Il Piano Solo

Il Piano Solo rappresenta uno dei capitoli più controversi dell’Italia Repubblicana, che ancora oggi è oggetto di dibattito e discussione sulla sua natura. Contestato e considerato da molti come un tentativo di golpe e giustificato da altri come un piano “anti-golpe”, la sua natura è stata valutata e scrutinata nel dettaglio da una commissione d’inchiesta parlamentare.

Elaborato durante la prima crisi di governo della IV legislatura, a pochi mesi dalla nascita del primo governo di centrosinistra dell’Italia repubblicana, il piano, mai messo in atto, prevedeva il monitoraggio e l’arresto di politici e sindacalisti, soprattutto in area di sinistra, in caso di grave crisi politica e sociale, ad opera dell’Arma dei Carabinieri.

Protagonista di primo piano dell’intera vicenda il generale, medaglia d’argento della resistenza e comandante dell’arma dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo.

A distanza di oltre 60 anni dalla progettazione di quel piano segreto, oggi disponiamo di un gran numero di informazioni e documenti, preclusi a chi se ne occupò e ne parlò tra anni 60 e 70, in particolare noi oggi disponiamo dell’intera documentazione analizzata e prodotta dalla commissione commissione d’inchiesta parlamentare sugli eventi del giugno-luglio 1964 (“SIFAR”), documenti che per molto tempo sono stati classificati e solo di recente sono stati declassificati.

La mole di documenti prodotta dalla commissione d’inchiesta è qualcosa di immensa, solo per il Generale De Lorenzo, comandante nel 1964 dell’arma dei carabinieri, disponiamo di migliaia di pagine, tra cui i verbali integrali delle quattro audizioni tenne di fronte alla commissione, rispettivamente il 23, 27, e 30 maggio 1969. Nel complesso, la documentazione integrale, disponibile e consultabile on-line presso l’archivio della camera, comprende oltre 116 audizioni a funzionari dell’arma dei carabinieri, 131 resoconti sommari, e 201 documenti, per un totale di oltre 45.000 pagine, che ho avuto la malsana idea di recuperare. Inoltre sul portale della camera è disponibile la relazione, in due volumi (circa 2000 pagine compelssive).

Tra i documenti sono presenti anche le liste dei “sorvegliati” del SID, ovvero i soggetti sensibili, potenzialmente sovversivi, che l’intelligence aveva attenzionato ed era pronta a sorvegliare o arrestare in caso di crisi politica o sociale.

Col tempo avrò modo di leggere tutta la documentazione e produrre sempre più materiale a riguardo, per il momento voglio limitarmi ad un articolo che abbia le seguenti finalità, definire il Piano Solo, contestualizzarlo storicamente ed esporre le valutazioni finali della commissione d’inchiesta, poiché questa fu attiva fino al 15 dicembre 1970, un momento storico molto particolare, poiché successivo, di 7 giorni al “Golpe Borghese“.

Il contesto storico in cui venne sviluppato il Piano Solo

Il piano Solo venne pianificato presumibilmente nell’estate del 1964, indicativamente tra Giugno e Luglio, nel pieno di una crisi di governo. Da quel che sappiamo, a sollecitare la pianificazione del generale Giovanni de Lorenzo, fu l’allora capo dello stato Antonio Segni, o almeno questa è la narrazione comune, come vedremo, le cose sono più complesse di così.

Ci troviamo in un momento storico di grande fermento politico e soprattutto grande preoccupazione politica, poiché l’Italia in quegli stessi mesi stava sperimentando il primo governo di centro-sinistra dell’età repubblicana, nonché il primo governo di centro-sinistra dai tempi di Bonomi, risalente agli anni venti, appena prima dell’avvento del Fascismo e l’ascesa di Mussolini.

Fatta eccezione per l’assemblea costituente, erano passati più di 40 anni dall’ultima volta la sinistra in Italia era stata in area di governo e da allora il mondo, e soprattutto l’Italia, erano profondamente cambiati, non solo perché c’era stato il regime fascista e la seconda guerra mondiale di mezzo, ma anche e soprattutto perché ci trovavamo in piena guerra fredda e uno sbilanciamento dell’Italia, troppo a sinistra poteva risultare come un qualche avvicinamento all’Unione Sovietica e questo era considerato una possibile minaccia non solo in Italia e per l’Italia, ma anche per l’Europa e la NATO.

Nel dicembre del 1963 nasce il primo governo Moro, un governo di centro sinistra, sostenuto dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialista Italiano, personalità chiave di questo governo furono Aldo Moro (DC) in quanto presidente del consiglio e Pietro Nenni (PSI) in quanto vicepresidente. Oltre questi due partiti principali, la coalizione di governo contava anche rappresentanti del Partito Socialista Democratico Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Questa coalizione sarebbe rimasta al governo per tutta la legislazione, fino al 1968, con i tre governi Moro.

Tra il governo Moro I e Moro II cambiano pochissimi funzionari, o meglio, diversi funzionari del PSI cambiarono posizione, segno di una tensione interna al PSI e di riflesso nella Coalizione. Più nel dettaglio, Umberto delle Fave (DC) ai rapporti con il parlamento del governo Moro I lasciò il posto a Giovanni Battista Scaglia (DC) del governo Moro II, il ministro al Bilancio Antonio Giolitti (PSI) venne sostituito da Giovanni Pieraccini (PSI), il ministro ai lavori pubblici Giovanni Pieraccini (PSI) venne sostituito da Giacomo Mancini (PSI), il Ministro alla Sanità Giacomo Mancini (PSI) venne sostituito da Luigi Mariotti (PSI) e il ministro del Lavoro e Previdenza sociale Giacinto Bosco (DC) venne sostituito da Umberto delle Fave (DC).

Da quel che sappiamo, nel pieno della crisi di governo, il 15 luglio 1964, il Presidente della Repubblica Antonio Segni convocò al Quirinale il generale dello stato maggiore e comandante dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, si trattò di un incontro ufficiale, non segreto ma a porte chiuse, la notizia della convocazione e dell’incontro venne data anche dai quotidiani e telegiornali dell’epoca.

In quel momento le tensioni all’interno del governo erano palpabili e indubbiamente c’era una forte preoccupazione istituzionale, come normale che sia nel pieno di una crisi di governo (anche se queste, nella prima repubblica erano molto più comuni e in realtà meno gravi di quanto non siano percepite oggi). Non c’è quindi da sorprendersi troppo se il capo dello stato, durante una crisi di governo, ha convocato ed incontrato diversi funzionari.

Uno di quei funzionari come già detto fu proprio il generale De Lorenzo e, in seguito avremmo scoperto, ricevette da Segni un incarico molto delicato, ovvero l’elaborazione di un piano d’emergenza per l’ordine pubblico, tale piano è oggi noto come Piano Solo, e avrebbe fatto dell’arma dei carabinieri l’esecutore e garante dell’ordine sociale in caso di grave crisi politica e sociale in Italia.

Il motivo per cui Segni si rivolse a De Lorenzo e l’arma dei carabinieri può avere diverse ragioni, sia strategiche che politiche, sul piano strategico, come apprendiamo dalle audizioni di De Lorenzo, è legato al regolamento dell’Arma dei carabinieri, inoltre, l’Arma gode di una diffusione capillare nel territorio italiano che non è seconda a nessun altro apparato militare o di polizia, di conseguenza può operare in situazioni d’emergenza con maggiore efficienza rispetto ad altri come esercito o polizia. Inoltre, pur essendo in quel momento un ramo dell’Esercito Italiano, i carabinieri dipendevano da due ministeri, quello dell’Interno e quello della Difesa, mentre il suo comandante, in questo caso specifico Giovanni de Lorenzo, rispondeva direttamente al Capo dello Stato. L’insieme di questi fattori rappresentava un elemento di primaria importanza nell’ottica in cui si fosse resa necessaria una mobilitazione totale in caso d’emergenza.

Il ruolo “esclusivo” e privilegiato dell’Arma dei carabinieri nel programma di mobilitazione generale, fu emblematico del nome con cui sarebbe diventato noto il Piano ovvero “Piano Solo” nel senso che il piano prevedeva l’intervento dei “soli” carabinieri.

Il 23 luglio 1964, a meno di 10 giorni dalla convocazione di De Lorenzo al Quirinale, Aldo Moro, Pietro Nenni e gli altri membri del secondo governo Moro II prestano, la crisi è rientrata e come abbiamo visto, fatta eccezione per alcuni cambi di posizione, il nuovo governo ha una composizione pressocché identica al precedente.

Appena un giorno prima del giuramento, il 22 luglio 1964, Pietro Nenni, ancora e nuovamente vicepresidente del consiglio, pubblica sull’avanti un proprio commento sulla crisi.

Le destre sapevano ciò che volevano e bisogna dire che sono state a un passo dall’ottenere ciò che volevano. Se il centro-sinistra avesse lanciato la spugna sul ring, il governo della Confindustria e della Confagricoltura era pronto per essere varato. Aveva un suo capo, anche se non è certo se sarebbe arrivato primo al traguardo senza essere sopravanzato da un qualche notabile democristiano. Aveva per sé la più vasta orchestrazione di stampa quotidiana e periodica che mai abbia operato in Italia. Aveva punti solidi di appoggio in ogni parte del Paese. Aveva un suo disegno strategico: la umiliazione del Parlamento dei partiti e delle organizzazioni sindacali a cui dava forza la minaccia, puramente tattica, delle elezioni immediate.

Pietro Nenni, L’Avanti, 22/07/1964

Lo scandalo del Piano Solo

Passata la crisi, nell’estate del 64, la mobilitazione prevista dal piano Solo non fu più necessaria, e l’esistenza stessa del Piano Solo rimase abbastanza segreta. Nota per lo più a funzionari istituzionali e vertici di governo e delle opposizioni. Sarebbe stata però rivelata all’Italia e agli italiani, in maniera estremamente fragorosa, nel maggio del 1967 quando, su L’Espresso, Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi pubblicarono alcuni documenti relativi al Piano Solo, tra cui anche alcune controverse dichiarazioni attribuite al generale De Lorenzo.

Come possiamo vedere, in copertina viene attribuita la seguente frase al generale De Lorenzo «Stiamo per vivere ore decisive. La nazione, tramite la più alta autorità, ha bisogno di noi. Dobbiamo tenerci pronti per gli obiettivi che ci verranno indicati».

Si tratta di parole forti e di impatto che esplosero in uno scandalo politico senza eguali, e il dibattito pubblico che ne conseguì, ebbe come effetto la rimozione quasi immediata di De Lorenzo dalla carica di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, allo stesso tempo, il generale rispose alle accuse querelando per diffamazione i due giornalisti. Ne segue un lungo e tortuoso, molto controverso e complesso poiché, che nel frattempo è cambiato ancora ed ora siamo al governo Moro III, anche questo sostenuto dal PSI e con Pietro Nenni Vicepresidente, negò alla magistratura l’accesso alla documentazione necessaria per accertare e verificare le informazioni riportate da Scalfari e Jannuzzi, e senza possibilità di verificare tali documenti, il processo si concluse con una sentenza di colpevolezza per i due giornalisti.

All’epoca in molti si chiesero, e si chiedono tutt’ora, perché il governo Moro III negò alla magistratura l’accesso alla documentazione di quello che veniva dipinto come un piano di golpe che aveva nel mirino proprio il governo Moro e una parte delle forze politiche che lo sostenevano. La risposta a queste domande forse risiede nelle oltre 45.000 pagine di documenti dalla una commissione d’inchiesta, ma al momento risulta senza una risposta chiara.

Nel 1969, l’ex generale De Lorenzo, ora parlamentare, querelò altri due giornalisti, Gianni Corbi e Carlo Gregoretti, per articoli analoghi a quelli pubblicati da Scalfari e Jannuzzi nel 67, ma, a differenza dei loro predecessori loro vennero assolti con formula piena, pertanto, Scalfari e Jannuzzi fecero ricorso per richiedere la propria assoluzione. A questo punto sembra che il generale De Lorenzo decise di rimettere le querele, e le parti coinvolte accettarono la remissione.

Come dicevamo, nel frattempo De Lorenzo era passato dallo stato maggiore al parlamento, questo passaggio avviene nel 1968 con l’inizio della V legislatura, durante la quale De Lorenzo entrò in Parlamento tra le fila del Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica. De Lorenzo non rimane a lungo nel PDIUM e nel 1971 aderisce al Movimento Sociale Italiano, che in quel momento è presieduto da Augusto De Marsanich, politico attivo, quasi senza interruzioni fin dal 1929. Tra gli “ex fascisti” attivi nell’Italia repubblicana, fu uno dei promotori della linea moderata del MSI che portarono all’allontanamento di individui più radicali come Juno Valerio Borghese.

La commissione di inchiesta sul piano solo

La commissione d’inchiesta sul Piano Solo fu istituita il 15 aprile 1969 e rimase in attività fino al 15 dicembre 1970, ci troviamo agli inizi della V legislatura e in questo periodo l’Italia vide il susseguirsi di quattro governi, Rumor I, II, III e Colombo.

Come anticipato, la commissione acquisì un quantitativo enorme di documenti, testimonianze, e produsse una mole di documenti altrettanto imponente. Tra i primi ad essere ascoltati, ci fu il deputato Giovanni De Lorenzo, considerato l’attore principale del Piano Solo, a lui vengono dedicate 4 audizioni tenutesi il 23, 27 e 40 maggio 1969.

La prima audizione ebbe luogo il 23 maggio alle ore 09:20, fu presieduta dal deputato (ex senatore) e presidente della commissione Giuseppe Alessi, ed fu strutturata in sette gruppi di domande.

  • Il primo gruppo, come si legge nel verbale della seduta riguarda l’attività svolta dal generale dell’arma in materia di ordine pubblico, nel giugno-luglio 1964.
  • Il secondo gruppo di domande fu in riferimento al tema specifico della costituzione, dell’origine, della struttura e dell’impiego della Brigata meccanizzata dell’Arma dei carabinieri.
  • Il terzo gruppo fu in riferimento a quello che venne definito “piano solo”.
  • Il quarto gruppo fu in riferimento alle liste del SIFAR, alla loro trasmissione e alle misure prese o predisposte per l’eventuale esecuzione di provvedimenti in ordine a tali liste.
  • Il quinto gruppo di domande fu invece in riferimento alle situazioni dell’ordine pubblico nel giugno-luglio 1964.
  • Il sesto gruppo di domande fu in riferimento ad eventuali visite con il presidente della Repubblica.
  • Il settimo ed ultimo gruppo di domande invece, interessava i rapporti tra il generale e la loro natura, in quel periodo (estate 1964) con personalità politiche o partiti. Fu inoltre posta una domanda conclusiva circa l’installazione di dispositivi tecnologici al quirinale.

Dopo quasi 20 mesi di audizioni, dibattiti e valutazioni, la commissione d’inchiesta parlamentare, ha prodotto delle valutazioni finali che accertavano e testimoniavano l’esistenza del piano Solo e ne definivano la natura.

Per la commissione il Piano Solo esiste, o meglio, esisteva un piano segreto predisposto dal generale De Lorenzo, che prevedeva l’impiego esclusivo dell’arma dei carabinieri in situazioni di emergenza politica o sociale. Tale piano era nato in risposta all’eventualità di scioperi generali, manifestazioni di massa o altre forme di agitazione ritenute “destabilizzanti” per l’ordine pubblico.

Il piano, una volta esposto nella sua interezza, emerse agli occhi della commissione d’inchiesta come uno strumento preventivo, per garantire il mantenimento dell’ordine pubblico in scenari di grave tensione sociale o politica e non sembra esserci alcun fine eversivo o sovversivo, né sembra esserci l’intenzione nel rovesciare il governo o di instaurare un regime autoritario.

Quanto al ruolo del generale De Lorenzo, la commissione ha individuato nel generale Giovanni De Lorenzo il principale artefice del Piano Solo. Inoltre, il piano venne elaborato nel merito delle funzioni istituzionali del comandante dei Carabinieri, pertanto, non emersero responsabilità penali direttamente imputabili al generale.

Stando a ciò che emerge dalla commissione, oltre al capo dello stato e i vertici militari coinvolti, sembra che anche diverse figure politiche, membri del governo e delle opposizioni, nell’estate del 64, furono messe a conoscenza del Piano

Durante le indagini sembrerebbe essere emerso anche un forte coinvolgimento del SID (Servizio Informazioni Difesa) di cui lo stesso De Lorenzo è stato direttore tra il 55 ed il 62. Il coinvolgimento dei servizi segreti militari sembra sia stato determinante nella raccolta di informazioni e nella redazione di elenchi contenenti persone considerate potenzialmente pericolose per l’ordine pubblico. Questi individui sarebbero stati posti sotto controllo o fermate in caso di attuazione del piano.

Sebbene il Piano Solo non avesse ufficialmente un “colore politico”, i documenti esaminati dalla commissione, in particolare gli elenchi redatti dal SID, sembrano contenere principalmente cittadini legati alle sinistre, ai sindacati e ad altre organizzazioni politiche o sociali, che, in caso di attuazione, sarebbero stati oggetto di misure restrittive.

Gli elenchi oggi sono stati declassificati, pertanto sono pubblici e consultabili presso l’archivio della camera e molti di essi sono disponibili in forma digitale, per scaricarli è sufficiente fare richiesta con lo SPID.

