Paolo Thaon di Revel, il Duca del Mare della marina militare Italiana

Paolo Thaon di Revel fu un militare e politico italiano. Primo ed unico Grande Ammiraglio nella storia della marina militare italiana

Paolo Thaon di Revel (1859-1948) al secolo Paolo Camillo Margherita Giuseppe Maria Thaon di Revel, è stato uno dei grandi protagonisti della storia militare del regno d’Italia, fu infatti il primo, ed unico, uomo a ricevere, nel maggio del 1924 il titolo di Duca del mare ed è stato anche l’unico ammiraglio, in tutta la storia della marina italiana, monarchica e repubblicana, ad essere promosso al titolo onorifico di Grande Ammiraglio nel novembre del 1924.

Il motivo per cui Paolo Thaon di Revel nel 1924 ottenne queste onorificenze è principalmente politico, l’Italia, più precisamente l’Italia fascista, stava cercando di costruire una propria “mitologia” legata alla prima guerra mondiale, concedendo onorificenze e riconoscimenti a coloro che, durante e dopo il conflitto, si erano distinti in modo particolare, e Paolo Thaon di Revel era, agli occhi dei fascisti, l’eroe che a Parigi si era battuto per il rispetto del patto di Londra, de facto un precursore della teoria della vittoria mutilata, ma a parte questo.

La grande guerra di Thaon di Revel

Quando inizia la grande guerra, nel 1915 Thaon di Revel era capo di stato maggiore, tuttavia, in seguito a diverse controversie con l’allora comandante in capo dell’armata, il vice ammiraglio Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, Duca degli Abruzzi, Thaon di Revel rassegnò le proprie dimissioni al re Vittorio Emanele III al quale sembra si presentò con le seguenti parole

«Maestà devo combattere e guardarmi dagli austriaci, dagli Alleati e dagli ammiragli italiani. Le assicuro che i primi mi danno meno da fare degli altri due».

Non più capo di stato maggiore, Revel ottenne la nomina di comandante in capo del dipartimento militare marittimo di Venezia, dove, con grande lungimiranza, promosse l’utilizzo massiccio di nuove tecnologie belliche, come treni armati e motoscafi armati siluranti, più noti come MAS, praticamente dei mezzi d’incursione marittima, molto agili e veloci. Fu inoltre un grande sostenitore della teoria della supremazia dell’aria, promuovendo il potenziamento dell’aviazione nautica, precursore dell’aereonautica militare italiana.

Questo è un treno armato

Finita la guerra Revel partecipa, insieme al ministro degli esteri Sonnino, in qualità di delegato navale, alla conferenza di Parigi, dove difese i “diritti italiani sulla Dalmazia” e chiese il rispetto del Patto di Londra. La sua battaglia politica a Parigi fu molto apprezzata dai futuri sostenitori della teoria della vittoria mutilata.

Dal ministero della guerra alle controversie con Mussolini

Nel 1922 entrò a far parte del primo governo Mussolini, come Ministro della regia Marina e, insieme al generale Pietro Armando Diaz (Ministro della guerra) e di Giovanni Gronchi, futuro presidente della repubblica, in quel momento, Sottosegretario al Ministero dell’Industria e del Commercio, rappresentava uno degli uomini di fiducia del Re nel “primo governo nazionale”.

Durante il proprio mandato da ministro, Revel promosse la costruzione di due velieri da utilizzare come nave scuola, la Cristoforo Colombo e la Amerigo Vespucci, la prima venne ceduta, dopo la fine della seconda guerra mondiale, all’Unione Sovietica come parte dei pagamenti bellici, la seconda invece è ancora in servizio come nave scuola per la Marina militare italiana.

Revel era uomo di mistica fede monarchica, discendente di un’antica famiglia nobiliare molto vicina alla casa sabauda, e, sul piano politico, la propria fede nella monarchia non cessò mai di esistere, neanche di fronte ai tentativi di persuasione di Mussolini, con il quale, durante il proprio mandato di Ministro della Marina, si scontrò in diverse occasioni, al punto che, nel maggio del 1925, di fronte all’ennesima controversia, non condividendo la riforma dell’ordinamento militare che istituiva un comando supremo di tutte le forze armate, de facto subordinava la Marina all’esercito, Revel, che da tempo chiedeva un sistema di coordinamento delle forze armate, rassegnò nuovamente le proprie dimissioni dal ruolo di capo di stato maggiore.

Revel, un eroe “antifascista” del fascismo.

Durante la seconda guerra mondiale Revel partecipò come uomo di fiducia del Re agli incontri settimanali che si tenevano ogni giovedì al Quirinale, tuttavia sembra che non venne coinvolto direttamente nei negoziati per l’Armistizio probabilmente perché ormai già molto anziano.

