LINEA GOTICA. L’offensiva finale. Aprile 1945 – Intervista all’Autore Massimo Turchi

Qualche tempo fa, grazie a Diarkos Editore, ho avuto modo di intervistare Massimo Turchi, autore di una trilogia di libri sulla Linea Gotica, la cui ultima fatica si intitola Linea Gotica – L’offensiva Finale, aprile 1945.

Grazie all’editore ho avuto anche la possibilità di sfogliare il libro in anteprima, ma per questioni di tempo, organizzazione e festività, non sono riuscito a realizzare una guida alla lettura in tempo, ma ho avuto il piacere di scambiare comunque qualche email con l’autore e di seguito riporto la nostra intervista integrale.

Introduzione all’intervista a Massimo Turchi

Buongiorno, come anticipato, ecco alcune domande per l’intervista.
Come potrà notare, ho preferito dare più spazio a lei, alla sua attività di ricerca e di divulgazione che non al libro in sé, da storico e divulgatore, ciò che mi interessava capire e raccontare ai miei lettori è cosa l’ha portata a scrivere questo libro, cosa l’ha spinta a scegliere determinate fonti, e cosa l’ha portata a raccontare determinate storie.

Sono tre domande che avrei potuto porre in modo diretto, secco, ma in quel modo, temo si sarebbe persa una parte importantissima che è la sua storia personale in relazione alla linea gotica, che invece è ciò che mi interessa offrire ai miei lettori.

L’Intervista

Di libri che parlano e raccontano le vicende della linea gotica ce ne sono diversi, alcuni, come credo sia anche il suo, portano con sé un’eredità storica, e non ho potuto resistere alla tentazione di cercare di capire quale eredità desidera lasciare ai suoi lettori.

Partiamo dalla domanda più semplice, che quasi certamente le avranno già posto.

Da quel che ho potuto osservare lei ha dedicato una parte significativa della sua vita allo studio della linea gotica, e quindi, banalmente le chiedo, cosa ha acceso in lei questo interesse così profondo?

Nel farle questa domanda ho in mente la prefazione del testo Peccati di Memoria, la mancata Norimberga italiana, di Michele Battini, che fu mio docente di storia politica all’Università di Pisa.

La trilogia della Linea Gotica nasce dai racconti delle persone che hanno vissuto la guerra. Se devo indicare una data, questa è sicuramente il giugno del 2002, quando con l’associazione “Vecchia Filanda” abbiamo organizzato un convegno sulla battaglia della Riva Ridge, combattuta nel febbraio 1945. Per l’occasione abbiamo invitato soldati americani, tedeschi e i partigiani per parlare delle loro esperienze vissute durante la battaglia. Ascoltare i loro ricordi, vedere negli occhi le emozioni che avevano vissuto sulla Riva Ridge mi ha spinto ad approfondire storicamente le vicende belliche. Da quel momento – per me – il luogo dove questa battaglia è stata combattuta, non più stato lo stesso: è diventato catartico. Quindi con l’associazione abbiamo dato vita all’esperienza della metodologia didattica del “diorama vivente” con lo scopo di far “toccare con mano” agli alunni e agli adulti le storie delle persone che su quei monti hanno intrecciato parte delle loro vite e i traumi vissuti.

La seconda domanda è quasi consequenziale alla prima, da quanto ho potuto leggere, il suo interesse e la sua passione per la storia e le vicende che hanno caratterizzato la linea gotica durante la seconda guerra mondiale, l’hanno nel tempo a raccontarla in vari modi e attraverso vari strumenti, uno tra tutti l’associazione “Linea Gotica – Officina della Memoria” di cui ad oggi è presidente.

L’associazione Linea Gotica – Officina della Memoria, nasce proprio da quell’esperienza, con l’obiettivo di proporre una nuova narrazione dei luoghi della memoria: una narrazione a 360 gradi, ovvero dove sono presenti tutti i diversi punti di vista, tenendo però sempre ben presente cosa significava combattere per una parte o per l’altra. È quindi una narrazione che vuole suscitare domande, rompere la dicotomia buono vs. cattivo.

Con la vostra associazione raccontate la linea gotica mantenendo un contatto diretto con i  luoghi della memoria e questo mi porta alla domanda vera e propria.

Quanto è importante, secondo lei, il legame fisico con il territorio per comprendere appieno gli eventi della Linea Gotica e l’esperienza di chi li ha vissuti?