Conclusioni

Nell’estate del 64, durante la crisi del primo governo Moro, il generale Giovanni De Lorenzo, su sollecitazione del presidente Segni, produsse un piano teorico da attuare in caso di gravi disordini sociali e politici, una sorta di piano d’emergenza anti-golpe, che prevedeva monitoraggio ed arresto di diverse centinaia di soggetti attenzionati dal servizio di sicurezza militare. L’intera operazione sarebbe stata gestita, se necessario, in maniera esclusiva dall’Arma dei Carabinieri. Di questo piano segreto furono messi al corrente vertici politici, militari ed esponenti di governo ed opposizioni.

Anni dopo, una commissione d’inchiesta ha analizzato e valutato il piano segreto, ritenendo che non fosse un piano di matrice sovversiva, e che anzi, si trattava di un piano d’emergenza, per far fronte ad un ipotetica crisi politica, sociale o golpe.

Situazione che in realtà si sarebbe verificata, qualche anno più tardi, nella notte tra il 7 e 8 dicembre del 1970, appena una settimana prima che la commissione terminasse i propri lavori, quando l’ex comandante della X Mas, e criminale di guerra Juno Valerio Borghese, tentò un vero e proprio colpo di stato, occupando RAI, Ministeri e diversi obbiettivi strategici, per poi ritirarsi poche ore dopo, quasi senza un apparente ragione, creando un casuale intreccio tra due eventi molto particolari e controversi.

Chi sono i cardinali papabili al prossimo conclave? Ecco tutti i nomi dei possibili successori di Papa Francesco

Chi sono i cardinali papabili al prossimo conclave? Ecco tutti i nomi che gli esperti stanno discutendo in queste travagliate ore in cui le condizioni di salute del pontefice, Papa Francesco, sono sempre più complesse e oggetto di preoccupazione e speculazione per i fedeli.

Da quando è stato ricoverato al policlinico Gemelli di Roma è emersa una polmonite bilaterale, sempre più grave, che ha sollevato diversi dubbi e timori sulla possibilità che il papa possa tornare in salute e alla guida della chiesa e , sebbene lo stesso francesco in più occasioni abbia dichiarato di non avere alcuna intenzione di dimettersi e rimanere alla guida della chiesa fino alla fine, si comincia a speculare su possibili dimissioni, come già fatto da Ratzinger prima di lui.

Nel chiacchiericcio generale, sul web iniziano ad apparire le prime voci ed ipotesi sul futuro della chiesa, ipotesi sostenute dalla recente nomina di 22 cardinali, di cui 21 elettori (con meno di 80 anni) , e si discute della direzione che verrà presa dalla chiesa nel prossimo pontificato. La chiesa di domani sarà una chiesa progressista e innovatrice, in continuità con Francesco e Benedetto XVI o sarà una chiesa più conservatrice e tradizionalista? Ci saranno nuove e maggiori aperture, o si andrà verso un nuovo oscurantismo generale?

Figure chiave nell’interpretazione delle due principali correnti politiche attualmente note nella curia romana, sono i cardinali Pietro Parolin, Matteo Maria Zuppi e Gerhard Muller, i primi due progressisti, il terzo un conservatore “trumpiano”, ma non sono i soli e per quanto influenti nelle rispettive correnti, probabilmente non sono realmente “papabili”.

La curia vaticana

La curia vaticana, o romana, è un centro di potere politico di rilevanza globale, e sebbene il papa sia il monarca assoluto dello stato vaticano e della chiesa, non ha in realtà quasi nessun controllo su ciò che fanno i membri della curia, sulla carta il potere del papa è totale, ma, all’atto pratico, non ha il tempo materiale per assicurarsi che migliaia di funzionari vaticani, operino come “il papa comanda” e anzi, nella maggior parte dei casi, questi funzionari sono legati a specifici Cardinali che indicano allo stesso santo padre, possibili nuovi candidati.

La curia è quindi il vero centro di comando, politico, della chiesa cattolica, lì si formano i cardinali che in alcuni casi diventeranno papi, e nella maggior parte dei casi spingono coloro che diventeranno papi.

Prendendo in prestito un termine dal complottismo, il “deep state” del vaticano, è estremamente profondo, radicato, difficile da ripulire. Ciò nonostante, negli ultimi vent’anni circa, i papi Benedetto XVI e Francesco, hanno fatto un enorme lavoro di riorganizzazione della curia romana, rimodellandola affinché potesse emergere e affermarsi la corrente progressista di cui entrambi i papi sono stati esponenti e promotori, rendendo sempre più marginale, almeno in apparenza, la corrente conservatrice.

Ad oggi la curia romana sembra essere prevalentemente progressista, e la maggior parte dei 138 membri elettori del collegio cardinalizio sono stati nominati da papa Francesco e in misura minore da Benedetto XVI.

Configurazione del collegio cardinalizio

Per essere più precisi, sollo 4 cardinali elettori su 138 sono stati nominati da Giovanni Paolo II, per loro quattro quindi il prossimo potrebbe essere il terzo conclave, altri 22 sono stati nominati da Benedetto XVI, per loro quindi il prossimo sarebbe il secondo conclave. I rimanenti 112 sono stati nominati cardinali da papa Francesco, selezionati da una curia rinnovata dallo stesso Francesco e Benedetto XVI.

Non tutti i cardinali nominati da Francesco tuttavia, sono di corrente progressista “bergogliana”, e anzi, uno dei leader della corrente conservatrice della curia vaticana, Gerhard Muller, è stato uno dei primi 16 cardinali creati da Francesco. La sua nomina a cardinale risale al 22 febbraio 2014, in quella stessa data è stato creato cardinale anche Pietro Parolin, attualmente segretario di stato della santa sede, da molti considerato uno dei più stretti collaboratori ed esponenti della corrente bergogliana del “partito progressista” vaticano.

Le correnti politiche del vaticano

Basandoci sulle fonti aperte di cui disponiamo, e trattandosi della politica del vaticano sono davvero pochissime, per lo più dichiarazioni dei singoli cardinali e pochi dati biografici forniti dallo stesso vaticano attraverso un portale dedicato al Collegio Cardinalizio. Possiamo dire che al momento le correnti politiche note in vaticano sono almeno due. Quella progressista e quella conservatrice.

Per quanto riguarda la corrente progressista sappiamo che ci sono diversi attriti tra i progressisti, soprattutto su alcuni punti radicali come l’apertura della curia alle donne e la benedizione delle coppie omosessuali, dando di fatto vita a due correnti progressiste, una che potremmo definire “riformatrice bergogliana” ed una più “moderata“.

Oltre le due correnti progressiste sappiamo esistere almeno una corrente conservatrice, più tradizionalista, che vede in Gerhard Muller, il principale referente e, secondo le parole dello stesso Muller, i conservatori nella curia vaticana potrebbero essere molti di più di quello che sembrano, poiché molti temono Francesco e per questo sono più riservati, militando de facto tra i progressisti moderati.

Per quanto riguarda queste tre “correnti” se da un lato è facile individuare in Gerhard Muller il leader dei conservatori, più difficile è decifrare la leadership progressista, che vede Matteo Maria Zuppi e Pietro Parolin, dallo stesso lato della barricata, entrambi stretti collaboratori di Bergoglio ma con approcci differenti. Zuppi ha più volte espresso pareri a favore di aperture radicali e grandi stravolgimenti nella chiesa, ciò lo rende potenzialmente il punto di riferimento di un ipotetica corrente riformatrice, mentre Paoloni, anche in vista del proprio ruolo politico (è pur sempre il segretario di stato Vaticano) pur esprimendo pareri forti, come il netto no alle deportazioni di palestinesi dalla striscia di Gaza, posizione per la quale ha proprio usato il termine deportazioni, nel complesso risulta tra i più moderati della corrente progressista.

Una partita a tre

I dati che abbiamo sulla curia romana ci suggeriscono almeno uno scontro a tre, tra progressisti riformisti, moderati e conservatori, ma che tuttavia potrebbe essere molto più articolato di così, ed è molto probabile che nelle infinite sfumature tra una corrente e l’altra, si celino quei tasselli mancanti all’opinione pubblica e il mondo esterno, che potrebbero rivelarsi determinanti per far confluire più correnti su uno stesso nome.

È il classico gioco politico del compromesso, dove le varie correnti scendono a patti tra loro, facendosi concessioni reciproche, affinché il prossimo papa possa andare bene più o meno a tutti, e se non va bene, che almeno non vada di traverso.

Ne consegue che in maniera quasi scontata, nello scontro politico che avrà luogo nelle sale chiuse della Cappella Sistina, al fine di ottenere una maggioranza qualificata di due terzi del collegio elettorale (almeno nei primi 33 scrutini, poi sarà sufficiente una maggioranza semplice) per l’elezione del prossimo papa, i nomi con posizioni più radicali verranno quasi certamente esclusi esclusi dai giochi. Anche se in realtà, non è detto e tali nomi potrebbero essere “esclusi” nelle prime fasi, a maggioranza qualificata, e riapparire nella seconda fase in cui per la vittoria è sufficiente la maggioranza semplice.

Ad oggi non sappiamo con certezza quanti progressisti e conservatori e che tipo di progressisti e conservatori ci sono, secondo Muller i conservatori, che la pensano come lui, ed hanno posizioni molto radicali e tradizionaliste, sono molti di più di quanto si pensi e potrebbero esserci significative infiltrazioni conservatrici anche tra i progressisti e i bergogliani.

I papabili secondo la stampa

Secondo la maggior parte dei media, i cardinali papabili al prossimo conclave, se mai dovesse esserci un conclave con questi cardinali elettori, sostanzialmente un conclave nei prossimi due anni, divisi tra progressiti, moderati e conservatori, sono:

Partiamo dai progressisti, il nome più “probabile” sembra essere quello di Matteo Maria Zuppi, seguito da José Tolentino de Mendonça e Robert Francis Prevost.

Matteo Maria Zuppi (69 anni), creato cardinale il 5 ottobre 2019 da Papa Francesco. Monsignor Zuppi nasce a Roma l’11 ottobre 1955 ed è ordinato sacerdote nel 1981. Nella sua carriera ha ricoperto vari ruoli, tra cui quello di ausiliare di Roma e arcivescovo di Bologna e dal 2022 è presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).
Zuppi è una figura di spicco della corrente progressista, ha spesso espresso posizioni a sostegno del dialogo interreligioso e l’impegno per la pace, come dimostrato dalla sua missione in Ucraina per il rientro dei minori ucraini. È visto come un sostenitore della chiesa sinodale e dell’inclusività ed ha suscitato non poche critiche tra i conservatori quando si è espresso a favore della benedizione di coppie omosessuali e l’apertura della curia vaticana alle donne.

José Tolentino de Mendonça (58 anni), creato cardinale il 5 ottobre 2019 da Papa Francesco. Originario del Portogallo, ha ricoperto l’incarico di Archivista e Bibliotecario della Santa Romana Chiesa.
Anche lui progressista di spicco e scrittore prolifico, De Mendonça ha più volte sottolineato l’importanza di un approccio aperto e inclusivo nei confronti delle questioni sociali e spirituali. È promotore di un cattolicesimo che ponga al centro la fede e vada oltre le diversità.

Robert Francis Prevost (68 anni), creato cardinale il 30 settembre 2023 da Papa Francesco. È stato vescovo di Chiclayo in Perù prima di diventare Prefetto del Dicastero per i Vescovi. Le sue posizioni politiche sono apertamente ed espressamente in favore di riforme sociali e pastorali nella Chiesa.

Per quanto riguarda i moderati, il nome più probabile sembra essere quello di Pietro Parolin, seguito da Luis Antonio Gokim Tagle e Claudio Gugerotti

Pietro Parolin (69 anni), creato cardinale il 22 febbraio 2014 da Papa Francesco. Attualmente è il Segretario di Stato della Santa Sede, ed ha alle spalle una lunga carriera diplomatica e politica all’interno della Chiesa. Diplomatico e moderato d’eccellenza, Parolin è considerato uno degli uomini di fiducia di papa Francesco, che ha sempre cercato di mantenere un equilibrio tra le diverse correnti all’interno della chiesa, promuovendo il dialogo soprattutto su temi e questioni globali.

Luis Antonio Gokim Tagle (67 anni), creato cardinale il 24 novembre 2012 da Papa Benedetto XVI, è uno degli ultimi Cardinali creati dal predecessore di Francesco, nonché uno dei 26 cardinali elettori ad aver già preso parte ad un Conclave. Da molti è considerato uno degli uomini di fiducia di Benedetto XVI e potrebbe aver avuto un ruolo chiave nell’elezione di Francesco.
Pur essendo moderato, è aperto a posizioni progressiste su temi come l’immigrazione e la giustizia sociale, ciò lo rende un candidato ideale sia per riformisti che moderati.

Claudio Gugerotti (68 anni), creato cardinale il 30 settembre 2023 da Papa Francesco, è attualmente Prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali, ha una vasta esperienza diplomatica, interreligiosa, interculturale, e soprattutto politica.

Per quanto riguarda i conservatori, Gerhard Muller, figura di spicco della corrente conservatrice in realtà non sembra essere uno dei papabili, tuttavia, ci sono diversi cardinali, a lui molto vicini le cui posizioni più moderate potrebbero rivelare qualche sorpresa. Tra di loro Angelo Fernandez Artime, Roberto Repole e Domenico Battaglia

Angelo Fernandez Artime (63 anni), creato cardinale il 30 settembre 2023 da Papa Francesco è Rettor Maggiore dei Salesiani ed ha alle spalle una lunga carriera nell’educazione cattolica.
Sebbene sia visto come conservatore per il proprio impegno nella formazione tradizionale dei giovani, è da molti considerato il più moderato dei conservatori, e potrebbe essere scelto grazie al sostengo di parte dei moderati e dei conservatori.

Roberto Repole (59 anni), creato cardinale il 7 dicembre 2024 da Papa Francesco, è uno degli ultimi cardinali creati da Papa Francesco (almeno al 19 febbraio 2025), nonché uno dei più giovani tra i papabili. Anche lui è un ibrido Conservatore Moderato, è infatti considerato conservatore su questioni dottrinali, ma aperto al dialogo su questioni sociali. Per molti potrebbe essere uno dei “conservatori” di cui parlava Muller.

Domenico Battaglia (60 anni), creato cardinale il 7 dicembre 2024 da Papa Francesco, anche lui è tra gli ultimi cardinali nominati da Francesco. Arcivescovo di Napoli, noto per il suo impegno nelle periferie sociali, con posizioni non completamente decifrate, anche lui su diversi temi dottrinali risulta un conservatore, tuttavia, l’attenzione e l’impegno molto innovativo sulle problematiche sociali, fanno di lui un soggetto controverso. Non è chiaro se sia un conservatore infiltrato tra i moderati o un moderato infiltrato tra i conservatori.

C’è in fine il grande outsider, che in realtà, non sembra essere accreditato tra i papabili, ovvero Gerhard Muller, cardinale conservatore radicale considerato da molti il leader del partito “trumpista del vaticano” per le proprie posizioni politiche e sociali. Muller ad oggi non sembra godere di grandi consensi tra gli altri cardinali, ma a suo dire, i conservatori che la pensano come lui sono molti di più di quanto non sembri. Fuori dal vaticano Muller piace alle destre radicali e soprattutto piace a Trump.

Chi sarà il prossimo papa?

Con l’attuale composizione del Collegio Cardinalizio, e i suoi 138 cardinali elettori, per eleggere il prossimo Papa saranno necessari almeno 96 voti, 19 in più di quelli che furono necessari per eleggere papa Francesco. Sarà quindi una partita molto serrata, che con molte probabilità eleverà al soglio pontificio un progressista moderato o un moderato progressista.

Se da un lato non sappiamo dire con esattezza quale corrente trionferà, possiamo dire con una certa sicurezza che difficilmente verrà eletto un conservatore radicale, poiché gli ultimi 2 pontificati, durati complessivamente un ventennio, hanno visto una chiesa in continua trasformazione e apertura, una chiesa che in quell’apertura ha visto una maggiore crescita. Nel mondo cristiano papa Francesco è generalmente molto più apprezzato rispetto a Benedetto XVI che nel proprio pontificato, pur portando avanti politiche di apertura e rinnovamento della chiesa, ricordiamo che Benedetto XVI è stato il primo papa su Twitter, ha continuato a mostrare un immagine conservatrice di se e della chiesa. Almeno nella dottrina e nell’estetica.

In un momento storico come questo, in cui il mondo sta vivendo sempre più divisioni e conflitti, la chiesa non può mostrarsi impreparata, e non può diventare un ulteriore strumento di divisione, e questo i membri della curia ed i cardinali lo sanno perfettamente. La Chiesa, più che i suoi fedeli, in questo momento, ha bisogno di una guida che ponga l’accento sulla fede, sull’inclusione, sull’attenzione ai deboli, sull’assistenza, sulla cura e sulla pace. Una pace che non può essere una resa alla prepotenza e trionfo della violenza, ma una pace che sia forte e d’esempio. Ritengo quindi che molto probabilmente il prossimo papa sarà una persona di fiducia di Francesco, che erediterà la volontà dei suoi due predecessori e continuerà il percorso di rinnovamento della chiesa cattolica.

I principi della democrazia : Analisi comparativa tra democrazia e sistemi autarchici.

Quando si parla di Democrazia, generalmente si intende un sistema di governo fondato sull’uguaglianza delle opportunità e sulla partecipazione collettiva, tale interpretazione politica si contrappone nettamente ai regimi autarchici, nei quali invece, il potere è concentrato in poche mani o in una singola persona.

