Mussolini tagliò il Debito Pubblico: Verità o Propaganda?

La teoria che Mussolini ridusse il debito pubblico italiano è infondata; in realtà, il debito crebbe e l’Italia pagò un prezzo alto per presunti “tagli”.

Periodicamente torna a circolare su diversi quotidiani e social la storia per cui Benito Mussolini sarebbe stato l’unico uomo ad aver tagliato il debito pubblico italiano. Questa stravagante teoria non è nuova, ed emerge spesso negli ambienti di un certo orientamento politico, vicino agli ideali di Mussolini e del Fascismo, ma corrisponde alla verità o si tratta solo di Propaganda?

Come ogni questione storica, la risposta purtroppo non è semplice, e liquidare il tutto ad una frase non è semplice, ma, al di la della complessità della vicenda, una cosa è certa, dire che Mussolini tagliò il debito italiano è falso, ma andiamo con ordine.

Il contesto economico pre-fascista: L’eredità della Grande Guerra.

Prima dell’ascesa al potere di Mussolini e l’avvento del fascismo, l’italia si trovò ad affrontare diversi e gravi problemi di natura economica, elemento che accompagnò tutti i paesi europei impegnati nella grande guerra.

Per riavviare il paese, riconvertire il sistema produttivo e rilanciare l’economia, l’italia fece ricorso all’emissione di moneta e a molteplici interventi da parte di Banca d’Italia per “salvare” le aziende in difficoltà. La nuova moneta immessa sul mercato era solo in parte coperta dall’emissione di titoli di stato e di conseguenza la moneta italiana andò in contro ad una forte svalutazione.

L’alta inflazione che ne derivò andò a colpire soprattutto le fasce più povere della popolazione, principalmente lavoratori dipendenti che, allo svalutarsi della moneta ed il conseguente incremento dei prezzi, non videro corrispondere un aumento dei salari.

In questo clima economico, fortemente sfavorevole e di grande tensione si verificarono gli avvenimenti del famoso biennio rosso (1919-1920) che causarono gravi disordini in tutto il paese e spinsero molti lavoratori impoveriti a sostenere il Fascismo poiché, neanche Giovanni Giolitti, che in passato era stato protagonista di una stagione splendente per l’economia italiana, riuscì a risolvere la crisi e sanare il debito crescente.

Questa fu la situazione che spianò la strada alla prese di potere da Quando nell’ottobre del 1922 Vittorio Emanuele III affidò il governo a Mussolini, l’italia si trovava in una situazione stagnante, con un enorme debito crescente alimentato da una moneta molto debole ed un enorme spesa statale.

Questa lunga premessa può sembrare noiosa, ma è fondamentale per capire esattamente se Mussolini riuscì a tagliare realmente il debito, se non lo ridusse ma riuscì comunque a contenerlo o se invece provocò un incremento del debito pubblico italiano.

La politica economica fascista: Ruolo di Mussolini e gestione De’ Stefani (1922-1925).

A questo punto bisogna aprire una breve parentesi sull’orientamento economico del regime, la politica economica fascista, detta della terza via, si colloca in un limbo, una zona grigia intermedia che derivavano dall’orientamento dei vari ministri delle finanze, dall’ideologia fascista e da varie contingenze nazionali e internazionali. E a tal proposito è importante ricordare che, se bene Accentrò nelle proprie mani numerosi ministeri ed esercitò grande influenza e pressioni sui ministeri che non erano di sua competenza, Mussolini non fu mai ministro delle Finanze, del Commercio e del Tesoro.

Mussolini fu ministro dell’Areonautica, degli Esteri dell’Africa italiana, delle Colonie, delle Corporazioni, della Guerra, dei Lavori Publici e della Marina, ma nessuno di questi ministeri era in grado di intervenire direttamente sul debito, e anzi, i suoi ministeri erano quelli che assorbirono maggiori risorse economiche, giocando de facto un ruolo attivo nell’incremento e non nella riduzione della spesa, ma andiamo con ordine.

Sul piano puramente linguistico possiamo dire con assoluta certezza che Mussolini, attraverso i suoi ministeri, non fece nulla per ridurre il debito, resta però da capire se invece il governo fascista, nel suo complesso, riuscì in qualche modo a ridurre il debito o comunque a contenere la spesa limitando l’aumento del debito.

Tra il 1922 ed il 1925, il ministero delle finanze e del tesoro fu affidato ad Alberto De’ Stefani che attuò una politica di grandi tagli alla spesa pubblica, e cercò di incrementare le entrate, con l’intento di rimettere in ordine il bilancio dello stato. Una politica comune in situazioni di questo tipo, da Agostino Magliani (ministro delle finanze agli albori della prima crisi economica del regno d’italia nell’ultimo quarto dell’ottocento) a Mario Monti.

Per quanto riguarda la riconfigurazione delle entrate, De’ Stefani non intervenne aumentando le tasse come spesso avviene, ma al contrario, osservando che una fetta enorme della popolazione era esclusa dalla partecipazione contributiva, fece in modo di allargare la base, tassando quelle fasce sociali fino a quel momento escluse, e allo stesso tempo, ridusse le aliquote per categorie sociali ritenute più inclini all’investimento.

Detto più semplicemente, tassò le fasce più povere della popolazione, fino a quel momento esonerati e ridusse le tasse all’alta e media borghesia, producendo così un incremento delle entrate dovuto al maggior numero di contribuenti.

L’intento di De’ Stefani era quello di rilanciare l’iniziativa privata e ridurre le spese dello stato, spese che, in quel momento, erano rappresentate soprattutto dai salari di dipendenti pubblici, e di conseguenza il taglio della spesa si configurò come un taglio netto nel personale dei settori “improduttivi” dello stato, licenziamento di circa 65.000 impiegati pubblici e circa 27.000 ferrovieri e favorendo l’ingresso dei privati in alcuni settori, fino a quel momento sotto il controllo dello stato, come il settore assicurativo, ferroviario e telefonico.