Sì, per noi il luogo è la componente fondamentale della narrazione, è il mezzo dove si riesce a ri-creare il collegamento con l’evento storico. Uno dei nostri obiettivi, se non il principale, è proprio quello di riportare le esperienze vissute dalle persone nei luoghi dove sono accadute.

Da quel che leggevo nel testo, il suo è un approccio narrativo “bottom up“, che per chi non lo sapesse, parte dalle storie locali e dalle esperienze personali per arrivare a temi più generali. In altri termini la sua narrazione è un ibrido tra la metodologia di rilevazione etnografica e la narrazione micro storica. Non mi ha quindi sorpreso trovare nella bibliografia di riferimento un testo di Mario Alberto Banti, anche lui è stato mio docente, di Storia Culturale, all’Università di Pisa.

Leggi la mia “Recensione” di wonderland di Mario Alberto Banti

Volevo quindi chiederle, quali sono le influenze che l’hanno ispirata, se ci sono autori, storici, saggisti, ricercatori, ecc, che hanno ispirato il suo lavoro sia nella metodologia che nella narrazione?

In breve, l’idea di una narrazione di questo tipo è nata spontaneamente, dopodiché ho letto tantissimi libri di molti autori storici, ma anche di psicologi sociali. Il punto è che la guerra, per chi l’ha vissuta, è un trauma che ha avuto delle conseguenze a livello di relazioni familiari più o meno importanti, ovviamente a seconda del tipo di trauma che la persona ha vissuto. Il focus di questa narrazione è però rivolto al pubblico, soprattutto ai ragazzi, in modo da suscitare in essi un interesse e soprattutto un invito a porsi delle domande. Se devo citare un autore cito James Hillman e il suo testo “Un terribile amore per la guerra”, ma ce ne sono moltissimi altri altrettanto importanti.

La maggior parte dei testi legati alla seconda guerra mondiale, o almeno, quelli che generalmente sono più apprezzati da un pubblico generalista, riguardano soprattutto aspetti militari e politici, lei invece, ha preferito le esperienze umane, e in un contesto complesso e delicato come quella parte di mondo tra il 1943 e il 1945, non è facile da gestire, soprattutto a livello personale. Parliamo di traumi, stragi e sofferenze, raccontata sulla base anche di testimonianze dirette. Personalmente quando per alcuni esami e relazioni all’università, mi sono ritrovato a leggere testimonianze di ciò che accadeva quotidianamente lungo la linea gotica, confesso di aver riscontrato non poche difficoltà, soprattutto sul piano emotivo.

Mi viene quindi quasi naturale chiederle, come ha gestito, a livello personale, il carico emotivo derivante dall’immergersi in queste storie così drammatiche per così tanti anni? 

Guardi, ho iniziato a fare le prime interviste nel 1995, poi, in maniera più sistematica a partire dal 2002. Tutte le persone che ho conosciuto o di cui ho letto le testimonianze le porto con me e quando mi reco sui luoghi di memoria, quelle persone, i loro occhi, le loro storie sono lì.

Comunque non è semplice, anche se, a mio avviso, andava fatto.

Il tempo, mi rendo conto, essere un elemento ricorrente in questa intervista, lei ha iniziato a lavorare, in maniera diretta o indiretta, a questo libro, nel lontano 2002, sono passati 23 anni da allora, e in così tanto tempo, immagino che di storie ne abbia sentite tante, di domande ne abbia fatte e ricevute tante, e, prometto che è l’ultima domanda legata al tempo.

Volevo chiederle se e come è cambiato il suo approccio narrativo e storiografico in questo lungo percorso. 

Sì, col tempo l’approccio è cambiato, si è sempre più affinato, per cercare di rendere più efficace la narrazione, dando un risalto maggiore al testimone, senza mai trasfigurare l’umiltà delle persone.

Non so se ha avuto modo di notare, ma i testimoni che ho riportato nella trilogia sono sempre persone semplici: soldati, partigiani, civili, parroci e altro, difficilmente troverà gli alti comandanti, perché quello che mi interessava, e mi interessa tuttora, è la storia delle persone semplici, umili.

Ogni tanto una domanda sul libro forse dovrei farla. Nella prefazione a cura di Mirco Carrattieri, viene evidenzia la presenza di ben trentotto nazionalità sugli Appennini durante quel periodo.

