Nordio contro il Gioco di Ruolo… cosa dice la scienza?

In un recente intervento alla Camera, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio si è scagliato contro il Gioco di Ruolo, dichiarando che, possono causare gravi danni psicologici e sono associati ad episodi di suicidi.

Alle accuse di Nordio ha immediatamente replicato Federludo, la federazione italiana delle associazioni ludiche, contestando tali affermazioni ed evidenziando come il gioco di ruolo sia riconosciuto dalla comunità scientifica, per gli effetti benefici che ha sulla crescita della persona, lo sviluppo delle competenze sociali e il benessere psicologico. In sintesi quindi, l’esatto contrario di ciò che sostiene Nordio.

Ma chi dei due ha ragione? Cosa dice la scienza in merito? cerchiamo di capirlo ripercorrendo la storia del gioco di ruolo e soprattutto gli studi sul gioco di ruolo.

Breve storia del gioco di ruolo

Cominciamo col dire che il gioco di ruolo (“Role-Playing Game”, GdR) rappresenta un fenomeno culturale unico, che integra aspetti ludici, culturali, creativi, psicologici e sociali. Il nostro obiettivo non è trarre conclusioni, ma porci delle domande, cercando di essere il più possibile superpartes (e mi rendo conto che, da giocatore di ruolo, potrebbe essere difficile). Cercheremo comunque di tracciare in questa sezione la storia del gioco di ruolo, dalle sue origini che affondano in alcune intuizioni e pratiche psicoterapeutiche e nei wargame militari del XIX secolo, fino alla sua evoluzione in un fenomeno globale a partire dagli anni settanta e ottanta del XX secolo.

Il gioco di ruolo, inteso come dorma di intrattenimento basato sulla narrazione e l’interazione tra giocatori, come anticipato, affonda le proprie radici in due ambiti profondamente diversi, distinti ma allo stesso tempo complementari, ovvero la psicoterapia e i wargame.

Le prime forme di GdR infatti furono concepite come strumenti educativi e terapeutici, e ancora oggi la pedagogia moderna, suggerisce l’utilizzo del gioco di ruolo come strumento didattico, nel GdR però vi è anche una forte influenza dei giochi strategici militari, quale base strutturale della parte ludica, che ha permesso al gioco di ruolo di uscire dall’ambito terapeutico e e diventare un elemento ludico. In sintesi, il gioco di ruolo nasce come strumento terapeutico e didattico, per poi fondersi con i wargame, diventando un gioco a tutti gli effetti.

Più nello specifico il gioco di ruolo fa la propria apparizione, in ambito clinico, grazie ad un intuizione dello psichiatra Jacob L. Moreno che, negli anni 30 del novecento elaborò e sviluppò il concetto di psicodramma.

Lo Psicodramma è sostanzialmente l’antenato proveniente dalla psichiatria, del moderno GdR. Moreno infatti concepì lo psicodramma come un’esperienza in cui i partecipanti potevano esplorare emozioni, conflitti e ruoli attraverso l’interpretazione attiva di situazioni simulate. Con tanto di inversione dei ruoli tra i partecipanti, generalmente paziente e terapista, ma non necessariamente, lo psicodramma infatti superò rapidamente i limiti delle sessioni individuali, aprendosi a sessioni e terapie di gruppo ed è ancora oggi ampiamente utilizzato in percorsi di recupero collettivi. Questo approccio, all’epoca era estremamente innovativo in quanto incoraggiava i partecipanti a esplorare le proprie identità in modo sicuro e controllato, promuovendo il benessere psicologico e la crescita personale.

Nei propri scritti Moreno descrive lo psicodramma come una sorta di “teatro della spontaneità” in cui il soggetto può rivivere e affrontare situazioni difficili, reali o immaginarie, al fine di sviluppare nuove prospettive, nuovi punti di vista, elemento fondamentale per superare il trauma.