Tuttavia, non sempre la democrazia è interpretata in questo modo, e spesso anche in democrazia si rischia di virare verso posizioni autoritarie, superando e denigrando uno dei principi portanti della democrazia stessa, il “compromesso politico” in favore di sistemi maggioritari e più “forti”, basati sul principio che chi “chi ha la maggioranza decide”.

Ma la democrazia non funziona così, o meglio, per come è stata concepita e definita nel corso dei secoli, non dovrebbe, e anzi, per millenni la filosofia ci ha ampiamente messo in guardia dalle ombre che aleggiano e minacciano la democrazia, ombre che periodicamente, e seguendo un copione ben definito, hanno prevalso sulla democrazia, portando alla nascita di sistemi autoritari, sempre più pericolosi.

In questo articolo cercheremo di esplora il concetto di democrazia, le sue origini, le sue criticità, e di identificare le maggiori e più note e facilmente riconoscibili minacce alla democrazia di cui abbiamo conoscenza storica.

Etimologia e significato del termine “democrazia”

Cominciamo con l’etimologia della parola, poiché tutto parte da essa. Il termine “democrazia” deriva dal greco, più precisamente dalla composizione di due parole, demos (popolo) e kratos (potere), e la traduzione letterale dell’unione di queste due parole è “potere del popolo“, ne consegue che tale significato persista e definisca anche (e soprattutto) il termine che deriva dall’unione di queste due parole, ovvero Democrazia.

Democrazia però non è solo il potere del popolo, ma è anche il modo in cui e con cui, il popolo esercita tale potere, ed è usato generalmente per rappresentare diverse forme di governo caratterizzate da una serie di elementi comuni suggerendo l’idea che i governi “democratici” siano in sostanza espressione della volontà del popolo, della collettiva, e non di singoli individui o gruppi ristretti, come potrebbe invece essere in sistemi autocratici o oligarchici dove invece a governare sono rispettivamente un solo individuo o un gruppo elitario.

Se l’idea tali governi siano espressione della volontà colletta, è un qualcosa di solido e persistente nelle varie declinazioni di democrazia, la misura e la dimensione di quella volontà è un qualcosa di più volatie e mutevole, che in sistemi democratici differenti, può assumere forme differenti. Si pensi alle democrazie dirette, alle democrazie presidenziali, alle democrazie parlamentari, ecc.

In queste varie declinazioni, ognuna delle quali interpreta in maniera differente la volontà della collettività, si celano alcune insidie della democrazia, che espongono le varie forme di democrazie a contaminazioni più o meno pericolose. La maggior parte di queste minacce sono sintetizzabili nel rischio che la democrazia possa in qualche modo confluire in sistemi autoritari, in cui si possa prediligere una parte della collettività a scapito della sua interezza, e solo una parte del popolo, della collettività, degli elettori, la “maggioranza”, risulta essere fonte e di legittimazione del potere, con l’effetto di una forte polarizzazione politica, che rende impossibile o quasi, ogni forma di compromesso e confronto politico.

Questa distorsione della democrazia, si radica nell’idea distorta per cui ci sia una parte che ha il compito di governare, e una parte, che deve rimanere in panchina. Come vedremo nella prossima sezione, questa visione non ha nulla a che vedere con la democrazia, e anzi, rappresenta la sua morte.

La filosofia della democrazia

Fin ora abbiamo ragionato sull’etimologia della parola democrazia, visto le sue possibili declinazioni e accennato in via puramente teorica alle sue insidie. Da qui in avanti ripercorreremo la storia filosofica della democrazia, dall’antichità greca ad oggi, nel tentativo di capire che cos’è la democrazia oggi.

Tra i primi filosofi che si sono occupati del concetto di Democrazia, incontriamo, come già successo per il concetto di politica, Platone, e la sua La Repubblica, opera in cui il filosofo greco, narrando un dialogo con il proprio maestro Socrate, si ritrova ad esprimere le proprie idee di governo ideale, e nel fare ciò, dedicherà importanti sezioni dell’opera alla critica dei governi noti, tra cui anche la democrazia ateniese, una forma di governo che per Platone è incline al disordine e alla tirannide. Come vedremo, le critiche che il filosofo greco muove alla democrazia hanno un sapore quasi profetico e ci mostrano con qualche millennio di anticipo e straordinaria lucidità, le problematiche che nel mondo contemporaneo abbiamo riscontrato in modo diversi, in diversi sistemi politici, tra cui l’Unione Sovietica o gli Stati Uniti d’America.

Per Platone la democrazia diretta ateniese è una sorta di regime in cui il popolo detiene il potere senza alcuna qualificazione o competenza specifica per governare, e alla base di questa democrazia diretta vi è un principio di uguaglianza formale che non tiene conto delle differenze qualitative tra gli individui. senza troppi giri di parole, per Platone non tutti hanno la capacità non solo di governare, ma anche di scegliere i governanti, di conseguenza, in un sistema in cui tutti i cittadini hanno lo stesso diritto di partecipare alla vita politica, indipendentemente dalle proprie capacità o virtù, si inibisce la capacità e la possibilità di un buon governo e si favorisce l’ascesa di demagoghi, ovvero di leader populisti in grado di manipolare le passioni, le paure e le opinioni della massa, al fine di ottenere maggiori consensi. Questo fenomeno, conduce inevitabilmente alla tirannide, poiché i demagoghi una volta al potere tendono a consolidare il loro controllo eliminando ogni forma di opposizione.

Altra enorme criticità delle democrazie dirette, secondo Platone, sta nella loro instabilità, poiché esse lasciano ampio all’anarchia delle opinioni e dei desideri individuali, elementi di disturbo che tendono a prevalere sul bene comune. In altri termini, per Platone la democrazia è un regime in cui “ognuno fa ciò che vuole“, dando luogo a una società frammentata e priva di coesione, che tenderà a scegliere come guida chi gli permette di fare ciò che vuole, e allontanerà chi invece punterà al bene comune.

A tale proposito il brano “La sete di libertà” del libro quarto della repubblica, offre un immagine estremamente vivida e profetica.

“Quando un popolo, divorato dalla sete di libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano a sazietà,
fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati despoti.
E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani.
In questo clima di libertà, nel nome della libertà, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.”

Esempi storici di questo tipo, che avverano la profezia di Platone, ne potremmo fare all’infinito, da Cesare ed Augusto, passando per Napoleone ed i dittatori del novecento, fino arrivare ai grandi populisti contemporanei, la storia dell’umanità ha visto l’ascesa di innumerevoli “coppieri“.

Lasciandoci Platone alle e avanzando di una generazione anche Aristotele, maestro di Alessandro Magno e allievo di Platone, si occuperà di definire il concetto di democrazia e le forme di governo democratico. Aristotele ne parla nel libro Politica, dove descrive la democrazia come una forma di governo mista, capace di integrare elementi di monarchia, aristocrazia e politica e come il proprio maestro, anche Aristotele non è esente dal sottolineare alcune criticità e insidie della democrazia, mettendo in guardia soprattutto dal rischio di oclocrazia, ovvero il dominio della folla irrazionale e priva di virtù.

L’etimologia di questo termine è simile a quella di democrazia, il suffisso cratos è lo stesso, ma cambia la radice, da demos (popolo) a oclos (folla), ed indica appunto un regime in cui le decisioni sono prese in modo impulsivo e passionale, senza alcun riguardo per la legge o il bene comune, da quella che sostanzialmente considera una folla irrazionale.

Aristotele critica aspramente questa forma di governo, poiché ritiene che essa sia particolarmente priva di moderazione e di equilibrio tra le classi sociali, elementi che ritiene fondamentali affinché si possa esercitare il potere in maniera giusta.

Per Aristotele quindi, l’oclocrazia è quindi una distorsione della democrazia che e si manifesta quando i cittadini meno virtuosi prendono il sopravvento e corrompono la democrazia, quasi ne abusano.

Tornando ad Aristotele, il filosofo greco ritiene che la deriva della democrazia in oclocrazia possa essere evitato attraverso la politeia (politica), attraverso l’attuazione di forme di governo miste che combina elementi democratici e oligarchici, garantendo così una maggiore stabilità e giustizia sociale. È quasi come se ci stesse dicendo che l’oclocrazia nasce dall’eccesso di democrazia e di libertà, visione ereditata dal proprio maestro.

La storia, soprattutto recente, è ricca di esempi di democrazie evolute in oclocrazie, alcune delle quali hanno permesso l’ascesa di vere e proprie dittature, non solo in Europa e non solo nel novecento.

Tornando al concetto di democrazia, ha accompagnato la nostra storia solo per brevi tratti e nella maggior parte dei casi, l’umanità ha preferito altre forme di governo. Se l’Europa classica ha conosciuto varie forme di democrazia, in particolare quella di alcune polis greche e la repubblica romana, a partire dal primo secolo a.c., in particolare da Cesare in avanti, le democrazie classiche sono sparite, lasciando il passo a nuove forme di governo, come l’Impero e le monarchie, tutt’altro che democratiche.

Eccezion fatta per la breve esperienza dei comuni dell’Italia medioevale, la democrazia è tornata ad affacciarsi sull’Europa solo di recente. Più precisamente torna a far parte del dibattito politico e filosofico a partire dal XVII secolo, soprattutto con autori come John Locke e Jean-Jacques Rousseau, che nei propri scritti hanno ridefinito il concetto di democrazia, gettando le basi per le democrazie moderne, che all’atto pratico sono un esperienza politica totalmente nuova e profondamente diversa dalle democrazie “classiche”.

Le democrazie moderne pongono l’accento sul ruolo dei diritti individuali e della volontà generale, con alcune differenze tra i vari filosofi che si sono susseguiti nel tempo. Per Locke ad esempio, l’esercizio del potere doveva basarsi sul consenso dei governati, mentre per Rousseau, la democrazia diretta rappresentava l’unica forma legittima di governo, poiché solo in questo modo era possibile avere un espressione autentica della volontà collettiva. Di tutt’altro avviso invece è Hobbes che critica la democrazia ritenendola instabile e preferendo un sovrano assoluto per garantire ordine e sicurezza.

Kant vede la democrazia come una repubblica razionale e giuridica, ponendo tutta l’attenzione sul diritto e le regole, poiché solo il diritto, metodico e rigoroso è in grado di produrre un sistema politico che possa garantire pace e libertà. E se per Kant, alla base della democrazia c’è il diritto, per Marx, la democrazia è altro, non è infatti solo una forma di governo, ma una “fonte di governo” che sposta la costruzione istituzionale dal basso, immaginando una società autogestita. C’è quindi una sorta di ritorno alla democrazia diretta.

Come per Platone e Aristotele anche gli altri autori, citati e non, che si sono occupati del concetto di democrazia, ne hanno intravisto possibili criticità, rendendo evidente un principio, la democrazia non è perfetta perché riguarda gli esseri umani, e il rischio più comune, evidenziato in tutte le declinazioni della democrazia, vede la maggioranza assumere posizioni autoritarie, per imporre decisioni.

Compromesso politico vs. dittatura della maggioranza

In sostanza, la democrazia è una questione da gentiluomini, richiede un certo rispetto reciproco, l’ammissione e il riconoscimento reciproco dei propri limiti e il ricorso al compromesso politico, inteso come la capacità di mediare tra interessi diversi per raggiungere soluzioni condivise. In teoria, nei sistemi democratici, il compromesso è essenziale per garantire stabilità e inclusività ed evitare che le decisioni siano dettate unilateralmente dalla parte vincente. Qualunque essa sia. Poiché, in caso contrario, avremmo a che fare con una tirannia, una dittatura della maggioranza.

Tale principio fondante, non è tuttavia implicito e spesso viene oscurato dal principio deviante e deviato per cui “chi vince decide“, e in quei casi si rischia di trasformare la democrazia in una vera e propria “dittatura della maggioranza“, un sistema politico in cui, a seconda della maggioranza, le minoranze vengono marginalizzate e i loro diritti e le loro istanze quasi del tutto ignorate. Tale dinamica si contrappone in maniera netta e radicale ai principi fondanti della democrazia, e riflette in vero quel rischio da cui giuristi e filosofi ci hanno messo in guardia per secoli.

La dittatura della maggioranza non è solo un sintomo della tirannia e dell’oclocrazia, ma è anche causa ed effetto di alti fenomeni, tra cui, la polarizzazione politica, che rendono estremamente difficile, se non del tutto impossibile, il dialogo tra schieramenti diversi e contrapposti, alimentando tensioni sociali.

Ma la natura pluralistica degli schieramenti politici non dovrebbe essere fonte di divisione, ma un punto cardine per la ricerca di un compromesso che però, in alcuni casi viene visto come una rinuncia ai propri valori e principi, un “inciucio” che non fa bene alla propria parte, poiché non fa l’interesse esclusivo della propria parte, puntando invece agli interessi comuni di tutte le parti. E così, il bene comune, che per Aristotele era il punto d’arrivo della politica, diventa il suo principale ostacolo. Qualcosa da scardinare e superare.

Nei sistemi autarchici tuttavia, il compromesso politico è praticamente assente, il potere è centralizzato e le decisioni sono imposte dall’alto senza alcuna reale consultazione pubblica. Questo perché fondamentalmente non serve, perché il governante è stato eletto dal popolo e in quel momento il popolo ha esercitato ed esaurito il proprio potere, può quindi tornare ad essere spettatore fino alle prossime elezioni, se mai ci saranno prossime elezioni.

In questi contesti, o nei contesti che tendono in questa direzione, il concetto stesso di compromesso diventa irrilevante, poiché non esiste un reale spazio comune per il confronto tra diverse visioni del mondo. El più esiste un luogo in cui le forze politiche possono accusarsi a vicenda, in quelle che risultano essere sterili e inutili dibattitti polarizzati. Ma che dovrebbero invece essere luoghi di confronto finalizzati al compromesso.


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Politica: Tra filosofia, storia e sfera pubblica

Spesso ci riempiamo la bocca con la parola “Politica” usata in modo inopportuno, o peggio, dispregiativo, relegandola a determinati soggetti e categorie di persone, i soli che “possono fare politica” perché sono politica, e se non si fa ha questa etichetta, l’etichetta di politico, allora non si fa, non si può “fare politica”. Ma cos’è la politica, cos’è davvero la politica, cosa vuol dire fare politica e soprattutto chi è il politico, ovvero colui che fa politica?

Nell’uso comune spesso si intende la politica come qualcosa che fare con forme partitiche in qualche modo legate a governi e amministrazioni, ad una sorta di leadership gerarchica della società, ma se andiamo alla radice del termine e del concetto stesso di politica, possiamo osservare che in realtà politica è qualcosa di diverso, molto più semplice e per questo estremamente complesso.

Una delle definizione più semplicistiche e generali che possiamo dare del concetto di politica è “tutto ciò che ha a che fare con la sfera pubblica“, ma in questo senso apparentemente semplificato e generale, tutto può diventare politica. Ed è davvero così? Davvero tutto può diventare politica? un concerto, uno spettacolo teatrale, un dibattito, una scampagnata con gli amici, o delle semplici chiacchiere tra due individui, di persona o sui social, sono tutti esempi diversi di “politica”?

Partendo da questa definizione generale, che comprende letteralmente qualunque interazione tra due o più individui, tutto sembra essere politica. In questo articolo proveremo a “raffinare”, se così si può dire, su base etimologica, storica e filosofica, il concetto di politica.

Alle origini del termine

La prima cosa da individuare è l’etimologia della parola “Politica”, un termine che trova le proprie radici nel termine greco politeia (πολιτεία), parola già in uso e con un concetto ben radicato nella cultura greca classica. Questa parola designa l’essenza stessa dell’organizzazione politica come atto collettivo che si lega ad un altro termine, ben più noto, legato anch’esso alla cultura greca classica, ovvero polis (πόλις), la città-stato greca.

Per capire meglio il significato della Politica quindi, dobbiamo comprendere meglio anche il concetto di Polis, che non è solo un entità geografica e amministrativa, che incontriamo nella penisola ellenica tra il VI e il III secolo avanti cristo, ma anche è un vero e proprio modello di organizzazione etica e sociale, che regola la convivenza umana.

Ed è proprio in quel sistema sociale che nasce la parola politica. Al tempo e nel mondo polis greche infatti, incontriamo i primi utilizzi “formale” della parola politica, o meglio Politeia. Tra questi utilizzatori del termine incontriamo Platone con la sua “Politeia”, un opera meglio nota in italiano come “La Repubblica”.

La Politica in età classica

La Repubblica di Platone, è un opera monumentale, è uno dei testi più importanti della storia della Filosofia, ed è scritto nella forma di un dialogo con Socrate, vero protagonista del libro in cui il filosofo greco, attraverso il proprio maestro, cerca di rispondere alle domande sulla natura della giustizia, di fatto l’opera è per certi versi un indagine sulla natura della giustizia e sulla sua importanza nella vita dell’uomo e nella società e, tra le altre cose, Platone esplora diverse forme di governo, tra quelle note all’epoca ed ipotetiche, individuando con straordinaria lucidità e in maniera quasi profetica, alcune delle maggiori criticità delle democrazie moderne, come ad esempio la “sete di libertà”.

Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.

Platone

Per Platone il concetto di politica è fortemente legato alla moralità, alla conoscenza, alla giustizia e alla capacità del buon governante, che per lui deve essere un Re Filosofo, di prendere decisioni che beneficino l’intera comunità.