Nel suo lavoro di ricerca e scrittura, come ha cercato di dare voce o rappresentare questa incredibile diversità di esperienze e provenienze che hanno composto il fronte della Linea Gotica?

L’aspetto della multiculturalità della linea Gotica è un aspetto che non viene quasi mai colto e che invece, a mio avviso, rappresenta un enorme interesse. Nella trilogia ho cercato di puntare molto sulla multiculturalità, cercando testimonianze di soldati delle trentotto nazioni (all’epoca, oggi cinquantadue) e delle minoranze all’interno delle stesse nazioni: penso ai maori della Nuova Zelanda, agli irlandesi del Regno Unito e del Canada, ai nativi americani, così come agli afroamericani o ai Nisei, o alle stesse minoranze presenti nell’esercito indiano, ai brasiliani, alle varie confessioni religiose: cattolici, ebrei e molto altro. Persone quindi che provenivano da società molto diverse da quella italiana con la quale hanno interagito e, comunque, lasciato un segno del loro passaggio. Mi permetto di rimandare all’Introduzione al primo volume dove analizzo proprio la complessità e la “ricchezza” della linea Gotica in questo senso. 

Più in generale, un concetto che traspare è che per lei ogni testimonianza e documento rappresentano solo una parte di una storia enormemente più ampia e complessa. Di storie da raccontare lungo la linea gotica ce ne sono infinite, e di fronte a scenari così grandi, densi di elementi, scegliere un punto di partenza, un punto d’arrivo, e una strada da percorrere, può non essere facile.

Come ha affrontato lei la difficile sfida di ricostruire eventi complessi basandosi su fonti spesso parziali, frammentarie o in alcuni casi contraddittorie?

Sì, ha ragione, sicuramente non è stato un lavoro semplice, ho dovuto privilegiare i territori coinvolti nelle direttrici di sfondamento principale delle armate alleate, da quando è iniziata l’operazione di sfondamento della linea Gotica (fine agosto 1944), fino al raggiungimento del fiume Po (fine aprile 1945). Dichiarato così i confini cronologici e geografici, il resto del lavoro è stato quello di ricercare quegli eventi – non solo bellici – funzionali alle azioni di sfondamento della linea Gotica. Con questo lavoro meticoloso di ricerca alcune volte mi è capitato di evidenziare episodi quasi sconosciuti, a scapito di altri sopravvalutati.

Il confronto tra le tante fonti è stato fondamentale, e questo mi ha permesso di arricchire di particolari la narrazione dell’evento, componendo così la complessità che stavo cercando. A volte è capitato – per fortuna in pochissimi casi – di trovare contraddizioni tra le fonti; comunque leggendo a fondo, leggendo anche tra le righe, quelle contraddizioni si sono via via sfumate.

Non ho potuto fare a meno di notare che negli “Aggiornamenti” lei presenta nuove scoperte e, cosa più importante, corregge errori precedenti. Questo ammetto che mi ha colpito, perché dimostra un impegno notevole e costante che ha come fine quello di raccontare gli eventi della linea gotica per ciò che furono, con distacco e professionalità storiografica. Ma mostra anche un evidente desiderio di trasparenza nei confronti del lettore.

La ringrazio per averlo notato. Sì, ho voluto una sezione “Aggiornamenti” per il secondo e per il terzo volume perché dalla pubblicazione dei primi due la ricerca storica è proseguita e mi sembrava doveroso tenerne conto. L’editore poi mi ha concesso di creare una pagina internet gratuita, dove i lettori possono scaricare strumenti utili alla consultazione dei tre volumi e gli ulteriori Aggiornamenti dei libri che verranno pubblicati in futuro.

La domanda che segue a queste osservazioni quindi, non può che essere una. Al di là della ricostruzione storica, qual è il messaggio o l’eredità principale che spera di lasciare ai lettori con questa monumentale opera sulla Linea Gotica? Che per inciso, non mi riferisco al libro, ma all’interezza della sua attività di ricerca e divulgazione della linea gotica.

Cosa vorrebbe che rimanesse, in particolare alle nuove generazioni, di queste “Storie”?

I messaggi sono due. L’invito a visitare i luoghi di memoria e i piccoli musei sparsi che custodiscono le memorie locali degli eventi. Il secondo è di provare a mettersi nei panni delle persone che hanno vissuto – forse sarebbe più appropriato dire subìto – la guerra, per evitare che accada di nuovo.