L’altro antenato del moderno gioco di ruolo sono i Wargame, ampiamente diffusi in Europa tra XVIII e XX secolo. Uno degli esempi di maggiore successo fu il Kriegsspiel, un wargame ideato da Georg Leopold Von Reisswits, un ufficiale prussiano, nel 1812. Questo “gioco”, era tutt’altro che ludico, si trattava in realtà uno strumento didattico e di addestramento tattico strategico, pensato per gli ufficiali prussiani che consentiva ai “giocatori” di simulare un campo di battaglia, disporre le proprie truppe e muoversi così in una battaglia simulata contro un altro giocatore al fine di trionfare in battaglia. Ancora oggi i Wargame sono ampiamente diffusi e utilizzati in campo militare, in versioni più raffinate e sofisticate, e rappresentano uno strumento essenziale per l’addestramento degli ufficiali della maggior parte delle forze armate del pianeta.

Nel XX secolo i wargame subiscono una trasformazione epocale, passano dall’essere uno strumento didattico militare a vero e proprio hobby per appassionati di storia e strategia. Alessandro Barbero, Storico e divulgatore italiano ad esempio, è un grandissimo appassionato di Wargame, e non è l’unico, nel corso dei miei studi in storia, mi sono imbattuto in innumerevoli docenti e studenti appassionati di Wargame. La fortuna dei Wargame Ludici arriva grazie a titoli come Little Wars di H.G. Wells, pubblicato nel 1913, per poi diffondersi, soprattutto in Europa, nel primo dopoguerra e negli anni 20 e 30, grazie anche ad una certa spinta da parte di politiche fortemente militariste che volevano cittadini perfettamente inquadrati in ranghi militari.

Dagli anni 30 in poi abbiamo quindi lo Psicodramma e successivamente il teatro dell’improvvisazione, come strumento terapeutico, che privilegia la narrazione e l’interpretazione e il Wargame, come strumento didattico e ludico che invece si focalizza su aspetti tattici e strategici, ed è solo negli anni 70 del 900 che questi due mondi si incontrano grazie a Gary Gygax e Dave Arneson, che diedero vita a quello che è per molti il primo gioco di ruolo moderno, ovvero Dungeon’s & Dragon’s (D&D), pubblicato la prima volta nel 1974 e che nel 2024 ha compiuto 50 anni, ha visto diversi aggiornamenti nel corso del tempo ed è ancora oggi ampiamente giocato e apprezzato, io stesso sono un giocatore di D&D anche se preferisco titoli più narrativi in cui il “potere decisionale” del dado è meno incisivo, come ad esempio i più moderni e narrativi Apocalypse World o Not The End.

Con l’avvento e la popolarità di D&D il gioco di ruolo, soprattutto negli anni 80 e 90, diventa un vero e proprio fenomeno culturale e nacquero numerosi altri giochi con elementi e caratteristiche più o meno simili tra loro, riuscendo a contaminare anche, a partire dagli anni 90, il mondo del videogioco, con la nascita dei primi RPG e più in avanti, grazie ad internet, dei GdR ByChat, e gli MMORPG.

Gioco di ruolo e scienza

Come abbiamo visto dalla sua storia, il gioco di ruolo nasce sostanzialmente dall’unione di wargame e psicodramma ma questo non ci dice ancora se effettivamente, come sostiene Federludo, aiuta il benessere psicologico o invece come sostiene Nordio, lo danneggia.

Cercando articoli relativi al gioco di ruolo su Google Scholar, motore di ricerca per le pubblicazioni accademiche e PubMed, la National Library of Medicine, sostanzialmente il più grande archivio digitale con pubblicazioni cliniche, troviamo per lo più articoli che parlano dei benefici del gioco di ruolo che, come anticipato, è ancora oggi ampiamente utilizzato in ambito didattico e terapeutico, sia in sessioni individuale che in sessioni di gruppo, inoltre, in ambito pedagogico è un eccellente strumento didattico.

Troviamo però anche altro, alcuni studi ad esempio suggeriscono che in casi rari, il coinvolgimento eccessivo nei GdR, e l’esposizione prolungata all’ambiente di gioco, possa portare a un distacco dalla realtà sociale. In tale senso l’articolo di Zaheer Hussain e Mark D. Grtiffiths, The attitudes, feelings, and experiences of online gamers: a qualitative analysis, del 12 Dicembre 2009, DOI 10.1089/cpb.2009.0059 rappresenta una delle principali e più autorevoli fonti scientifiche.