Come Platone, anche il suo miglior allievo, Aristotele, userà il termine politica, nell’opera Politica, in greco Tá politiká (Τά πολιτικά) per descrivere le varie forme di governo e la scienza che studia l’organizzazione delle Polis, per il maestro di Alessandro Magno, il politico non è solo un legislatore, ma è qualcosa di più, poiché la politica è finalizzata alla filosofia ed ha il dovere di creare condizioni ottimali affinché si possa coltivare la scholè (tempo libero) e le attività teoretiche (filosofia, matematica, fisica ecc).

Più semplicemente, per Aristotele politica, non si limita alla semplice amministrazione statale, ma implica una visione olistica del vivere politico, del vivere pubblico, per cui l’amministrazione e la ogni attore attivo di quel luogo e quello spazio pubblico in cui l’individuo realizza la propria natura di zoon politikón (animale politico). Ciò significa che i tre concetti moderni di politica, pubblico e sociale, per Aristotele coincidono in maniera totale, sono sovrapponibili e sostituibili, di fatto sono la stessa cosa e questo perché per Aristotele, politica non è solo amministrazione, ma anche socialità.

Cambiando “mondo” e spostandoci in avanti nel tempo di qualche circa 2 secoli, arriviamo alla Roma del primo secolo a.c., qui Marco Tullio Cicerone aggiunge il proprio contributo al concetto di Politica con il suo De Republica, in cui il filosofo latino associa la res publica alla legge intesa come fondamento della comunità e definisce la politica come una sorta di scienza del governo, concetto che, in forma più o meno diversa verrà ripreso a più battute in tutto il medioevo culminando con il realismo politico di Machiavelli per il quale la politeia diventa arte del potere, per cui la politica mente o come è più comunemente noto “il fine giustifica i mezzi“.

Possiamo quindi definire politica come un qualcosa che si compone di due elementi, esercizio del potere e partecipazione attiva alla sfera pubblica.

Chi fa Politica? Cittadini e governanti

Che la si guardi in ottica moderna, medievale o classica, la politica ha un forte legame con il pubblico e con il sociale, sia quando è esercizio del potere per governare il popolo, sia quando è espressione della volontà del popolo, sia quando è al servizio del popolo. Ma chi fa politica? chi è il politico?

Nella Grecia classica esiste il termine polites con cui ci si riferisce a coloro che partecipavano attivamente alla vita pubblica, esercitando diritti e doveri, potremmo tradurre questo termine con il moderno “politico” o “cittadino”. Apriamo allora una parentesi sul cittadino, nel mondo antico la cittadinanza era un concetto abbastanza ampio, al punto che in epoca Romana, incontriamo nello stesso stato diverse forme di cittadinanza che riflettono privilegi. Oggi la cittadinanza è qualcosa di diverso rispetto a come era concepita nel mondo antico, dove, semplificando moltissimo, era qualcosa di molto simile al concetto moderno di “sovranità popolare”, di conseguenza il cittadino contribuisce alla formazione della volontà generale e vi è pertanto un rapporto di reciprocità tra cittadino e governante, che insieme, e solo insieme, sono espressione autentica della politica.

Nel mondo classico il politico è in sostanza un attore attivo della vita pubblica, c’è sinergia tra il “politico e il governante”, per Platone i governanti dovessero essere filosofi guidati dalla saggezza e al servizio del benessere collettivo. Nel medioevo tuttavia, Machiavelli rovescia questa prospettiva, descrivendo ne Il principe, il leader come un abile manipolatore delle circostanze, anteponendo la sopravvivenza dello stato alla virtù personale e dopo di lui Hobbes, nel Leviatano, teorizza un sovrano assoluto in grado di garantire sicurezza al popolo, il cui potere tuttavia non è immutabile ed è legittimato da un contratto sociale.

Abbiamo visto prospettive differenti, da Platone ad Hobbes, ma nella sostanza, il politico mantiene un elemento costante, ovvero il suo legame con la sfera pubblica. Politico e pubblico, continuano ad essere, nel XVII secolo, concetti sovrapponibili.

Il confine tra pubblico e politico?

Per gran parte della nostra storia, siamo arrivati ad Hobbes, ma in realtà ancora oggi, pubblico e politico sono concetti ampiamente sovrapponibili, risulta quindi necessario cercare di capire se c’è, e se c’è dov’è questa la linea di demarcazione tra Pubblico e Politico, cosa definisce l’azione politica?

Per Hannah Arendt la politica è l’essenza stessa dell’azione collettiva e della vita pubblica. Non si tratta più semplicemente di istituzioni, di procedure, ma di un esperienza umana fondamentale, che affonda le proprie radici nella capacità degli individui di agire insieme. La politica è a tutti gli effetti uno spazio d’incontro tra individui, un luogo di dialogo e di decisioni collettive, uno spazio vitale per il funzionamento delle democrazie.

La Politeia oggi

Oggi la Politica è un concetto dinamico, ridefinito innumerevoli volte nel corso dei secoli e dalle trasformazioni storiche e filosofiche, ma alcuni elementi sono sopravvissuti nel tempo, passando, almeno in Europa e nel Mediterraneo, dalle Polis all’impero di Alessandro a quello Romano, ai regni romano barbarici a gli stati nazione e le monarchie assolute europee, per poi sfociare negli imperi risorgimentali, nei totalitarismi e giungere, in fine, alle democrazie moderne.

Della politica oggi rimane fondamentalmente un amalgama sociale, che non è solo istituzioni statali, ma anche e soprattutto movimenti sociali, organizzazioni nazionali e internazionali, è dibattiti pubblici e digitali, mantenendo nel suo insieme un focus unico ancora fisso sull’ideale aristotelico del bene comune, che la storia ha piegato e adattato rendendolo ad oggi compatibile con un mondo follemente e ferocemente interconnesso, dove il “pubblico” supera ampiamente i confini tradizionali e dove, come scriveva Sandro Pertini, «la moralità dell’uomo politico consiste nel perseguire il bene comune».

Quella linea di demarcazione tra pubblico e politico a conti fatti, non l’abbiamo trovata e questo perché la sfera pubblica e sociale è qualcosa di interconnesso, in maniera indissolubile all’esercizio politico, è politica. D’altro canto però, negare l’appartenenza alla sfera pubblica e cercare di ostacolare la natura pubblica e sociale della politica, chiudere quello spazio collettivo, baluardo della libertà e della democrazia, aiuta alla creazione di terreno fertile per i sistemi totalitari, e non è un caso se nel proprio percorso storico, uomini come Mussolini, Hitler, Stalin, e qualsiasi altro dittatore mai esistito, abbiano costruito i propri regimi partendo proprio dalla censura e il “diritto alla censura”, rivendicando per se quella stessa libertà che negavano ai propri oppositori.

Si entra qui nel paradosso della tolleranza di Popper che possiamo esprimere parafrasando Luca Marinelli nei panni di Mussolini in M il figlio del Secolo “La democrazia è una cosa straordinaria, ti da la libertà di fare ogni cosa, anche di distruggerla”, e nel farlo, concretizza la profezia platonica dei Coppieri che ubriacano il popolo assetato di libertà, permettendo alla mala pianta della tirannia di germogliare.

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Quanto guadagna in media un sindaco in italia?

Continuano a crescere gli “stipendi” anzi, le indennità di funzione dei sindaci in Italia, dal 2021 ad oggi sono più che raddoppiate.

Per essere più precisi, i sindaci italiani non percepiscono uno stipendio ma un indennità di funzione, che è calcolata su una serie di parametri e mentre gran parte dell’Italia e degli italiani, soprattutto le fasce più giovani, faticano ad arrivare a fine mese nonostante un intreccio disumano di doppi e tripli lavori, spesso sottopagati, i sindaci italiani “fanno la bella vita”, con retribuzioni da capogiro, che, secondo la legge 234/2021, (comma 583-387) vanno da un minimo di 2208€ lordi al mese, per gli amministratori di comuni da meno di 3000 abitanti (vale a dire 1906,26€ netti), fino ad arrivare a 13.800€ lordi al mese, per gli amministratori di città metropolitane (vale a dire 10.070,26€ netti).

Quanto guadagna in media un sindaco in Italia?

La retribuzione dei sindaci è calcolata, con l’attuale normativa, in proporzione alla retribuzione dei presidenti di regione in relazione alla popolazione. Ciò significa che maggiore è la popolazione di un comune, maggiore sarà la retribuzione del sindaco.

Per essere più precisi un presidente di regione, in Italia, percepisce un indennità di servizio pari a 13.800€ lordi al mese per 13 mensilità. Sulla base di questo dato, sono calcolati i compensi dei sindaci dei comuni italiani, con questa progressione.

ComunePercentuale indennitàIndennità
Città metropolitana100%13.800€
Capoluogo di provincia con oltre 100 mila abitanti80%11.040€
Capoluogo di provincia con meno di 100 mila abitanti70%9.660€
Popolazione superiore a 50 mila abitanti45%6.210€
Popolazione tra 30 e 50 mila abitanti35%4.830€
Popolazione superiore a 10 e 30 mila abitanti30%4.140€
Popolazione superiore a 5 e 10 mila abitanti29%4.002€
Popolazione superiore a 3 e 5 mila abitanti22%3.036€
Popolazione inferiore a 3 mila abitanti16%2.208€

Facendo un rapido calcolo, se si considera che in Italia ci sono 7896 comuni, con una popolazione media di 7000 abitanti, ci sono infatti molti comuni “piccoli” e poche città metropolitane, (secondo l’Istat, ci sono 2,6 comuni ogni 100 chilometri quadrati), possiamo stimare una media di 4002,00€ (la retribuzione lorda di un sindaco di un comune con una popolazione tra 5000 e 10000 abitanti) per 7896 comuni. 

Il totale è una voce nel bilancio dello stato, da 31.584.000€ al mese, che, per 13 mensilità (i sindaci, nel complesso normativo, sono considerati pubblici ufficiali, quindi è riconosciuta loro la tredicesima mensilità) ovvero 410.592.000€ annui.

L’Italia quindi spende in media 410 milioni di euro all’anno per l’indennità di funzione dei sindaci, a cui aggiungere l’indennità dei vicesindaci, calcolata in percentuale alla retribuzione del sindaco, tra il 15% ed il 75%. Su questo punto torneremo più avanti.

Per quanto riguarda il compenso dei sindaci, la legge di bilancio 2022, ha introdotto, per i sindaci, una maggiorazione, fino al 5%, basata sul bilancio comunale. Per essere più precisi, è prevista una possibile maggiorazione nel caso in cui, la percentuale delle entrate proprie del bilancio comunale è superiore alla media regionale, tale maggiorazione è del 3% sullo stipendio del sindaco, è inoltre prevista una maggiorazione del 2% se la spesa procapite, relativa all’ultimo bilancio approvato, è superiore alla media regionale. 

Questo significa sostanzialmente che, i sindaci e le amministrazioni comunali, che mantengono attivi i conti del comune, facendo un buon lavoro, ma anche i sindaci inadempienti che non spendono per la comunità, limitandosi ad accumulare risorse economiche nelle casse del comune, ottengono benefici economici, nello specifico, una maggiorazione del 5% della propria retribuzione mensile. 

In media, il compenso dei sindaci italiani impatta sul bilancio dello stato per circa 420 milioni di euro all’anno, ma la giunta comunale non si compone solo dal sindaco, e, oltre al sindaco anche il vicesindaci percepisce un indennità, calcolata, in media, al 75% del compenso del sindaco. Inoltre, anche gli assessori percepiscono una retribuzione, anche questa calcolata in percentuale alla retribuzione del sindaco.

La retribuzione degli assessori

Come anticipato, sindaci e vicesindaci non sono i soli membri della giunta comunale a percepire un indennità di funzione, contrariamente a quanto si crede infatti, anche gli assessori percepiscono un’indennità di funzione mensile, che va dal 10 al 75% del compenso dei sindaci.

Per i comuni da meno di 1000 abitanti è prevista un indennità di 221€ lordi, mentre per le città metropolitane, è prevista un indennità da 8.970€ lordi. Nel mezzo, una serie di scaglioni calcolati in funzione della popolazione.

Anche il numero di assessori varia a seconda del numero di abitanti, più precisamente, un comune da meno di 1000 abitanti potrà nominare massimo 4 assessori, un comune medio, di circa 7000 abitanti potrà nominarne 5, la cui indennità sarà in media di 1.945€ mensili per 13 mensilità, ed una città metropolitana potrà nominare fino ad un massimo di 20 assessori.

Benefit e diarie

Per quanto riguarda i sindaci, e in alcuni casi vicesindaci e assessori, oltre all’indennità di servizio, possono essere previsti anche una serie di benefit aggiuntivi, il cui valore complessivo è difficilmente quantificabile, poiché tali benefit comprendono diaria in caso di trasferta e rimborso spese, per un valore medio stimato di circa 1000€ mensili, che, moltiplicato per 12 mensilità e 7896 comuni, raggiunge i circa 10 milioni di euro annui per i sindaci, 7,5 milioni per i vicesindaci.

Quanto costano allo stato le giunte comunali?

Se prendiamo in considerazione i circa 7896 comuni italiani, e ipotizziamo una popolazione media di 7000 abitanti, possiamo osservare che in media, una giunta comunale, tra indennità di servizio e benefit riconosciuti a sindaci, vicesindaci e assessori, una giunta comunale costa in media, circa 16.000€ al mese, per tredici mensilità annue, ovvero circa 208 mila euro annui. Moltiplicando questo valore approssimativo per il totale dei comuni italiani otteniamo un costo annuo di circa 1,65 miliardi di euro.

Va precisato che non è sempre stato così, l’aumento dei salari di sindaci, vicesindaci e assessori, è qualcosa di estremamente recente nella storia italiana, e il più importante incremento delle indennità dei sindaci è datata 2022, a seguito di un precedente incremento risalente al 2019, che, insieme hanno portato ad un aumento esponenziale della spesa media sostenuta dall’Italia per le indennità dei sindaci, e di riflesso di vicesindaci e assessori.

Gli aumenti, si stima abbiano avuto un’incidenza prossima al 100%, in altri termini, i guadagni, soprattutto dei sindaci, sono quasi raddoppiati in soli 2 anni e come riportato dal corriere della sera infatti, nel solo passaggio dal 2022 al 2025 c’è stato un significativo incremento.

Il Fascismo Ungherese di Miklós Horthy

l’Ungheria di Miklos Horthy fu un regime autoritario, conservatore, di estrema destra, fortemente legato al fascismo prima e al nazional socialismo tedesco poi.

L'Ungheria di Miklós Horthy fu un regime autoritario, conservatore, di estrema destra, fortemente militarista e legato al fascismo prima e al nazional socialismo tedesco poi.

Correva l’anno 1920 quando l’ammiraglio Miklós Horthy, già ministro della guerra nel 1919, venne proclamato capo del Governo del regno di Ungheria.

La figura di Miklós Horthy è estremamente importante per la storia politica dell’europa degli anni venti e trenta, perché fu, in un certo senso, l’anticipatore di quei movimenti nazionalisti anticomunisti che, negli anni seguenti, avrebbero coinvolto Italia, Germania, Spagna e tutto il resto d’europa, attraverso forme e nomi di partito diversi nella forma, ma tutti strutturati in maniera paramilitare, con una rigida gerarchia interna e caratterizzati da sentimenti di odio verso comunisti, ebrei e numerose altre minoranze etniche e culturali.

Horthy è il grande anticipatore di Mussolini, Oswald Mosley ed Hitler, ne condivide le idee e l’ideologia, se pur con qualche differenza.

La Carriera di Miklós Horthy

La carriera di Miklós Horthy è iniziata tra i ranghi dell’esercito ungherese, dove fece rapidamente carriera, grazie anche alle sue origini nobiliari, e negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, tra il 1909 ed il 1914, si ritrovò ad essere uno degli aiutanti e più stretti collaboratori dell’imperatore Francesco Giuseppe, per poi servire durante la guerra fino al raggiungimento del grado di contrammiraglio e comandante supremo della flotta imperiale della regia marina austro-ungarica.

Finita la guerra, Horthy ricopriva una delle più alte cariche militari dell’impero Austro-Ungarico, impero che tuttavia usciva sconfitto dalla guerra e si preparava alla propria disgregazione definitiva, che sarebbe avvenuta tramite una serie di scontri interni, e in quel contesto di crisi, la guida del governo ungherese venne affidata al comunista ungherese, Ábel Kohn, meglio noto come Béla Kun.

Il governo comunista di Béla Kun ebbe vita breve, sopravvivendo dal 21 marzo 1919 al 3 aprile dello stesso anno, e vi fece seguito un governo anticomunista guidato da Károly Huszár, appoggiato da Miklós Horthy che, tra il marzo 1919 e l’aprile del 1920, ricoprì la carica di ministro della guerra.

Lo scontro tra Comunisti e Anti-Comunisti in Ungheria, non fu solo politico, ci furono diversi scontri armati in tutta l’Ungheria, scontri che videro contrapposti i monarchici anticomunisti ai comunisti di Kun.

Una delle prime disposizioni del Governo di Huszár fu quella di ripristinare la monarchia ungherese, e preparare un ritorno degli Asburgo, tuttavia, il nuovo ordine europeo venutosi a formare dopo la fine della guerra, rendeva particolarmente ostico questo progetto, e alla fine, in seguito all’ingresso trionfale e conseguente occupazione militare di Budapest da parte di Horty e le sue truppe, l’ammiraglio assunse l’incarico di capo provvisorio dello stato, con il titolo di reggente del regno d’Ungheria, in ungherese kormányzó, carica che ricoprì fino alla fine della seconda guerra mondiale.

