Mitologia norrena: l’inizio e la fine dei tempi secondo i vichinghi | CM

Con il termine “mitologia norrena”, “nordica” o “scandinava” s’intende quell’insieme di leggende, credenze e miti strettamente legati alla sfera religiosa dei popoli scandinavi del nord Europa (compresa l’Islanda, colonizzata successivamente dai vichinghi). Tali tradizioni sono da ritenersi come un “ramo” della mitologia germanica, dalla quale deriverebbe anche la mitologia anglosassone, entrambe di matrice molto più antica; si tratta pertanto di antichissime origini che risalgono a contesti di mitologia indioeuropea. Tale mitologia è da intendersi come un insieme di racconti (trasmessi prevalentemente in forma orale) di età pre-cristiana, incentrati perlopiù sull’origine del mondo, l’apocalisse conclusiva e svariate avventure i cui protagonisti sono rappresentati dalle varie divinità norrene. Tuttavia, le molteplici leggende scandinave non trattano solamente le gesta di dei e creature mitologiche, ma anche direttamente del popolo vighingo, elogiandone i suoi eroi più grandi.

 Midgard

Stando alle fonti, la mitologia norrenda identificherebbe come mondo “terreno” e “conosciuto” il cosiddetto Miðgarðr (letteralmente “terra di mezzo”). Sulla sommità di un’altura piuttosto elevata si troverebbe poi Ásgarðr (letteralmente “giardino/terra degli dei” o “città degli dei”), conosciuta come residenza degli dei celesti (gli Asi), e sarebbe a sua volta circondata dalle acque e totalmente separata dal mondo dei mortali; per questo motivo, l’unico modo per accedervi sarebbe il Bifrǫst, conosciuto come “ponte dell’arcobaleno”. A est si troverebbe poi la dimora dei giganti, Jǫtunheimr (letteralmente “terra dei giganti”), e a sud il regno di fuoco governato da Muspell, il Múspellsheimr, dove vivono i giganti di fuoco. Infine gli inferi sarebbero caratterizzati dal reame della dea Hel, l’Helheim. Esistono poi vari altri regni minori, come quello degli elfi della luce (Álfheimr) e delle tenebre (Svartálfaheimr), la terra dei nani, ricca di miniere (Niðavellir), e la dimora dei Vani (Vanaheimr), stirpe divina meno potente e conosciuta.

Le divinità

Miti e leggende legati alla mitologia norrena sono alla base delle credenze religiose praticate dalle popolazioni del nord Europa e, per questo motivo, strettamente connessi alle imprese di eroi e divinità di ogni tipo. Stando alle fonti, l’universo sensibile (quello conosciuto e abitato da uomini, dei e creature varie) era sostenuto da Yggdrasill, un albero cosmico con il solo scopo di sorreggere i nove mondi del creato, i quali sono a loro volta stati generati da Ymir, una figura fondamentale nella cosmogonia e cosmologia norrena, in quanto rappresenta il primo gigante del ghiaccio e soprattutto il primo tra tutti gli esseri; incarnando così il ruolo di un fondatore universale.

Per parlare delle divinità norrene bisogna innanzitutto sottolineare il fatto che queste ultime fossero suddivise in due classi tra loro differenti. Tuttavia tale differenza non sarebbe così rigida e netta come oggi appare; in un passato molto lontano infatti le due fazioni si sarebbero scontrate in una “guerra celestiale” piuttosto violenta, per poi giungere a una pace definitiva scambiandosi ostaggi e unendo varie casate e famiglie in matrimonio. Tale unione “conclusiva” sarebbe stata talmente definitiva da non riuscire a determinare con chiarezza l’appartenenza di varie divinità a una classe piuttosto che a un’altra. Tali classi sarebbero definibili come Asi (Aesir) e Vani (Vanir).

Asi

Gli Asi (Aesir) rappresentano i signori del cielo e, come precedentemente citato, dimorano su Ásgarðr, un’enorme fortezza creata da Odino (nota appunto come il “recinto degli Asi”). Sono considerati i principali nemici degli Jǫtnar (conosciuti come giganti dalle dimensioni colossali e dalla forza sovrumana, o come demoni), e tale inimicità risulterebbe paragonabile all”’odio” presente tra dei e titani della mitologia greca. Tuttavia sia gli Asi che i Vani in realtà discenderebbero direttamente dagli Jǫtnar e, per questo motivo, avrebbero la possibilità di sposarsi o di avere dei figli con essi. Gli Asi rappresenterebbero le divinità “superiori” (paragonabili agli dei dell’Olimpo), più forti e per questo legati alla categoria dei guerrieri; per sottolineare la supremazia di questa “categoria divina”, le unioni tra Asi e Vani sarebbero state sancite soprattutto da matrimoni tra dei maschi Asi e dee femmine Vani. Appartengono alla categoria degli Asi alcune tra le più divinità celebri e importanti, come Odino, il dio supremo e padre degli dei; Thor, il dio del tuono e della tempesta (personificazione della folgore e del fulmine), possessore dell’arma divina più famosa, ovvero il martello; e Loki, il malvagio dio dell’astuzia e degli inganni. Gli Asi infine, in quanto divinità razionali e strettamente legate alla forza e all’ambito della guerra, incarnano una sorta di primordiale concetto di patriarcato.

Vani

I Vani (Vanir) invece rappresentano l’esatto opposto della loro “controparte” divina. Al contrario degli Asi infatti, essi incarnano divinità irrazionali, strettamente legate alla sfera dell’emotività, dell’intuizione e di tutto ciò che riguarda la natura e la fertilità (spesso sono anche legati a temi di carattere agricolo); per tutte queste motivazioni, i Vani rappresenterebbero un vero e proprio simbolo delle società matriarcale (motivo per cui nei matrimoni tra Asi e Vani questi ultimi fossero sempre figure femminili). Al contrario degli Asi, dotati di uno spirito più bellicoso e burrascoso, i Vani sarebbero connotati da animi più pacifici e gentili, che di conseguenza non li renderebbero protagonisti, come spesso accade invece per gli Asi, di vicende eroiche e violente. Tra gli esempi più celebri di divinità appartenenti ai Vani, è possibile citare i due gemelli divini Freyr, il dio della fertilità, dell’abbondanza e di tutto ciò che ha a che fare con la crescita e con la naturale vitalià, e Freya, la dea della bellezza, dell’amore e, anch’essa, della fertilità (per queste caratteristiche è paragonabile alla dea Venere). Per lo stretto legame che queste divinità presentano con la natura e la fecondità, il loro ruolo principale è direttamente associabile alla potenza di Madre Terra, tratto che li renderebbe certamente diversi ma non meno importanti dei loro opposti, ovvero gli Asi.

A completare il pantheon norreno non “partecipano” solamente divinità da fattezze e tratti umani (come tutte quelle citate finora), ma anche svariate creature ed elementi divini, i cui ruoli sono tuttavia determinanti all’interno della mitologia norrena, esattamente al pari di dei e dee. Tra questi è possibile citare Fenrir, il gigantesco lupo mitologico nato dall’unione tra Loki, con cui condivide la natura malvagia, e la gigantessa Angrboða; esso rappresenta una sorta di archetipo di tutti i lupi, intesi come nemici principali degli uomini. Un’altra creatura nata dall’unione tra Loki e la gigantessa è Miðgarðsormr (letteralmente “serpe di Miðgarð”), il mostruoso serpente marino talmente lungo da poter cingere con le sue spire il mondo intero, e dotato di un terribile veleno. Altre creature piuttosto note sono Huginn (“pensiero”) e Muninn (“memoria”), i due corvi messaggeri che tengono Odino perennemente informato su tutto ciò che accade nel mondo. Un’altra creatura legata a Odino è Sleipnir, il suo cavallo a otto zampe, anch’esso figlio di Loki. Infine è possibile citare non una creatura, bensì un albero; in particolare Yggdrasill, l’albero cosmico o albero del mondo, un frassino attorno al quale spazio astronomico e tempo cosmico si fondono generando l’ineluttabile destino dell’umanità. Su tale albero vive Ratatoskr, uno scoiattolo che percorre senza sosta e in maniera fulminea l’intero albero, dalle radici ai rami più elevati. Tutti questi personaggi partecipano agli eventi della mitologia norrena in egual misura rispetto a ogni altra divinità.

