM di Milano autore di diversi libri:  “La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale” (1996), “Storia della politica internazionale nell’età contemporanea” (nuova ed. 2006) ,  “L’Italia dei cattolici” (2010) e “Aldo Moro” ( 2016).

  • Molto spesso, quando si parla di Aldo Moro, ci si concentra in particolare sui 55 giorni, lei invece si è occupato molto della sua formazione. Che rapporto ebbe il giovane Aldo Moro con il Fascismo?

 

Moro (nato nel 1916) ebbe tutta la sua formazione infantile e giovanile nell’ombra del regime fascista, che cadde quando lui era un giovane di 27 anni. La sua famiglia non era fascista per ideologia, ma nemmeno apertamente antifascista. Il padre agnostico e liberale, ebbe qualche difficoltà nella sua carriera di ispettore scolastico, ma non fu certo un perseguitato; la madre, donna attiva e intellettualmente dotata, era una cristiana appassionata. Il giovane Aldo si formò nelle associazioni cattoliche e in particolare nella Federazione universitaria, la Fuci, dove negli anni ’30 l’eredità di Montini di un netto quanto silenzioso riserbo verso il regime si era modificata sensibilmente: era divenuta più diffusa la convinzione che fosse necessario fare i conti con la prevedibile durata della dittatura, cercando di orientare le posizioni sociali e culturali al suo interno. Moro quindi mostrò con i suoi studi giuridici (e particolarmente filosofico-giuridici) di ispirarsi a una visione eclettica, tutt’altro che organica alle correnti stataliste gentiliane, ma molto interna alla rivalutazione della statualità rispetto alla cultura cattolica tradizionale. Partecipò da studente universitario ai Littoriali, come scelta non personale ma probabilmente come parte di una generazione che intendeva condividere i percorsi dei propri coetanei, discutendo anche di “dottrina del fascismo”. Si iscrisse al Pnf per poter iniziare la carriera universitaria. Insomma, esprimeva una linea prudente e moderata nei comportamenti, quanto solida nelle convinzioni personali e ideali di distanza dal totalitarismo. Il fatto che fosse militare al Sud quando il regime crollò, non gli fece nemmeno sperimentare il dilemma delle regioni del nord e la possibilità dell’azione resistenziale. Da qui probabilmente anche i caratteri del suo antifascismo successivo (citato in Costituente e più volte ripreso nella sua attività pubblicistica e politica): non tanto militante e ideologico, ma attento a porre netti e precisi argini sostanziali all’eredità del fascismo nella società italiana.

 

2- Che idee differenziarono Moro dal gruppo dei “Professorini di Milano”?

 

Su questo punto ci sono ancora dibattiti aperti, anche perché le carte non hanno fornito appoggi solidissimi per precisare il discorso. Secondo me, Moro fu molto vicino a Dossetti, non solo – come sappiamo – nel lavoro costituente, ma anche dopo il 1947 nello sviluppo della sua corrente e della conseguente battaglia politica per attuare la prima parte della costituzione: il disegno cioè di un moderno Stato democratico-sociale di impronta europea. Questa resterà la sua ispirazione politica fondamentale per tutta la vita. Differenziandosi però da Dossetti, maturò dall’incontro con De Gasperi una visione meno contrapposta all’azione dello statista trentino, e in particolare – direi così – colse quello che De Gasperi aveva fatto per consolidare la democrazia italiana, introiettando nella Dc il moderatismo e il conservatorismo nel 1947, con la scelta di rompere l’alleanza ciellenistica e smontare la pressione delle destre. Moro resterà sempre convinto che ogni evoluzione riformatrice della società italiana nel senso del progetto democratico-sociale della Costituzione, dovesse essere attentamente e prudentemente gestita per evitare di creare una reazione nel ventre molle conservatore del paese. Espressione politica di ciò era la convinzione che bisognasse portare la Dc unita – cosa non sempre facile, anzi – alle svolte politiche più importanti.