L’articolo però, va precisato, non parla propriamente di Gioco di Ruolo, quanto più della sua declinazione on-line, come si può infatti leggere nell’abstract, il soggetto dello studio sono “massively multiplayer online role-playing games (MMORPGs)” e non il GDR in sè.

Altro contributo degno di nota è il libro “Dangerous Games: What the Moral Panic over Role-Playing Games Says about Play, Religion, and Imagined Worlds” di Joseph P. Laycock, del 2015“, in questo libro, presente su Jstor, si affronta storicamente l’associazione del gioco di ruolo al satanismo e il panico satanista che si diffuse tra anni 80 e 90, e di come, studi successivi agli anni 90 , hanno dimostrato che queste paure erano infondate e alimentate da pregiudizi culturali.

Più interessante invece è il saggio “The Fantasy Role-Playing Game: A New Performing Art. McFarland” di Mackay, D. (2001), in cui si osserva come in alcuni soggetti vulnerabili, il gioco di ruolo potrebbe essere lesivo, amplificando le tendenze ossessive o dinamiche interpersonali problematiche. Nel saggio si osserva inoltre che queste casi sono tuttavia estremamente rari e non superiori ad altri hobby o giochi, più precisamente, questo tipo di effetto collaterale del gioco di ruolo, non è in realtà legato al gioco di ruolo ma al giocatore, e queste problematiche, per quei soggetti, si presenterebbero in qualunque hobby, compreso il gioco di ruolo.

Conclusioni personali

Per questa sezione metto un disclaimer, da qui in avanti ci saranno osservazioni personali, considerazioni soggettive, basate sulla documentazione scientifica presentata e citata nella sezione precedente.

La scienza ci dà risposte abbastanza chiare a proposito del gioco di ruolo, è probabilmente uno degli hobby e delle attività ludiche più sane che si possano avere, poiché stimola la creatività e le interazioni sociali. A differenza di altri giochi, quando giochi di ruolo, non puoi stare da solo, il gioco ti forza a collaborare con gli altri giocatori, a confrontarti con loro, e soprattutto ad interagire con loro. Si tratta di uno strumento incredibilmente potente, in grado di creare e rafforzare legami interpersonali, come nessun’altra tipologia di gioco è in grado di fare.

Come qualsiasi altro gioco tuttavia, non è esente da problematiche, e il rischio che i giocatori possano isolarsi e chiudersi in un mondo utopico e di fantasia, è presente, ma tale rischio riguarda prevalentemente soggetti fragili che ricadrebbero in quella stessa problematica con qualsiasi gioco, dal calcio al monopoly ai videogiochi, e come osservato e documentato in innumerevoli articoli scientifici e saggi, non è un problema che va dal gioco al giocatore, ma è un problema che parte dal giocatore e indipendentemente dal media, riguarda esclusivamente il giocatore.

Prendiamo ad esempio una persona con diverse difficoltà fisiche, impossibilitato per qualche motivo a muoversi e fare esperienza con il mondo. Quella persona non potrebbe viaggiare e potrebbe fruire del mondo solo ed esclusivamente in maniera passiva, attraverso la lettura, attraverso film, serie tv, ecc. Tuttavia, a quella persona, il gioco di ruolo, in particolare il gioco di ruolo on-line, offre un opportunità unica, gli offre la possibilità di vivere una vita che altrimenti gli sarebbe negata, di fare esperienze impossibili che i comuni mortali possono solo vedere in un film. Un giocatore di ruolo paralizzato dalla vita in già può vivere l’esperienza di lanciarsi all’inseguimento di un avversario fenomenale, e scegliere nella più totale e assoluta autonomia, senza alcun limite “meccanico” presente invece nei videogiochi.

In definitiva un giocatore di ruolo, nel momento in cui inizia il gioco, può essere eroe, esploratore, mente eccelsa o folle mercante, e fare qualsiasi cosa, dalla più nobile alla più deplorevole, e una volta finito il gioco, tornare alla propria routine quotidiana, e in questo, non c’è assolutamente nulla che possa danneggiare la sua psiche, perché semplicemente, nel gioco di ruolo, il giocatore sogna e gioca con la fantasia.