Anche se per la propaganda mussoliniana Revel era un “eroe del fascismo” , quando Mussolini, tradì il re e promosse una secessione italiana fondando la RSI, Thaon di Revel rimase fedele alla casa reale rifiutando di aderire alla RSI. La sua inesauribile fede nella monarchia venne “premiata” con la nomina, a presidente del senato e successivamente entrò, in seguito all’abdicazione di Vittorio Emanuele III, entrò a far parte della cerchia ristretta di consiglieri di re Umberto II.

In vista del referendum del giugno del 46, Revel si schierò, per ovvie ragioni, a favore del blocco monarchico, successivamente, con l’avvento della repubblica, Paolo Thaon di Revel si ritirò a vita privata, per poi morire nel 1948 alla veneranda età di 89 anni.

Qualche informazione sulla famiglia Thaon di Revel

La storia di Paolo Thaon di Revel rappresenta solo l’ultimo capitolo della storia di una delle antiche famiglie nobiliari italiane, una famiglia che ha giocato un ruolo importantissimo nella storia italiana, nella storia del regno d’Italia e soprattutto, nella storia della dinastia Sabauda.

Fin dal loro arrivo in Piemonte, avvenuto nel XV secolo, i Thaon, poi Thaon di Revel al seguito della nomina sabauda a signori di Revel, hanno sempre guardato le spalle ai Savoia, furono proprio loro ad elevare i Thaon, da signori della guerra a capo di una compagnia di ventura, al rango nobiliare, prima come signori di Revel e poi come Marchesi, Conti e Duchi.

Per secoli i Revel sono stati dei fedeli servitori e protettori della dinastia sabauda, una piccola ma tenace casa nobiliare italo francese e la loro vicinanza alla casa di Savoia proiettò i Thaon di Revel nel vivo del risorgimento italiano.
Ottavio Thaon di Revel, padre di Paolo Thaon di Revel, fu uno dei più stretti collaboratori e consiglieri di Carlo Alberto di Savoia, fu deputato del regno di sardegna ininterrottamente tra la prima e la sesta legislatura e fu senatore del regno d’Italia, inoltre, nel 1848 fu Ministro delle finanze del regno di Sardegna, sotto i tre governi Bolbo, Alfieri di Sostegno e San Martino che si susseguirono in quell’anno, ma non solo. Sempre nel 1848, Ottavio Thaon di Revel, fu cofirmatario dello Statuto Albertino, la prima “costituzione” italiana, rimasta in vigore fino all’entrata in vigore della costituzione repubblicana.

Bibliografia

Scheda senatore Paolo Thaon di Revel
Grandammiraglio Paolo Thaon di Revel
Patto di Londra su JSTOR

L’Influenza Spagnola (1918-1920) è arrivata dagli USA ?

Secondo uno studio del 2014 l’Influenza spagnola, che tra il 1918 ed il 1920 ha mietuto più di 100 milioni di vittime, sembrerebbe essere arrivata in europa per poi diffondersi in tutto il mondo, attraverso lavoratori cinesi impegnati nelle retrovie francesi e britanniche, tuttavia, più accurati studi del 2016, sembrano andare in tutt’altra direzione, e confermare quello che già era emerso in uno studio storico del 1999.

Secondo uno studio del 2014 l'Influenza spagnola, che tra il 1918 ed il 1920 ha mietuto più di 100 milioni di vittime, sembrerebbe essere arrivata in europa per poi diffondersi in tutto il mondo, attraverso lavoratori cinesi impegnati nelle retrovie francesi e britanniche, tuttavia, più accurati studi del 2016, sembrano andare in tutt'altra direzione, e confermare quello che già era emerso in uno studio storico del 1999, ma andiamo con ordine.

Tra il gennaio del 1918 e il dicembre del 1920, la Grande Influenza, Influenza Spagnola o epidemia Spagnola, o chiamatela come vi pare, provocò tra i 50 ed i 100 milioni di vittime, e registrò oltre 500 milioni di contagiati. con un tasso di mortalità stimato del 15% circa.
La Grande epidemia è stata letta da molti “contemporanei” come una delle più grandi calamità del ‘900, visto anche il numero di vittime, che superò quello della peste nera del XV secolo, tuttavia, una più corretta analisi storica, ci ha permesso, in tempi più recenti, di fare chiarezza su quel drammatico episodio.

Va fatta una doverosa premessa. In moti credono che, l’influenza spagnola sia arrivata in Europa dagli USA, dove, secondo una teoria che a ottenuto un discreto successo in seguito ai fatti del 2009, quando il virus H1N1, già responsabile dell’influenza spagnola del 1918, ha fatto sentire nuovamente la propria presenza, su scala globale.

Secondo questa teoria, il virus H1N1, si sarebbe diffuso nel mondo, partendo da alcuni allevamenti di maiale in Kansas, negli USA. Tuttavia, questa teoria è stata abbandonata quando, studiando i casi clinici, è stato scoperto che in Europa, più precisamente in Francia, già nel 1917, erano stati registrati diversi casi di quella che in seguito sarebbe stata identificata come l’influenza spagnola.