Per concludere, sebbene il discorso sulle divinità norrene sia strettamente collegato alla sfera mitologica e divina, la “sovrapposizione” tra Asi e Vani avrebbe in realtà delle radici ben più antiche, e sarebbe da ricollegarsi a un episodio antropologico e protostorico, ovvero la grande migrazione delle popolazioni indioeuropee verso occidente. Tale allegoria vedrebbe i popoli indioeuropei come le divinità Asi che, in quanto divinità celestiali, venivano adorate da popolazioni nomadi quali erano gli indioeuropei. Tale simbologia ricondurrebbe dunque alla conquista della Scandinavia (popolata dalle popolazioni autoctone) da parte degli indioeuropei, i quali sarebbero venuti in contatto con le popolazioni norrene, legate a una cultura più sedentaria e meno bellicosa, e dunque di tipo contadino (riconducibili appunto ai Vani). Un ulteriore parallelismo sarebbe fattibile in termini di culti primordiali, i quali sarebbero appunto legati agli elementi che maggiormente caratterizzano gli Asi e i Vani, ovvero (rispettivamente) guerra, caccia, raccolta e agricoltura. Dai primi del ‘900 in poi molti studiosi e antropologi quali Salin, Dumézil e De Vries si sono approcciati a questa tipologia di studi, comparando miti e leggende a fatti storici realmente accaduti, sebbene tutte queste teorie restino comunque delle ipotesi.

Fonti di trasmissione

Come citato precedentemente, la stragrande maggioranza della mitologia norrena veniva trasmessa oralmente. Questo avveniva principalmente per due motivazioni: prima di tutto la scrittura, nell’Alto Medioevo, era ancora uno strumento di trasmissione piuttosto raro ed elitario per la popolazione (erano quasi unicamente i più colti, come i religiosi, ad averne accesso); in secondo luogo, trattandosi di saghe, fiabe, favole, miti e leggende, essi venivano diffusi sottoforma di storie e racconti, e dunque spesso narrati in grandi compagnie o attorno a un fuoco, come momento ludico e di svago. Questa fonte di trasmissione ha fatto sì che buona parte di tali racconti andassero perduti per sempre, o modificassero radicalmente la loro struttura originaria, a causa dell’inaffidabilità che da sempre caratterizza le trasmissioni orali. Tuttavia, pur trattandosi di leggende pagane, sono stati proprio i religiosi cristiani a recuperare, conservare, copiare e tramandare i pochi frammenti rimasti in circolazione in età medievale. Ad oggi, molti di questi miti e leggende sono sopravvissuti nel folklore locale, e orale, scandinavo e tedesco, sottoforma di fiabe e racconti popolari.

Edda in prosa

Uno dei pochissimi testi che ci sono stati tramandati sottoforma di prosa è l’Edda in prosa (conosciuta anche come “Edda di Snorri”, “Edda recente” ed “Edda minore”), trasmessaci nell’Alto Medioevo attraverso vari codici più o meno completi. Tale opera fu scritta a cavallo tra il 1222 e il 1225, dall’autore Snorri Sturluson (storico, poeta e politico islandese dell’età altomedievale); essa rappresenterebbe un vero e proprio manuale di poetica norrena per aspiranti poeti. Si tratta tuttavia di un manuale piuttosto complesso, carico di metafore poetiche (dette “kennigar”) e densi significati nascosti, i quali vengono spesso esposti attraverso riferimenti che affondano le loro radici nella mitologia norrena, motivo per cui tale testo rappresenterebbe una delle massime fonti per comprendere, studiare e analizzare questa mitologia. Infatti, senza una buona conoscenza di quest’ultima, non si avrebbe la possibilità di comprendere la profondità di questo manuale. L’opera è composta da un prologo e da tre parti tra loro ben distinte; tuttavia, ciò che la rende davvero caratteristica è il fatto che, nonostante Snorri l’abbia composta in piena età cristiana, la massima fonte da cui egli attinge siano proprio culti e leggende di carattere pagano. Molti studiosi pensano che abbia fatto ciò principalmente per non lasciare che il patrimonio culturale del suo popolo andasse perduto.

«Questo libro si chiama Edda. Lo compose Snorri Sturluson nel modo qui riportato…»

Inizio dell’Edda in prosa.

Un altro testo particolarmente importante per la ricostruzione della mitologia norrena è la cosiddetta Edda poetica (nota anche come “Edda in poesia”, “Edda antica”, “Edda maggiore” e “Canzoniere eddico”); fu erroneamente attribuita all’erudito autore Saemundr il Saggio, e per questo motivo viene spesso anche chiamata “Edda di Saemundr”. L’opera rappresenta un’intera raccolta di ventinove canti scritti in norreno e tratti da un importante manoscritto di epoca altomedievale islandese, noto come Codex regius. Tale manoscritto venne redatto intorno al XIII secolo d.C. (data presa come terminus ante quem), nonostante la datazione generale sia piuttosto incerta e tutt’oggi ancora dibattuta, poichè non vi è alcuna garanzia che tutti i versi raccolti al suo interno risalgano allo stesso periodo (alcuni potrebbero persino risalire al IV/V secolo d.C.). I primi dieci canti trattano le imprese degli dei, mentre gli ultimi diciannove le gesta degli eroi, e sono tutti caratterizzati dal metro poetico allitterativo (i versi sono legati tra loro dall’allitterazione). Tuttavia ad essere incerta non risulta solamente la datazione, ma anche il vero autore (o gli autori) dell’opera, poichè di nessun canto è stato possibile individuarne uno specifico. La forma orale, tipica della classica mitologia norrena altomedievale, permane, ed è possibile scorgerla in vari canti che affondano le loro radici nella tradizione dei menestrelli medievali.

Vǫluspá: la profezia della veggente

Uno dei poemi più celebri e importanti è la cosiddetta Vǫluspá, nota anche come “La profezia della vǫlva” o “Profezia della veggente”; tale poema rappresenta il più famoso, nonchè primo poema (di apertura) dell’Edda poetica. Si tratta di un testo di carattere gnomico e sapienziale, ovvero direttamente riferito all’esposizione e alla conoscenza di eventi profondi e primordiali, genere che risulta essere tuttavia comune a molti altri testi eddici. Sebbene l’autore di questo testo sia tutt’ora sconosciuto, sappiamo per certo che fosse un islandese dotato di grande talento, certamente ancora strettamente legato alle tradizioni pagane dei vichinghi (motivo per il quale ci risulterebbe possibile collocarlo cronologicamente intorno al X secolo d.C.). L’opera in sè risulta essere estremamente complessa ed elaborata, talvolta scritta in maniera talmente criptica e confusionaria da non riuscire a comprendere del tutto i suoi significati spesso nascosti; tuttavia, nonostante la complessità e la sua difficile interpretazione, risulta essere una delle fonti principali per lo studio e l’interpretazione della mitologia norrena. La Vǫluspá si configura insomma come una vera e propria summa mythologiae scandinava, nonchè uno dei poemi epici più misteriosi e ben scritti di ogni epoca e luogo.