In termini numerici gli interventi di De’ Stefani furono positivi e il bilancio, almeno quello statale, fu riportato in pari, mentre quello degli enti locali non fu mai parificato durante tutto il ventennio. In ogni caso, questi interventi favorirono una leggera ripresa e innescarono un lieve processo di crescita per il paese che però non risolse il problema monetario, la lira valeva sempre meno e anche se, in termini numerici il debito cresceva più lentamente, il minor valore della lira, rendeva più difficile un suo risanamento.

Fin dai tempi dalla grande guerra la Banca d’Italia si era impegnata nel sostegno delle imprese e banche immobilizzate dalla riconversione e questo impegno continuò durante i primi anni del fascismo, producendo tra il 1922 e il 1925 un incremento di liquidità che portò ad un ulteriore ondata inflazionistica, alimentata da un peggioramento della bilancia dei pagamenti.
Nel 1925 De’ Stefani promosse alcuni provvedimenti che però si rivelarono insufficienti e portarono ad un tracollo della borsa italiana e al fallimento di numerose aziende italiane.

La gestione Volpi (1925-1928) e la ristrutturazione del debito estero.

Gli industriali rappresentavano lo zoccolo duro del fascismo ed avevano molta influenza sulle azioni del governo, così, per non perdere il loro consenso, Mussolini sostituì il ministro delle finanze, assegnando l’incarico a Giuseppe Volpi.

Volpi rimase in carica dal 1925 al 1928 e durante il suo mandato giocò un ruolo decisivo per le sorti economiche e di bilancio dell’Italia.

Sul piano internazionale il 1924, con il piano Dawes aveva visto la fine alla questione delle riparazioni tedesche e si stava valutando un ritorno delle nazioni al gold standard per stabilizzare le monete, idea nata in seno al trattato di Versailles.

Nonostante questo però, la forte svalutazione della lira, il peggioramento della bilancia commerciale e numerosi altri fattori speculativi, non resero semplice il lavoro di Volpi e come se non fosse abbastanza, il fallimento del rinnovo dei BOT venticinquennali nel 1924, dovuto alla grande richiesta di liquidità di banche e privati, impedì all’Italia di emettere nuovi titoli di stato.

Nel 1925 il bilancio interno ufficialmente era in pari, ma nei fatti non lo era, nel bilancio infatti non erano stati conteggiati i titoli di stato da ripagare e l’italia, fortemente indebitata, non era in grado di ripagare i propri debiti.

Volpi decise quindi di agire in sintonia con la Banca d’Italia che sostenne il cambio, riuscendo a raggiungere un accordo con gli in investitori americani più favorevole in termini assoluti, ma va precisato gli investitori americani raggiunsero accordi simili in tutta europa e tra i tanti, l’accordo italiano fu quello “meno morbido“, il merito di Volpi non fu quindi quello di aver trovato un accordo favorevole, come spesso si dice, ma fu quello di aver trovato un accordo.

Sul finire del 1925 gli il governo statunitense accordò all’Italia un prestito, noto come Prestito Morgan, il cui intento era quello di risollevare la lira, di fatto acquistando parte del debito pubblico italiano. Sulla stessa linea nel gennaio del 1926 l’italia trovò un accordo simile con il regno unito. Secondo questo accordo l’italia cedette al regno unito la propria quota di riparazioni tedesche, gestite della Cassa autonoma di ammortamento dei debiti di guerra, costituita il 3 marzo 1926.

Analisi critica del “taglio”: Un pareggio di bilancio pagato a caro prezzo.

Grazie a questo accordo l’italia riuscì a ripagare parte dei propri debiti esteri, rinunciando al flusso costante di ripartizioni di guerra tedesche.

A questo punto, in termini numerici l’italia era ufficialmente in pari con il bilancio, ma questo pareggio come detto, va contestualizzato e il contesto è quello di un paese che ha dovuto ricorrere letteralmente al baratto.

L’italia ha “cancellato” il proprio debito consegnando ai propri creditori tutto quello che aveva, l’italia ripaga i propri creditori cedendo titoli esteri acquistati dal tesoro in precedenza e rinunciando alle proprie riparazioni di guerra, dal valore di diversi milioni di marchi pagati in oro ogni anno, pagamenti che la Germania avrebbe interrotto qualche anno più tardi con una decisione unilaterale in seguito all’avvento del Nazismo e di Hitler, e che avrebbe ricominciato a pagare nel secondo dopoguerra.

Il Trattato di Versailes aveva imposto alla Germania il pagamento di 132 miliardi di marchi oro, e parte di quell’oro sarebbe andato all’Italia, e anche se rateizzato, la quota italiana delle riparazioni di guerra aveva un ammontare complessivo enormemente superiore al proprio debito.

Conclusione: La smentita storica dell’affermazione sul risanamento del debito.

In conclusione, se è vero che sul piano linguistico è falso dire che Mussolini tagliò il debito, ma nei fatti questo taglio è riconducibile a Mussolini, allo stesso tempo, è vero dire che il fascismo tagliò il debito, ma nei fatti, questo taglio è costato all’Italia miliardi in oro, avrebbe contribuito ad alimentare una progressiva e crescente svalutazione monetaria e produsse, parallelamente alla cancellazione del debito, l’impossibilità per l’italia di ottenere nuovi prestiti e finanziamenti, trascinando il paese verso un progressivo impoverimento generale che non sarebbe stato possibile disinnescare se non fosse stato per gli aiuti postbellici, ricevuti dopo la seconda guerra mondiale.

Dire quindi che Mussolini e il fascismo hanno “sanato il debito pubblico italiano” è la cosa più falsa che si possa dire.