La Politica di Horthy

La politica di Miklós Horthy era inquadrabile nelle idee della destra sovranista e conservatrice, Horthy rappresentava gli interessi dell’aristocrazia e per lui e la propria cerchia sociale di appartenenza, il comunismo era una minaccia reale. Béla Kun nel proprio programma puntava a sottrarre le terre ai nobili per darle al popolo ungherese, Horthy era membro di una di quelle famiglie nobili a cui Kun voleva togliere le terre.

Una delle prime decisioni politiche che l’ammiraglio ungherese dovette affrontare in qualità di capo del governo, fu quella dei trattati di pace ancora in corso, e il ruolo giocato dall’Ungheria durante la prima guerra mondiale, non dava molto margine di manovra all’ammiraglio, fu quindi “costretto” ad accettare le dure condizioni del trattato di pace del Trianon, il trattato con cui vennero stabilite, dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, le sorti del nuovo Regno d’Ungheria, in seguito alla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico. Presero parte alla conferenza Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Italia, oltre ai loro alleati, Romania, Regno dei Serbi, Croati e Sloven e il trattato venne firmato il 4 giugno 1920.

Le dure condizioni del trattato di Trianon, come sarebbe accaduto anche in Germania, alimentarono una forte insofferenza nei confronti dei vincitori della guerra e, unito ad un crescente sentimento anticomunista e antisemita, portarono alla nascita di un regime, estremamente autoritario, anche se non assunse mai i tratti di una dittatura o di un regime totalitario come invece sarebbe accaduto all’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler, in cui il parlamento venne completamente esautorato.

Il regime di Horthy

Durante gli anni del regime di Horthy, che coincidono con gli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale, l’Ungheria rimase, se pur in modo parziale, una monarchia parlamentare, guidata da un reggente.

Il parlamento Ungherese come anticipavo non venne completamente esautorato, ne venne sostituito da altri organi e istituzioni, tuttavia, l’autorità del reggente fu particolarmente incisiva e il parlamento, il più delle volte, si ritrovò a seguire le direttive di Horthy.

Nel regime di Horthy l’ordine sociale ungherese doveva rimanere inalterato, e a tal proposito l’ammiraglio, da militare, aristocratico e conservatore qual’era, si impegnò profondamente affinché quell’ordine precostituito non venisse alterato, in particolare dalla minaccia della “barbarie sovietica” che aleggiava alle porte dell’Ungheria.

L’Ungheria di Horthy fu uno dei primi paesi europei a varare delle leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei e con largo anticipo rispetto alle leggi di Norimberga e le leggi razziali italiane, già nel 1921 Horthy ordinò che venisse limitata la percentuale di studenti di varie minoranze presenti in Ungheria.

La legge, firmata dal primo ministro ungherese del 1921 Pál Teleki, fissava al 6% il numero massimo di studenti di origine ebraica che potevano iscriversi alle università ungheresi. Altre leggi discriminatorie di questo tipo vennero varate negli anni seguenti, il cui corpo legislativo, per molti, preparò il terreno per le successive leggi di Norimberga del regime nazista, proclamate il 15 settembre 1935. In Ungheria, comunque, il culmine delle leggi razziali e antisemite arrivò nel 1938 con una serie di leggi proclamate dal’allora primo ministro fino al culmine di una vera e propria legislazione antiebraica introdotta nel 1938 dal primo ministro Kálmán Darányi, con cui il paese si preparò alle deportazioni naziste.

Il proto fascismo di Horthy

Il regime autoritario di Horthy si trova in un limbo ai limiti del fascismo, ideologia con la quale Horthy ebbe un forte legame, consolidato soprattutto dopo la firma dei protocolli di Roma del 1934, con cui l’Ungheria si legava all’influenza economica e politica dell’Italia. Tuttavia, nonostante questo legame Horthy non arrivò mai ad abbracciare totalmente il Fascismo e, in seguito alla morte di Engelbert Dollfuss, leader del fronte Patriottico, un partito austriaco di ispirazione fascista, Horthy, come molti altri proto fascisti in europa, si avvicinò maggiormente alle posizioni più radicali del nazional socialismo tedesco.

L’ambizione di Horthy

Come Hitler e Mussolini, anche Horthy ambiva al potere personale e puntava ad assumere il potere assoluto sullo stato che governava, questa ricerca del potere ebbe evoluzioni diverse in Ungheria, Italia e Germania, che si legano soprattutto allo status politico delle tre nazioni.

Ungheria ed Italia erano monarchie, anche se, l’Ungheria era de facto una monarchia senza re, mentre l’Italia, anche se non particolarmente presente nella scena politica, aveva comunque un re. Diversamente la Germania era una repubblica.

Secondo Max Weber, la legittimazione del potere può avvenire in tre diversi modi, ovvero in modo tradizionale, carismatico e legale/giuridico e, sempre secondo Weber, il potere politico (assoluto) può manifestarsi solo in presenza di questi tre elementi.

Noi oggi sappiamo che tra Hitler, Mussolini ed Horthy, l’unico a conseguire il potere assoluto fu Hitler, questo perché Hitler, grazie al proprio carisma e all’uso della forza, riuscì a conseguire una legittimazione legale e carismatica del proprio potere, inoltre, l’organizzazione paramilitare della Germania, collocava Hitler al vertice di una sorta di gerarchia tradizionale, simil feudale, garantendo quindi, anche un potere tradizionale in uno stato in cui non erano presenti forme di potere tradizionali.

Nell’Ungheria di Horthy, se bene l’ammiraglio, godesse di potere legale/giuridico, grazie al proprio, conseguito grazie a carisma e forza, proprio come Hitler, l’Ungheria era una monarchia, senza re, ma comunque una monarchia, e di conseguenza, per ascendere al rango supremo, Horthy aveva necessità di essere proclamato regnante e non semplicemente reggente della corona.

A tale proposito, durante il proprio governo Horthy estese progressivamente i propri poteri, cannibalizzando parti del parlamento e accentrando nelle proprie mani diverse cariche, e riuscì tantissimo ad avvicinarsi tantissimo al proprio obiettivo di diventare “re di Ungheria”, al punto che, nel 1937, alle soglie della seconda guerra mondiale, ad Horthy mancava soltanto il riconoscimento della chiesa cattolica per l’investitura ufficiale e l’ascesa al trono, ascesa che probabilmente non avvenne proprio a causa della guerra

Perché la Germania si vergogna del Nazismo mentre l’Italia non fa lo stesso con il Fascismo?

Perché in germania i tedeschi si vergognano del Nazismo, metre gli italiani non sembra si vergognino più del fascismo e in alcuni casi sembrano desiderare un suo ritorno?

Come mai in Germania, l’opinione pubblica, si vergogna di essere stati nazisti (nonostante qualche rare eccezione), mentre da in italia, l’opinione pubblica, molto spesso è spesso nostalgica di quegli anni e addirittura nel nostro paese ci sono forze politiche, non irrilevanti, dichiaratamente simpatizzanti per la politica fascista, pur non dichiarandosi apertamente fascisti perché fortunatamente la costituzione lo impedisce?

Perché in Italia il Fascismo non è universalmente percepito come una macchia nel nostro passato, un qualcosa di cui vergognarsi e da cui mantenere le distanze, ostracizzando quelle idee, quelle proposte e quegli elementi propri della politica fascista?

Detto più banalmente, perché gli eredi di Hitler, Himmler e degli altri gerarchi nazisti si vergognano dei propri antenati, mentre in italia gli eredi di Mussolini e degli altri gerarchi fascisti vanno fieri dei propri antenati e in alcuni casi, ne esaltano la memoria, cercando in ogni modo di evidenziare le “cose buone” fatte dal fascismo… come se aver bonificato una palude potesse giustificare omicidi, pestaggi, deportazioni ed eccidi…

La risposta a queste domande non è semplice, ma voglio provare comunque a rispondere.

La ragione è politica, ma non parlo della politica odierna, mi riferisco invece alla politica del dopoguerra, perché è in quegli anni, tra il 1945 ed il 1948 circa, che il problema del fascismo nostalgico, affonda le proprie radici.

Finita la guerra, finita la seconda guerra mondiale, la Germania ed i tedeschi, hanno dovuto prendere coscienza del proprio passato, di ciò che era successo, di ciò che era stato fatto e di ciò che la popolazione tedesca aveva permesso al Nazismo di fare. Mentre in Germania il nazismo è stato ufficialmente condannato, sia politicamente che giuridicamente, e la popolazione tedesca ha in qualche modo “pagato il conto” dell’esperienza nazista, in italia tutto questo non è successo e la popolazione italiana è stata in un certo senso assolta. Complice anche la guerra civile (1943-1945) e le operazioni di “resistenza” al fascismo da un lato, e la mancata volontà politica di parlare di guerra civile per decenni, facendo invece percepire il conflitto avvenuto nella penisola tra il 1943 ed il 1945 come una guerra tra italiani e stranieri (americani o tedeschi che siano), creando così, sul piano politico dell’epoca un vero e proprio divario tra “italiani” e “fascisti”.

Nel 1945, la Germania prendeva cosicenza che i tedeschi avevano appoggiato e voluto il Nazismo, e chi non lo voleva si era banalmente voltato dall’altra parte o era scappato, dando de facto la percezione che, tutti i tedeschi erano nazisti e dovevano pentirsi di ciò che avevano fatto. In Italia invece, questo non avviene, gli italiani, per via della guerra civile, nonostante per circa un ventennio non abbiano mosso un dito, improvvisamente non sono più fascisti, e dunque non c’era motivo di vergognarsi delle azioni dei fascisti, solo i fascisti erano colpevoli… dimenticando forse troppo facilmente che per oltre vent’anni il fascismo aveva regolato ogni aspetto della vita degli italiani, e che, salvo pochissime eccezioni, quasi nessuno prima del 43 si era opposto in modo incisivo. Gli italiani, esattamente come i tedeschi, avevano scelto il fascismo, ma, una volta che il fascismo non c’era più, semplicemente si voltarono dall’altra parte, così come per vent’anni si erano voltati dall’altra parte mentre il fascismo imperava nel paese.

Detto più semplicemente, all’epoca, nell’immediato dopoguerra, il discorso politico in Germania si impostò sul concetto che in Germania, i tedeschi avevano scelto volontariamente il nazismo, e quindi erano complici del Nazismo. Diversamente, in Italia, l’impostazione fu che gli italiani subirono il fascismo, partito da un colpo di stato, e dunque non ne erano complici, e non avevano di che vergognarsi… avevano semplicemente chinato il capo all’uomo col manganello e l’olio di ricino.

Questo tipo di impostazione, permise all’Italia e agli italiani, da un lato di “ripulire le coscienze” degli italiani, che de facto non dovettero mai fare i conti con il fascismo e i suoi crimini, non erano stati gli italiani ad assassinare Matteotti, erano stati i fascisti, non erano stati gli italiani a tacere quando i fascisti andaro a prendere Gobetti, ma gli era stata tappata la bocca, non erano gli italiani ad aver accettato le leggi raziali, erano state imposte dai fascisti. Ma non solo, questa operazione di “pulizia delle coscienze”, si trasferì anche nelle aule dei tribunali e dei tribunali militari, aule vuote in cui dovevano essere processati i i criminali di guerra italiani, i fascisti, ma de facto, ciò non avvenne, non ci furono processi ne condanne, e questo perché, sulla base del principio di reciprocità, l’Italia accettò di processare i propri criminali, ma solo se anche francesi, jugoslavi e americani, vincitori della guerra, avessero processato i propri criminali, e i vincitori della seconda guerra mondiale questo non lo avrebbero mai fatto, mai si sarebbero piegati, da vincitori, alle richieste degli sconfitti, e dunque, l’Italia, ottenendo di poter processare autonomamente i propri criminali, de facto non li processò mai.

La mancata norimberga italiana, per usare un termine coniato nei primi anni duemila da diversi storici italiani che affrontarono la vicenda, è in larga parte responsabile del fatto che, gli italiani non hanno mai fatto i conti col fascismo e che il fascismo non è mai stato completamente consegnato alla storia.

Nel dopoguerra, tutti i partecipanti alla seconda guerra mondiale stilarono enormi liste di criminali di guerra, e dopo anni di trattative e richieste respinte, alla fine si accettò di far ricorso al principio di reciprocità, così da mettere fine, una volta per tutte, alla seconda guerra mondiale. Ogni paese accettò di farsi carico dei processi ai propri criminali, accusati da altre nazioni, così fece anche l’italia, i cui processi furono in qualche modo avviati, i fascicoli furono aperti, le indagini preliminari iniziarono, ma poi accadde qualcosa e tutto venne archiviato e dimenticato in quello che Franco Giustolisi intorno alla metà degli anni 90, definì l’“armadio della vergogna” .

Si tratta di un armadio rimasto chiuso per oltre quarant'anni, in cui, nel 1994 vennero trovati gli incartamenti dei processi mai computi ai criminali di guerra italiani.

Viene da chiedersi, perché, al di la del principio di reciprocità, l’italia non portò a termine quei processi, e la risposta a questa domanda ci arriva direttamente dal materiale trovato in quell’armadio.

Analizzando i documenti, oggi liberamente consultabili da chiunque e conservati presso gli uffici dell’ex tribunale militare di La Spezia, emerge che all’epoca, sul finire degli anni quaranta, a ormai qualche anno di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale, in italia si manifersò la precisa volontà politica, dell’allora classe dirigente italiana “dimenticare il fascismo”, di lasciarselo alle spalle, senza però mai farci realmente i conti, senza mai affrontarlo realmente e concretamente, e non affrontandolo il fascismo è rimasto lì, a sedimentare e fermentare.

Oggi, col senno di poi, possiamo dire che ignorare quei fascicoli ed evitare quei processi è stato un gravissimo errore, e volendo cercare dei responsabili, non è difficile individuarli. Tra il materiale emerso dall’armadio della vergognia vi è infatti anche un appunto di un giovane Giulio Andreotti, all’epoca appena un sottosegretario di un ministero senza poetafogli, in cui si invita a ignorare la questione dei processi, per evitare eventuali problemi politici sia interni che internazionali.

Erano anni in cui alcune città italiane, come Trieste, erano sotto il controllo non dello stato italiano ma di forze internazionali, e vi erano pressioni politiche da parte della Jugoslavia per cui le aree liberate dai Jugoslavi durante la guerra, diventassero territori Jugoslavi, e l’unico modo per evitare che questo accadesse era trovare un accordo tra Italia e Jugoslavia.

L’Italia decise quindi, per mantenere l’integrità e l’unità dei propri territori, di non richiedere alla Jugoslavia di processare i propri criminali, tra cui i responsabili degli eccidi delle Foibe, che nel nuovo asset del governo di Tito ricoprivano incarichi di rilievo e posizioni centrali.

L’Italia, o meglio, la sua leadership politica, scelse di non processare i fascisti per ragioni politiche e geopolitiche.

Va detto che, già tra 45 e 48, sulle pagine de l’unità, queste scelte politiche furono aspramente criticate, l’unità fu, fino ai primi anni cinquanta, l’unico giornale in italia che continuò a chiedere apertamente di processare i criminali italiani, ma la sua voce rimase inascoltata. Principalmente perché, per una fetta importante dell’opinione pubblica, queste richieste mascheravano la volontà politica dei comunisti italiani di proseguire la guerra o comunque di aiutare i comunisti Jugoslavi a danno dell’Italia.

Ad ogni modo, ignorata o meno, già all’epoca, sulle pagine dell’unità e tra le fila del PCI (e in larga parte anche del PSI) si teorizzava (e col senno di poi, possiamo dire che si prevedeva e la loro previsione era molto oculata) che ignorare i criminali italiani e non affrontare seriamente il problema del fascismo, fingendo che questi non fosse mai esistito, avrebbe avuto l’effetto pericoloso, in un futuro non troppo reoto, di far sbocciare nuovamente il fiore del fascismo e di riportare alla luce quella pericolosa interpretazione politica della realtà.

Insomma, si diceva chiaramente che, se l’italia non avesse condannato i fascisti, in futuro questi sarebbero potuti tornare, facendo le vittime, poiché non essendo “colpevoli”, visto che nessun fascista era stato condannato da un equo tribunale, e che, i soli fascisti condannati erano stati condannati da tribunali popolari del CLN, potevano, colpevolizzare le scelte dell’Italia antifascista, e, associando l’antifascismo al comunismo, rimettere in discussione l’intera struttura repubblicana ed i suoi equilibri istituzionali, poiché, in questa chiave interpretativa, i fascisti non vennero condannati per i propri crimini di guerra e contro l’umanità, ma, apparentemente, solo per ragioni politiche, rendendo quelle condanne apparentemente inique.

Fonti :

C.Pavone, Una guerra Civile.
M.Battini, Peccati di memoria.
L.Paggi, Il popolo dei morti.
Michele Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana.
Jon Elster, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche.
Jacques Sémelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi
Joanna Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia.
Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia.
Einaudi.Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori.

Casapound lascia la politica, ma non l’attivismo politico.

Dopo il pessimo risultato alle europee e una crescente impopolarità, Casapound Italia ha deciso di lasciare la politica, lo dice Simone di Stefano, per dedicarsi alla politica.

Dopo il pessimo risultato elettorale conseguito da Casapound Italia alle ultime elezioni europee, dove il partito di estrema destra ha ricevuto appena lo 0,3% dei consensi, e forte di una massiva impopolarità derivante dalla linea politica estremamente dura e intollerante del partito, spesso associato per linguagio, operato e ideologia al fascismo, Casapound Italia ha deciso di chiudere i battenti e lasciare la via politica, almeno quella ufficiale, ma questo non significa abbandono reale della politica.