Personalmente trovo assurdo che un politico che ha calcato il palco di un festival che prende il nome di “Atreju”, il fantastico protagonista de la storia infinita, che esalta la fantasia, i sogni e l’immaginazione, possa dire che sognare, giocare con la fantasia e l’immaginazione è qualcosa che può apportare gravi danni psicologici. Come ci insegna proprio Atreju, l’uomo muore quando smette di sognare e il nulla divora ogni cosa.

La peste di Atene: Tucidide tra scienza e pathos | CM

Introduzione al tema della peste

Ormai da decenni la peste rappresenta nell’immaginario collettivo una terribile visione di morte tipica del periodo tardo-medievale; ma non è sempre stato così. Dipinti, racconti, poesie e persino leggende si sono succeduti per tentare di rappresentare un male considerato spesso divino e quindi inspiegabile agli occhi dell’uomo, un male che in varie epoche non ha mai lasciato scampo e sul quale si sono ripetutamente interrogati i più autorevoli medici, autori, maestri e filosofi del tempo.

Nel corso dei secoli infatti gravi pestilenze si sono abbattute su tutto il vecchio continente, in epoche e luoghi assai differenti. Una delle più disastrose epidemie di peste della storia si è manifestata nell’Atene classica, intorno al V secolo a.C., durante un periodo storico a dir poco travagliato per la storia della Grecia: la Guerra del Peloponneso” (431-404 a.C.).

L’opera tucididea e il conflitto tra Atene e Sparta

Narratore di questi eventi è appunto uno dei più grandi storici dell’epoca, Tucidide, vissuto tra il V ed il IV secolo a.C., fautore di un’opera che porterà con sé fonti ed elementi storici di grandissimo rilievo: “La Guerra del Peloponneso“. La celebre opera, suddivisa in otto libri, offre anche uno spunto essenziale per ricavare accurate riflessioni su quello che oggi definiamo un “metodo storico” scrupoloso, quasi scientifico, basato cioè su fonti certe e attendibili, di cui Tucidide viene considerato padre e fondatore. Su tale base l’autore sceglie di introdurre la narrazione in questo modo:

Giacché gli avvenimenti precedenti alla guerra e quelli ancora più antichi erano
impossibili a investigarsi perfettamente per via del gran tempo trascorso e, a giudicar dalle prove che esaminando molto indietro nel passato mi capita di riconoscere come attendibili, non li considero importanti né dal punto di vista militare né per il resto.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (1,3, libro I)

Trattandosi di un testo prettamente storico prevalgono ovviamente numerosi riferimenti diretti alla “Guerra del Peloponneso”, tra cui strategie belliche e scelte politiche, per la partecipazione attiva di Tucidide come testimone oculare, il quale combatté in prima persona come stratega venendo poi esiliato a causa di un grave e imperdonabile fallimento. Si tratta di un conflitto senza precedenti, scoppiato tra il 431 e il 404 a.C., rivolto unicamente contro la fiorente città di Atene.

Tra le cause secondarie e il casus belli principale bisogna però considerare la situazione di tutta la Grecia, ormai esausta a per gli ingenti tributi a cui era sottoposta e per le vessazioni imposte dal duro imperialismo egemonico ateniese. Tuttavia, nonostante Atene dominasse il mare con una potentissima flotta, Sparta riuscì a invadere l’Attica con un grande esercito, costringendo gran parte della popolazione a cercare rifugio all’interno delle grandi mura del Pireo, il porto ateniese. Fu proprio in quella tragica situazione di sovraffollamento che scoppiò l’epidemia, aggravata ancor più da un clima torrido e da condizioni igieniche pessime e precarie. Tucidide si sofferma poi su tre celebri discorsi relativi al conflitto tenuti da Pericle, personaggio fondamentale per le vicende storiche e politiche dell’Atene classica, morto anch’egli a causa del morbo.

Per ultimo, ma non per importanza, l’autore all’interno del II libro oltre a narrare le vicende belliche dedica un ampio excursus storico riferito all’epidemia che devastò Atene tra il 430 e il 427 a.C. contemporaneamente alla guerra, già di per sé estremamente rovinosa per le sorti del conflitto e della città. Si tratta pertanto di un’opera completa, storicamente e politicamente, soprattutto per l’attenzione rivolta ai dettagli e l’accuratezza mostrata verso i principali fatti storici narrati. Tuttavia a rendere Tucidide un maestro del “metodo storico” non è solamente un testo basato su indizi sicuri e veridicità storiche (fondate cioè su fatti realmente accaduti), ma la sua acuta capacità di descrizione nei confronti di eventi estranei a vicende storiche degne di nota, come la pestilenza.