Fonti e letture consigliate

V.Zamagni, Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie storica, in “Rivista di storia economica”, Il Mulino, 3/1988, dicembre.
P.Frascani, Finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni trenta.
R. de Felice, Mussolini il fascista, la conquista del potere, 1921-1925.
S. Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza fra Giolitti e Mussolini.
G.Mele, Storia del debito pubblico italiano dall’unità ai giorni nostri, Tesi di laurea presso università Luiss, Dipartimento di Economia e Management Cattedra di Storia dell’economia e dell’impresa, A.A. 2014/2015.

Il Piano Solo

Il Piano Solo rappresenta uno dei capitoli più controversi dell’Italia Repubblicana, che ancora oggi è oggetto di dibattito e discussione sulla sua natura. Contestato e considerato da molti come un tentativo di golpe e giustificato da altri come un piano “anti-golpe”, la sua natura è stata valutata e scrutinata nel dettaglio da una commissione d’inchiesta parlamentare.

Elaborato durante la prima crisi di governo della IV legislatura, a pochi mesi dalla nascita del primo governo di centrosinistra dell’Italia repubblicana, il piano, mai messo in atto, prevedeva il monitoraggio e l’arresto di politici e sindacalisti, soprattutto in area di sinistra, in caso di grave crisi politica e sociale, ad opera dell’Arma dei Carabinieri.

Protagonista di primo piano dell’intera vicenda il generale, medaglia d’argento della resistenza e comandante dell’arma dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo.

A distanza di oltre 60 anni dalla progettazione di quel piano segreto, oggi disponiamo di un gran numero di informazioni e documenti, preclusi a chi se ne occupò e ne parlò tra anni 60 e 70, in particolare noi oggi disponiamo dell’intera documentazione analizzata e prodotta dalla commissione commissione d’inchiesta parlamentare sugli eventi del giugno-luglio 1964 (“SIFAR”), documenti che per molto tempo sono stati classificati e solo di recente sono stati declassificati.

La mole di documenti prodotta dalla commissione d’inchiesta è qualcosa di immensa, solo per il Generale De Lorenzo, comandante nel 1964 dell’arma dei carabinieri, disponiamo di migliaia di pagine, tra cui i verbali integrali delle quattro audizioni tenne di fronte alla commissione, rispettivamente il 23, 27, e 30 maggio 1969. Nel complesso, la documentazione integrale, disponibile e consultabile on-line presso l’archivio della camera, comprende oltre 116 audizioni a funzionari dell’arma dei carabinieri, 131 resoconti sommari, e 201 documenti, per un totale di oltre 45.000 pagine, che ho avuto la malsana idea di recuperare. Inoltre sul portale della camera è disponibile la relazione, in due volumi (circa 2000 pagine compelssive).

Tra i documenti sono presenti anche le liste dei “sorvegliati” del SID, ovvero i soggetti sensibili, potenzialmente sovversivi, che l’intelligence aveva attenzionato ed era pronta a sorvegliare o arrestare in caso di crisi politica o sociale.

Col tempo avrò modo di leggere tutta la documentazione e produrre sempre più materiale a riguardo, per il momento voglio limitarmi ad un articolo che abbia le seguenti finalità, definire il Piano Solo, contestualizzarlo storicamente ed esporre le valutazioni finali della commissione d’inchiesta, poiché questa fu attiva fino al 15 dicembre 1970, un momento storico molto particolare, poiché successivo, di 7 giorni al “Golpe Borghese“.

Il contesto storico in cui venne sviluppato il Piano Solo

Il piano Solo venne pianificato presumibilmente nell’estate del 1964, indicativamente tra Giugno e Luglio, nel pieno di una crisi di governo. Da quel che sappiamo, a sollecitare la pianificazione del generale Giovanni de Lorenzo, fu l’allora capo dello stato Antonio Segni, o almeno questa è la narrazione comune, come vedremo, le cose sono più complesse di così.

Ci troviamo in un momento storico di grande fermento politico e soprattutto grande preoccupazione politica, poiché l’Italia in quegli stessi mesi stava sperimentando il primo governo di centro-sinistra dell’età repubblicana, nonché il primo governo di centro-sinistra dai tempi di Bonomi, risalente agli anni venti, appena prima dell’avvento del Fascismo e l’ascesa di Mussolini.

Fatta eccezione per l’assemblea costituente, erano passati più di 40 anni dall’ultima volta la sinistra in Italia era stata in area di governo e da allora il mondo, e soprattutto l’Italia, erano profondamente cambiati, non solo perché c’era stato il regime fascista e la seconda guerra mondiale di mezzo, ma anche e soprattutto perché ci trovavamo in piena guerra fredda e uno sbilanciamento dell’Italia, troppo a sinistra poteva risultare come un qualche avvicinamento all’Unione Sovietica e questo era considerato una possibile minaccia non solo in Italia e per l’Italia, ma anche per l’Europa e la NATO.

Nel dicembre del 1963 nasce il primo governo Moro, un governo di centro sinistra, sostenuto dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialista Italiano, personalità chiave di questo governo furono Aldo Moro (DC) in quanto presidente del consiglio e Pietro Nenni (PSI) in quanto vicepresidente. Oltre questi due partiti principali, la coalizione di governo contava anche rappresentanti del Partito Socialista Democratico Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Questa coalizione sarebbe rimasta al governo per tutta la legislazione, fino al 1968, con i tre governi Moro.

Tra il governo Moro I e Moro II cambiano pochissimi funzionari, o meglio, diversi funzionari del PSI cambiarono posizione, segno di una tensione interna al PSI e di riflesso nella Coalizione. Più nel dettaglio, Umberto delle Fave (DC) ai rapporti con il parlamento del governo Moro I lasciò il posto a Giovanni Battista Scaglia (DC) del governo Moro II, il ministro al Bilancio Antonio Giolitti (PSI) venne sostituito da Giovanni Pieraccini (PSI), il ministro ai lavori pubblici Giovanni Pieraccini (PSI) venne sostituito da Giacomo Mancini (PSI), il Ministro alla Sanità Giacomo Mancini (PSI) venne sostituito da Luigi Mariotti (PSI) e il ministro del Lavoro e Previdenza sociale Giacinto Bosco (DC) venne sostituito da Umberto delle Fave (DC).