Protagonisti principali del racconto sono Odino e una vǫlva (nota anche come “spákona”, ovvero “donna veggente”), una veggente interrogata dal padre degli dei dopo che quest’ultimo avrebbe invocato il suo spirito per chiederle un responso sugli eventi del passato e del futuro. Seppur notevolmente riluttante nei confronti della richiesta di Odino (da sempre assetato di conoscenza), la veggente cede infine alle insistenti richieste del dio, e inizia così un lungo ed elaborato racconto sulle origini di tutti i tempi e sull’apocalisse che porterà alla conclusione di tutto (il cosiddetto “Ragnarok”). Ciò che maggiormente caratterizza questa narrazione è la profonda capacità narrativa e di espressione della veggente, la quale utilizza nelle sue storie una notevole molteplicità di miti e leggende norrene, conferendo al tutto un’intensa aura di misterosità e segretezza. La fine della Vǫluspá è piuttosto tragica poichè la veggente, dopo aver profetizzato a Odino tutti i suoi segreti sul passato e sull’avvenire, precipita nuovamente nelle tenebre come se morisse un’altra volta, ritornando così nel regno dei morti (da cui era venuta).

Ascolto io chiedo a tutte le sacre stirpi, maggiori e minori figli di Heimdallr. Tu vuoi che io, o Valfǫðr, compiutamente narri le antiche storie degli uomini quelle che prima ricordo.

Inizio della Vǫluspá.

Il passato: la creazione dell’universo

Stando ai racconti narrati dalla vǫlva, il primo di essi è possibile ricondurlo a una dettagliata spiegazione circa l’origine e la creazione dell’universo. Secondo la mitologia norrena, prima di tutti i tempi esistevano due mondi estremamente opposti: il regno del ghiaccio (Niflheimr, letteralmente “casa della nebbia”, poichè coperta da gelo, ghiaccio e nebbia) e il regno del fuoco (Múspellheimr, letteralmente “terra delle fiamme”, poichè il calore e il fuoco regnano incontrastati); tali mondi sarebbero collocati rispettivamente a nord e a sud del Ginnungagap (letteralmente “varco spalancato”), uno sconfinato abisso caratterizzato dal nulla cosmico, in cui non viveva niente e nessuno e nel quale regnavano e si agitavano senza sosta potenti e incontrollabili energie cosmiche (è da intendersi non come una vera e propria carenza di sostanze fisiche, ma piuttosto come una totale mancanza di forme conoscibili). In tale scenario primordiale regnano dunque due poli opposti, da cui nasceranno l’universo conosciuto agli uomini e gli dei.

“All’inizio dei tempi non c’era la terra, né in alto si vedeva il cielo, non c’erano il mare e le spiagge, non v’erano piante, né erba, né altre creature viventi. Dovunque si spalancava il Ginnungagap.”

Descrizione del Ginnungagap nell’Edda poetica.

Questi due regni estremi e contrapposti si riversano continuamente nel Ginnungagap, fino a quando fuoco e lava, e ghiaccio e gelo non si scontrano, dando origine a una fitta serie di particelle cariche di vita. Dalla fusione di questi poli opposti vengono generate due creature gigantesche e primordiali: il gigante Ymir, che dalle fattezze androgine poteva ricoprire l’intera superficie terrestre, e la cosiddetta “vacca cosmica” Auðhumla, con il solo scopo di nutrirlo con il suo latte. Tuttavia Ymir, nonostante fosse ancora solamente un neonato, a causa della sua mole elevata possedeva una sudorazione elevatissima e, mentre dormiva, generò dal sudore del braccio sinistro un gigante maschio e uno femmina, mentre dal sudore delle gambe creò Þrúðgelmir, un gigante a sei teste che generò a sua volta un altro gigante, Bergelmir. Col passare del tempo la sudorazione di Ymir non cessava e, giorno dopo giorno, nacque l’intera stirpe dei malvagi giganti del ghiaccio (detti “Jotun”).

Tuttavia Ymir non fu l’unico capace di generare nuova vita; nel frattempo infatti la vacca Auðhumla per nutrirsi leccava il ghiaccio dalle cime delle montagne di Nifleheim, fino a quando non plasmò dai ghiacci una forma androgina che prese vita. Essa era Búri, il primo degli dei che, pur essendo molto bello, forte e potente, soffriva di una grande solitudine; per questo motivo creò un figliò per sè, chiamaro Borr, che successivamente si unì con la gigantessa Bestla, la figlia di uno dei giganti che erano stati generati precedentemente da Ymir. Questa unione risulta essere estremamente significativa per la mitologia norrena, poichè da Borr e Bestla nacque il primo degli dei Asi, Odino, e con lui altri suoi due fratelli, Vili e . I tre fratelli erano potentissimi e molto intelligenti, tanto che ingaggiarono una furiosa lotta contro Ymir, essendo bramosi di potere, e riuscirono a ucciderlo.

Dopo la morte di Ymir, Odino e i suoi fratelli utilizzarono il suo corpo per formare il mondo degli uomini; dal cranio venne creata la volta celeste, e fu ordinato a quattro nani di sostenerla (i nani erano nati dai vermi della carcassa di Ymir, dopo che fu gettata nel Ginnungagap), Austri, Vestri, Sudhri e Nordhi, i quali divennero così i quattro punti cardinali. Dai suoi capelli nacquero poi fitte foreste, dal suo scheletro furono generate le catene montuose, e il suo sangue servì a creare laghi, fiumi e mari, colmando le profonde cavità della terra. Le stelle, la luna e il sole furono invece il risultato dei frammenti infuocati che, dal regno di Muspellshein, continuavano a precipitare senza sosta nell’abisso. I frammenti del suo cervello furono invece il risultato delle nuvole, venendo lanciati nel cielo, e successivamente il regno degli uomini (Miðgarðr) e quello dei giganti (Jǫtunheimr) venne separato da un’alta muraglia insormontabile, generata dalle sue sopracciglia.

Infine i tre dei figli di Borr crearono i primi uomini per popolare Miðgarðr (la “terra di mezzo”), e utilizzarono il legno di due diversi alberi, intagliandone così le loro forme (androgine, come quelle dei primi giganti che popolarono Jǫtunheimr, la terra dei giganti); il primo essere umano fu infatti Askr, ovvero “frassino”, mentre la prima donna fu Embla, ovvero “olmo”. Odino diede loro in dono l’anima (intesa come vita/soffio vitale, esso rappresenta tra tutti il dono più importante e carico di significato), i cinque sensi e Vili l’intelligenza e la ragione; da loro sarebbe poi nata l’intera razza umana.

Sole e Luna vennero invece generati da un gigante, Mundilfœri, che ebbe due figli chiamati Sól , ovvero “sole” (la bambina), e Máni, ovvero “luna” (il bambino). Tuttavia gli dei non tollerarono l’arroganza con cui il gigante, un comune mortale, utilizzasse i nomi delle loro creazioni per i suoi figli (sempre comuni mortali), così come punizione posero i due bambini nel centro del cielo. Così Sól è costretta a guidare il carro che trasporta il sole (trainato da due cavalli, Árvakr e Alsviðr), mentre Máni quello della luna, determinandone l’eterna alternanza del sorgere di uno e del calare dell’altro; per fare ciò entrambi sono inseguiti da due lupi mostruosi, Skǫll (“traditore”) insegue il carro del sole, mentre Hati (“nemico”) quello della luna. Tuttavia si dice anche che Hati ogni mese riesca a raggiungere la luna e ad azzannarla, staccandone un pezzo (interpretazione mitologica dell’eclissi lunare).

Un altro importante evento sull’alternarsi è stato sancito da un altro gigante, il quale ebbe una splendida figlia, dalla carnagione tenebrosa e dai capelli corvini scuri come la pece, Nat, ovvero “notte”. Ella poi ebbe a sua volta un figlio, Dagr, ovvero “giorno”; egli, al contrario della madre, era candido e raggiante, ed emanava un’intensa luminosità. Volendo gli dei celebrare tanta bellezza e magnificenza, fecero dono a Nat e Dagr di due magnifici e rapidissimi cavalli, con i quali possono compiere un intero giro tutto intorno alla Terra in appena dodici ore, alternando così costantemente il nascere del giorno e il calar della notte.