Considerazioni finali 

L’intervista con Massimo Turchi è stata molto interessante, almeno per me, e spero anche per voi. Parlando e confrontandomi con lui ho potuto notare una reale e autentica passione nel raccontare un angolo di mondo, vicende storiche e storie di persone che di quel mondo e quelle vicende ne sono stati testimoni più o meno diretti.

Si tratta di un sentimento comune che ho riscontrato spesso lungo le vie della linea gotica, il più acceso e caldo fronte della seconda guerra mondiale, un luogo di memoria che fu testimone di massacri indicibili e crimini atroci, dettati dalla più feroce crudeltà umana, camuffata da ideologia politica.

Come saprete ho vissuto per molti anni a La Spezia e i luoghi e memoriali della linea gotica e della guerra civile italiana, ho avuto modo di esplorarli e vederli con i miei occhi, ho avuto modo di conoscere tante persone per le quali quella guerra ufficialmente conclusa 80 anni fa, non è mai finita del tutto. E ancora oggi portano con se le ferite legate alla perdita dei propri cari.

Intervista al prof. Paolo Pombeni

 

Ho deciso di intervistare  il Prof. Paolo Pombeni, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna  autore di diversi libri: Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano (Il Mulino, 2013), La politica dei cattolici. Dal risorgimento ad oggi ( Città nuova, 2015), La questione costituzionale in Italia (Il Mulino, 2016)

In che periodo storico si possono far risalire le origini culturali della Costituzione italiana, tali origini si possono trovare nel 900 o anche in periodi precedenti?

Come per ogni documento costituzionale anche nella Carta del 1948 ci sono molti piani, per ciascuno dei quali si trovano origini diverse. Dal punto di vista di alcuni principi generali le origini risalgono fino al dibattito costituzionale classico dell’Ottocento: così è per esempio per il riconoscimento di uno stretto rapporto fra cittadinanza e diritti politici attivi, per il rinvio al parlamentarismo rappresentativo. Altre parti sono invece da connettersi ad una maturazione che si sviluppò nel Novecento: è il caso per esempio dei diritti sociali, del riconoscimento dell’importanza dei corpi intermedi,infine dello stesso ruolo da riconoscere ai partiti politici (un tema che in verità venne solo parzialmente elaborato nella nostra Carta). Va comunque sottolineato che il pensiero costituzionale, sia sul piano politico che su quello di più strettamente giuridico, è un fiume che continua a scorrere e a raccogliere affluenti fondendo istanze diverse.

Un momento importante nella Costituente fu quando i social-comunisti nel 1947 uscirono dal governo Tale evento come condizionò i lavori dell’Assemblea?

L’evento fu politicamente della massima importanza e caratterizzò il sistema politico italiano per decenni, ma sulla Assemblea Costituente  ebbe una influenza molto relativa. Il grosso del lavoro era già stato fatto: non dimentichiamoci che il dibattito sulla prima stesura generale della Carta è del marzo 1947, mentre la rottura del tripartito arrivò nel maggio 1947. D’altronde né i democristiani né i comunisti avevano interesse a buttare a mare il lavoro fatto. Per i primi si trattava di mantenere l’obiettivo di avere un testo che fosse largamente condiviso, per i secondi di vedersi riconosciuto un ruolo di partecipanti attivi alla rifondazione della democrazia italiana. Entrambi questi aspetti si sarebbero rivelati di grande importanza nella successiva storia repubblicana.

In che modo la gerarchia ecclesiastica cercò di condizionare le scelte politiche della Dc nell’Assemblea costituente ? Che ruolo ebbe in questo “Civiltà cattolica”?

La Gerarchia ecclesiastica si riteneva depositaria di una conoscenza storica superiore e già per questo pensava di essere titolata a dare “lezioni” ai politici cattolici, aggiungendo poi che si era in un periodo in cui c’era ancora una visione piuttosto rozza e autoritaria di quali fossero i confini del “magistero” della Chiesa. Diciamo ancora che la catastrofe in cui era finito il mondo con la Seconda Guerra Mondiale illudeva le gerarchie che questo significasse la necessità di un ritorno alla religione in generale, e alla guida delle gerarchie cattoliche in particolare. Così i vertici vaticani si convinsero che fosse suonata l’ora per la restaurazione di un sistema di “stato cattolico” dopo il tramonto di questo con la Rivoluzione Francese. Di qui il lavoro continuo, e per fortuna scarsamente efficace, di orientare la forza della DC su questi obiettivi. La “Civiltà Cattolica” fu semplicemente la punta di lancia di queste convinzioni, al cui servizio pensò di mettere delle particolari competenze tecniche che in realtà in questo specifico caso non aveva, perché i padri che si occuparono di questioni costituzionali avevano una cultura piuttosto arretrata.