Da quel che sappiamo, nel pieno della crisi di governo, il 15 luglio 1964, il Presidente della Repubblica Antonio Segni convocò al Quirinale il generale dello stato maggiore e comandante dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, si trattò di un incontro ufficiale, non segreto ma a porte chiuse, la notizia della convocazione e dell’incontro venne data anche dai quotidiani e telegiornali dell’epoca.

In quel momento le tensioni all’interno del governo erano palpabili e indubbiamente c’era una forte preoccupazione istituzionale, come normale che sia nel pieno di una crisi di governo (anche se queste, nella prima repubblica erano molto più comuni e in realtà meno gravi di quanto non siano percepite oggi). Non c’è quindi da sorprendersi troppo se il capo dello stato, durante una crisi di governo, ha convocato ed incontrato diversi funzionari.

Uno di quei funzionari come già detto fu proprio il generale De Lorenzo e, in seguito avremmo scoperto, ricevette da Segni un incarico molto delicato, ovvero l’elaborazione di un piano d’emergenza per l’ordine pubblico, tale piano è oggi noto come Piano Solo, e avrebbe fatto dell’arma dei carabinieri l’esecutore e garante dell’ordine sociale in caso di grave crisi politica e sociale in Italia.

Il motivo per cui Segni si rivolse a De Lorenzo e l’arma dei carabinieri può avere diverse ragioni, sia strategiche che politiche, sul piano strategico, come apprendiamo dalle audizioni di De Lorenzo, è legato al regolamento dell’Arma dei carabinieri, inoltre, l’Arma gode di una diffusione capillare nel territorio italiano che non è seconda a nessun altro apparato militare o di polizia, di conseguenza può operare in situazioni d’emergenza con maggiore efficienza rispetto ad altri come esercito o polizia. Inoltre, pur essendo in quel momento un ramo dell’Esercito Italiano, i carabinieri dipendevano da due ministeri, quello dell’Interno e quello della Difesa, mentre il suo comandante, in questo caso specifico Giovanni de Lorenzo, rispondeva direttamente al Capo dello Stato. L’insieme di questi fattori rappresentava un elemento di primaria importanza nell’ottica in cui si fosse resa necessaria una mobilitazione totale in caso d’emergenza.

Il ruolo “esclusivo” e privilegiato dell’Arma dei carabinieri nel programma di mobilitazione generale, fu emblematico del nome con cui sarebbe diventato noto il Piano ovvero “Piano Solo” nel senso che il piano prevedeva l’intervento dei “soli” carabinieri.

Il 23 luglio 1964, a meno di 10 giorni dalla convocazione di De Lorenzo al Quirinale, Aldo Moro, Pietro Nenni e gli altri membri del secondo governo Moro II prestano, la crisi è rientrata e come abbiamo visto, fatta eccezione per alcuni cambi di posizione, il nuovo governo ha una composizione pressocché identica al precedente.

Appena un giorno prima del giuramento, il 22 luglio 1964, Pietro Nenni, ancora e nuovamente vicepresidente del consiglio, pubblica sull’avanti un proprio commento sulla crisi.

Le destre sapevano ciò che volevano e bisogna dire che sono state a un passo dall’ottenere ciò che volevano. Se il centro-sinistra avesse lanciato la spugna sul ring, il governo della Confindustria e della Confagricoltura era pronto per essere varato. Aveva un suo capo, anche se non è certo se sarebbe arrivato primo al traguardo senza essere sopravanzato da un qualche notabile democristiano. Aveva per sé la più vasta orchestrazione di stampa quotidiana e periodica che mai abbia operato in Italia. Aveva punti solidi di appoggio in ogni parte del Paese. Aveva un suo disegno strategico: la umiliazione del Parlamento dei partiti e delle organizzazioni sindacali a cui dava forza la minaccia, puramente tattica, delle elezioni immediate.

Pietro Nenni, L’Avanti, 22/07/1964

Lo scandalo del Piano Solo

Passata la crisi, nell’estate del 64, la mobilitazione prevista dal piano Solo non fu più necessaria, e l’esistenza stessa del Piano Solo rimase abbastanza segreta. Nota per lo più a funzionari istituzionali e vertici di governo e delle opposizioni. Sarebbe stata però rivelata all’Italia e agli italiani, in maniera estremamente fragorosa, nel maggio del 1967 quando, su L’Espresso, Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi pubblicarono alcuni documenti relativi al Piano Solo, tra cui anche alcune controverse dichiarazioni attribuite al generale De Lorenzo.

Come possiamo vedere, in copertina viene attribuita la seguente frase al generale De Lorenzo «Stiamo per vivere ore decisive. La nazione, tramite la più alta autorità, ha bisogno di noi. Dobbiamo tenerci pronti per gli obiettivi che ci verranno indicati».

Si tratta di parole forti e di impatto che esplosero in uno scandalo politico senza eguali, e il dibattito pubblico che ne conseguì, ebbe come effetto la rimozione quasi immediata di De Lorenzo dalla carica di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, allo stesso tempo, il generale rispose alle accuse querelando per diffamazione i due giornalisti. Ne segue un lungo e tortuoso, molto controverso e complesso poiché, che nel frattempo è cambiato ancora ed ora siamo al governo Moro III, anche questo sostenuto dal PSI e con Pietro Nenni Vicepresidente, negò alla magistratura l’accesso alla documentazione necessaria per accertare e verificare le informazioni riportate da Scalfari e Jannuzzi, e senza possibilità di verificare tali documenti, il processo si concluse con una sentenza di colpevolezza per i due giornalisti.

All’epoca in molti si chiesero, e si chiedono tutt’ora, perché il governo Moro III negò alla magistratura l’accesso alla documentazione di quello che veniva dipinto come un piano di golpe che aveva nel mirino proprio il governo Moro e una parte delle forze politiche che lo sostenevano. La risposta a queste domande forse risiede nelle oltre 45.000 pagine di documenti dalla una commissione d’inchiesta, ma al momento risulta senza una risposta chiara.