L’avvenire: ovvero il Ragnarok

La veggente, dopo aver terminato il racconto sulla creazione del mondo e dell’universo (ovvero il passato), descrive poi l’enorme albero Yggdrasill e le tre norme che, ai suoi piedi, tessono le trame dei destini degli uomini. Narra poi della leggendaria battaglia avvenuta tra gli dei Asi e gli dei Vani, per poi soffermarsi sull’omicidio di Baldr per mano di Loki. La Vǫluspá si conclude poi con il concentrarsi del racconto della vǫlva sugli avvenimenti che caratterizzeranno il futuro, ovvero l’avvenire. Questa narrazione assume dei toni particolarmente tragici, poichè tale epoca è caratterizzata, secondo la mitologia scandinava, dal Ragnarok (letteralmente “destino degli dei”), ovvero l’apocalisse, la fine di tutti i tempi. Il Ragnarok sarebbe infatti caratterizzato da una fitta serie di eventi drammatici e catastrofici, estremamente significativi per poter fornire un’interpretazione complessiva della mitologia norrena; si tratta infatti di un episodio cruciale che, pur essendo fortemente enigmatico, è stato studiato e analizzato molteplici volte nel corso dei secoli da numerosi studiosi.

Ciò che maggiormente caratterizza il Ragnarok come l’evento più drammatico nella storia della mitologia norrena è il fatto che neanche gli dei potranno impedirlo; esso è infatti inevitabile, poichè rappresenterebbe il principale mezzo attraverso cui potrà generarsi un nuovo universo purificato, cominciando così un nuovo ciclo cosmico (che avrà a sua volta una nuova creazione dell’universo e un nuovo Ragnarok, alternando episodi di creazione e distruzione per tutta l’eternità, in maniera ciclica). A determinare l’inizio del Ragnarok, contribuiscono però tre diversi segnali, tutti indizi di un mondo sul punto di disgregarsi e crollare.

PRIMO SEGNALE = Il casus belli che preannuncerà l’avvenuta del Ragnarok è l’assassinio di Baldr per mano del malvagio Loki, il quale lo uccide dopo aver ingannato Höðr, convincendolo a trafiggere il dio della luce; tale drammatico evento termina con un solenne funerale, per celebrare quanto Baldr fosse amato, ma sancisce per sempre una dura verità per tutto il mondo divino: l’impossibilità di sfuggire al proprio destino, persino di fronte alla morte, proprio come succede agli esseri umani. Gli dei si accorgono così della vanità delle loro azioni di fronte a un fato immutabile, senza però rassegnarsi e accettare così tacitamente una loro debolezza.
SECONDO SEGNALE = Caratterizza non il mondo divino, bensì quello degli uomini; essi infatti vivono in un mondo ormai privo di senso, all’interno del quale le leggi e le tradizioni sono state trascurate e dimenticate, provocando così guerre, nichilismo, egoismo e depravazione. Il genere umano è ormai avviato verso un declino senza vie d’uscita.
TERZO SEGNALE = Riguarda gli astri e il mondo celeste, nonchè la fine del sole e della luna, che verranno ormai raggiunti e divorati dai lupi Skǫll e Hati, i quali priveranno così la Terra della luce solare, facendola sprofondare eternamente nelle tenebre. Allo stesso modo anche tutte le stelle verranno distrutte e non esisterà più alcun firmamento.

Ad annunciare il vero inizio del Ragnarok saranno tre galli, i quali avviseranno rispettivamente i giganti che vivono nello Jǫtunheimr, i morti del regno di Hel, e gli dei ad Ásgarðr saranno avvisati dal canto di Víðópnir, il gallo dorato che si posa sull’albero cosmico Yggdrasil il quale, scuotendo i suoi rami con veemenza, provocherà terremoti e maremoti che squarceranno l’intera Terra, distruggendola. Questo forte tremore determinerà anche lo spezzarsi di tutte le catene esistenti, e così Loki e i suoi figli, il lupo Fenrir e il serprente Miðgarðsormr (imprigionato nelle profondità degli abissi), potranno liberarsi dalla prigionia decretata da Odino, provocando morti e distruzioni al solo loro passaggio (Fenrir sulla Terra, mentre Miðgarðsormr nel mare). Arriveranno anche i morti, ovvero l’“esercito del male”, dal regno di Hel i quali, trasportati dalla nave infernale Naglfar, lasceranno il regno degli inferi per giungere sulla Terra e portare devastazioni.

Tuttavia il vero significato del Ragnarok, il culmine estremo di questa violenta e devastante vicenda, viene rappresentato da una battaglia di natura escatologica, nella quale si sfideranno le forze del caos, guidate da Loki affiancato dai suoi mostruosi figli, dai giganti (guidati da Surt, armato di una gigantesca spada infuocata con la quale annienta ogni cosa incontri sul suo cammino), dall’esercito del male e da tutti coloro che erano stati esiliati o imprigionati da Odino, e le forze ordinatrici, ovvero gli dei celesti, chiamati a raccolta da Heimdall, guardiano di Ásgarðr e custode del Bifrost, il ponte dell’arcobaleno che collega Ásgarðr a Miðgarðr. Gli dei sono consapevoli dei loro destini e, sapendo che questa sarà l’ultima tra tutte le battaglie, scelgono solamente di battersi con valore contro le forze del male. Tale battaglia decreterà molteplici morti da ambo le parti: da un lato periranno alcuni tra i più valorosi dei del pantheon norreno, dall’altra alcune creature mostruose schierate con le forze del male. Odino verrà infatti sbranato da Fenrir, che a sua volta verrà massacrato da Vidar, uno dei figli di Odino desideroso di vendicare il padre; Thor riuscirà invece a sconfiggere il Miðgarðsormr, tuttavia, essendo troppo indebolito dal suo veleno, perirà anch’egli poco dopo il serpente; infine si sfideranno Loki e Heimdall, anch’essi uccidendosi a vicenda in seguito a un violento e terribile scontro.

A seguito dello scontro finale, il padrone incontrastato di tutto rimarrà il gigante Surt, che con la sua spada infuocata brucerà la Terra e tutti i nove mondi, facendo nuovamente sprofondare l’intero universo in un mare bollente fatto di onde laviche che ripristinerà il profondo stato di buio, silenzio e nulla cosmico presente alle origini di tutto, ovvero l’abisso cosmico del Ginnungagap, che sorgerà ancora una volta come prima che tutto l’universo venisse generato. Sebbene il Ragnarok abbia portato alla morte molti dei e molte creature del male, questa lotta tra le forze del bene e quelle del male non possiede nè un vinto nè un vincitore, poichè il solo scopo delle fiamme che hanno inghiottito ogni cosa è quello di purificare, per permettere così una completa rinascita. Affinchè un nuovo universo possa rinascere, quello vecchio deve obbligatoriamente essere distrutto. Perciò, gli dei che sono riusciti a sopravvivere daranno origine a una nuova età dell’oro del pantheon norreno, la Terra tornerà nuovamente a splendere e tutti i valorosi dei morti per difendere l’universo, continueranno a vivere in una memoria di gloria eterna, e tutte le forze del male ritorneranno da dove erano venute. Pertanto, con la conclusione di tali eventi apocalittici, non solo verrà generata una nuova stirpe divina, ma anche una rinnovata progenie umana, e la Terra sarà ripopolata da Lif (letteralmente “vita”) e Lífþrasir (letteralmente “desiderio di vita”).