Come furono influenzate le riflessioni costituzionali di De Gasperi dall’esperienza politica prima nell’iImpero asburgico, e successivamente, in quella nel Partito Popolare Italiano?

Ci sono tre elementi da tenere in considerazione per capire l’atteggiamento di De Gasperi sulla questione costituzionale, senza dimenticare peraltro che lo statista trentino non sentiva il fascino delle grandi costruzioni teoriche per cui al lavoro di stesura in senso proprio non partecipò, occupato com’era nelle questioni di governo. Il primo elemento è la consapevolezza che De Gasperi ricavò dalla sua partecipazione al parlamento asburgico che una politica senza dialettica parlamentare era destinata a non conseguire l’obiettivo di costruire una compagine nazionale coesa. Nell’impero asburgico il parlamento aveva pochi poteri e scarsa rilevanza, perché il sistema era fortemente burocratizzato, ma la conseguenza fu la dissoluzione dell’impero multinazionale nelle sue molte componenti. Il secondo elemento centrale e poco sottolineato è l’osservazione che De Gasperi fece della esperienza della repubblica di Weimar. In quel caso vide come senza la costruzione di un sistema capace di inglobare vinti e vincitori si apriva una querelle continua sulla “legittimità” del nuovo corso con esiti finali catastrofici. Quanto all’esperienza del PPI nel periodo fra le due guerre, De Gasperi fu tra i pochi che compresero che fra le altre cause della vittoria del fascismo c’era stata anche la scelta della Chiesa di puntare sul nuovo regime abbandonando il partito cattolico. Di qui la sua ostinata difesa del partito unico dei cattolici anche a costo di ingoiare qualche rospo e di accettare una complicata dialettica con le gerarchie.

Nel suo libro emerge una figura che ebbe un ruolo importante negli anni successivi, ma che già nella Costituente si dimostrò influente cioè Amintore Fanfani. In che modo l’esponente della Dc condizionò gli articoli della costituzione che trattano del lavoro e dell’economia già influenzate nella costituente dalle idee social-comuniste?

Fanfani era fra i costituenti cattolici quasi l’unico che aveva competenze economiche soprattutto in campo teorico. Era sempre stato attento al dibattito internazionale in queste materie ed aveva una brillante capacità di trovare la sintesi fra alcune tesi tradizionali cattoliche e le nuove propsettive che lo sviluppo economico portava sulla scena. In questo era veramente un uomo dell’Università Cattolica di padre Gemelli. Fanfani come esponente di un approccio “sociale” alla questione economica, e in specie del lavoro, fu pertanto in grado di offrire una mediazione che desse soddisfazione all’apporto delle teorie marxiste sulla centralità operaia senza che però questo avvenisse con la stesura di articoli troppo ideologicamente “classisti”, cosa che avrebbe trovato l’ostacolo non solo delle gerarchie cattoliche, ma di componenti importanti della cultura italiana.

La Costituzione entrò in vigore il 1 gennaio del 1948, ma per la sua attuazione il tempo sarà molto più lungo quali furono le motivazioni di questo ritardo?

La Carta Costituzionale fu approvata mentre ancora non si erano concluse molte riflessioni per trovare dei punti di accordo su diverse questioni rimaste aperte in tema di organizzazione dei poteri pubblici. Tuttavia c’era molta polemica sulla durata dei lavori della Costituente che sembrava molto lunga e si premeva perché si potesse andare a votare per vedere chi aveva la maggioranza nel paese. Alla indeterminatezza su alcuni temi (si pensi alla regolamentazione del diritto di sciopero o a quella sui partiti politici) si aggiunse il fatto che altri istituti erano stati fatti approvare in un clima che in seguito mutò. Così la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, le Regioni. Le forze che avevano dovuto obtorto collo rassegnarsi a vedere approvate quelle norme fecero di tutto per lasciarle … sulla Carta! Infine la nuova Costituzione presupponeva un cambiamento di mentalità da parte dei detentori dei pubblici poteri, in specie di quelli burocratici, ma non solo e per superare quegli ostacoli fu necessario attendere il tempo perché ci fossero dei ricambi generazionali e perché quelli che facevano resistenza si arrendessero all’idea che ormai la battaglia era stata perduta.

Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. Quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?

Posso confessarvi che io sono diventato storico per caso? Mi sono laureato in Giurisprudenza a Bologna nel novembre 1971 e all’epoca il mio interesse era diviso fra il giornalismo e le questioni religiose (ero uno dei tanti giovani del dissenso cattolico postconciliare). Per questo avevo fatto una tesi in storia della Chiesa col prof. Alberigo sul decreto conciliare sulla liturgia. Mentre scrivevo la tesi una crisi personale mi allontanò da quel tipo di impegno religioso, ma Alberigo mi offrì una borsa di studio a Scienze Politiche in storia contemporanea e mi assegnò come tema di ricerca il dossettismo, di cui stava recuperando un pezzo di archivio. Non avevo mai sentito nominare Dossetti, ma cominciai a leggere la sua rivista “Cronache Sociali”. Di lì scoprii un altro modo di ragionare di politica e una prospettiva per cui è necessaria una visione storica per capire. Contemporaneamente entrarono in gioco le relazioni con le persone e con gli ambienti. L’allora Istituto storico politico di Bologna era un laboratorio assai vivace: non c’era solo il professore a cui ero stato assegnato e a cui mi legò un rapporto sempre più forte e complesso, Roberto Ruffilli, ma c’erano Tiziano Bonazzi, Piero Schiera, Anna Maria Gentili e tanti altri. In parallelo apersi una forte via di scambio intellettuale con Paolo Prodi.

Così mi immersi sempre più nello studio della storia politica come disciplina caratteristica e diversa dalla semplice storia delle vicende politiche, perché presuppone una riflessione teorica, una attenzione al sistema istituzionale, una comprensione delle dinamiche della storia intellettuale. Ovvio che su questo si è influenzati anche da letture di classici, come Max Weber, o alcuni saggi di Otto Hintze e di Otto Brunner.

Poi la vita ti trascina e la passione ti porta ad immergerti sempre più in quello che fai, ma mai da solo. Sono sempre più convinto che il poco che ho fatto sia dovuto a tutti quelli con cui ho interagito, ma soprattutto i miei studenti e i molti giovani (ormai quasi tutti ex giovani) che hanno condiviso con me le piccole “officine” che abbiamo messo insieme. E sono anche sempre più convinto che gran parte della crisi politica in cui viviamo e che rischia di stritolare generazioni su generazioni sia dovuta all’abbandono della storia come “scuola dell’uomo di stato” (la definizione non è mai, ma dello storico inglese Freeman).

Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI raccontato da Fulvio de Giorgi

Questa settimana abbiamo deciso di intervistare il Prof. Fulvio de Giorgi, docente di Storia della pedagogia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e autore di diversi libri: Paolo VI. Il papa del moderno (Morcelliana, 2015), La repubblica grigia. Cattolici, cittadinanza, educazione alla democrazia (La scuola, 2016) e Mons Montini. Chiesa cattolica e cosntri di civiltà nel novencento (il Mulino, 2012).

 

Montini è stata una delle figure italiane più importanti del novecento. In che ambiente culturale si forma ?

Se, con uno sguardo laico, ci chiediamo quale sia stato l’italiano che, nel XX secolo, ha maggiormente influito, positivamente, sulla storia mondiale, dobbiamo concludere che è stato Giovanni Battista Montini (1897-1978). Questo per dare un’idea approssimativa della ‘dimensione di scala’ sulla quale ci muoviamo parlando di lui: un grandissimo protagonista della storia mondiale contemporanea (a livello di Gandhi, Luther King, Mandela).
Egli si formò in Lombardia cioè nella parte più ‘moderna’ e dinamica, in quel momento, in Italia. Più in particolare, la sua formazione giovanile si svolse nell’ambiente cattolico bresciano (nel quale suo padre era figura leader) che aveva allora due caratteristiche fondamentali: da una parte, attaccamento al papato (con il ‘mito’ di Leone XIII e della Rerum Novarum) e, quindi, appartenenza alle organizzazioni dell’intransigentismo (l’Opera dei Congressi, con una marcata vicinanza a Toniolo); dall’altra, un atteggiamento aperto e ‘conciliatorista’ verso la società e la cultura moderne, lo Stato costituzionale, l’Italia unita. Quindi intransigentismo strategico e conciliatorismo tattico. Ciò passò, in qualche modo, al giovane Montini. La sua posizione, per tutta la vita, fu: radicalismo intransigente della fede e dialogicità conciliatorista dell’apologetica.
Attraverso, poi, i Padri Filippini della Pace di Brescia (in particolare Bevilacqua) e figure di laici, amici di famiglia, Montini si ricollegò alla vena profonda della spiritualità italiana: S. Filippo Neri, Rosmini, Manzoni.