Casapound esce dai palazzi (nei quali fortunatamente non è mai entrata completamente), abbandona la via politica delle elezioni, e torna, a suo dire, a fare attivismo politico per, cito le parole del leader del partito

Simone di Stefano su Twitter

“tornare ad essere il laboratorio di avanguardia politica, culturale e solidaristica che era un tempo”

Avanguardia politica, culturale e solidaristica… parole forti, parole grosse, e in questo caso parole ingombranti.

Ingombranti perché non riflettono neanche lontanamente quella che è l’attività di Casapound Italia, un organizzazione politica che da sempre vive al margine della legalità e tra i cui militanti figurano individui con la fedina penale più sporca della carta igienica usata da qualcuno che è intollerante al lattosio, dopo aver mangiato da solo un inera zizzona di battipaglia.

Sono giorni duri per la democrazia, sono giorni oscuri per la nostra repubblica, sono giorni dannati per la nostra libertà, una libertà pericolosa a volte, ma sacra. Una libertà culturale e di espressione che CPI da sempre rivendia per se, ma non per altri, e da sempre, è pronta a negare ad altri quelle libertà fondamentali garantite dalla nostra costituzione.

Che CPI non mi piaccia non credo sia un segreto, e personalmente credo che chiunque abbia un briciolo di dignità, buon senso, e intelligenza, condivida la mia poca simpatia per questa organizzazione politica a tratti criminale, a tratti paramilitare, che in passato, in più occasioni, ha cercato di sostituirsi alle istituzioni statali, agendo autonomamente con atti di squadrismo, pestaggi e atti di vandalismo.

Per CPI la cultura non è cultura, è un dogma, valida solo se risponde a determinati requisiti e allineata ad un preciso orientamento politico, oltre il quale la cultura non esiste esiste e non può esistere.

Sinceramente non so cosa intendano quando parlano di cultura, probabilmente incontri a porte chiuse, in cui ricordare con nostalgia il ventennio e vomitare odio su qualsiasi altra cosa ed espressione culturale. Sicuramente non è una cultura storica, poiché la “loro” idea di storia è distorta dalla propaganda politica di estrema destra e rigettano sistematicamente ogni qualsiasi altra narrazione, o interpretazione storica, per non parlare dell’avulsione della storiografia.

Voglio sperare che l’abbandono della politica “ufficiale” da parte di CPI non si traduca nell’inizio di un attività di “militanza attiva” in altri partiti, più grandi e rilevanti sul piano nazionale, deviando ulteriormente la politica italiana verso l’estrema destra, che già una volta ha devastato l’italia e causato innumerevoli vittime civili, ma soprattutto, voglio sperare che il loro abbandono della politica sia reale, e non solo di facciata. Ma viste le premesse e l’intento di “tornare” ad essere un laboratorio di avanguardia politica (fossilizzato sulla politica del ventennio) con un ideologia di forndo fortemente intollerante, xenofoba e omofoba, mi è estremamente difficile pensare che adesso CPI resterà in silenzio, e anzi, fuori dalla politica “ufficiale” temo che cercheranno di far sentire ancora di più la propria voce, e la mia preoccupazione più grande è che si trasformeranno in uno strumento esterno ad altri partiti, con i cui leader CPI è in ottimi rapporti, per promuovere e sviscerare i sentimenti di intolleranza che li accomunano, trasformandosi a tutti gli effetti in una primigena forma di squadrismo asservita ad altre forze politiche di estrema destra.

Questa visione catastrofista e puramente speculativa prende le battute dal nostro recente passato. Già una volta è accaduto qualcosa di molto simile e lo scotto da pagare per l’italia e gli italiani è stato un regime dittatoriale rimasto in carica per un ventennio e successivamente una guerra civile che non ha risparmiato nessuno nell’intera penisola.

Dai Blocchi Nazionali a CPI, passando per il ventennio fascista e la guerra civile.

Nel 1920 diversi gruppi politici (partiti minori) di estrema destra, si sciolsero ed i loro militanti confluirono in un macrogruppo noto come Blocchi Nazionali, il cui referente politico era Giovanni Giolitti, alle politiche del 1921 questi blocchi nazionali ottennero un importante risultato elettorale, se bene non fu tale da garantire loro la possibilità di governare e dopo circa un anno di esitazioni e tentennamenti, venne organizzata una marcia dei militanti dei blocchi nazionali, che nel frattempo aveva cambiato nome in Partito Nazionale Fascista, questa marcia, nota come Marcia su Roma.

La marcia su roma, non fu improvvisata come molti credono, ma ci fu una lunga e oculata preparazione, di cui ho parlato in un precedente articolo, qui mi limito a dire che fu un elemento di enorme pressione politica per il Re che fu “forzato” a nominare Benito Mussolini, leader del PNF nuovo capo di stato, con l’incarico, ben preciso, di riformare il parlamento e produrre una legge elettorale in grado di garantire un governo forte e autonomo.

La legge arrivò nel 1924 ed è nota come Legge Acerbo che conferiva un premio di maggioranza di oltre il 60% al primo partito, a condizione che questi superasse il 20% dei voti. In un altro articolo ho parlato nel dettaglio della Legge Acerbo, spiegando come si è giunti ad essa.

Con la Legge Acerbo il PNF riesce ad ottenere la maggioranza dei seggi, grazie a qualche broglio, il pestaggio degli oppositori e la distruzione sistematica delle sedi dei partiti diversi dal PNF, con un escalation di violenza che confluì nel rapimento e omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti. Tutto questo portò alla nascita del regime fascista, l’inizio della dittatura e la fine della libertà in italia.

L’aria che si respirava all’epoca era fetida, più fetida di un sacchetto dell’umido lasciato a riposare per 2 settimane sotto il sole di agosto, per andare avanti, per vivere, per sopravvivere in italia bisognava tapparsi il naso, buttare giù un cucchiaio di olio di ricino, e sperare di non essere pestati per aver pensato qualcosa di sbagliato.

Oggi, catastrofismi a parte, non siamo neanche lontanamente vicini a quel livello, e se bene nell’aria inizi a sentirsi un po’ di puzza, e si respira un sempre maggiore clima di violenza e l’intolleranza, ed i sentimenti di razzismo e odio viscerale per il diverso sono sempre più forti, in realtà c’è ancora una fetta importante di italia civile, che, si spera, questa volta resisterà e non sceglierà la più comoda via dell’ignavia, manifestando il proprio dissenso senza però muovere un dito, come invece accadde all’alba del ventennio.

Italiani Ubriachi di libertà, con a capo dei Coppieri che gliene versano quanta ne vuole.

“Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.”

Queste parole possono sembrare scritte “ieri” e pure sono vecchie di oltre duemila anni, a scriverle non è stato un capo politico, un giornalista, un “buonista”, non sono le parole di un qualche politico del Partito Democratico, di Liberi e Uguali o di + Europa, per criticare le scelte e la politica del governo Lega-M5S, ma sono state scritte da Platone nel libro VIII della Repubblica, e per quanto “vecchie”, sono parole estremamente attuali, sono riflessioni ancora oggi estremamente valide e veritiere che dipingono alla perfezione la realtà politica del nostro paese in questo preciso momento storico.

La prima volta che ho letto, o meglio, che ho ascoltato queste parole è stato ai tempi della scuola, io sono un perito informatico e nella mia scuola non c’era l’ora di filosofia, ma avevo un insegnante, Lucio di Costanzo, professore di Elettronica che era profondamente convinto che il compito della scuola non fosse solo quello di insegnarci nozioni, ma che dovesse prepararci alla vita, per lui la scuola era soprattutto scuola di vita e nelle sue ore, almeno una volta all’anno ci faceva leggere questo passaggio della Repubblica di Platone spingendoci a riflettere sul suo contenuto. All’epoca non ne comprendevo a pieno il significato, la politica non mi interessava, la prima volta che ho votato ho annullato la scheda perché mi era indifferente scegliere e preferire l’uno o l’altro partito, e quelle ore passate a leggere Platone e chiacchierare di attualità per me erano solo un ottima scusa per non studiare resistenze, condensatori, transistor e circuiti elettronici, e pure, oggi, quelle ore sono forse il ricordo più vivo e importante degli anni della scuola. A distanza di oltre dieci anni ne comprendo il valore, ne comprendo il significato e soprattutto ne comprendo l’importanza.
Se oggi ho una coscienza politica, se oggi sono uno “studioso di storia” e mi interesso di attualità e alla realtà politica è anche grazie a lui, ma non voglio annoiarvi con i miei racconti della scuola, voglio invece, con questo post, riproporre a voi alcune riflessioni sul testo di Platone, e mi scuso con eventuali puristi che si sentiranno infastiditi dal fatto che non ho riportato il testo in Greco Antico e si sentiranno offesi dal fatto che parlo di Platone senza mai aver letto o tradotto i suoi libri, ma basandomi solo su traduzioni altrui, ma come vi dicevo, sono un perito informatico, non ho mai studiato greco antico, ne filosofia antica.

Indipendentemente dalla mia superficiale conoscenza dell’opera di Platone, questo passaggio del libro ottavo della repubblica resta estremamente chiaro ed eloquente.
Oggi viviamo in un epoca di estrema libertà, una libertà tale da permettere a chiunque di esprimere la propria opinione e questo, grazie anche agli strumenti offerti dal web, come forum, blog e social network. Viviamo in un epoca talmente libera che una persona con la terza elementare può sentirsi in diritto di criticare le scelte del governo (un diritto sacrosanto, sia chiaro) e di mettere becco in questioni di cui non ha la minima conoscenza e competenza, viviamo in un epoca in cui consiglieri regionali di taluni partiti politici mettono in discussione i progressi della scienza moderna e della medicina, con campagne politiche contro i vaccini, responsabili nella loro visione, di chissà quale malattia e pure basta fare qualche rapida ricerca sul web, o in biblioteca, per scoprire che grazie alla medicina moderna l’età media della vita, nel mondo “civilizzato” si è alzata esponenzialmente nell’ultimo secolo e mezzo. Prima dell’Unità d’Italia, nel nostro paese c’era un elevatissimo tasso di mortalità infantile e l’età media si aggirava intorno ai 60 anni. A distanza di un secolo e mezzo una persona di sessant’anni è considerata ancora abile al lavoro, e ben lontana dalla possibilità di un pensionamento. Certo, anche centocinquanta anni fa a sessant’anni una persona lavorava ancora, ma parliamo di un epoca in cui si lavorava da quando si era in grado di mantenere una pala in mano e trasportare un cesto pieno, fino alla morte, non c’era pensione, non c’era riposo, c’era solo duro lavoro e tanta fame.
Oggi le cose sono profondamente diverse, nell’ultimo secolo e mezzo, il succedersi al governo e al potere, in Italia (e più in generale in Europa e nel mondo) le varie forze politiche, siano esse di destra, di centro o di sinistra, hanno ottenuto importanti conquiste volte a migliorare progressivamente le condizioni di vita e di lavoro. Non sono ovviamente mancati errori e passi indietro, né sono mancate manovre che hanno limitato le possibilità lavorative delle persone, ma nel complesso, rispetto al 1861, anno dell’unità d’Italia, ma anche solo rispetto ad un secolo fa e ancora, rispetto a 50, 30, 20 anni fa, è innegabile che le condizioni di vita e di lavoro (legali) delle persone in Italia siano migliorate. Oggi le persone dispongono di giornate più “lunghe” grazie al miglioramento dei trasporti, dispongono di una vita più lunga, grazie a medicinali e assistenza sanitaria, e qualcuno di più fortunato, se riesce ad andare in pensione dopo quarant’anni di lavoro, può finalmente godersi un po’ di meritato riposo.
Sia chiaro, è estremamente legittimo criticare quelle manovre e decisioni dei governi passati e presenti che sono andate e vanno a “limitare” tutte queste conquiste, sociali e civili, è più che legittimo criticare quelle riforme che hanno limitato le possibilità di lavoro ed impedito l’accesso alla pensione a milioni di italiani, così come è legittimo criticare quelle decisioni volte a limitare i diritti conquistati in questi anni. Penso al diritto allo studio, penso al diritto alla vita, penso al diritto di poter condividere la vita con la persona che si ama, indipendentemente dal proprio sesso ed orientamento sessuale, indipendentemente dalla propria etnia.
Ma in questo clima di liberà senza precedenti, in cui è possibile parlare di terra-piatta, di scie chimiche e di cospirazioni globali per la sostituzione etnica dell’Europa, senza però dare una concreta spiegazione delle ragioni per cui ci sarebbero queste cospirazioni, in questo clima in cui ognuno può esprimere la propria opinione, come è giusto che sia, la sete di liberà di un popolo comincia a crescere, cresce sempre di più, ed è una sete che non può essere arrestata. Con l’aumento della sete di libertà si rivendicano diritti biechi e incompatibili con quelli già riconosciuti, si rivendica il diritto al razzismo, si rivendica il diritto alla violenza, si rivendica il diritto alla libertà di parola per insultare e minacciare chi la pensa diversamente condannando il libero pensiero che per assurdo viene indicato come pensiero unico e si rivendica il pensiero unico, forzando chi la pensa diversamente a rinunciare alla propria libertà di pensiero e di espressione per sottomettersi ad un reale pensiero unico.
In questo clima di libertà senza precedenti, un giornalista che critica il governo, le decisioni e dichiarazioni di un ministro, viene querelato e minacciato dal suddetto ministro, un ministro che, come scriveva Platone qualche millennio fa, è un coppiere pronto a riempire il calice dei propri clienti, versandogli apparentemente in maniera gratuita, tutto il vino che desidera fino ad ubriacarlo e alla fine si ritrova ad avere una locanda piena di gente ubriaca che si lascia andare a pensieri e riflessioni deliranti e irrazionali, tra un conato di vomito ed una scoreggia.
In questo clima di ubriachezza, voluta dal coppiere, il coppiere diventa un benefattore, e chi invece proverà a dirgli “smettila di bere”, si trasformerà in un nemico, qualcuno che non vuole di troppo severo e ligio al dovere che vuole limitare la nostra libertà di bere e ubriacarci.
Il bevitore però non sa che alla fine lui o i suoi figli dovranno comunque pagare il conto e sarà un conto estremamente salato, fino a quel momento lui continuerà a bere ed abbuffarsi, nel solo interesse del coppiere e del proprietario della taverna/locanda. Una locanda che alla fine sarà sporca di vomito e puzzerà da far schifo, una locanda in cui magari ci sarà anche qualche rissa, qualcuna finirà presto, qualcun’altra finirà male, e l’amico, io genitore, il figlio che proverà a far smettere qualcuno di bere, probabilmente tornerà a casa con un occhio nero.

In questo clima di estrema libertà dovremmo avere al capo dei governi non dei coppieri, ma dei genitori che contro la nostra volontà ci facciano smettere di bere, per non vederci stare male, e in questa immagine il popolo appare come un figlio giovane e assetato di libertà e di vino, un giovane che non sempre riuscirà a comprendere le decisioni dei propri genitori, non subito almeno, e finché avrà chi gli versa da bere, preferirà comunque bere e allora, come scriveva Platone, “il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi (vedi reddito di cittadinanza – M5S), e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani (vedi reddito di inclusione – PD).

In questo clima di libertà senza precedenti, ancora una volta come scriveva Platone “nel nome della medesima libertà, non vi è più riguardo per nessuno” e “In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia”.

Sono passati più di duemila anni da quanto Platone ha scritto queste parole, sono passati più di duemila anni da quando queste riflessioni descrivevano la decadenza dell’antica e gloriosa civiltà ateniese che di lì a qualche anno sarebbe sprofondata inglobata, insieme a tutta la Grecia, nell’impero di Alessandro Magno prima e in quello romano poi.

Mi auguro che nella nostra epoca gli Italiani siano più razionali e responsabili degli antichi ateniesi, mi auguro che ci sia un risveglio delle coscienze degli italiani e che questi smettano di bere prima che sia troppo tardi, mi auguro che gli italiani ritornino presto a pensare con lucidità e buon senso e mi auguro che questo risveglio delle coscienze avvenga prima che la pianta della tirannia possa radicarsi troppo nel profondo nella nostra civiltà e dare i propri nocivi frutti che se mangiati avveleneranno definitivamente i cuori degli italiani, condannandoli nuovamente ad un terribile oblio che metterà a ferro e fuoco la nostra civiltà.

Mattarella ha fatto il suo dovere, Salvini e Di Maio hanno pisciato sulla costituzione

Sergio Mattarella ha fatto il proprio dovere di Presidente della Repubblica, nel rispetto e nei limiti della costituzione italiana, quanto a Matteo Salvini, Luigi Di Maio e Giorgia Meloni, per dirla con una metafora, molto pittoresca, hanno pisciato sulla costituzione e cagato nei corridoi del quirinale per poi puntare il dito contro Mattarella, dicendo che era già sporco di merda quando sono arrivati.

Fatta questa premessa molto forte e di impatto che ha il solo scopo di far incazzare la maggior parte dei lettori, torniamo razionali, torniamo seri e cerchiamo di contestualizzare storicamente quello che è successo negli ultimi giorni.

Stavo ragionando in merito ai più recenti avvenimenti della politica italiana quando mi si è accesa una lampadina poco incoraggiante e un pensiero trasversale mi ha portato ad associare la rinuncia di Giuseppe Conte all’abbandono della delegazione italiana alla conferenza di londra del 1920, la conferenza in cui avvenne la ripartizione tra le potenze vincitrici della prima guerra mondiale, dei possedimenti coloniali ed alcune aree territoriali delle potenze sconfitte.