Gli influssi attuali

Sebbene fonti e testimonianze riguardo miti, leggende e soprattutto per quanto riguarda la mitologia norrena siano estremamente esigue, le poche tracce che ci sono pervenute hanno avuto un fortissimo impatto in epoche più recenti, anche a livello mondiale. In tempi molto più moderni ci sono stati infatti, sia in Europa che negli Stati Uniti, vari tentativi di restaurazione nei confronti dell’antichissima religione scandinava. Tali movimenti hanno preso il nome di Etenismo (o “neo-paganesimo germanico”, inteso come l’insieme dei nuovi movimenti religiosi legati ai culti germanici pre-cristiani), ed è caratterizzabile come un nuovo fenomeno di neo-paganesimo. Movimenti di questo tipo è possibile riscontrarli in forme anche più radicate in vari Paesi europei come l’Islanda, dove l’Etenismo è riconosciuto come Ásatrú, il quale è stato “sancito” ufficialmente come religione nel 1973, legalizzando matrimoni, battesimi e svariate altre cerimonie religiose. Un altro Paese è invece la Danimarca, dove l’Etenismo rappresenta una religione ufficiale e legalizzata, seppur ancora notevolmente nuova e poco condivisa tra i cittadini.

Oltre agli influssi nel campo della religione, la mitologia norrena ha avuto anche numerose e notevoli influenze in ambiti molto più “frivoli” e moderni; alcuni dei massimi esempi sono riscontrabili soprattutto in ambito musicale e cinematografico. Nel primo caso è possibile parlare di influenze musicali specialmente in tempi molto recenti, poichè la mitologia scandinava è stata una ricchissima fonte d’ispirazione per vari testi di canzoni, nomi di band e anche generi musicali, come il death metal, il black metal, il folk metal e soprattutto il viking metal; oltre al più conosciuto metal infatti si sta sviluppando anche un nuovo genere musicale dai tratti fortemente folkloristici, il neofolk, il quale utilizza strumenti tradizionali, tratta temi nordici ed è realizzato in lingua originale. Nel campo della cinematografia invece non sono stati “utilizzati” solamente temi nordici tratti da racconti mitici e leggende, bensì anche svariati personaggi (soprattutto divinità e creature mitiche, ma anche vari personaggi storici realmente esistiti), i quali, attraverso rappresentazioni più moderne e innovative per film e serie TV, hanno contribuito notevolmente a influenzare l’idea che si aveva di questi elementi, nonostante l’elevata carenza di fonti che li rappresentano.

Per concludere, ulteriori influenze (seppur in misura minore ma per questo non meno importanti) tratte dalla mitologia norrena, sono state riscontrate in epoche nettamente più recenti anche in ambiti più ristretti, quali la letteratura fantasy e storica e i giochi di ruolo. Dal 1900 in poi infatti epopee, miti e leggende scandinave hanno dato vita a un nuovissimo genere letterario, noto come “narrativa fantasy” (o “letteratura fantasy”); tale genere, caratterizzato da eventi fantastici e creature leggendarie tipiche della mitologia vichinga, ha avuto un enorme successo a livello mondiale, venendo apprezzato da tutti i sessi e da tutte le età. Tuttavia la narrativa fantasy non è stato l’unico genere letterario a imporsi, e si è così affiancato al romanzo storico, il quale ha spesso e volentieri riportato storie e vicende (sia romanzate che reali) legate alla storia dei vichinghi. Un altro campo in cui la mitologia nordica ha avuto un notevole successo sono i videogiochi (o giochi di ruolo), caratterizzati spesso da tratti fantasy e nordici riproducenti vari personaggi del pantheon nordico, oltre che molteplici paesaggi tipici della mitologia norrena.

Gli unicorni sono esistiti davvero?

Oggi gli unicorni sono considerati creature leggendarie, appartenenti al mito, ma non è sempre stato così, nel mondo antico gli unicorni appartenevano al mondo naturale, proprio come uomini, capre, cani e cavalli.

Oggi gli unicorni sono considerati creature leggendarie, appartenenti al mito, ma non è sempre stato così, nel mondo antico diversamente da creature come pegaso, minotauri, centauri e fauni, che appartenevano al mondo del mito, gli unicorni appartenevano al mondo naturale, proprio come uomini, capre, cani e cavalli.

Questo significa forse che gli unicorni potrebbero essere realmente esistiti?

Nell’immaginario comune l’unicorno è una creatura dalle sembianze di un cavallo dotato di un corno al centro della fronte. Questa creatura leggendaria è stata citata innumerevoli volte nelle varie epoche storiche, da autori differenti e in opere molto distanti tra loro. Lo incontriamo come elemento mitico nella letteratura cavalleresca, ma anche nei salmi, in diversi bestiari del mondo antico e medievale e in fine, ma non meno importante, nell’iconografia cristiana e nella simbologia araldica medievale.

Nella simbologia araldica e nell’iconografia cristiana l’unicorno è un simbolo di simbolo di castità, purezza, verginità, che per lungo tempo fu eletto a sigillo di molti notabili europei, tra i più illustri vanno citati sicuramente Borso della casa d’Este, ma è anche uno dei simboli della Scozia ed appare negli stemmi del Regno Unito, della Nuova Scozia in Canada, del Canada e, in misura minore, come supporto nello stemma della Lituania.

Nel medioevo l’unicorno (o liocorno) era una figura mitologica, appartenente al mondo del mito, ma non è nel medioevo che l’immagine dell’unicorno fa la sua apparizione, queste creature leggendarie erano già note, ed erano state ampiamente descritte, in numerose opere della tradizione scritta e orale del mondo antico, c’è però una differenza tra gli unicorni araldici del medioevo e quelli del mondo antico, e questa differenza sta nel mondo in cui queste creature dimoravano, per dirla semplicemente, nel medioevo gli unicorni appartenevano esclusivamente al mito e alla mitologia, ma nel mondo antico le cose stavano diversamente, e per capire cosa intendo bisogna aprire una breve parentesi sulla mitologia.

Nel mondo antico la mitologia era uno strumento fondamentale per la comprensione del mondo, grazie alle sue storie e le vicende di dei ed eroi, permetteva agli uomini del mondo antico di orientarsi nel mondo di vivere senza essere intimoriti dalla natura misteriosa delle cose.

Il mito era uno strumento potentissimo per spiegare ciò che per gli strumenti di osservazione del tempo, non poteva essere spiegato, e se bene il mondo mitologico e quello reale spesso entrassero in contatto e vi fossero delle interferenze, in particolar modo nel mondo greco, vi era una netta distinzione tra quelle creature appartenenti al mondo “naturale” e quelle creature appartenenti invece al mito e gli uomini del mondo antico erano perfettamente consapevoli di questa distinzione. Sapevano che nel tragitto tra due polis greche era estremamente improbabile (per non dire impossibile) che qualcuno potesse imbattersi in un Idra, in un Cerbero, in un Pegaso o un Minotauro, e anche quando qualcuno raccontava di un incontro con una creatura mitica, la maggior parte degli ascoltatori era tendenzialmente scettica.

Tuttavia, nonostante la distinzione tra il mondo del mito ed il mondo naturale, dove invece le creature erano ben note a tutti ed era facile credere a qualche mercante vagabondo che raccontava di essere stato aggredito da un branco di lupi, vi è una creatura, mitologica che però figura tra i bestiari del mondo naturale e questa creatura è proprio l’Unicorno.

Nel mondo contemporaneo, nell’era di internet, l’unicorno è una creatura mitologica, senza se e senza ma, si tratta di una creatura estremamente iconiche, estremamente versatile ed affascinante, ma che, tutti collocano nel mondo del Mito, e anche se molti (me compreso) vorrebbero un unicorno, purtroppo siamo costretti ad accettare la realtà che questa creatura straordinaria non appartenga al nostro mondo. Ma nel mondo antico, per motivi ancora ignoti, non era così.