 

3- Un evento importante che accadde mentre Moro era segretario della Dc fu la vicenda del “Piano solo”. Che ruolo ebbe Moro in tale vicenda?

 

Oggi conosciamo piuttosto bene la vicenda, dopo anni di polemiche anche fuorvianti ed esagerate. La crisi del luglio 1964 fu uno dei momenti più alti della reazione alla costituzione del centro-sinistra, che proprio con Moro aveva appena portato i socialisti al governo. Il vero perno dell’operazione fu Segni dal Quirinale, che intendeva favorire la costituzione di un governo tecnico fuori dai partiti, per bloccare le riforme e dar credito alle forze proprietarie, che nel paese vedevano preoccupatissime montare la cosiddetta “congiuntura” economica critica (proprio per effetto delle prime battaglie salariali e delle ipotesi di aumento della spesa pubblica). Segni si preoccupò di possibili reazioni di piazza (il caso Tambroni era fresco) e quindi fece preparare un piano d’emergenza al comandante dei carabinieri De Lorenzo, che ipotizzava in caso di disordini di far scattare le note misure autoritarie (compresa l’”enucleazione”” di dirigenti della sinistra). Era una contro-preparazione difensiva, per sostenere una manovra certamente per lo meno al limite delle prerogative costituzionali della presidenza. La crisi di governo fu durissima, ma alla fine Moro riuscì a salvare l’asse con Nenni e a portarsi dietro la Dc del segretario Rumor, confermando l’alleanza di centro-sinistra. Il prezzo da pagare a Segni e alle componenti politiche che lo appoggiavano fu il ridimensionamento del programma.

 

4-  Un ruolo importante che Aldo Moro ricoprì fu quello di Ministro degli Esteri. In che modo cercò di intervenire nella politica estera italiana?

 

Egli fu ministro quasi ininterrottamente dal 1969 al 1974, cioè nel periodo della cosiddetta distensione e dell’emergere del terzo mondo. Aveva pian piano costruito una statura internazionale negli anni della presidenza del Consiglio, ma in questi anni era un uomo sconfitto e piuttosto isolato nel suo stesso partito, per cui l’azione da ministro soffrì di certi limiti. Possiamo però dire che egli confermò la sua visione del solido ancoraggio atlantico e del primato della scelta europea dell’Italia, allargando però il senso di queste scelte, alla luce della comprensione dei mutamenti internazionali e del nuovo protagonismo dei popoli extra-europei. Soprattutto nel Mediterraneo, questo significava tentare di appoggiare una soluzione dei conflitti il più equilibrata e avanzata possibile.  Si equivoca definendola una linea “filoaraba”: era una linea che voleva tenere assieme la difesa di Israele e la pressione per una soluzione pacifica, che interloquisse con i leader del mondo arabo. Questa idea si collegava all’ipotesi che la distensione bipolare, immaginata inizialmente dalle superpotenze come strumento di ingessatura degli equilibri, potesse trasformarsi anche grazie all’azione europea (si pensi all’Ostpolitik tedesca) e a quella più modesta ma non inesistente italiana. Dando così vita a un processo di graduale superamento dei blocchi politico-militari: non a caso egli appoggiò molto la conferenza di Helsinki e la creazione della Csce.

 

5- Nel momento del sequestro di Aldo Moro vi erano molte figure che avevano un ruolo più importante rispetto a lui, tra le quali: Enrico Berlinguer, segretario del Pci, Giulio Andreotti, Presidente del consiglio, Benigno Zacagnini, segretario della Dc. Perché le BR scelsero Aldo Moro?