Questo dato apparentemente banale, anticipa la manifestazione dell’influenza spagnola in Europa al 1917 e quindi prima dell’apparizione dei primi casi, datati 1918, in Kansas(USA).

Cominciamo con il dire che, la maggior parte delle vittime furono soldati tornati dal fronte, anziani, e che, la malattia si diffuse rapidamente tra i militari nel 1918 e gli inizi del 1919, mentre, nella seconda metà del 1919 e il 1920, furono infettati soprattutto anziani, operai e contadini, ovvero i membri più poveri della società, sia in Europa che nel resto del mondo.
La diffusione dell’influenza spagnola tra questi individui, è molto significativa, perché ci dice che ad essere colpiti, in modo letale, dall’influenza, furono soprattutto quegli individui in condizioni sanitarie precarie. Questo è particolarmente evidente nei soldati tornati dal fronte malati, mutilati e deperiti, ma anche negli “anziani”, soprattutto se si considera che all’epoca, la speranza di vita media, era di circa 10/15 anni più bassa rispetto ad oggi.
Fu inoltre, relativamente alto, anche il numero delle vittime molto giovani, tra i 0 ed i 10 anni, ma parliamo di numeri che oscillano intorno al 3% delle vittime totali dell’influenza, contro un +60% di reduci di guerra.

Nel 1999 uno studio sull’influenza spagnola, condotto dal St Bartholomew’s Hospital e dal Royal London Hospital, guidato dal virologo virologo John Oxford, ha identificato nel campo militare di Étaples, in Francia, quello che è stato classificato come il centro della pandemia influenzale del 1918.
Da questo campo militare, situato a pochi chilometri dal fronte orientale francese, nella Francia settentrionale, era direttamente rifornito via mare dagli alleati Britannici e Statunitensi, in quanto centro nevralgico della rete logistica dell’Intesa sul suolo francese. La maggior parte dei medicinali, armamenti, rifornimenti, scorte alimentari ecc, che arrivavano in Francia, passavano per Étaples, così come passavano per Étaples i soldati britannici e statunitensi feriti in azione e pronti al rimpatrio.

L’importanza strategica e la centralità logistica di Étaples è stata, per il team di Oxford, uno dei motivi che hanno permesso all’influenza di diffondersi in tutto il mondo.
L’epidemia, ha osservato lo studio, ha colpito inizialmente i campi militari e per poi trasferirsi alle città portuali e industriali britanniche e degli USA, in cui transitavano i militari di rientro e gli equipaggi delle navi mercantili che trasportavano i rifornimenti per l’intesa.
Secondo lo studio di Oxford, una volta raggiunte le città, i primi ad essere contagiati sono stati gli operatori portuali, addetti al carico e scarico delle merci, seguiti poi dagli operai degli stabilimenti industriali e dalle loro famiglie, e a quel punto l’epidemia era impossibile da contenere, ed iniziò a mietere vittime anche tra la popolazione civile.
Oxford ed il suo team, osserva nello studio che dai campi ospedale in cui vennero ricoverati la maggior parte degli infetti civili, a differenza di quello che si è pensato per decenni, non contribuirono troppo al diffondersi della malattia in quanto medici ed infermiere nei campi, vivevano in un regime di quasi isolamento dal resto del mondo ed avevano per lo più contatti con i militari impegnati nel trasporto di malati e rifornimenti verso i campi.

Un più recente studio, datato 2014, condotto dallo storico canadese Mark Humphries del Memorial University of Newfoundland, incentrato sullo studio di documenti clinici che, fino a quel momento erano rimasti ignorati, e capirete a breve perché.
Ad ogni modo, l’originale studio di Humphries ha sottolineato il forte legame tra l’influenza Spagnola e la Prima Guerra Mondiale.
Detto molto brevemente, non è un caso, per Humphries, che la pandemia sia esplosa nel 1918, e questo perché, oltre all’importante canale di diffusione individuato da Oxford, durante la guerra furono impiegati tantissimi lavoratori, impegnati principalmente a scavare trincee dietro le linee Francesi e Britanniche, e tra questi uomini che lavorarono in condizioni igieniche pressoché inesistenti, sottolinea Humphries, erano presenti anche circa 96000 lavoratori cinesi, e sarebbero proprio questi lavoratori cinesi, per Humphries, il punto di origine dell’influenza Spagnola.

I documenti clinici studiati da Humphries non riguardano infatti la popolazione europea, ne quella statunitense, durante la prima guerra mondiale, ma riguardano invece una malattia che, nel 1917, copi la Cina settentrionale.
Per Humphries questa sconosciuta malattia cinese, giunta in qualche modo in Europa durante la guerra attraverso i lavoratori cinesi impiegati nelle retrovie, sarebbe da considerarsi il vero fattore scatenante dell’Influenza spagnola.