Nel mondo greco, l’unicorno, se bene fosse una creatura mitologica, che appariva esclusivamente nei miti e nelle leggende, che nessuno aveva mai realmente visto e toccato, era considerato come una creatura del mondo naturale, e tra i vari autori che ne hanno fatto menzione nelle proprie opere, il riferimento più importante e in questo senso più interessante ci arriva da Ctesias, che, nel suo lavoro Indika, una sorta di bestiario di quelle che erano le creature note all’epoca, inserisce la descrizione di un animale, proveniente dal medio oriente (secondo alcune ipotesi dall’area dell’odierno Iran), che sembrava un grosso asino selvatico dotato di un corno. 

Ma Ctesias non è il solo autore “scientifico” (passatemi il termine) a parlare di unicorni, nel mondo romano, intorno al primo secolo dopo cristo, Plinio il vecchio, un altro autore più celebre e autorevole di Ctesias, descrive una creatura che chiama “monoceros”, che si presenta come un incrocio tra un grosso cervo, un elefante, un cinghiale ed un cavallo, più precisamente un aspetto simile ad un cavallo, la stazza di un grosso cinghiale, e la presenza di un corno, simile a quello degli elefanti, posto però sul capo come un cervo.

Nell’Europa medievale, l’unicorno era una creatura molto popolare, resa celebre dai poemi cavallereschi e descritto nella forma di una creatura simile ad un cavallo dotato di un corno sul capo e proprio sul finire del medioevo, nel XIII secolo, Marco Polo, nella sua opera Il Milione, racconta di aver incontrato, nell’area dell’odierno Iran, proprio un unicorno, descritto con qualche lieve differenza dalla sua immagine classica di cavallo con un corno. Per essere più precisi, l’unicorno incontrato da Marco Polo, non assomiglia tantissimo ad un cavallo, assomiglia di più ad un grosso, enorme, cinghiale quasi del tutto glabro e con un singolo corno sulla testa.

La descrizione dell’unicorno di Marco polo richiama molto la descrizione di Plinio, e se si considera che è molto improbabile che un mercante, che non sapeva leggere e scrivere, avesse letto le opere di Plinio, le due descrizioni diventano molto interessanti.

Secondo molte ipotesi, la creatura che molti autori occidentali nel corso dei secoli hanno descritto e associato all’immagine di un unicorno, potrebbe essere un rinocerontide, noto con il nome di Elasmotherium, che si ipotizza essersi estinto durante il medio Pleistocene medio (circa 700.000 -120.000 anni fa), le cui fattezze ricordano moltissimo la creatura descritta soprattutto da Plinio.
Vi lascio di seguito alcune illustrazioni della creatura.

Le probabilità che la descrizione di Plinio il vecchio si basi su un reale incontro con un esemplare vivente di Elasmotherium, sono molto basse, per non dire quasi inesistenti visto che questa creatura si ritiene essersi estinta oltre 120.000 anni prima della descrizione fornita da Plinio. è molto più probabile che la sua descrizione si sia basata su una ricostruzione effettuata sulla base di ritrovamenti ossei, e in questo caso sarebbe un eccellente ricostruzione, sicuramente migliore di quelle ricostruzioni che, partendo da ritrovamenti ossei di dinosauri, hanno portato ad ipotizzare l’esistenza di giganti.

Per quanto riguarda invece la descrizione di Ctesias e ancora di più quella fornita da Marco Polo, questa potrebbe essersi basata sui racconti locali degli indigeni dell’area del medio oriente, e su eventuali raffigurazioni di questa antica creatura.

Quale sia la verità sulle origini dell’unicorno è ancora un mistero, una cosa è certa, per gli uomini e le donne del mondo antico, questa creatura era reale tanto quanto un cavallo, un mulo, un elefante o un cinghiale, e anche se nessuno ne aveva mai incontrato uno vivo, si aveva l’assoluta convinzione che almeno in passato quella creatura fosse appartenuta al mondo naturale piuttosto che a quello del mito.

GLI DEI DEL FUOCO

Perché ad un certo punto della nostra storia, il fuoco da simbolo di luce e vita è diventato un simbolo infernale sinonimo di morte e malvagità?

Il fuoco è splendente, è luminoso, permette di cuocere il cibo ed era un elemento centrale nelle pratiche sociali delle civiltà pre-arcaiche, ma allora perché se il fuoco “è vita” ad un certo punto della nostra storia è stato associato agli inferi, diventando sinonimo di morte e malvagità?
Perché ad un certo punto della nostra storia, il fuoco ha smesso di essere un elemento positivo ed è diventato un elemento negativo?

Cerchiamo di andare con ordine e ragionando insieme cerchiamo di capire come, quando e perché è avvenuto questo cambiamento e se davvero è avvenuto un cambiamento.

Come sappiamo, la capacità di controllare il fuoco rappresenta uno dei passi più importanti compiuti dagli esseri umani, si tratto probabilmente dell’unica vera grande conquista della nostra specie, la prima conquista che appartiene esclusivamente all’uomo, e in quanto conquista esclusiva è anche il primo, reale, elemento di distinzione tra l’essere umano e qualsiasi altra specie animale.

La conquista del fuoco da parte dei primi esseri umani rappresenta infatti un punto di svolta unico nella nostra storia e nella nostra evoluzione, sia culturale che “fisica”, in quanto il fuoco diede accesso all’uomo ad una fonte di calore che in alcune fasi particolarmente fredde del nostro pianeta significò la differenza tra la vita e la morte, la differenza tra la sopravvivenza e l’estinzione. Inoltre il fuoco ha fornito protezione dalle altre creature ed ha permesso il miglioramento delle tecniche di caccia e in fine, ma non meno importante, un efficiente metodo per cucinare il cibo.

È grazie al fuoco e solo grazie ad esso che l’uomo si è distinto dalle altre creature, è grazie agli importanti avanzamenti “tecnologici” e alimentari derivati direttamente dalla scoperta del fuoco che l’uomo ha potuto intraprendere la propria strada alla “conquista del pianeta”.

Il miglioramento degli strumenti da caccia e i cambiamenti alimentari dovuti alla cottura del cibo, portarono ad un significativo miglioramento delle condizioni della vita e soprattutto un allungamento della vita stessa che si sarebbe tradotto in un rapido incremento del numero effettivo di esemplari della nostra specie, e conseguenza diretta dell’ampliamento delle comunità primitive, vi fu una riduzione della quantità disponibile di cibo che costrinse l’uomo a cercare nuovi luoghi in cui abitare e nuove tecniche per procurarsi del cibo.

Lo spirito di sopravvivenza e di preservazione, innati in ogni specie vivente, avrebbe spinto i più giovani a separarsi dal luogo di nascita, avviando un processo migratorio che avrebbe portato alla dispersione geografica della specie umana su tutto il pianeta. Va detto inoltre che il controllo del fuoco diede all’uomo più tempo per poter vivere e portare a termine le proprie attività, oltre all’allungamento della vita vi è infatti anche un allungamento delle giornate che non sono più scandite esclusivamente dal ciclo giorno notte, ma grazie al fuoco è possibile illuminare le notti e di conseguenza, molte attività non sono più limitate alle sole ore diurne, ma possono essere portate avanti anche nelle più fredde e buie ore notturne rese meno fredde e buie grazie al calore e la luce generati del fuoco. Secondo lo stesso principio il possesso di una fonte di luce “artificiale” e “portatile” permise un ampliamento dell’orizzonte esplorativo.

Prima della scoperta del fuoco era impensabile per gli uomini inoltrassi troppo a fondo nelle gallerie e nelle caverne, ma grazie alla luce del fuoco, le oscure profondità della terra divennero accessibili, trasformandosi in veri e propri luoghi di rifugio, molto più caldi e sicuri della semplice imboccatura delle caverne.