Il padre aderì al Partito Popolare fondato da Don Sturzo. In che modo il padre condizionerà le diverse scelte di Montini?

Il padre Giorgio che, come ho detto, era il leader del laicato cattolico bresciano fu, insieme a Sturzo, tra i fondatori del PPI e poi fu eletto, nelle fila popolari, alla Camera. Se la mamma influì su Giovanni Battista per l’aspetto spirituale, il padre fu determinante per l’aspetto civile e politico (ed entrambi per l’atteggiamento etico-sociale e caritativo). Dal padre egli ereditò l’antifascismo e anche una vera comprensione per la politica. Fu pure vicino a De Gasperi negli anni bui della dittatura fascista, quando molti ex-popolari lo evitavano e De Gasperi era vessato e perseguitato dal fascismo.

Nella FUCI Montini formò alcuni esponenti della futura Democrazia Cristiana. Che ruolo ebbe Montini nella scelta della Chiesa di appoggiare la Democrazia Cristiana come partito unico dei cattolici?

Montini fu decisivo nella formazione dei giovani intellettuali cattolici (della Fuci, prima, e poi dei Laureati Cattolici) al primato dello spirituale, della coscienza, della carità intellettuale: contro la ‘religione politica’ fascista e la statolatria gentiliana. La posizione era apolitica (anche, poi, sulla base del Concordato del 1929) e perciò afascista: ma in un regime totalitario, che richiedeva l’adesione totale al regime, afascismo corrispondeva ad antifascismo.
Durante la seconda guerra mondiale Montini divenne figura apicale della Chiesa cattolica, braccio destro di Pio XII. Fu determinante nella ripresa organizzativa e ideale (cfr. Codice di Camaldoli) dei cattolici. Fu pure determinante nella scelta dell’unità politica dei cattolici in un partito democratico con un programma avanzato di giustizia sociale. La scelta alternativa era quella di più partiti cattolici: di destra e di sinistra. Ma, dopo vent’anni di fascismo e di clerico-fascismo, questo avrebbe voluto dire un grosso partito clericale di destra quasi neofascista e sparuti partitini di sinistra (cattolico-democratica o catto-comunista). La linea di Montini (e di Pio XII) in appoggio a De Gasperi fu quindi decisiva per ancorare la gran parte dei cattolici alla democrazia, con un programma sociale avanzato. Basti considerare il fondamentale apporto dei costituenti dc, moltissimi legati a Montini, alla stesura della Costituzione della Repubblica.

Mons. Montini nel 1954 venne nominato arcivescovo di Milano senza essere investito cardinale. Per quale motivo venne allontanato da Roma e dal carica di sostituto della Segreteria di Stato?

Finché si trattò di uscire dal fascismo e di ricostruire la democrazia, la posizione di Montini in Vaticano fu egemone: era una linea che guardava con simpatia soprattutto alle avanzate esperienze intellettuali e sociali dei cattolici francesi (Maritain, Mounier, Francia Paese di Missione, preti operai) e dei franco-svizzeri (Journet, Zundel). Ma in Vaticano c’era una linea opposta: romano-spagnola (che aveva come modello la Spagna di Franco e un’ecclesiologia di centralismo romano-papale da Chiesa totalitaria). Per la linea montiniano-francese la sfida principale al cristianesimo veniva dal ‘materialismo pratico’ (soprattutto borghese, ma anche marxista); per i romano-spagnoli invece dal comunismo mondiale (e perciò bisognava unire tutti gli anticomunisti, neofascisti inclusi, in un fronte comune). Quando il clima mondiale divenne fosco e si avviò la guerra fredda (a partire direi dal 1949 e via via sempre di più), la linea romano-spagnola ebbe la meglio e convinse il vecchio e malato Pio XII a ‘esiliare’ Montini (visto come troppo democratico e non abbastanza anticomunista e, sul piano ecclesiale, quasi ‘neomodernista’) a Milano, senza elevarlo al cardinalato, così da impedirne la partecipazione al successivo conclave. Faccio notare che se nel conclave del 1958 fosse stato eletto il giovane Siri invece dell’anziano Roncalli non avremmo mai avuto Paolo VI.