Per quanto interessante la teoria di Humphries, va precisato che si basa esclusivamente sulla comparazione di cartelle cliniche di pazienti cinesi ed europei, vicini nel tempo e con sintomi simili, che però, non presenta molte informazioni effettive sul virus. De facto Humphries non era in grado da solo di stabilire se il fantomatico virus cinese del 1917 avesse qualche legame ereditario con il virus dell’influenza spagnolo.
Partendo dalla teoria di Humphries, nel 2016 è apparso sul Journal of the Chinese Medical Association un articolo in cui si osservava che non erano state ritrovate prove sufficienti per dimostrare che il virus cinese del 1917 ed il virus del 1918 fossero legati tra loro, più semplicemente, secondo questo articolo, si tratta di due virus diversi e non è possibile dimostrare che la trasmesso in Europa sia avvenuta attraverso soldati e operai cinesi provenienti dalla Cina.
Invece, vennero evidenziate prove che il virus circolasse negli eserciti europei già da mesi, e forse da anni, prima dello scoppio della pandemia del 1918, confermando quindi indirettamente, le teorie esposte da Oxford e dal suo team di ricerca, con lo studio del 1999.

Connor, Steve, "Flu epidemic traced to Great War transit camp", The Guardian (UK), Saturday, 8 January 2000. Accessed 2009-05-09. Archived 11 May 2009.
J.S. Oxford, R. Lambkin, A. Sefton, R. Daniels, A. Elliot, R. Brown e D. Gill, A hypothesis: the conjunction of soldiers, gas, pigs, ducks, geese and horses in Northern France during the Great War provided the conditions for the emergence of the "Spanish" influenza pandemic of 1918–1919, in Vaccine, vol. 23, nº 7, 2005, pp. 940–945, DOI:10.1016/j.vaccine.2004.06.035.
Hannoun, Claude, "La Grippe", Ed Techniques EMC (Encyclopédie Médico-Chirurgicale), Maladies infectieuses, 8-069-A-10, 1993. Documents de la Conférence de l'Institut Pasteur : La Grippe Espagnole de 1918.
G. Dennis Shanks, No evidence of 1918 influenza pandemic origin in Chinese laborers/soldiers in France, in Journal of the Chinese Medical Association, vol. 79, nº 1, 2016, pp. 46–8, DOI:10.1016/j.jcma.2015.08.009PMID 26542935.

La Germania fu davvero responsabile dell’inizio della prima guerra mondiale?

Un utente mi ha chiesto, su youtube, se credo che la Germania sia da considerarsi responsabile dell’inizio della prima guerra mondiale, e se dunque, da storico, credo alla versione ufficiale venuta fuori da Versailles, che, ricordiamo, riconobbe ufficialmente la Germania come unica responsabile dell’inizio della Grande guerra.

La risposta a questa domanda è un banale, bisogna distinguere le ragioni politiche (dell’epoca), serviva indicare un responsabile politico per quella drammatica guerra, e i fatti storici.
Politicamente parlando, i vincitori del conflitto, come il più delle volte accade, scaricarono la colpa e le responsabilità della vicenda sugli sconfitti, e, in questo caso specifico, avevano un arma potentissima nelle proprie mani, ovvero, il fatto che la Germania in termini pratici, era stata la prima a muovere guerra, insomma, che la Germania aveva materialmente iniziato il conflitto, trasformando quella che era una crisi regionale legata all’impero Austro-ungarico, in un conflitto prima europeo e poi mondiale.

Questo significa che la Germania è effettivamente responsabile della Grande Guerra, come i trattati di pace postbellici hanno stabilito? In realtà non è così semplice e lineare il passaggio.
Diciamo che, in un certo senso, è stato solo un caso che la guerra mondiale sia iniziata per mano tedesca e non per mano francese, britannica, russa, ottomana, o italica. è stato solo un caso che si intreccia ad un estremamente complicato e ingarbugliato contesto storico in cui, detto molto semplicemente, tutti volevano la guerra, ma nessuno era disposto ad iniziarlo.
Qualcuno, a ragione, potrebbe chiedere perché tutti volevano la guerra, e starei qui a fare l’elenco delle motivazioni per ore e giorni, ma diciamo che non è il caso di dilungarci, ogni nazione aveva le proprie ragioni, chi voleva assumere il controllo di ricche regioni minerarie di confine, chi voleva allontanare il confine dalle regioni minerarie, chi voleva ritagliarsi un angolo di mediterraneo, chi voleva strappare territori che considerava culturalmente parte del proprio stato, ai propri alleati, chi, voleva estendere il proprio potere e la propria influenza in europa e in area balcanica, e chi voleva semplicemente sparare perché si sentiva pronto per dimostrare al mondo la propria forza e a far da collante di tutte queste ragioni, c’erano interessi economici puri e semplici, perché in guerra servono armi, servono scorte, serve un sacco di roba, e chi produce queste cose vede le guerre come un importante business (e all’epoca non c’era ancora la carta della ricostruzione post bellica che fa fare ancora più soldi). .
Insomma, tutti avevano una ragione, chi economica, chi politica, chi animalesca, chi non sapeva cosa fare, e tutti erano in attesa, come uno scontro alla pistola nel vecchio west, tra lo sheriffo e il capo dei banditi, che, per onor di cronaca, all’epoca era tutt’altro che vecchio il vecchio west.