Nel 1969, l’ex generale De Lorenzo, ora parlamentare, querelò altri due giornalisti, Gianni Corbi e Carlo Gregoretti, per articoli analoghi a quelli pubblicati da Scalfari e Jannuzzi nel 67, ma, a differenza dei loro predecessori loro vennero assolti con formula piena, pertanto, Scalfari e Jannuzzi fecero ricorso per richiedere la propria assoluzione. A questo punto sembra che il generale De Lorenzo decise di rimettere le querele, e le parti coinvolte accettarono la remissione.

Come dicevamo, nel frattempo De Lorenzo era passato dallo stato maggiore al parlamento, questo passaggio avviene nel 1968 con l’inizio della V legislatura, durante la quale De Lorenzo entrò in Parlamento tra le fila del Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica. De Lorenzo non rimane a lungo nel PDIUM e nel 1971 aderisce al Movimento Sociale Italiano, che in quel momento è presieduto da Augusto De Marsanich, politico attivo, quasi senza interruzioni fin dal 1929. Tra gli “ex fascisti” attivi nell’Italia repubblicana, fu uno dei promotori della linea moderata del MSI che portarono all’allontanamento di individui più radicali come Juno Valerio Borghese.

La commissione di inchiesta sul piano solo

La commissione d’inchiesta sul Piano Solo fu istituita il 15 aprile 1969 e rimase in attività fino al 15 dicembre 1970, ci troviamo agli inizi della V legislatura e in questo periodo l’Italia vide il susseguirsi di quattro governi, Rumor I, II, III e Colombo.

Come anticipato, la commissione acquisì un quantitativo enorme di documenti, testimonianze, e produsse una mole di documenti altrettanto imponente. Tra i primi ad essere ascoltati, ci fu il deputato Giovanni De Lorenzo, considerato l’attore principale del Piano Solo, a lui vengono dedicate 4 audizioni tenutesi il 23, 27 e 40 maggio 1969.

La prima audizione ebbe luogo il 23 maggio alle ore 09:20, fu presieduta dal deputato (ex senatore) e presidente della commissione Giuseppe Alessi, ed fu strutturata in sette gruppi di domande.

  • Il primo gruppo, come si legge nel verbale della seduta riguarda l’attività svolta dal generale dell’arma in materia di ordine pubblico, nel giugno-luglio 1964.
  • Il secondo gruppo di domande fu in riferimento al tema specifico della costituzione, dell’origine, della struttura e dell’impiego della Brigata meccanizzata dell’Arma dei carabinieri.
  • Il terzo gruppo fu in riferimento a quello che venne definito “piano solo”.
  • Il quarto gruppo fu in riferimento alle liste del SIFAR, alla loro trasmissione e alle misure prese o predisposte per l’eventuale esecuzione di provvedimenti in ordine a tali liste.
  • Il quinto gruppo di domande fu invece in riferimento alle situazioni dell’ordine pubblico nel giugno-luglio 1964.
  • Il sesto gruppo di domande fu in riferimento ad eventuali visite con il presidente della Repubblica.
  • Il settimo ed ultimo gruppo di domande invece, interessava i rapporti tra il generale e la loro natura, in quel periodo (estate 1964) con personalità politiche o partiti. Fu inoltre posta una domanda conclusiva circa l’installazione di dispositivi tecnologici al quirinale.

Dopo quasi 20 mesi di audizioni, dibattiti e valutazioni, la commissione d’inchiesta parlamentare, ha prodotto delle valutazioni finali che accertavano e testimoniavano l’esistenza del piano Solo e ne definivano la natura.

Per la commissione il Piano Solo esiste, o meglio, esisteva un piano segreto predisposto dal generale De Lorenzo, che prevedeva l’impiego esclusivo dell’arma dei carabinieri in situazioni di emergenza politica o sociale. Tale piano era nato in risposta all’eventualità di scioperi generali, manifestazioni di massa o altre forme di agitazione ritenute “destabilizzanti” per l’ordine pubblico.

Il piano, una volta esposto nella sua interezza, emerse agli occhi della commissione d’inchiesta come uno strumento preventivo, per garantire il mantenimento dell’ordine pubblico in scenari di grave tensione sociale o politica e non sembra esserci alcun fine eversivo o sovversivo, né sembra esserci l’intenzione nel rovesciare il governo o di instaurare un regime autoritario.

Quanto al ruolo del generale De Lorenzo, la commissione ha individuato nel generale Giovanni De Lorenzo il principale artefice del Piano Solo. Inoltre, il piano venne elaborato nel merito delle funzioni istituzionali del comandante dei Carabinieri, pertanto, non emersero responsabilità penali direttamente imputabili al generale.

Stando a ciò che emerge dalla commissione, oltre al capo dello stato e i vertici militari coinvolti, sembra che anche diverse figure politiche, membri del governo e delle opposizioni, nell’estate del 64, furono messe a conoscenza del Piano

Durante le indagini sembrerebbe essere emerso anche un forte coinvolgimento del SID (Servizio Informazioni Difesa) di cui lo stesso De Lorenzo è stato direttore tra il 55 ed il 62. Il coinvolgimento dei servizi segreti militari sembra sia stato determinante nella raccolta di informazioni e nella redazione di elenchi contenenti persone considerate potenzialmente pericolose per l’ordine pubblico. Questi individui sarebbero stati posti sotto controllo o fermate in caso di attuazione del piano.

Sebbene il Piano Solo non avesse ufficialmente un “colore politico”, i documenti esaminati dalla commissione, in particolare gli elenchi redatti dal SID, sembrano contenere principalmente cittadini legati alle sinistre, ai sindacati e ad altre organizzazioni politiche o sociali, che, in caso di attuazione, sarebbero stati oggetto di misure restrittive.