 

Difficile da dire: secondo l’autoricostruzione dei brigatisti che hanno parlato, Moro era semplicemente un simbolo dell’odiato potere democristiano, più facile da rapire rispetto ad altri più protetti. Resta però il dubbio che con il suo rapimento si volesse colpire la sua politica: non tanto, come spesso si è detto l’“apertura ai comunisti”. Moro non pensava che la proposta del compromesso storico di Berlinguer fosse realistica. Non credeva a un governo con il Pci nel breve periodo. Ma intendeva gestire un difficile percorso di transizione, che evitasse contrapposizioni frontali in un periodo difficilissimo per il paese, per non far saltare le fragili istituzioni. Dando contemporaneamente una sponda alla continua evoluzione ideologica del Pci, proprio con il coinvolgerlo maggiormente nella dinamica istituzionale e parlamentare. Era certo un percorso complesso e delicato, che i brigatisti non potevano che odiare, perché contribuiva a consolidare la democrazia e a allontanare il sogno ingenuo della “rivoluzione”. Venuto meno il suo più sperimentato registro, la “solidarietà nazionale” avviata con il governo Andreotti del 1976 non doveva durare moltissimo (anche se paradossalmente il rapimento nel breve periodo la consolidò).

 

6- Secondo lei perché non venne mai presa in considerazione la “linea della trattativa”, da parte dei maggiori esponenti della Dc?

 

Per certi versi, la linea della trattativa in pubblico era inammissibile e inoltre fu sabotata dagli stessi brigatisti, che resero nota la prima lettera di Moro a Cossiga, che l’affacciava come ipotesi da gestire in modo segreto e riservato. Il problema non è quindi primariamente il conflitto fermezza-trattativa, che era una contrapposizione piuttosto formale: l’ondivaga tattica di gestione del sequestro da parte delle Br sembrò a un certo punto chiedere il rilascio dei compagni in prigione più che altro come mossa di “propaganda armata”, tesa a convincere l’opinione pubblica che sarebbero stati i capi democristiani a volere Moro morto per non scegliere la trattativa (e questo fu forse uno dei pochi loro successi nel medio periodo…). Del resto, alcuni tentativi di trattativa riservata pure ci furono, anche se tutti molto deboli (ad oggi ne conosciamo uno promosso da Vaticano, uno che fece capo al rapporto tra i socialisti e alcuni militanti dell’Autonomia operaia, forse uno attraverso i palestinesi…). Il punto vero, rispetto all’azione degli apparati dello Stato e dei vertici politici responsabili fu l’incredibile impressione di passività e incapacità a gestire gli aspetti polizieschi del problema.  Tale incapacità a coniugare la fermezza pubblica con l’efficacia poliziesca è difficile dire se sia solo frutto delle debolezze e inefficienze tipiche del momento, oppure fosse anche condizionata dall’azione di gruppi di potere che odiavano Moro (si pensi al fatto che molti dirigenti degli apparati di sicurezza si rivelarono poi iscritti alla centrale politico-affaristica che si chiamava P2)…

 

 

7- Nel memoriale di Moro emergono forti critiche alla Dc e nelle ultime lettere emerge la sua volontà di abbandonare la Dc. Questa scelta era dovuta a come si stava sviluppando il partito, cioè alla volontà della Dc di proseguire con la linea della fermezza, o vi erano dei problemi all’interno della Dc che Moro vedeva ormai come irrisolvibili?

 