E il clima era proprio quello, erano lì, banditi, sceriffi e uomini della ferrovia, buoni, brutti e cattivi, che si guardavano con sospetto, che si scrutavano tutti fermi, immobili, in attesa che uno, uno qualsiasi, facesse la propria mossa, o che qualcuno nelle retrovie facesse un rumore o si muovesse in modo sospetto, per dare a qualcuno, uno qualsiasi, il pretesto giusto per sparare, e alla fine, qualcuno sparò prima degli altri, o meglio, qualcuno afferrò la pistola per sparare prima degli altri, ma il cowboy che aveva di fronte fu più veloce, probabilmente perché aveva un cecchino appostato sul tetto del saloon, un uomo armato che si trovava lì quasi per caso, che venne coinvolto nello scontro perché qualcuno aveva sparato sulla propria carovana, ignorando che quella carovana era carica d’esplosivo e armi, e così dunque finisce la storia. Il vecchio west, non tanto vecchio, era giunto in europa, e l’uomo a terra, che era a capo dei banditi, venne accusato di ogni crimine, compresi gli abusi di potere degli uomini dello sceriffo e delle angherie degli uomini della ferrovia.

In conclusione, la Germania ha iniziato la Grande guerra, ma la sua responsabilità nell’inizio del conflitto, non è superiore a quella di Francia, Regno Unito, Italia, russia, ecc ecc ecc.

Se l’analogia con il vecchio west vi è piaciuta e soprattutto vi ha aiutato in qualche modo a capire le dinamiche dell’inizio della grande guerra vi chiedo cortesemente di condividere questo post, grazie.

Protetto: Le sette guerre mondiali

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Cos’è una Crisi? Le filosofie di Nietzsche e Spengler

Come si definisce una crisi dal punto di vista storico e filosofico? Non basta un semplice elenco: un arretramento economico, un conflitto armato, un dissesto agricolo, una rivoluzione. Se così fosse, con crisi dovremmo intendere qualcosa di molto simile alla maggior parte degli accadimenti della storia moderna e contemporanea. Crisi non indica nemmeno un mutamento repentino, una trasvalutazione dei valori fino ad allora accettati (più o meno acriticamente).

Cambiamenti politici, economici, tecnologici, culturali; è innegabile che dal 1945 ad oggi abbiamo vissuto tutto ciò a un ritmo accelerato, senza avere la percezione che il mondo fosse in perenne crisi. Solo nell’ultimo decennio abbiamo cominciato ad assistere – e a percepire – un progressivo sgretolamento dell’ordine geopolitico (e mondiale) post-bellico, il che ha innegabilmente fatto sprofondare le coscienze nella caducità, nella disillusione, nella crisi.

Il punto interessante sembra essere questo: fino a che punto un mutamento che sfocia nel sovvertimento dei valori e/o uno sconvolgimento politico ed economico che innesca il progresso, anche a fasi alterne di crescita e decrescita, può qualificarsi e definirsi come una crisi? Quando gli storici ricorrono a questo termine di solito lo fanno a posteriori, mettendo insieme un pacchetto di dati e di fatti che, solo con “il senno di poi”, acquistano una coerenza e un significato che era impossibile cogliere per i contemporanei.

Ora del rancio. Soldati tedeschi dediti al trasporto del cibo verso le prime linee. Il cibo, o meglio la sua scarsità, fu una delle cause più importanti di morte (Copyright Archivio Top Foto).

La grande crisi seicentesca, il periodo delle guerre della Rivoluzione Francese, gli sconvolgimenti della fase napoleonica. Tutti esempi di crisi; ma ciò che non va dimenticato è la peculiarità di alcune tra queste crisi. Ad esempio, la crisi tra le due guerre mondiali si rivelò diversa dalle precedenti. Le popolazioni erano coscienti di attraversarla. Prima non accadeva. Come mai? Una risposta plausibile riposa nell’eccezionalità del primo conflitto mondiale e nelle aspettative che la sua fine generò nei popoli. La sensazione della fine di un’epoca pavimentò la strada alla filosofia di Nietzsche.