Paolo VI si trova in una situazione molto complessa quella di continuare e portare a termine il concilio. In che modo riuscì ad intervenire ed evitare possibili fratture all’interno della Chiesa?

Qui il discorso sarebbe lunghissimo e non posso riassumerlo in poche battute. Dico solo che i risultati del Concilio Vaticano II sono strettamente legati all’impegno di Paolo VI. In sostanza il giudizio storico sul pontificato di Paolo VI è totalmente e univocamente legato al giudizio storico che si dà del Concilio: se il Vaticano II è stato negativo, lo è stato pure il pontificato di Paolo VI; ma se si giudica il Vaticano II storicamente importante (io direi una svolta epocale mondiale), allora il pontificato di Paolo VI è stato storicamente importante. Io sono, come si è capito, per la seconda posizione, e giudico, da storico, Paolo VI come il più grande papa contemporaneo.

Negli ultimi mesi del suo pontificato dovette subire la perdita di una figura a cui lui era particolarmente legato: Aldo Moro. In che modo cercò di arrivare alla  sua liberazione? Secondo lei, le  vie intraprese da Paolo VI potevano portare alla liberazione di Moro? 

Negli ultimi mesi del suo pontificato dovette subire la perdita di una figura a cui lui era particolarmente legato: Aldo Moro. In che modo cercò di arrivare alla  sua liberazione? Secondo lei, le  vie intraprese da Paolo VI potevano portare alla liberazione di Moro? Non tutte le fonti sono tutt’ora a disposizione degli storici: il giudizio è necessariamente indiziario e provvisorio. Moro prigioniero delle Br non conobbe tutta l’azione che, riservatamente, Paolo VI mise in atto, perciò giudicò che Montini avesse fatto “pochino” per lui. In realtà non fu così. Il papa sperò di essere riuscito stabilire un contatto utile per la liberazione di Moro. Non sappiamo però se fu all’opera un depistaggio – da parte di servizi ‘esterni’ – verso quest’opera del Vaticano. Montini aveva fiducia. Anche per questo la notizia dell’uccisione  (per certi aspetti inattesa: si attendeva, proprio in quei momenti, la liberazione) fu un colpo tremendo per lui, che morì solo qualche mese dopo.

Perché Paolo VI rispetto ad altri pontefici del 900,  viene  poco ricordato  e  sempre in luce non del tutto positiva? 

Anche qui il discorso sarebbe troppo lungo. Sul piano ecclesiale dal 1978 al 2013 si è progressivamente prodotta una divaricazione tra chi interpretava il Concilio come un’assoluta frattura rivoluzionaria (ed esaltava Giovanni XXIII considerando quasi Paolo VI come un restauratore se non un ‘traditore’) e chi al contrario diceva che il Concilio non aveva cambiato molto nella continuità ecclesiale (criticando, più o meno implicitamente, tutte le aperture montiniane, soprattutto la ‘libertà di parola’, e esaltando le sicurezze indiscusse e indiscutibili del papato polacco di Giovanni Paolo II). Tra l’altro sia Giovanni XXIII sia Giovanni Paolo II erano stati molto popolari (e ‘bucavano’ il video), al contrario dello schivo e riservato Montini che non voleva un’invadenza papale sul resto della Chiesa, vescovi e laici inclusi.Si è così progressivamente prodotta una dannosa divaricazione tra ermeneutica della frattura ed ermeneutica della continuità. Inoltre tra il mito di Giovanni XXIII, il papa ‘buono’, e il mito di Giovanni Paolo II, santo ‘subito’, Paolo VI appariva – in modo totalmente falsato e ingiusto – come un inverno tra due primavere.Solo con papa Bergoglio un più sereno giudizio e uno sguardo non preconcetto alla realtà storica sono stati possibili. Così si è giunti alla beatificazioni di Montini e, soprattutto, si è studiata la sua figura in termini più corretti. Ma non si tratta solo di storiografia. Si tratta anche di vita ecclesiale e attualità pastorale: è indubbio, infatti, che Bergoglio sia un neo-montiniano.