Gli elenchi oggi sono stati declassificati, pertanto sono pubblici e consultabili presso l’archivio della camera e molti di essi sono disponibili in forma digitale, per scaricarli è sufficiente fare richiesta con lo SPID.

Conclusioni

Nell’estate del 64, durante la crisi del primo governo Moro, il generale Giovanni De Lorenzo, su sollecitazione del presidente Segni, produsse un piano teorico da attuare in caso di gravi disordini sociali e politici, una sorta di piano d’emergenza anti-golpe, che prevedeva monitoraggio ed arresto di diverse centinaia di soggetti attenzionati dal servizio di sicurezza militare. L’intera operazione sarebbe stata gestita, se necessario, in maniera esclusiva dall’Arma dei Carabinieri. Di questo piano segreto furono messi al corrente vertici politici, militari ed esponenti di governo ed opposizioni.

Anni dopo, una commissione d’inchiesta ha analizzato e valutato il piano segreto, ritenendo che non fosse un piano di matrice sovversiva, e che anzi, si trattava di un piano d’emergenza, per far fronte ad un ipotetica crisi politica, sociale o golpe.

Situazione che in realtà si sarebbe verificata, qualche anno più tardi, nella notte tra il 7 e 8 dicembre del 1970, appena una settimana prima che la commissione terminasse i propri lavori, quando l’ex comandante della X Mas, e criminale di guerra Juno Valerio Borghese, tentò un vero e proprio colpo di stato, occupando RAI, Ministeri e diversi obbiettivi strategici, per poi ritirarsi poche ore dopo, quasi senza un apparente ragione, creando un casuale intreccio tra due eventi molto particolari e controversi.

L’Italia prima dell’Italia – Storia del Regno d’Italia

Il 17 Marzo 1861 avvenne la proclamazione ufficiale della nascita del regno d’italia, in quel momento il Re di Piemonte e Sardegna, Vittorio Emanuele II di casa Savoia, assunse per se e per i propri discendenti il titolo di Re d’Italia, acclamato dal popolo italiano e legittimato da una norma del neonato parlamento Italiano.

La storia del regno d’Italia inizia in questo momento, i vari moti rivoluzionari e indipendentisti, le varie insurrezioni e le guerre di indipendenza che si erano succedute nei decenni immediatamente precedenti il 17 marzo 1861 erano stati un importante preludio alla storia di unità nazionale di uno degli ultimi paesi europei ad aver conosciuto la propria unificazione, con un ritardo di appena quattro secoli rispetto al resto d’europa, e pure, in quei quattro secoli di età moderna, se bene l’Italia unitaria politicamente non esistesse, ed i suoi territori erano divisi tra le varie nazioni europee e le innumerevoli corti, repubbliche e signorie italiche, la sua storia culturale continuava ad essere al passo con il resto dell’europa ed i suoi protagonisti, nobili, notabili, filosofi e papi, continuarono a giocare un ruolo centrale nella storia europea.

Esiste una storia italiana, una storia dell’Italia che va da Roma all’unificazione ottocentesca, ed è una storia di continuità, influenza e potere, sia culturale che economico, e questa storia è la base, il punto d’origine di quella che sarebbe stata, successivamente la storia del regno d’Italia.

In questo articolo non voglio entrare nel merito delle guerre di indipendenza, di quello parleremo in altri articoli e post, ma voglio introdurre un discorso che ci accompagnerà nelle prossime dieci settimane, attraverso la prima stagione della serie sulla storia del regno d’Italia, una serie che inizia oggi, con un video dedicato alla nascita del regno di italia e che potete trovare di seguito, e si concluderà esattamente il 12 dicembre, in un certo senso con la fine del regno d’Italia.

Ogni video sarà accompagnato da un articolo come questo, saranno articoli di ampio respiro volti ad introdurre l’argomento del video, affiancandolo con informazioni apparentemente sconnesse che tuttavia reputo fondamentali per la piena comprensione delle dinamiche storiche di cui si parlerà nel video.

Occupazione Italiana dell’Istria nel primo dopoguerra e gli effetti nel secondo dopoguerra

Inizialmente questo articolo si intitolava “Foibe: la responsabilità degli italiani nelle stragi”, era un titolo altamente provocatorio e come spiegato nelle premesse, è ovvio che le vittime non hanno alcuna responsabilità nella strage. Le vittime delle foibe hanno pagato per i crimini dei propri padri e nonni, e questo, per il mio codice di giustizia è forse anche più grave.

Il mio intento con questo articolo non è quello di esprimere un giudizio morale sull’accaduto ne di piegarlo alla mera propaganda politica, il mio intento è puramente storico e l’oggetto dell’articolo, se bene chiami in causa le stragi delle Foibe non sono le foibe, ma l’occupazione Italiana dell’Istria negli anni 20 e 30.

Si tratta di un tema a mio avviso fondamentale per comprendere quanto successo nel secondo dopoguerra, soprattutto perché sulla questione delle Foibe spesso sentiamo pronunciare frasi di questo tipo “Gli Italiani sono stati massacrati senza pietà dai Comunisti di Tito, per la sola colpa di essere Italiani.”

Segue quindi un post probabilmente “molto impopolare“, ma purtroppo la realtà storica è un po più complicata della semplice propaganda politica e alcune vicende non sempre sono totalmente bianche o nere. In alcuni casi, e le stragi delle foibe sono uno di questi casi, può capitare che entrambe le parti coinvolte abbiano la propria dose (più o meno ampia) di responsabilità.

Faccio un ultima premessa, ho già spiegato ampiamente in un altro articolo perché nel 1948 alla fine il governo italiano decise di non perseguire i criminali Jugoslavi, in questo articolo mi limito a dire che i crimini dell’Italia e degli Italiani erano di gran lunga più numerosi e diluiti in un tempo maggiore rispetto a quelli commessi dai partigiani Jugoslavi e di conseguenza, insistere sulla punizione dei crimini Jugoslavi da parte del governo italiano, sarebbe costato all’Italia e al suo nuovo ruolo nella comunità internazionale, un prezzo che non poteva permettersi di pagare. Detto questo.