Friedrich Nietzsche è vissuto nella seconda metà dell’Ottocento (1844-1900), un periodo in cui si impose facilmente l’idea che la civiltà occidentale stesse procedendo in modo inarrestabile verso il progresso: la conquista dei mercati mondiali grazie al colonialismo, crescente sicurezza e benessere grazie alla scienza e alle tecniche. E poi l’estensione del diritto di voto (anche alle donne) l’istruzione pubblica, la difesa dei ceti più deboli, tutte misure che destarono sospetti: come sarebbe stato possibile conservare le aristocrazie con una sempre più diffusa uguaglianza? Tutto ciò è davvero una conquista o rappresenta il momento terminale di una malattia che ha colpito l’Occidente? Nietzsche è il pensatore che si pose in modo più radicale questa domanda.

L’attacco alla cultura cristiana e borghese si inserisce infatti nel più ampio quadro di sfiducia nei confronti della civiltà e del progresso. Lo scetticismo di Nietzsche per tutte le manifestazioni della modernità, valori e morale inclusi, il disprezzo sprezzante verso le masse, chiamate i superflui, rappresentarono per molti giovani un motivo di fuga dalla realtà. “Libertà significa che gli istinti virili, gli istinti che gioiscono della guerra e della vittoria, hanno la signoria su altri istinti, per esempio quelli della felicità. L’uomo divenuto libero, e tanto più lo spirito divenuto libero, calpesta la spregevole sorta di benessere di cui sognano i mercantucoli, i cristiani, le mucche, le femmine, gli Inglesi e altri democratici. L’uomo libero è guerriero, (F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, trad. it. Adelphi, 1983, par. 38, pp.113-114).

A proposito di questo passo, Richard Overy rileva come i giovani dell’epoca trovassero proprio in Nietzsche un profeta del declino e, al tempo stesso, un punto di riferimento per una rigenerazione spirituale: “tanti giovani se ne andarono al fronte nel 1914 con Nietzsche nello zaino (l’esercito tedesco si era anzi premurato di ordinare migliaia di copie di Così parlò Zarathustra da distribuire agli ufficiali di leva). La guerra, per chi ebbe la ventura di viverla sino in fondo, si rivelò qualcosa di macabro, sporco, abbruttente, un deserto morale. Ma fu una conferma della premonizione nietzschiana del declino, dell’evoluzione in negativo. molti intellettuali accolsero la crisi come una purificazione, prima della rigenerazione morale e sociale”, (R. Overy, Crisi tra le due guerre mondiali (1919-1939), Il Mulino, 2007, p.10).

Il più famoso esponente della crisi e declino del continente fu però Oswald Spengler, il cui Tramonto dell’Occidente vide la luce nel 1918 e poi nel 1922. Le civiltà secondo Spengler, attraversano una storia ciclica in cui esiste un momento di declino: il Novecento si apre al tramonto. L’Europa sarebbe caduta in balìa di politiche selvagge, nell’individualismo più becero e in un annientamento generale se non fosse riuscita a purificarsi. Chiaramente Spengler non pensava solo alla guerra ma a tutti gli eventi storici precedenti che ne avevano disegnato l’ambiente, l’humus. Ho richiamato sommariamente questi due autori per riflettere su due questioni.

(1) Una definizione completa di un concetto come quello preso in esame si può ottenere, per quanto non sia qualcosa di assoluto, su un piano intermedio tra storia e filosofia. Lo sguardo dello storico, e con molte più difficoltà per i contemporaneisti soprattutto per il problema delle fonti, è costitutivamente uno sguardo a posteriori. E su questa base definisce, a seconda del periodo, i caratteri peculiari a una determinata crisi. Per il filosofo spesso questo non vale; Nietzsche e Spengler sono stati, per certi versi, profetici in quanto scrivevano della crisi e nella crisi: già Auguste Comte nel Discorso sullo spirito positivo del 1844 caratterizzava la modernità come un’età di crisi, un’instabilità che si sarebbe fatta sentire soprattutto in ambito scientifico (e come dargli torto oggi, nell’epoca dei terrapiattisti ed antivax). Il filosofo, a volte, ha la sventura di non sopravvivere alla verità delle sue parole.

(2) Infine, riflettere sul concetto di crisi  è a mio avviso molto interessante perché ci permette di capire meglio il presente, un presente che molti vivono consapevolmente come periodo di crisi (una consapevolezza che chiaramente dipende anche dal tasso di scolarizzazione). Come definiamo la nostra crisi? Quali sono le sue peculiarità? E perché non troviamo un Nietzsche che la interpreta ma solo un Edmund Husserl, una voce del passato, che nel suo testo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale del 1934 (pubblicata postuma solo nel 1954) ha sottolineato il problema che si era posto Comte, approfondendo il lato epistemologico della questione. Possiamo dire, partendo da Husserl, che la crisi oggettivistica delle scienze (in virtù della quale i suoi principi risultano svincolati dalla operatività del senso soggettivo) è un “pericolo” per le masse, per i pregiudizi che possono avere nei confronti della scienza, visto che una diffusa ignoranza oggi porta a credere a chiunque mettendo gli esperti sullo stesso piano dei santoni. Siete d’accordo?