Purtroppo non sappiamo esattamente come o quando la specie umana abbia imparato a controllare il fuoco, sappiamo, da alcuni reperti datati a circa 600.000 anni fa che molto probabilmente già l’Homo Erectus, antenato dell’Homo Sapiens, era in grado di controllare il fuoco, e sappiamo che in quel frangente il fuoco aveva un accezione positiva.

Un possibile indizio riguardante il passaggio “al lato oscuro” del fuoco, lo incontriamo intorno ai 300.000 anni fa, in questa fase il pianeta ospita le prime primitive comunità di Homo Sapiens, una specie che ha smesso da tempo di vivere nelle caverne e che ha cominciato a costruire rifugi “artificiali” prevalentemente con fango, legna, paglia e pelli di animali. Può sembrare una banalità, ma osservando le differenze tra le due tipologie di abitazione, la caverna ha tra i propri vantaggi il fatto di essere molto ampia e di poter ospitare molti esemplari, di contro, non è possibile spostarle, di conseguenza impone alla specie umana di adattarsi alla presenza di caverne. Tuttavia, essendo le pareti della caverna, fondamentalmente di pietra o comunque di materiali e minerali difficilmente infiammabili, il fuoco non rappresenta un reale pericolo. Il discorso cambia quando si comincia a vivere fuori dalle caverne, in villaggi e abitazioni che da un lato rendono più semplice seguire le migrazioni degli animali, ma dall’altro, essendo realizzate prevalentemente in legname e altri materiali leggeri e facilmente infiammabili, il fuoco inizia a diventare un pericolo, soprattutto se non è controllato a dovere.

Proprio in questo senso, alcune lame di selce, bruciate molto probabilmente in un incendio avvenuto circa 300.000 anni fa, trovate vicino ai fossili di un Homo Sapiens nell’odierno Marocco, ci conferma queste osservazioni. Un fuoco fuori controllo può distruggere un abitazione, può distruggere un intero villaggio e uccidere i suoi abitanti, tuttavia, va detto che i vantaggi sono nettamente superiori ai rischi e l’uomo non avrebbe smesso di utilizzare il fuoco, ma avrebbe perfezionato la propria capacità di domare le fiamme. Sappiamo infatti, da numerosi ritrovamenti sparsi un po ovunque sul pianeta che, circa 125000 anni fa, il controllo del fuoco era molto diffuso tra le comunità umane (stiamo ancora parlando di Homo Sapiens), inoltre sappiamo che circa 120.000 anni più tardi, circa 10.000 anni fa l’uomo avrebbe iniziato a ricercare metodi per aumentare la temperatura del fuoco, riuscendo così a modellare e manipolare i metalli, una conquista che avrebbe proiettato l’uomo nell’età dei metalli e che avrebbe inaugurato la nostra breve storia, che dura da circa 10.000 anni.

In questo momento il cambiamento non è ancora avvenuto, il fuoco è ancora un elemento positivo.

Nelle prime fasi embrionali delle più antiche civiltà, deve essere successo qualcosa, qualcosa di devastante ed estremamente grave che avrebbe spinto gli antichi ad associare il fuoco alla distruzione e alla morte, ciò nonostante le divinità del fuoco non sono divinità malvagie, anzi, ricordiamo che ancora ai tempi di Roma, il fuoco ha un valore positivo, nella mitologia Greco-Romana, il dio Efesto per i Greci e il suo equivalente romano, il dio Vulcano, sono dei del fuoco, associati però alla “tecnologia”, sono i fabbri degli dei, divinità protettrici della metallurgia, della tecnologia, delle fucine, della scultura, dell’ingegneria e delle armi appena forgiate, e probabilmente questo sottile filo rosso che lega gli dei del fuoco alla forgiatura di armi può essere la chiave per risolvere il mistero degli dei del fuoco.

Il fuoco diventa sinonimo di morte quando associato alla guerra? quanto viene utilizzato per la guerra, come arma e per produrre armi?

Nella mitologia greca il fuoco si mantiene in bilico tra la vita e la morte e questo è particolarmente evidente nel mito delle origini in cui il fuoco è morte e distruzione, ma allo stesso tempo è anche il punto di origine di un nuovo mondo inaugurato dal trionfo di Zeus, dio del cielo e del tuono, sulle antiche divinità, i Titani.

Vulcano ed Efesto sono forgiatori di armi e sono forgiatori di morte e se nella mitologia greca questo passaggio non appare immediato, va ricordato che il titano Prometeo, fu duramente punito da Zeus per aver fatto dono agli uomini del fuoco, oltre che dell’intelligenza e della memoria. Prometeo fu punito da Zeus perché il padre degli dei temeva che questi doni, il fuoco in particolare, rappresentassero un pericolo per l’intera umanità.

Come dicevamo, se nella cultura greca, il pericolo del fuoco non è totale e definitivo, in altre culture e civiltà, gli dei del fuoco, sono connotati da un più forte e diretto legame con la morte e la distruzione, se bene non esistano molti dei del fuoco che siano effettivamente divinità oscure e malvage.

Tra gli esempi più antichi di divinità in qualche modo associate al fuoco, se bene non fossero divinità totalmente malvagie, abbiamo la figura di Moloch, si tratta di una divinità Cananea il cui mito e le pratiche rituali ad esso associate potrebbero essere la chiave per comprendere il cambio di significato del fuoco, da elemento di luminosità e vita ad elemento di oscurità e malvagità.

Secondo la mitologia Cananea, Moloch dimorava nella Geenna, una vallata scavata dal torrente Hinnom, lungo il versante meridionale del monte Sion e in questo luogo i Cananei praticavano un particolare rituale in onore e gloria del dio Moloch, una pratica che prendeva il nome dello stesso dio.
Il Moloch prevedeva il sacrificio di bambini, precedentemente sgozzati e poi offerti in olocausto al dio Moloch, quindi bruciati in un fuoco perpetuo, tenuto acceso in onore del dio. Secondo la mitologia Cananea, il dio Moloch si cibava dei corpi dei bambini, molto probabilmente il primogenito della famiglia, trasformandoli in una sorta di divinità familiare che avrebbe protetto la propria famiglia.

Il Moloch era praticato anche da altre culture mediterranee oltre a quella cananea, ed è molto probabile che questa diffusione sia avvenuta in concomitanza con l’espansione delle rotte commerciali di fenici prima e cartaginesi poi e nella maggior parte dei casi, questi rituali furono soppiantati dal declino degli antichi pantheon e l’ascesa di nuove divinità, come ad esempio nel caso del Titano greco Kronos, dio che secondo la mitologia greca divorava i propri figli (tra cui lo stesso Zeus) e per questa ragione è stato più volte identificato come la trasposizione greca del dio Moloch.

Con il tracollo della civiltà fenicio-cananea e l’avvento dell’epoca giudaica che sotto la guida di re Davide, il popolo ebraico trasformò la Geenna da luogo in cui era praticato il Moloch a luogo di destinazione dei rifiuti prodotti a Gerusalemme.

La Geenna passò dall’essere un luogo sacro ad un antica discarica e la divinità che secondo la mitologia Cananea dimorava in quel luogo, come accadde a tutte le divinità cananee, fu trasformata in un demone. Nell’interpretazione ebraica il dio Moloch era un demone malvagio che si nutriva di neonati e che dimorava nella Geenna.