È vero, in Jugoslavia è stato commesso un terribile crimine ai danni degli italiani che si trovavano lì, questo è innegabile e anche se in questo post andrò a spiegare chi erano effettivamente quegli italiani, perché si trovavano lì e perché sono stati massacrati, non voglio in alcun modo legittimare l’accaduto, ciò che è successo è un crimine e rimane un crimine, non ci sono attenuanti, ma le responsabilità comuni non possono essere ignorate. In questo caso specifico abbiamo a che fare con un crimine compiuto come risposta a decenni di crimini ed abusi, ma il fatto che le stragi delle foibe siano una risposta ad altri crimini non le rende un crimine meno grave, ma andiamo con ordine.

Cominciamo col dire che la regione dell’Istria non è una regione storica italiana, storicamente, e per storicamente intendo nelle ultime migliaia di anni, è sempre stata abitata da popolazioni di origine slava. Per molti secoli questi territori sono stati sotto il controllo del sacro romano impero prima, dell’impero Austriaco e poi dell’impero Austro Ungarico, quando nel XIX secolo l’impero egli Asburgo ha cambiato nome.
Nella seconda metà del XIX secolo, quando in Italia si proclamava l’unità nazionale e si combattevano le guerre di indipendenza, gli allora abitanti dell’Istria, così come anche quelli della Dalmazia, non se ne preoccuparono più di tanto, non insorsero contro gli Asburgo per unirsi alla nuova nazione guidata dai Savoia e questo perché non si sentivano parte della tradizione e della cultura italica, un discorso a parte va fatto per la città di Trieste la cui popolazione era per lo più di origini “venete”, per non dire veneziani, ma un unica città in un’intera regione non è sufficiente a definire l’identità regionale.

è come se dicessimo che la luna è stata colonizzata perché un paio di volte, alcuni astronauti terrestri sono usciti a fare una “passeggiata” sulla superficie lunare.

Finito il periodo delle guerre di indipendenza e ufficialmente completata l’unità d’Italia nel 1871 (quando venne annesso anche lo stato pontificio) o se preferite 1861, in Istria non ci furono insurrezioni anti-asburgiche o rivendicazioni di appartenenza all’Italia, perché appunto gli abitanti di quelle regioni non si reputavano italiani, come detto sopra un discorso a parte va fatto per la città di Trieste dove effettivamente qualche “italiano” c’era, e scese in piazza, ma erano comunque 4 gatti, troppo pochi per mobilitare un intera città, figuriamoci un intera regione.

Passano gli anni, passa più di mezzo secolo, inizia la prima guerra mondiale, gli imperi centrali stanno collassando e i capi politici europei se ne rendono conto, sono consapevoli che l’imminente disfacimento degli imperi centrali provocherà un vuoto di potere in vaste aree dell’europa e del nord Africa e non a caso cercano di approfittarne del vuoto per rivendicare il controllo su nuovi territori, fondamentalmente per espandere e aumentare i propri imperi e l’Italia non è da meno. ricordiamo che l’Italia, tra le tante ragioni per cui entra in guerra, dichiara un per nulla velato desiderio di espandere i propri territori e in questo è incoraggiata dai discorsi di Cesare Battisti (da non confondere con il Cesare Battisti terrorista degli anni di piombo), deputato socialista di Trieste al parlamento di Vienna.

L’italia vuole entrare in guerra ed espandere i propri possedimenti e l’unico possibile avversario abbastanza vicino e debole contro cui scontrarsi è l’impero austro-ungarico e come sappiamo si l’Italia riesce ad accordarsi con Francia e Regno Unito per poter conquistare territori Austriaci, de facto la guerra degli italiani è una guerra, fallimentare, di conquista, che ha come fine ultimo la conquista di nuovi territori, tra cui appunto, Istria e Dalmazia.

La scelta dell’Italia cade su Istria e Dalmazia (ed eventualmente altri territori della costa adriatica dei Balcani) per ragioni politiche e strategiche, principalmente perché “sono a portata di bagnarola”, nel senso che la flotta italiana non era proprio una delle migliori del mediterraneo, ma l’Adriatico non era un mare impegnativo e la flotta asburgica non costituiva una reale minaccia.
La guerra termina con una sconfitta militare dell’Italia perché essendo una guerra di conquista, se ti ritrovi ad avere meno territori di quanti ne avessi quando hai iniziato la guerra, è una sconfitta, ma gli alleati gli concedono comunque qualche territorio all’Italia, principalmente per premiare lo sforzo bellico, questo però all’Italia non basta e pretende molto di più di quanto gli è stato concesso (e ci tengo a precisare che, a mio avviso gli è stato concesso anche troppo).

Non stiamo a girarci intorno, nel dopoguerra Istria e Dalmazia vengono occupate “illegalmente” da numerosi migranti italiani, tacitamente appoggiati dal governo, per lo più sono persone che conoscono quelle terre, fatta eccezione per qualche caso isolato (come D”Annunzio) la maggior parte erano migranti stagionali che già prima dell’unificazione si recavano periodicamente nei territori austro ungarici per lavorare soprattutto come operai, in miniere e nelle cave. Insomma, gli Italiani erano frequentatori/lavoratori abituali della regione da più di un secolo e tra la prima e la seconda guerra mondiale, molti migranti stagionali decisero di stabilirsi lì regolarmente, insomma, andarono lì e non tornarono più in Italia. Molti rimasero lì per varie ragioni, un po perché convinti che quelle terre fossero loro di diritto, un po perché quelle terre un tempo appartenevano alla corona asburgica, ma dopo la guerra la corona era caduta e fondamentalmente per il controllo delle terre vigeva la legge del più forte, “la terra è di chi se la piglia” e gli italiani se la presero senza troppi complimenti.