Sono portata a pensare che la crisi che viviamo non sia solo una crisi di valori, di idee, economica e politica, ma sia anche una crisi umanistica scientifica, una crisi nella scienza e della scienza che si trova a dover faticare, forse più che in passato, contro l’oscurantismo e la credulità delle masse ignoranti. E voi, cosa ne pensate?

Il Fascismo e l’italianizzazione dell’Alto Adige

La Prima Guerra Mondiale fece da spartiacque tra il vecchio e il nuovo mondo: una nuova tipologia di guerra che portò dei cambiamenti profondi a livello umano, sociale ed economico. Ma soprattutto cambiò drasticamente i confini geografici dell’Europa: quattro imperi che dominarono l’Europa fino ad allora, crollarono, lasciando dietro di sé una miriade di stati. Fu così che l’impero russo, austro-ungarico, germanico e ottomano vennero cancellati completamente, creando delle conseguenze a dir poco facili da gestire.

Ed è in questo contesto che l’Alto Adige si ritrovò da austriaca a italiana: da sempre territorio di lingua e cultura tedesca, visse questo cambio di nazionalità come una catastrofe. L’impero austro-ungarico e la supremazia tedesca che caratterizzarono l’area tirolese per secoli, lasciarono spazio al traditore e nemico italiano. Il trattato di Saint-Germain del 10 settembre 1919 decretò che il Trentino e l’Alto Adige dovessero essere consegnati all’Italia e stabilì il confine al Brennero. Mentre per il Trentino questa decisione risultò essere una “normalizzazione” della situazione perché abitato da sempre da popolazione di madrelingua e cultura italiana; per l’Alto Adige, da sempre tedesco, fu una decisione traumatica.

Mussolini lavorò al programma ufficiale relativo alla gestione della minoranza sudtirolese con l’aiuto del nazionalista trentino Ettore Tolomei che nel 1923 dettò le modalità per italianizzare l’Alto Adige attraverso i Provvedimenti per l’Alto Adige. Approvati dal Gran Consiglio del Fascismo, permisero di snazionalizzare la popolazione tedesca e ladina: i passi più significativi riguardarono la progressiva rimozione di funzionari pubblici e insegnanti di madrelingua tedesca, il divieto dell’uso della lingua tedesca negli uffici pubblici e nelle scuole, l’italianizzazione della toponomastica ed onomastica, la messa al bando dei partiti tedeschi e delle associazioni culturali e così via.

La scuola

La riforma Gentile del 1923 determinò la progressiva cancellazione delle istituzioni scolastiche in lingua tedesca e facendo si di omologare le scuole dei nuovi territori italiani a quelli del resto del paese e l’italiano fu l’unica lingua ufficiale d’insegnamento ammessa. Le scuole tedesche furono sciolte dato che il sistema scolastico austriaco non coincideva col corrispettivo italiano, rendendo così gli insegnanti di tedesco inutili e superflui: essi furono licenziati o trasferiti. Nella scuola si doveva compiere il processo di fascistizzazione e da integrare con i programmi giovanili. Questa situazione portò a diverse mobilizzazioni da parte della popolazione tedesca e creando delle scuole tedesche clandestine. Protagoniste furono le donne che, a loro rischio, organizzarono forme di insegnamento della lingua tedesca e conosciute meglio come Katakomenschulen (scuola delle catacombe in italiano) espressione creata dal canonico Michael Gamper, redattore del giornale Volksbote, così scrisse il 27 novembre 1924.

“Fino a quando non avremo riconquistato la scuola tedesca, non ci resta altra soluzione che la scuola nelle case”

I testi scolastici arrivavano di nascosto dalla Germania e dall’Austria, portato dagli studenti stessi e spesso membri dell’associazione nazionalistica Nibelungen (successivamente Volkischer Kampfring Sudtirols) e nascosti nelle chiese, sagrestie e canoniche. Le Katakomenschulen non erano ad appannaggio del mondo cattolico ma avevano anche un orientamento nazionalistico. Questa situazione non rimaste completamente nascosta ai fascisti: il 25 novembre 1925 il Prefetto Guadagnini affermò

“L’individuazione di un ragguardevole numero di scuole segrete tedesche, specialmente nel territorio fra Bolzano e Salorno, dimostra l’esistenza in Alto Adige di una regolare organizzazione di resistenza che provvede all’assunzione di insegnanti, alla dotazione delle scuole ed al loro finanziamento. […] In questa operazione, alla quale attribuisco un’importanza politica notevole, mi aspetto […] estrema vigilanza, la massima celerità ed energia. […] E’ necessario reprimere tali tentatiti con la massima risolutezza.”