Difficile esprimersi con cognizione di causa: possiamo solo ipotizzare cosa passasse per la mente di Moro e le lettere dalla prigione brigatista sono da noi conosciute in forma solo occasionale e incompleta. Oggi non credo sia più possibile dire che non sono moralmente ascrivibili a Moro, come fu fatto nella durezza degli eventi. Ma nemmeno possono essere considerate come frutto sicuro di un ragionamento libero, ovviamente. Erano frutto di uno stato di costrizione, cui lo statista cercava con fatica di sottrarsi. Abbiamo contezza del fatto che ci fosse una sorta di doppia censura brigatista: alcune lettere furono scritte e poi non consegnate al destinatario, altre fatte scrivere e riscrivere più volte con intenzione di usarne versioni diverse. Tra l’altro egli era informato solo parzialmente e surrettiziamente dai brigatisti di quello che succedeva fuori. Perché Moro accettò di scrivere? Era subalterno e indifeso?  Si fece condizionare dalla “sindrome di Stoccolma”? Probabilmente è più facile immaginare che egli tentasse, in condizioni drammatiche, di esercitare per l’ultima volta la sua capacità di fare politica, di persuadere, di muovere gli eventi. Per salvarsi, certo, ma in una logica pienamente coerente con la solidità dello Stato democratico. Appare certo un crescente risentimento di Moro verso i suoi sodali di partito, che probabilmente avvertì come deboli e incapaci di offrirgli una sponda. Sotto questo elemento personale, però, trasparivano bagliori della sua lucida consapevolezza della crisi di un sistema. Erano gli elementi di un dramma interiore che egli stava già vivendo da anni, cogliendo come i partiti e la sua stessa Dc fossero sempre meno in grado di guidare una società che stava diventando articolata, disordinata e complessa, molto più di quella della ricostruzione. Forse, proprio il fallimento dello Stato in via Fani e nella gestione efficiente dell’emergenza costituirono per lui segnali di una crisi e di un logoramento rapidissimi.

 

 

Intervista al professor Guido Formigoni

Ho deciso di intervistare  il Prof. Guido Formigoni  che insegna Storia contemporanea nell’Università IULM di Milano autore di diversi libri:  “La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale” (1996), “Storia della politica internazionale nell’età contemporanea” (nuova ed. 2006) ,  “L’Italia dei cattolici” (2010) e “Aldo Moro” ( 2016).

Nel suo libro Storia d’Italia nella Guerra Fredda (Il Mulino,2017) dà molto spazio al contesto internazionale in cui molti fatti si svolgono, al contrario di altre pubblicazioni che sottovalutano questo aspetto. Quali sono le motivazioni dietro a questa scelta ?

Ho l’impressione che la storiografia italiana recentemente abbia trascurato troppo i nessi che esistono tra storia sociale e politica interna e orizzonte internazionale. Soprattutto nelle sintesi di lungo periodo o nella manualistica, la separazione di attenzioni, complicata dalla storica distinzione accademica tra storici contemporaneisti e storici delle relazioni internazionali, appare ancora piuttosto marcata. Nelle indagini specifiche e nelle monografie approfondite si è ridotta diffusamente negli ultimi anni, ma senza effetti consolidati. Questa separazione è avvenuta nonostante nelle nostre tradizioni ci sia l’esempio nobile di una corrente di studi che risale a Federico Chabod e alla sua spiccata attenzione a questi collegamenti. Va detto che dovrebbe essere proprio la coscienza dell’originalità della storia del Novecento ad accelerare tale incontro. I nessi interno-internazionali sono stati fortemente rafforzati nel corso del secolo, in cui si è sviluppata un crescente pervasività del contesto sistemico internazionale sulle singole situazioni locali e in qualche modo quindi è cresciuto l’influsso del “centro” del mondo sulle zone “periferiche”. Naturalmente il problema non è verificare solo forme e modi con cui gli assetti di potere internazionali pesano sulle diverse situazioni interne, ma considerare come questa influenza venga recepita, contrastata o accettata, comunque rimodellata, nell’impatto con le strutture, le forze e gli attori della società italiana. La stagione della guerra fredda a mio parere è stata una delle occasioni in cui questi collegamenti si sono verificati essere più incisivi e importanti. Del resto, l’attuale storico sviluppo della cosiddetta “globalizzazione” non poteva che avere radici e origini più lontane, proprio in quell’orizzonte. Non è quindi più possibile, a mio parere, scrivere storie d’Italia esclusivamente concentrate sulle caratteristiche del conflitto culturale, sociale e politico interno, o dello sviluppo economico locale.