Come sappiamo il cristianesimo avrebbe ereditato gran parte della propria mitologia dall’ebraismo e in questa eredità vi è anche il destino di Moloch e della Geenna, in particolar modo, in alcuni passaggi del Nuovo Testamento, in seguito ad alcune traduzioni errate, la Geenna venne associata all’inferno, mentre in altri passaggi il suo nome rimane invariato e se sul piano mitologico il suo significato varia leggermente, sul piano materiale, la sua funzione resta invariata, la Geenna continua ad essere la discarica di Gerusalemme e trattandosi di una discarica del mondo antico, i rifiuti che vi finivano erano per lo più di natura organica e facilmente infiammabili, di conseguenza gli incendi nella Geenna non erano rari, come non sono rare testimonianze e riferimenti ai numerosi incendi che coinvolsero la Geenna.

Gli incendi costanti nella Geenna e il precedente fuoco permanente acceso in onore di Moloch, è probabile che si fusero insieme creando l’immagine di una terra, dimora di un demone, in cui il fuoco esiste da sempre e se questa terra è associata all’inferno cristiano allora è facile capire perché l’inferno nella cultura ebraico cristiana è dominato dalle fiamme, ed essendo l’inferno dei cristiani un luogo di dannazione eterna, popolato da spiriti dannati e in qualche modo malvagi, il ragionamento può trovare un epilogo.

Il fuoco, un tempo simbolo di luce e vita è oggi un simbolo infernale, sinonimo di morte e malvagità, molto probabilmente (ma non ne abbiamo la certezza) per via dell’associazione del Fuoco alla produzione di armi in molte mitologie antiche e soprattutto per via della tradizione ebraico-cristiana che trasformò il dio Moloch in un demone infernale e la sua casa in una discarica successivamente associata agli inferi, rendendo così, il demone che vi dimorava, l’incarnazione stessa del male.

Sciapodi, Blemmi e Creature Fantastiche all’ombra di Genghis Khan

Nel XIII secolo i contatti commerciali tra Europa e Asia erano ormai consolidati. L’oro e l’argento di Sumatra, della Corea e della Malesia. Il sandalo, il bambù e l’albero della canfora da cui estrarre una fragrante essenza. Aromi come incenso e muschio, poi pietre preziose come rubini e zaffiri provenienti da Ceylon e dall’India. E le spezie! Noce moscata, pepe, cinnamomo, chiodi di garofano.

Nonostante i ripetuti scambi commerciali che, attraverso il Mediterraneo, connettevano da tempo l’Oriente con l’Occidente, se ci chiediamo quale fosse per un occidentale l’immagine dell’Asia non possiamo rispondere senza chiamare in causa una serie di miti, leggende, racconti magici e geografie fantastiche.

All’ombra di Genghis Khan (il condottiero mongolo spesso paragonato ad Alessandro Magno per il fatto di aver unificato gran parte dell’Asia) troviamo vere e proprie gallerie di mostri: sciapodi (esseri con un solo piede), blemmi (creature con la faccia sul ventre), cinocefali, panozi (esseri dalle orecchie giganti) ed altre creature fantastiche che abbiamo imparato a conoscere anche grazie ai romanzi di Umberto Eco (Il nome della rosa e Baudolino, ad esempio).

Homo Fanesius Auritus nella Monstrorum historia di Jean-Baptiste Coriolan, 1642.

Coma mai questa commistione tra mito e realtà? L’idea dell’Oriente e dell’India che avevano i Greci dipendeva dalle conquiste di Alessandro Magno. Dopo la battaglia di Gaugamela e il crollo dell’impero Persiano, Alessandro volse alla conquista delle regioni orientali. Dopo essere penetrato nell’altopiano dell’Iran, che solo in parte era stato soggetto alla Persia, occupò varie regioni fondandovi una seconda, una terza e un’ultima Alessandria. Alexandrèscata (Alessandria Ultima) in Sogdiana (una regione dell’Asia centrale, nell’attuale Uzbekistan meridionale) è il luogo in cui sposò Rossane, figlia di un valoroso principe battriano.

Ma non è tutto. Alessandro arrivò in India, precisamente fino al bacino dell’Indo (327 a. C.), e le sue conquiste hanno lasciato una traccia indelebile nella cultura e nella letteratura (non solo greca). Pare dunque probabile che la grandezza di Alessandro abbia giocoforza contribuito alla commistione dei due piani (mitologico e “storico”).

Se passiamo al mondo romano non possiamo stupirci delle difficoltà nell’isolare i dati storici e geografici dai miti e dalle leggende. I romani erano consapevoli dell’esistenza della via dell’incenso, che dall’estremità della penisola arabica conduceva fino al Mediterraneo le spezie provenienti dalla Cina e dall’India; tuttavia, non avevano alcuna informazione certa sull’entroterra asiatico e sui suoi abitanti. Avevano soltanto l’eco delle imprese alessandriste.

Uno sciapode dalle Cronache di Norimberga (1493).

Molte conferme arrivano anche solo da una rapida rassegna tra i viaggiatori ed enciclopedisti romani. Pur in presenza di nuove informazioni è per noi molto difficile isolarle dalle leggende che ammantavano l’Asia. Possiamo ricordare Pomponio Mela (I secolo d.C.), cui dobbiamo la più antica geografia conservataci nella letteratura latina, un’opera pervenutaci in vari codici e che intendeva presentarsi come una descrizione esaustiva del mondo conosciuto: De Chorographia (Descrizione dei luoghi), Cosmographia (Descrizione del mondo) e De situ orbis (La posizione della terra).

Plinio il Vecchio (23 d.C.-79d.C.) di cui abbiamo solo la Naturalis historia, una vera e propria enciclopedia in cui l’autore è influenzato da alcune istanze dello stoicismo medio e che avrà molta fortuna nel Medioevo. Per non parlare di Gaio Giulio Solino (III secolo d.C.) autore di una Collectanea rerum memorabilium, in cui attinge a piene mani da Pomponio e da Plinio che proprio nella Naturalis Historia descrive gli abitanti dell’India come monocoli, appartenenti a una razza che possiede una sola gamba e che è molto abile nel salto (singulis cruribus, mirae pernicitatis ad saltum).

L’incontro con i mongoli è l’entrata in un mondo fantastico destinato a disgregarsi inevitabilmente. Gli occidentali erano certamente molto interessati ai luoghi di provenienza di quelle spezie che erano parte importante della loro vita, o alle gemme e alle stoffe preziose di cui i principi e la liturgia cristiana facevano grande uso. Al punto che, verso la fine del XIII secolo, si narra di una lettera pervenuta alla corte di papa Alessandro III e di Federico I, forse per il tramite bizantino, che descriveva le meraviglie dell’Asia: di un grande regno cristiano a capo del quale ci sarebbe stato un sacerdote-re detto Prete Gianni. Lo scritto, certamente propagandistico secondo la tradizione storiografica in cui si inserisce Franco Cardini, mostrava allusioni a fatti storici reali: alla presenza di regni turco-mongoli nel centro dell’Asia, all’esistenza di comunità cristiano-nestoriane disseminate lungo ala via della seta, dall’Iran fino alla Cina.

Ma sulle origini di tutte queste merci, come sulla storia e natura stessa di quei luoghi lontani, gli occidentali erano disposti ad accettare pure e semplici fiabe: la barriera di fuoco che circondava la parte più estrema del Paradiso Terrestre, che ovviamente si trovava a Oriente, o il Monte della Calamita che si trovava nell’Oceano Indiano, capace di attirare tutti gli oggetti di metallo che si trovavano sulle navi. E molti cominciarono a costruirle senza chiodi, per evitare che … affondassero. Ancora una volta, il mito si intreccia alla realtà.

Fonti e Bibliografia:

Grousset, R., L’empire des steppes. Attila, Gengis Khan, Tamerlan, Paris, 2001

Phillips, E.D., Genghiz Khan e l’impero dei Mongoli, Newton Compton, 2008

Stahl, W. H., La Scienza dei Romani, Bari, Laterza, 1962

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