La stampa

Anche nella stampa tedesca la repressione si fece sentire. Giornali e periodici tedeschi fecero del loro meglio per raccontare gli avvenimenti ed informare la popolazione: un pugno nello stomaco per i fascisti che reagirono, inasprendo sempre di più i provvedimenti. L’8 gennaio 1925 il sottoprefetto di Bolzano Vittorelli iniziò una ferrea lotta contro la stampa tedesca, ordinando la censura preventiva dei quotidiani “Der Landsmann”, “Bozner Nachrichten”, “Meraner Zeitung” e il settimanale “Der Volksbote”, accusati di stampare resoconti tendenziosi e anti italiani.

20 gennaio: prima diffida verso il redattore Peter Fuchsbruger de “Der Landsmann” e incolpato di fraternizzare tra i due popoli.

20 febbraio: altra diffida verso Michael Gamper direttore del “Volksbote”.

Il 15 luglio 1923 venne pubblicata una nuova legge secondo cui, ricevere una seconda diffida avrebbe potuto portare alla chiusura del giornale stesso. Cosa che avvenne per molti giornali, “Der Landsmann” in primis il 25 luglio che fu sospeso per violazione dei decreti sui nomi di località e in fine soppresso il 22 ottobre.

L’obiettivo primario di questi provvedimenti era quello di togliere alla popolazione alto atesina la stampa tedesca, limitando la possibilità di unirsi nella lotta contro il nemico comune e limitando il più possibile la loro resistenza e la relativa opposizione allo Stato. I fascisti fecero di tutto per far chiudere tutte le testate giornalistiche, riuscendoci nel febbraio del 1926: l’ultimo editore che chiuse i battenti fu Ellmenreich con il “Meraner Zeitung” con un compromesso, quello di poter pubblicare in tedesco ma sotto la supervisione dei fascisti. La nuova direzione fu data al giornalista Leo Negrelli, addetto all’ufficio stampa del Ministero degli Interni.

La toponomastica e onomastica

La figura di rifermento fu Ettore Tolomei, direttore dell’Istituto di studi per l’Alto Adige a Bolzano e successivamente membro del Senato e colui che escogitò

“i mezzi più raffinati per martirizzare le minoranze etniche in Italia” (Salvemini G., Mussolini diplomatico, Bari, 1952, pag. 439).

Le direttive del governo coincisero con le idee portate avanti da Tolomei: penetrazione nazionale e assimilazione della terra di frontiera. L’unica lingua ammessa fu l’italiano: a scuola, nella stampa e nell’amministrazione pubblica. Non da meno anche nella toponomastica e nell’onomastica: il primo punto da abbattere per snazionalizzare una minoranza o un popolo è proprio quello di togliere la loro lingua madre.

Nel 1923 si attualizzò a rendere l’italiano come lingua ufficiale e unica nelle comunicazioni con e dall’amministrazione pubblica, seguito in un secondo momento nei manifesti, nelle insegne, nelle segnaletiche e così via attraverso il Prontuario dei nomi locali dell’Alto Adige. Le lettere scritte in tedesco non furono mai recapitate.

Un esempio, al limite del ridicolo: un locale sul lago di Garda fu chiuso completamente perché aveva dimenticato di modificare la scritta “Warmwasser” in “acqua calda” su un paiolo. Era vietato usare il nome “Tirol” con tutte le sue denominazioni come “Tiroler”, “Sudtiroler” per lasciare spazio a “Oberetsch”, “etschlander”

(per chi non sa il tedesco: Tirol = Tirolo, regione dell’Austria con capoluogo Bolzano e sostituire, anche nel tedesco, questa parola che riprendeva l’Austria con “Alto Adige” e non più “Sud Tirol”).

Nel 1925 anche nei tribunali l’italiano fu l’unica lingua ammessa: a parte Bolzano che ha sempre avuto la più alta percentuale di italiani, nel resto dell’Alto Adige ben pochi conoscevano l’italiano. Spesso gli imputati dovevano pagarsi di tasca propria un interprete in modo tale da evitare deposizioni viziate o difettose. La questione di quale lingua parlare nei tribunali rimase aperta fino agli anni Ottanta. Solo con gli anni Novanta il tedesco venne ammesso.

 

Bibliografia

Città di Bolzano (a cura di), BZ ’18 – ’45 un monumento, una città, due dittature. Un percorso espositivo nel monumento alla Vittoria, Folio Editore, Vienna – Bolzano e Morellini Editore by Enzimi Srl, Milano, 2016

Gruber, Alfons, L’Alto Adige sotto il fascismo, Casa Editrice Athesia, Bolzano, 1979

Steininger, Rolf, Alto Adige, Sudtirolo: 1918 – 1999, Studien Verlag Ges.m.b.H., Innsbruck, 1999

Treccani, Gian Paolo, Monumenti e centri storici nella stagione della Grande Guerra, Franco Angeli,
Milano, 2015