 

Guido Formigoni, storia d’Italia nella Guerra Fredda, Il Mulino, 2017

 

Negli ultimi anni le pubblicazioni sul periodo della  “Guerra Fredda” in Italia sono state frequenti ma in molti casi di carattere generale come per esempio: Paolo Soddu, La via italiana alla democrazia,Laterza, 2017, Agostino Giovagnoli, La repubblica degli italiani, Laterza, 2016, Guido Crainz,  Storia della Repubblica, Donzelli,2016 o biografico. Questi due generi, anche se hanno molti pregi, mancano forse di presentare un’analisi sui singoli partiti che hanno caratterizzato la cosiddetta “Prima Repubblica”. Secondo lei quali sono le motivazioni di questa scelta?

Non saprei dire se i volumi citati sottovalutino l’analisi del ruolo dei singoli partiti: alcuni di essi, al contrario, mi pare siano molto attenti almeno alle dinamiche del sistema dei partiti nel suo complesso. La domanda però mi permette di far presente un’altra questione: certamente oggi la storiografia sui partiti è in una fase di difficoltà. Se non altro perché il progressivo indebolimento del loro ruolo (almeno nella società, se non nelle istituzioni), li ha fatti scivolare al margine della scena, in termini di visibilità comunicativa e di “mode culturali”. Per cui oggi viviamo una situazione paradossale. Da una parte potremmo affrontare la storia della “repubblica dei partiti” (per usare l’espressione di Pietro Scoppola) con maggiore distacco e sulla base di una documentazione ampia che si è resa disponibile. Potremmo anche superare l’identificazione autobiografica di soggetto e oggetto presente in molti studi del passato sui partiti, dato che si tratta di storie per molti versi concluse. Per altro verso, però, ci sono meno risorse finanziarie per organizzare studi sistematici e i giovani studiosi sono molto più lontani e distratti dalla volontà di approfondire la vicenda di un fenomeno che pure nella nostra storia ha avuto un ruolo così importante.

L’inizio della crisi del centrismo si può far risalire già a dopo il risultato elettorale del 7 giugno 1953 e solo nel 1963 si arriva a un centro-sinistra organico. Come incide la situazione internazionale sulla lentezza con cui si riesce ad arrivare all’apertura al PSI?

Beh, non è una mia scoperta originale il fatto che la resistenza della diplomazia americana, sotto tutta l’amministrazione Eisenhower, nei confronti di questa evoluzione politica, fosse molto forte. Io credo però di avere messo in luce nel mio libro come anche questa dinamica si nutrisse di una sorta di continua triangolazione tra politica italiana e quadro internazionale: erano le resistenze interne, massicce e organizzate, a esprimersi e a rafforzarsi anche fornendo argomenti, informazioni e pressioni nei confronti delle autorità americane. Certo, spesso i diplomatici o i politici d’Oltreoceano non avevano bisogno di essere messi in guardia, perché erano molto sospettosi nei confronti dei socialisti. Ma le due realtà si sostenevano vicendevolmente: la loro convergenza assumeva un peso molto forte. Anche un eventuale “veto” americano all’evoluzione politica avrebbe potuto essere molto più fragile e difficile da far valere, se non accompagnato da questa estesa e pervicace resistenza interna.

Che conseguenze ha avuto nella politica italiana il rapporto Cruscëv, in particolare all’interno del PSI?

Tutta la vicenda della crisi del 1956 nel blocco sovietico ebbe un’importanza rilevante nel contribuire a rafforzare l’evoluzione politica della linea di Nenni, sempre più critica del mondo sovietico e quindi portata a prendere le distanze dal Pci in politica interna, dando fiato alle posizioni degli autonomisti. I quali non furono mai solida maggioranza del partito, ma pian piano riuscirono a orientarne le decisioni. Seppur in un contesto sempre molto diviso e incerto.

Un momento di crisi nei rapporti tra Italia e Stati Uniti fu l’elezione alla Presidenza della repubblica di Gronchi. La crisi fu dovuta alla diffidenza degli Stati Uniti verso Gronchi o c’è anche un fattore di diffidenza interna alla stessa Dc?