In quell’occasione la delegazione Italiana chiedeva a gran voce il riconoscimento del proprio successo bellico e della concessione di alcuni territori fino a quel momento posti sotto il controllo dell’ex impero austro-ungarico, tuttavia, trovando inascoltate le proprie richieste, decise di utilizzare come strumento di pressione, la famosa politica della sedia vuota, abbandonando la conferenza nel tentativo di rafforzare la propria posizione.

Come è noto questa strategia si tradusse in un fallimento politico internazionale per l’italia che, invece di ottenere ciò che richiedeva, si ritrovò esclusa dalla ripartizione territoriale, segnando così l’inizio del moto politico della vittoria mutilata di cui il partito nazionale fascista sarebbe diventato un portavoce privilegiato e grazie al quale avrebbe rafforzato e consolidato sempre di più la propria posizione politica fino ad ottenere un sempre maggiore consenso popolare che si sarebbe tradotto, in pochi anni, nella dittatura fascista.

Ma perché la “fuga” di Conte mi ha ricordato la conferenza di Londra?

Fondamentalmente perché la rinuncia di conte è stata dettata, con molte probabilità, da una precisa strategia politica dettata da Matteo Salvini e Luigi di Maio, il cui intento potrebbe essere quello di rafforzare la propria posizione politica nel paese ed accrescere i propri consensi utilizzando una vecchia ricetta, risalente ai tempi di Giulio Cesare, sempre molto efficace per ottenere il consenso delle masse popolari.

Come già Benedetto Croce osservò agli inizi del novecento, commentando il collasso della destra storica che portò al potere la sinistra permettendo in seguito la nascita del fenomeno del trasformismo, osservò che questi, il trasformismo, era stato possibile proprio grazie al tracollo della destra che aveva portato al successo la sinistra cavalcando l’onda del dissenso, costruendo una forte campagna di opposizione alle leadership politiche preesistenti, alla troppo rigida politica fiscale imposta dalla destra per sanare il debito italiano. Croce osserva che è molto facile ottenere consensi cavalcando il dissenso, e sulla stessa linea sarebbe stata, qualche decennio più tardi, anche Hannah Arendt, con il suo Le origini del Totalitarismo, opera in cui avrebbe individuato quella che in qualche modo possiamo identificare come la ricetta perfetta per raggiungere il potere grazie all’appoggio delle masse popolari e nello specifico per la creazione di un “regime totalitario“.

Sia Depretis che i regimi totalitari descritti dalla Arendt riescono a conquistare il potere proprio cavalcando il dissenso popolare, il malcontento, facendo proprie alcune tematiche sociali in qualche modo dimenticate o mal comunicate dall’altra parte, ed individuando un nemico esterno contro cui convogliare le proprie energie. Utilizzare una minaccia esterna alla nazione, alla repubblica, per ottenere vantaggi, è sempre stato un elemento vincente, basti guardare alla nascita dell’impero galattico nella saga cinematografica di Star Wars, o se vogliamo restare con i piedi piantati nella storia reale, alla nascita del Terzo Reich, alla nascita dell’Unione Sovietica, alla nascita del primo e del secondo impero francese, alla dittatura di Oliver Cromwell ecc ecc ecc fino ad arrivare alla nascita dell’impero romano e l’impero ateniense di Pericle.

In tutti questi casi l’ordinamento repubblicano è venuto a mancare, portando al conferimento di poteri speciali ai capi politici, trasformando de facto quei sistemi politici “repubblicani” in sistemi totalitari, dal sapore monarchico, senza però assumere ufficialmente il titolo di “monarchia”, Pericle divenne “primo cittadino Ateniense“, Cesare venne proclamato dittatore a vita, Ottaviano scelse il “titolo” di Augusto, Cromwell divenne Lord Protettore, Napoleone fu proclamato Primo console (e poi imperatore), come anche Napoleone III e il cancelliere Palpatine in Star Wars, Lienin prima e Stalini poi, avevano assunto per loro le principali cariche dell’URSS ed Hitler divenne Führer, un titolo costruito ad hoc, che formalmente significava capo assoluto dello stato.

Le loro esperienze politiche e militari, sono molto diverse, e pure, presentano numerosi elementi di congiunzione, tutti loro riuscirono a trasformare l’ordinamento repubblicano, assumendo poteri straordinari a tempo indeterminato, e in tutti i casi sopracitati, questa assunzione di poteri straordinari fu determinata dalla necessità e dalla volontà popolare, di contrastare una minaccia politica/economica/militare interna o esterna, che rischiava di distruggere la pace e il benessere della repubblica. In tutti questi casi la repubblica aveva attraversato un periodo più o meno lungo di crisi istituzionale, che aveva portato ad una perdita di fiducia nelle istituzioni tradizionali.

Nel caso di Pericle, Atene era stata impegnata nelle guerre del Peloponneso, la Roma di Cesare e di Ottaviano aveva conosciuto quasi un secolo di guerra civile, con Cromwell, il regno unito aveva appena iniziato a muovere i primi passi in un sistema repubblicano, la francia di Napoleone Bonaparte e di Napoleone III aveva appena attraversato una forte e dolorosa ondata rivoluzionaria, la Russia di Lienin aveva conosciuto la rivoluzione, la caduta degli Zar e la prima guerra mondiale, e la Germania di Hitler veniva dalla sconfitta nella prima guerra mondiale e dalla fallimentare esperienza della repubblica di Weimar, l’Impero galattico, aveva conosciuto una profonda crisi finanziaria ed una colossale guerra civile durata più di vent’anni e in fine, ma non meno importante, anche se non costituì l’avvento di una dittatura, il successo elettorale di Agostino Depretis nel 1876, venne dopo quindici anni di politiche economiche e sociali che non erano riuscite a sanare la frattura sociale tra l’italia meridionale e l’italia settentrionale, e in cui, si era prodotto un progressivo inasprimento delle politiche economiche giunto al proprio culmine con la creazione di tasse altamente impopolari, come la tassa sul macinato, il tutto, agli albori della storia unitaria del neonato regno d’italia che, nel 1876 esisteva ufficialmente da soli quindici anni.

Potrei andare avanti all’infinito, di esempi ne abbiamo ancora a migliaia, ma direi che possiamo anche fermarci qui, quelli elencati ci forniscono un immagine molto nitida di questa particolare meccanica politica che, a tutti gli effetti possiamo identificare come una dinamica storica.

Non vi è miglior modo per compattare la propria base elettorale per produrre la nascita di una nazione se non quello di individuare un nemico esterno con il quale non è possibile identificarsi e a cui attribuire la responsabilità di ogni male e disfunzione della nostra società e questo lo sanno anche i bambini.

Intorno all’anno 1096 l’europa era fortemente frantuma, il potere ecclesiastico e quello imperiale erano in forte competizione, l’europa viveva a pieno le lotte per le investiture e in quel momento storico, fu adottata, ancora una volta questa ricetta, il nemico dell’europa, nello scontro tra Papato ed Impero, fu individuato nel mondo islamico, nel controllo della terra santa e fu indetta la prima crociata che, tra le mille ragioni economiche e politiche possiamo certamente indicare la necessità di spostare l’attenzione su un nemico esterno per rafforzare la politica interna.

Ci tengo a sottolineare che, non tutti gli esempi che ho citato produssero un effettivo regime totalitario e in alcuni casi ciò che venne a crearsi fu un sistema istituzionale “positivo” e magari anche democratico, basti pensare all’Atene di Pericle o all’Italia di Depretis. Ciò accomuna tutti gli esempi sopracitati (e anche quelli che non ho citato perché sarebbero troppi da citare tutti) non è la natura totalitaria del sistema politico che venne a crearsi, non sto riscrivendo le origini del totalitarismo, non sono certo Hannah Arendt, ciò che li accomuna è che è al centro di questo articolo, fu la strategia politica, comunicativa, espressiva, che venne utilizzata per il raggiungimento del potere ed è una strategia che possiamo individuare nell’attuale politica italiana di Lega e Movimento 5 Stelle.

A scanso di equivoci, con questo articolo non voglio insinuare in alcun modo che Lega e Movimento puntino a creare un regime totalitario in italia, ciò che mi interessa fare con questo articolo è  analizzare e contestualizzare storicamente la strategia politica utilizzata dalle due forze politiche che hanno monopolizzato il terreno del dissenso generale.

Come abbiamo visto fino ad ora, la linea politica scelta dai due partiti non è certo un invenzione del ventunesimo secolo, non è certo il frutto del meticoloso lavoro di un brillante e innovativo stratega politico, la strategia utilizzata è una strategia vecchia, antica, quasi ammuffita se non fosse che è una strategia efficace, funziona oggi come funzionava il secolo scorso e come funzionava duemila anni fa.

Matteo Salvini e Luigi di Maio non sono altro che dei novelli Marco Antonio e Ottaviano, durante il secondo triumvirato, accomunati da un senso di rivalsa e di vendetta nei confronti dei cesaricidi, presentati al popolo romano come cospiratori che avevano attentato alle istituzioni repubblicane e ottenendo l’appoggio delle istituzioni repubblicane e del popolo romano per sconfiggere questo nemico comune.

Marco Antonio ed Ottaviano costruirono la propria campagna politica puntando sulla guerra contro i cesaricidi facendo passare l’idea che l’assassinio di cesare fosse un attentato alla repubblica e che i cesaricidi fossero dei criminali, perché in effetti Cesare ricopriva quella posizione di dittatore a vita in maniera legittima e godeva di un enorme consenso popolare, de facto assassinare cesare e soprattutto assassinare il leader supremo Cesare fu effettivamente un attacco “terroristico” ai danni della repubblica. Va però ricordato che il primo ad attentare alla repubblica fu proprio Cesare che aveva assunto per se poteri politici illimitati, e li aveva ottenuti in maniera legittima perché lui, li aveva resi legittimi, dall’altra parte i cesaricidi avevano agito al di fuori della legalità perché posti fuori dalla legalità da Cesare, ma, nei loro intenti,  ambivano alla ricostruzione della repubblica, una repubblica che da quasi un secolo, tra guerre sociali e guerre civili, aveva smesso di funzionare regolarmente.

Vi è dunque una forte ambiguità giuridica nella vicenda del cesaricidio che, a seconda della chiave interpretativa, può dare ragione ai Cesaricidi o ad Ottaviano e Marco Antonio.

Ed è proprio partendo da questa ambiguità giuridica che parte la mia associazione di Salvini e DiMaio a Marco Antonio ed Ottaviano, poiché, in seguito alla rinuncia di Conte all’incarico di presidente del consiglio dei ministri dovuto al veto posto dal presidente della repubblica Sergio Mattarella sul nome del proposto ministro dell’economia e della finanza Paolo Savona, Salvini e Di Maio, hanno gridato nelle rispettive dirette su facebook, ad un Attacco alla democrazia da parte del Presidente Mattarella, il quale, secondo i due politicanti avrebbe “abusato” dei propri poteri di capo dello stato, imponendo la sostituzione di un ministro, rivendicando così una presunta ambiguità giuridica nelle azioni di Mattarella.

In realtà nella decisione del Presidente della Repubblica non ci è alcuna ambiguità giuridica, in quanto gli articoli 87 e 92 della costituzione italiana, sono abbastanza chiari ed esplicativi, il Presidente della Repubblica nomina il presidente del consiglio e su proposta di questo i ministri. Va da se che il termine “proposta” implica la possibilità di un rifiuto di quei ministri e quindi la necessità di proporne semplicemente di nuovi.

In questo senso, non è infatti anomalo, nella storia dell’Italia repubblicana, imbattersi in Presidenti della Repubblica che, nel pieno dei propri poteri riconosciuti dalla costituzione, hanno richiesto al presidente del consiglio di sostituire alcuni nomi, basti ricordare che:

Nel 1979, il presidente Sandro Pertini, il più amato dagli italiani, bocciò il nome di Clelio Darida, proposto dal presidente del consiglio Francesco Cossiga per il ministero della difesa, la risposta di Cossiga a questo rifiuto fu la sostituzione del nome di Darida con quello di Attilio Ruffini, ma il cambio di nome sulla poltrona ministeriale non costituì un cambio della politica di Cossiga sul tema della difesa.

Nel 1994, il presidente Oscar Luigi Scalfaro, bocciò il nome di Cesare Previti, proposto da Silvio Berlusconi per il ministero della Giustizia, come Cossiga prima di lui, Berlusconi sostituì il nome di Previti con quello di Alfredo Biondi senza però modificare la politica del governo Belusconi I sul tema della giustizia.

Nel 2001, il presidente Carlo Azeglio Ciampi, bocciò, il nome di Roberto Maroni, proposto da Silvio Berlusconi, per il ministero della Giustizia, come già accaduto nel 94, Berlusconi cambiò il nome del ministro ma non la politica del suo governo sul tema della giustizia.

In fine, ma non meno importante, nel 2014, il presidente Giorgio Napolitano, bocciò il nome di Nicola Gratteri proposto da Matteo Renzi per il ministero della giustizia. Come tutti i suoi predecessori, il rifiuto del presidente della repubblica per il nome di un ministro non portò al fallimento del governo o ad un cambio di rotta del governo sul tema della giustizia, Renzi, come Berlusconi e Cossiga prima di lui, si limitò ad indicare un nuovo nome per il ministero e la sua scelta ricadde sul nome di Andrea Orlando.

Quest’ultimo nome è forse quello più interessante per l’esempio e per demistificare la teoria cospirazionista avanzata da Lega e Movimento 5 Stelle secondo cui vi sarebbe un potere occulto a Bruxelle che vuole rendere schiavo il popolo italiano e i poteri forti nazionali, incarnati dalla politica di Matteo Renzi e del Partito Democratico sarebbero al servizio di questo potere occulto, e pure, lo stesso Matteo Renzi, che secondo la teoria cospirazionista era al servizio di queste forze occulte, nel 2014, ha visto bocciare uno dei ministri che aveva proposto, Renzi non era un servo di quei poteri forti? perché Napolitano gli bocciò il nome di Gratteri? questa bocciatura rappresenta una falla di proporzioni bibliche nella teoria cospirazionista.

La bocciatura di un nome per un ministero, non è altro che una questione di formalità, in quanto, in una repubblica parlamentare, i ministri non agiscono e non possono agire in piena autonomia, ma devono rispondere alle linee guida fornite dal parlamento e dai partiti che lo compongono, de facto i ministri non dettano la direzione del ministero ma ne incarnano il volto, sono una sorta di biglietto da visita e svolgono una funzione prevalentemente di rappresentanza oltre che politico amministrativa.

In questo caso specifico, in cui lo stesso presidente del consiglio dei ministri Giuseppe Conte avrebbe ricoperto un ruolo prevalentemente politico e le cui decisioni, tra cui la stessa rosa dei ministri, sarebbero dipese quasi totalmente dalla volontà dei due vicepresidente del consiglio proposti, Matteo Salvini e Luigi DiMaio, il nome del ministro incaricato sarebbe totalmente irrilevante e la linea d’azione di quel ministero sarebbe dipesa esclusivamente dalle direttive gialloverdi e se dai due partiti e dai due leader politici vi fosse stata una reale inclinazione democratica alla formazione di un governo, sarebbe stato sufficiente indicare un nome alternativo ed indicare Paolo Savona come sottosegretario, affidando de facto a lui il controllo formale del ministero, ma ponendo un volto differente.

Il ritiro immediato di Conte difronte alla richiesta del presidente della repubblica di proporre un nome differente per il ministero dell’economia e la netta chiusura di Matteo Salvini e Luigi DiMaio al dialogo democratico, si traduce in un reale attacco alla democrazia che in apertura ho descritto come un pisciare sulla costituzione e cagare nei corridoi del Quirinale per poi puntare il dito contro Mattarella, un uomo che ha assolto ai propri doveri in maniera encomiabile e concedendo fin troppo tempo e fiducia a due forze politiche costituenti una maggioranza estremamente fragile, e questa fragilità è emersa alla prima incertezza, alla prima indecisione, alla prima richiesta di una reale attività politica, avendo come effetto un irrazionale e sproporzionata chiusura alle istituzioni. Sergio Mattarella ha concesso a Salvini e DiMaio tempo e fiducia, ha affidato loro il futuro del nostro paese ed in cambio ha chiesto un dialogo che gli è stato negato ed ha ottenuto come risultato insulti e minacce ingiustificabili ed estremamente gravi, i cui autori, per quanto mi riguarda, dovrebbero essere condotti dinanzi alla giustizia dalle autorità competenti.

Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono INCOMPATIBILI con la costituzione

In molti mi avete chiesto di parlare di quello che è successo a Torino tra il leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e il direttore del museo Egittologico di Torino Chrustian Greco. E delle recenti dichiarazioni del leader della Lega Matteo Salvini secondo cui l’Islam sarebbe incompatibile con la nostra costituzione.
Volevo realizzare un video per dire la mia a riguardo, ma non sapevo esattamente come impostare il discorso e non avevo voglia di mettere su luci, microfono e telecamera, così alla fine ho optato per un ennesimo post di opinione personale.