In questa fase gli scontri tra locali e italiani sono molto limitati, perché i piccoli proprietari terrieri locali (che bene o male avevano fatto la stessa cosa degli italiani) conoscevano da generazioni gli italiani e da generazioni avevano lavorato insieme e in breve, ognuno si prese il pezzo di terra in cui lavorava prima della guerra o in cui lavoravano i propri antenati.

I problemi iniziano verso la metà degli anni venti, con la svolta fascista in Italia, e ancora di più con l’ascesa del Nazismo in Germania, negli anni trenta.

L’avvento delle ideologie di razza si tradusse in una rivendicazione totale di quei territori, ormai l’occupazione delle terre è totale ma gli italiani continuano ad arrivare in Istria e il governo fascista assegna loro terre che fino a quel momento erano state occupate dai locali, insomma, in una terra di nessuno il governo fascista decide che determinati terreni debbano appartenere agli italiani e quindi, i non italiani che vivevano lì, vengono cacciati dalle proprie case e terre fondamentalmente con la forza, e questo è il primo di una serie di passi che per oltre vent’anni avrebbe alimentato il rancore nei confronti degli italiani e sarebbe esploso nel secondo dopoguerra con le stragi delle Foibe.

Durante la guerra l’Italia come è noto conduce una campagna di espansione nell’area balcanica, incorrendo in numerose figuracce e ricorrendo spesso al supporto tedesco, e ad un certo punto i popoli slavi, approfittando del poco controllo degli italiani sul territorio, riescono ad organizzarsi in gruppi partigiani e riescono a prendere il controllo di molti territori, va detto, a scanso di equivoci che, dopo l’armistizio del 43 molti soldati italiani si uniranno ai partigiani jugoslavi nella guerra contro i tedeschi.

Finita la guerra, finita l’occupazione nazifascista, c’è un problema politico legato all’ amministrazione di alcuni territori, tra cui la stessa città di Trieste, che da una parte sono stati “liberati” dall’ occupazione nazista dalle milizie jugoslave, dall’ altra, sono abitati soprattutto da italiani che nel corso del ventennio precedente hanno occupato quei territori e dunque sorge una domanda, quei territori devono essere considerati come italiani o jugoslavi?

Per le milizie di partigiani jugoslavi che esercitavano un controllo diretto del territorio, la risposta è semplice, quei territori sono stati liberati dai partigiani e rientrano ora sotto il controllo e l’autorità dei liberatori che sarebbero poi confluiti nel governo di Tito, chi abita in quelle regioni può scegliere se rimanere lì e “giurare fedeltà” al nuovo stato o tornare nella terra dei propri padri, liberamente o con la forza. Gli italiani, discendenti di quegli stessi italiani che qualche decennio prima avevano occupato quelle terre, ritenevano quella terra la propria terra, non vogliono lasciare la propria casa (così come non volevano lasciarla gli istriani quando gli italiani li hanno cacciati), non vogliono andarsene e allo stesso tempo vogliono continuare a vivere in Italia, insomma, vogliono che quei territori rimangano (o comunque diventino) italiani perché da qualche generazione lì vivono degli italiani.

Per intenderci, è un po come il governo Cinese rivendicasse la città di Prato come parte della Cina perché da qualche generazione a Prato vivono soprattutto cinesi…

La situazione è molto delicata oltre che problematica e viene mal gestita dal nascente governo jugoslavo che ricordiamo, non si è ancora consolidato, di fatto molte regioni sono ancora controllate dalle milizie che le hanno liberate e queste milizie non vogliono rinunciare a quelle terre che hanno liberato lottando duramente contro un nemico più forte e meglio organizzato, decidono così di “passare al lato oscuro” ed usare la forza per scacciare gli invasori stranieri, non uso queste parole a caso, commettendo stragi e crimini che sono tristemente noti a noi tutti.

La risposta internazionale alla crisi istriana e in particolare per la gestione della questione Triestina è una sorta di commissariamento internazionale, chiamiamolo così, della città di trieste, l’unica città “italiana” della regione. Trieste di fatto viene posta sotto il controllo internazionale, analogamente a quanto era successo alla Germania e alla Korea, e sarebbe tornata definitivamente sotto il controllo del governo italiano soltanto nel 1971, quasi 20 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando il governo italiano si impegnò formalmente di fronte alle Nazioni Unite a rinunciare definitivamente e permanentemente ad ogni rivendicazione territoriale sull’Istria, la Dalmazia e altri territori della costa adriatica dei Balcani.

In conclusione, ripeto, con il racconto di queste vicende non vogliono assolutamente depenalizzare i crimini commessi dai comandanti partigiani Jugoslavi, molti dei quali, successivamente avrebbero assunto posizioni chiave nel governo di Tito, ho già parlato ampiamente, in un altro articolo e in un video delle ragioni politiche e storiche per cui nel 1948 si decise di chiudere la questione dei crimini di guerra compiuti dagli italiani e ai danni degli italiani in quella che sarebbe diventata la Repubblica Federale Jugoslava. Il mio intento, con questo articolo, e spero di esserci riuscito, è quello di mostrare che gli italiani massacrati nelle stragi delle Foibe non erano solo “colpevoli di essere italiani”, la loro storia in Istria era breve e connotata di una profonda rivalità con i popoli locali, rivalità che per decenni avevano coperto violenti abusi perpetuati da parte italiana ai danni delle popolazioni slave e il ricordo di questi abusi fu il punto di partenza dei crimini commessi in Jugoslavia da entrambe le parti.

In Istria migliaia di italiani furono massacrati per i crimini commessi dai loro padri o da altri italiani, la loro unica colpa non è quella di essere italiani, ma di non aver preso coscienza della realtà in cui vivevano e di aver preteso, forse troppo presto e con troppa forza, di assumere il controllo di un territorio che non gli apparteneva e nel quale erano una minoranza non bene accetta e forse mai desiderata.

Bibliografia

Exit mobile version