Il caso Gronchi è un’altra ottima manifestazione delle complesse triangolazioni che esistevano tra correnti politiche italiane e ambasciata americana. È noto che l’elezione di Gronchi fu il frutto di una sconfitta della segreteria democristiana di Fanfani. Ma il nuovo presidente, a parte essere stato contrario all’adesione al patto atlantico nel 1949, non era più assolutamente su posizioni neutraliste o antiamericane. Siccome però passava per sostenitore dell’“apertura a sinistra”, il fuoco di fila degli oppositori interni (la destra democristiana, i liberali, una parte cospicua della diplomazia stessa) fece di tutto per metterlo in cattiva luce nei confronti degli statunitensi. La presenza a via Veneto a Roma di alcuni diplomatici acuti ma molto conservatori permise alla manovra di avere notevoli effetti. Il nuovo presidente incontrò quindi parecchie difficoltà a intraprendere un rapporto positivo oltre atlantico. Paradossalmente, ne fu ostacolato anche quando sosteneva per la politica estera italiana posizioni “neoatlantiche”, che miravano a sviluppare la presenza nazionale e mediterranea dell’Italia, ma nel quadro di una solida alleanza con il ruolo-guida statunitense in occidente.

Nel suo libro si ferma al 1978; quali sono state le motivazioni dietro questa scelta?

Mi rendo ben contro che è una scelta discutibile, come tutte le opzioni di periodizzazione. Da una parte, è stata indotta da una motivazione pratica: dopo quell’anno si rarefacevano le fonti disponibili (soprattutto quelle americane). Ma nasconde una convinzione più forte: gli anni Settanta (la crisi economica e ancor più la crisi dell’assetto socio-politico cosiddetto fordista; politicamente e simbolicamente, poi, per l’Italia, il delitto Moro) assumono sempre più ai miei occhi, man mano che passa il tempo, il senso di uno spartiacque significativo nel dopoguerra. Dividono due periodi contrapposti, in un certo senso. Il periodo di consolidamento democratico e ascesa economica guidato dai partiti e inserito con un proprio ruolo nel “mondo libero” (o nel particolarissimo “impero americano”, come lo si voglia chiamare). E la stagione di molte maggiori incertezze economiche, nel quadro difficile da dominare dell’incipiente globalizzazione, con una crisi evidente della democrazia e in generale una minor capacità delle classi dirigenti a gestire i processi storici. In questo senso, la cesura dei ’70 è per me più forte di quella dell’’89 e anche del ’94. Gli anni ’80 appaiono perciò più anni di transizione ai nuovi equilibri che uno sviluppo ulteriore della “repubblica dei partiti”. E anche la cosiddetta “seconda guerra fredda” fu molto meno decisiva per il sistema, rispetto a percorsi di finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia che cominciarono a manifestarsi.

Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, professore, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?

Mah, come spesso succede sono anche incontri personali o letture, o occasioni particolari a orientare le scelte e la vita di tutti noi. Per me, la passione per la storia è nata negli anni della scuola superiore, quando ho cominciato a percepire come lo sguardo al passato potesse essere tutt’altro che arido e nozionistico, ma aprire a orizzonti di comprensione migliore del nostro presente. O meglio ancora, la convinzione che mi sono costruito è che comprendere come sono cambiate le cose ad opera dell’azione di uomini e donne nel nostro passato, servisse molto a capire come orientarsi nel presente e a istruire la possibilità di cambiamento delle nostre esperienze attuali. Di qui poi a trasformare questa intuizione in un mestiere, naturalmente, la cosa non è stata semplice. L’università degli anni ’80, quando mi sono laureato, soffriva forse un po’ meno di quella attuale di un’insopportabile asfissia di risorse. Tuttavia, nel mondo degli studi umanistici, i posti non erano nemmeno allora così numerosi. Ma devo dire di essere contento di esserci riuscito.