Cominciamo col dire che da circa 70 anni, ovvero dal primo gennaio del 1948, l’Italia è uno stato laico. Forse Matteo Salvini e Giorgia Meloni erano troppo impegnati a non portare a termine gli studi e si sono persi quel passaggio storico in cui il vecchio statuto Albertino veniva sostituito dalla nostra attuale carta costituzionale o forse, più semplicemente non hanno mai avuto modo di leggere tutta la costituzione, in fondo hanno iniziato la loro attività politica da giovanissimi e l’articolo 3 della costituzione non è proprio il primo articolo, ed è preceduto da almeno mezza pagina piena di parole complicate, quindi è perfettamente comprensibile che dei leader politici, appartenenti ad una delle principali coalizioni politiche del paese, non sappiano dell’esistenza di un articolo della costituzione che definisce l’Italia uno stato laico in cui ogni culto religioso e confessione religiosa, possono essere professati liberamente, ovviamente nei limiti concessi dalla legge.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Articolo 3 della costituzione Italiana.

Ma forse la loro ignoranza non è così genuina, personalmente non credo che Matteo Salvini ne tantomeno Giorgia Meloni siano realmente così stupidi e ignoranti, e questo forse è ancora più grave, perché posso capire chi non conosce qualcosa, io per primo sono assolutamente ignorante in tantissimi campi, ma non accetto che si finge ignoranza, poiché fingendo di non conoscere e di non comprendere la differenza abissale che esiste tra una lingua, una nazione, una cultura e una religione, questi individui alimentano ignoranza e intolleranza, e come saprete se mi seguite da un po di tempo, reputo questi elementi il piatto preferito del terrorismo, quello vero, non quello sognato e forse desiderato da questi abominevoli personaggi politici.

La lotta all’ignoranza, la promozione della cultura e della storia sono ovviamente qualcosa che mi coinvolge e mi riguarda da vicino, non dedicherei così tanto tempo ed energie a fare divulgazione storica e culturale in maniera totalmente gratuita e questo desiderio di diffondere la cultura è qualcosa che ho in comune con il direttore del Museo Egittologico di Torini, questo desiderio è una delle ragioni principali che hanno spinto il direttore Chrustian Greco a promuovere un iniziativa che a mio avviso è assolutamente lodevole, promuovendo una mostra gratuita per chiunque fosse di lingua madre arabo. Io faccio video e scrivo articoli gratuiti per chiunque abbia accesso ad internet, e questo, ci tengo a precisarlo, non significa discriminare chi non ha accesso ad internet.

L’iniziativa di Greco si propone almeno tre obbiettivi.

  1. Avvicinare al museo e dunque alla cultura egizia, un pubblico che normalmente non entrerebbe al museo, abbiamo quindi una promozione della cultura e della storia, sul piano sociale questa iniziativa ha lo scopo di nobilitare un passato ed una storia che il terrorismo internazionale e ancora di più dal terrorismo politico, tendono ad oscurare e discriminare.
  2. Avvicinare alla storia e alla cultura egizia chi viene da una cultura affine a quella egizia e che, per questa sua appartenenza culturale viene quotidianamente discriminato e messo all’angolo, perché non prendiamoci in giro, al giorno d’oggi essere di cultura “araba” significa essere discriminati e questa discriminazione di massa è dovuta alle azioni sconsiderate di pochi individui privi di scrupoli e che ambiscono al potere personale.
  3. Mostrare agli italiani che gli “arabi” non sono tutti terroristi e criminali e che hanno una lunga e ricca storia alle spalle che nulla ha da invidiare alla storia europea, anzi.

Tutto questo è stato preso dalla Meloni, stuprato, calpestato, ricoperto di merda e distorto per fini politici che a mio avviso hanno del vergognoso, perché fanno apparire questa iniziativa che ha il fine ultimo di Includere, come un iniziativa che vuole Escludere qualcuno, e questo asserendo la folle e delirante teoria che agevolare qualcuno significhi discriminare qualcun altro, in questo caso secondo Giorgia Meloni, si discriminerebbero gli italiani.

A questo punto mi rivolgo direttamente a alla signora Meloni.

“Cara Giorgia, nessuno ti vieta di entrare al museo egittologico di torino (anche se, a questo punto, se fossi io il direttore, affiggerei un bel un cartello all’ingresso del museo con la tua faccia e la scritta “io qui non posso entrare” , almeno così potresti dire con ragione di causa di essere discriminata) e nessuno vieta agli italiani di fare visita regolarmente al museo, chiunque può entrare liberamente e normalmente, ma forse tu volevi solo risparmiare i soldi del biglietto e se ti fossi informata un minimo, sapresti che ci sono almeno 12 giornate all’anno in cui chiunque può entrare gratis al museo Egittologico di Torino, inoltre, in tutto l’anno ci sono numerose giornate speciali che permettono a varie categorie di entrare gratis, senza poi considerare tutti i giorni in cui il costo del biglietto è ridotto o puramente puramente simbolico e tutte le categorie, come gli studenti ad esempio, che godono di numerose agevolazioni.
Se dare l’ingresso gratuito, per un periodo limitato di 3 mesi, a chi parla arabo significa discriminare chiunque non parli arabo, allora anche dare l’ingresso gratuito ad i genitori alla festa del papà o alla festa della mamma, significa discriminare chi non ha figli,dare l’accesso gratuito alle coppie il giorno di san Valentino significa discriminano i single (in realtà chiunque vada lì da solo, perché per coppia si intendono letteralmente due persone) ecc, ecc, ecc, o ancora, il biglietto ridotto per gli studenti o per i minori di una certa età e sopra una certa età significa discriminare chi non è studente e chi ha un età nel mezzo tra i 18 ed i 65 anni circa, e ovviamente non è proprio così.
Cara Giorgia, probabilmente avrai notato che non ho scritto “gli italiani” ma ho elencato alcune categorie di persone, e l’ho fatto per una ragione, forse tu non lo sai, ma parlare arabo non significa avere una determinata nazionalità, praticare una determinata religione o appartenere ad una specifica etnia, la lingua non definisce nulla di tutto ciò, la lingua è solo uno dei tantissimi tratti culturali di cui disponiamo e ridurre tutta questa varietà culturale ad un mero aspetto linguistico, per quanto mi riguarda è terribilmente imbarazzante e profondamente ingiusto.

L’accesso al museo Egittologico, nell’iniziativa di Greco è gratuito per chiunque parli Arabo, ma cosa significa questo e dov’è l’errore o forse è meglio dire la malafede di Giorgia Meloni in tutto questo ?
Bisogna fare una premessa per me scontata ma a quanto pare, non lo è per tutti, se da una parte infatti parlare la lingua araba sia una conditio sine qua non per poter la fese islamica, poiché il vero Corano è scritto solo in arabo e questo perché tradurlo significherebbe modificare l’essenza del messaggio, non a caso molti dei problemi legati all’interpretazione del Corano sono derivati proprio dalla sua traduzione, comunque, un islamico deve necessariamente saper leggere, scrivere e parlare la lingua araba per poter prendere parte alla vita religiosa, tuttavia, parlare arabo non rende automaticamente islamici, vi sono de facto, nei paesi islamici o a maggioranza islamica come l’Egitto, numerose minoranze religiose non islamiche che però parlano arabo, in Egitto abbiamo una delle più grandi comunità copte del pianeta ed i copti sono cristiani se bene non di fede romana, sono comunque cristiani e quindi non serve che lo dica, non sono islamici, e pure la loro lingua è l’arabo, e il fatto che parlino arabo, nel caso specifico del museo Egittologico di Torino in questo momento, da loro diritto all’accesso agevolato al museo.

Agevolare qualcuno in qualcosa, per un periodo più o meno limitato di tempo, non significa e non può significare discriminare qualcun altro, perché se così fosse, l’esistenza delle categorie protette sarebbe una discriminazione per chi non appartiene a quelle categorie e non vi sarebbe più alcun dubbio sul fatto che le famose “quote rosa” di cui la signora Meloni è stata ed è una grande sostenitrice e promotrice, siano una terribile discriminazione nei confronti degli italiani di sesso maschile. E in effetti, grazie alle quote rosa una persona dalla dubbia competenza quale la signora Giorgia Meloni, ha potuto costruire gran parte della sua carriera politica, cosa che in un sistema meritocratico probabilmente non sarebbe mai stata possibile.

A questo punto mi sembra evidente che tra Chrustian Greco e Giorgia Meloni e le rispettive ragioni, esista un abisso culturale insormontabile, da una parte abbiamo un direttore museale che ha costruito la propria carriera sui propri studi e le proprie capacità ed ha come obbiettivo unico quello di promuovere la cultura. Dall’altra parte abbiamo un politico dalle dubbie competenze e capacità che ha costruito la propria carriera sfruttando le agevolazioni di cui godeva in quanto donna, ed ha come obbiettivo ultimo, creare una devastante e distruttiva spaccatura culturale, un obbiettivo che a quanto pare condivide con Matteo Salvini, probabilmente il peggior terrorista che abbiamo in Italia.
Personalmente credo che questi due esseri condividano un genuino desiderio di caos istituzionale e politico, credo che uomini e donne come loro nutrano un odio profondo nei confronti dell’italia e del suo popolo, della sua storia e della sua cultura millenaria, una storia fatta di incontri e scontri di civiltà che per millenni hanno plasmato la morfologia di uno dei popoli più variegati culturalmente dell’intero globo. Ma tutto questo a loro sfugge o peggio, fingono di non vederlo, rifugiandosi in un mitico passato che forse non è mai realmente esistito e rievocando gli spettri di anni oscuri, tra i più cupi che questo paese, questo continente e anzi, questo pianeta, abbiano mai vissuto.

Personalmente, da italiano, spero di non dover pagare per l’ignoranza, l’arroganza e l’incompetenza di uomini e donne come Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

 

TRIUMVIRATO – Quando un accordo privato decide le sorti di una repubblica

Come certamente saprete il Primo Triumvirato tra Gaio Giulio Cesare, Marco Licinio Crasso, e Gneo Pompeo Magno nel 60 a.c. è stato un accordo privato e non ufficiale che avrebbe permesso a tre uomini politici di ottenere enormi poteri e privilegi.
Ma come è stato possibile, nella perfezione della Repubblica di Roma, che tre uomini, tre privati cittadini, grazie ad un accordo privato, siano riusciti ad ottenere il controllo totale della repubblica e delle sue istituzioni?

Per dirlo in breve, questi tre uomini erano tutti e tre uomini politici che avevano seguito il lungo iter della politica romana del tempo e con questo accordo non ufficiale decisero di allearsi politicamente e di appoggiarsi a vicenda nelle elezioni per le varie magistrature, potremmo definirla come una sorta di archetipo di una moderna alleanza non ufficiale tra partiti politici.

Per fare un esempio contemporaneo e di attualità, chiamo in causa tre leader di partiti politici a caso, ai fini dell’esempio i nomi non sono importanti. Queste tre personalità politiche si incontrano privatamente in una località esterna ai luoghi della politica. quale può essere un resort di lusso, una sagra di paese o una residenza privata e durante l’incontro o gli incontri vengono definiti gli aspetti principali del loro accordo con cui, restando elasticamente fedeli alla propria linea politica e restando politicamente separati, in quanto candidati in partiti differenti che tuttavia corrono in un unica lista e, al momento delle elezioni, facendo confluire i voti raccolti dai singoli partiti nell’unica lista comune, riescono ad ottenere o a far ottenere almeno ad uno dei tre, un importante incarico politico.

Questo tipo di accordi oggi è ufficialmente riconosciuto e consentito, ma nella prima metà del primo secolo A.C. non era propriamente ufficiale come pratica, se bene fosse abbastanza comune che vari uomini politici si accordassero privatamente per il conseguimento di una data magistratura. Il discorso sarebbe cambiato leggermente con il secondo triumvirato, ma questo è un altro discorso.

Tornando al primo Triumvirato, prima di allearsi tra loro Cesare, Crasso e Pompeo avevano già ricoperto diverse magistrature “inferiori” grazie alle quali erano riusciti ad ottenere in alcuni casi incarichi militari più o meno importanti, con tutti i privilegi che ne derivano e questo non è un elemento di poco, anzi, direi che è fondamentale per spiegare le ragioni del potere di questi tre uomini.

L’aver ricoperto incarichi militari in questo dato momento storico è molti importante, perché siamo in una Roma post riforma dell’ordine militare di Gaio Mario, una riforma che rese l’esercito da volontario a professionistico e mercenario, in pratica i soldati iniziavano la carriera militare in primis per la garanzia del soldum (fondamentalmente un salario) e poi per l’onore e la patria, ma quando l’alternativa è la fame, l’onore e la patria passano in secondo piano. Questa trasformazione dell’esercito ha importantissime conseguenze politiche e sociali che avrebbero trasformato radicalmente il volto di roma ed avrebbe portato soprattutto ai comandanti militari un grande, enorme potere politico.

Il potere derivato da un comando militare era dovuto a diversi fattori riducibili per lo più al forte legame che intercorre tra i comandanti ed i propri soldati. Questo legame non è ovviamente un esclusiva dell’esercito romano, anzi, è un qualcosa che ha caratterizzato e caratterizza tutt’oggi qualsiasi organismo militare e questo legame è particolarmente forte quando i comandanti vivono sul campo insieme ai propri soldati e ancora di più quando sono i comandanti a pagare i propri soldati. Certo, la paga dei soldati era versata dalle casse di Roma e non dalla tasca del comandante, ma quando sei sul campo, impegnato in lunghe marce che durano mesi e mesi, oltre i confini, in una terra selvaggia e ostile, contro un nemico invisibile e in un epoca in cui non esiste il diritto internazionale, e che non lo fai un saccheggio al villaggio/città nemica più vicino? non lasci stuprare donne, uomini e bambini che vivono nei villaggi/città che stai saccheggiando ai tuoi soldati? Non prendiamoci in giro, certo che lo fai.
Garantire ai propri soldati questo genere di “privilegi”, e di “libertà” che rendevano meno faticosa la vita militare e inoltre permetteva ai soldati di arrotondare il salario, è una pratica barbarica oggi ampiamente condannata che tuttavia è sopravvissuta almeno fino all’ultimo conflitto mondiale e storicamente si è sempre tradotta, quasi automaticamente in un rafforzamento del già forte legame tra i comandanti ed i soldati sotto al loro comando. Questo legame, questa fedeltà, si traduce a sua volta in peso e influenza politica, perché fondamentalmente i soldati, rappresentano la spada dello stato, inoltre, in epoca romana i soldati votano e il voto dei soldati è in questo momento un voto privilegiato per ragioni che vedremo più in avanti, inoltre anche le loro famiglie votano e il soldato vota il proprio comandante, vota l’uomo con cui ha versato fiumi di sangue e con cui ha rischiato la vita, vota l’uomo che lo ha reso, non dico ricco, ma gli ha permesso di avere una casa dignitosa e magari anche con un pezzo di terra da coltivare.
A tutto questo va aggiunto anche che, soprattutto Cesare, ma anche Crasso e Pompeo, godevano di un enorme e crescente consenso popolare, questo consenso era dovuto al fatto che i tre erano percepiti come “uomini nuovi” della politica romana, fondamentalmente perché politicamente legati a quelli che possiamo considerare, in maniera molto anacronistica, dei partiti populisti che de facto prendevano le distanze dalla vecchia politica, dalle vecchie caste e dalla tradizionale aristocrazia romana, proponendo al contrario riforme, innovazioni e una nuova classe dirigente per Roma che veniva direttamente dal popolo.

Cesare, Crasso e Pompeo sono quindi uomini nuovi che possono godere della fedeltà dell’esercito e  l’esercito, nella politica romana, è sempre stato un interlocutore privilegiato per diversi fattori, in primis perché durante la fase espansionistica l’esercito rappresenta il principale motore economico e sociale per uno stato, e nel primo secolo a.c. Roma è nel vivo della propria fase espansionistica. Se da un lato l’esercito rappresenta la principale spesa per la Repubblica, perché mantenere un esercito permanente così grande costa tanto, è anche vero che le nuove conquiste territoriali che avrebbero portato Roma ad estendere, in questo periodo, il proprio potere sull’intero bacino del mediterraneo, hanno l’effetto di portare sotto il controllo di Roma nuove terre e ingenti ricchezze e fondamentalmente l’esercito non solo si ripaga da solo con le proprie conquiste territoriali, ma il surplus di ricchezza e terra si traduce in un importante introito a vantaggio di tutta Roma.
Procedendo con un altro esempio contemporaneo, potremmo sostituire l’esercito romano con un interlocutore privilegiato della nostra epoca, ovvero le grandi aziende nazionali e multinazionali. In un epoca in cui non c’è più nulla da conquistare sul pianeta e l’economia è diventata più astratta e meno legata alla terra, non è più la conquista geografica a garantire un canale privilegiato con la politica, ma il fatturato e per via delle loro enormi entrate economiche, le grandi aziende e corporazioni da un lato, ed i sindacati dall’altro sono diventate de facto alcuni dei principali interlocutore della politica.
Garantire ai soldati di epoca romana, libertà di stupro e saccheggio si traduce in epoca moderna nel garantire e tutelare i mercati nazionali con misure protezionistiche, si traduce nello strizzare un occhio al settore industriale promettendo misure meno rigide per quanto riguarda le emissioni inquinanti, la sicurezza dei propri lavoratori e l’evasione fiscale, ma anche, dall’altra parte, garanzie per il mantenimento di posti di lavoro e per maggiori tutele in campo di sicurezza sul lavoro.

L’insieme di un crescente consenso popolare dovuto allo scontento per l’inadeguatezza della vecchia classe politica e l’appoggio di importanti interlocutori privilegiati e di mille altri fattori, si traduce in un enorme influenza e peso politico che de facto avrebbe dato a Cesare, Crasso e Pompeo il potere di poter decidere insieme le sorti di Roma, alleandosi e formando quello che sarebbe passato alla storia come il primo Triumvirato.