La peste dal punto di vista medico, scientifico e umano

Tucidide dedica un lungo paragrafo al tema dell’epidemia ateniese, nel quale sceglie di soffermarsi non sull’evento storico in sé, quanto più sul tema della pestilenza a livello scientifico e umanitario. Scopo principale dell’autore è infatti narrare e documentare, ovvero mettere in guardia il lettore nei confronti di una storia che non è mai totalmente magistra vitae ma piuttosto pessimistica, da cui l’uomo non impara mai veramente e di cui non è l’unico protagonista delle vicende, ma vi partecipa attivamente insieme a epidemie, carestie, eclissi e terremoti; elementi mai trascurati nonostante le narrazioni di Tucidide abbiano un carattere prettamente storico.

La storia di Tucidide andrebbe perciò “ammaestrata” in modo da permettere all’uomo di non ripetere gli stessi errori del passato. Tuttavia tale insegnamento è molto relativo, poiché questi errori vengono con estrema facilità ciclicamente ripetuti, nonostante Tucidide cerchi di trasmettere come combatterli. La peste rappresenta infatti la grande occasione tucididea per attuare il suo “metodo storico”. Essa viene descritta in modo scientifico e razionale per comprenderla e conoscerla al meglio anche dal punto di vista umano, oltre che ovviamente medico. Nel descrivere la tremenda malattia, fino ad allora sconosciuta agli ateniesi, Tucidide si sofferma sul momento iniziale del morbo: le cause, i sintomi, i morti e la reazione dei medici di fronte a un male totalmente ignoto; ed erano proprio i medici a morire per primi, a causa della necessaria vicinanza con i pazienti.

Né i medici erano di aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta, ma anzi loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si
avvicinavano ai malati; né serviva nessun’altra arte umana.”

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (47,4, libro II)


Giunge poi a una descrizione fortemente umanitaria e ricca di pathos, nella quale evidenzia le principali reazioni umane, tra le quali spiccano paura, sgomento, solitudine e scoraggiamento. Uno degli scopi principali dell’autore è inoltre riportarci vari eventi quotidiani, per sottolineare come vennero completamente sconvolti dal morbo, tra i quali troviamo: numerosi furti per lo spopolamento delle case a causa della malattia, non più solenni funerali singoli ma roghi comuni per sbarazzarsi dei cadaveri, sempre più persone ammassate nei templi per riversare lo sgomento generale sulle preghiere e affidarsi agli dei, e infine varie congetture con lo scopo di dare un senso a questo male sconosciuto, come l’accusa verso i peloponnesiaci di aver avvelenato i pozzi.

Nella città di Atene piombò improvvisamente, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; e così tra essi si disse anche che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là infatti non c’erano ancora fontane. Poi arrivò anche nella città alta, e da allora i morti aumentarono di molto.”

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (48,2, libro II)

Nonostante il morbo sia stato catalogato per lunghissimo tempo come una vera e propria pestilenza, oggi esperti e studiosi pensano in realtà che si trattasse di un altro tipo di malattia, e che più probabilmente fosse una sorta di vaiolo o di febbre tifoide, per i sintomi violenti e immediati che procurava in un tempo brevissimo (rispetto a come sarebbe stato per una comune epidemia di peste).

Gli altri invece, senza nessuna causa apparente, mentre erano sani improvvisamente
venivano presi da violente vampate di calore alla testa e da arrossamenti e infiammazioni agli occhi, e tra le parti interne la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da una forte tosse. E quando si fissava nello stomaco, lo sconvolgeva, e ne risultavano vomiti di bile di tutti i generi nominati dai medici, e questi erano accompagnati da una grande sofferenza.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (49, 2-3, libro II)

Tuttavia essa ebbe tutte le caratteristiche proprie di qualsiasi epidemia della storia, riuscendo ad abbattere psicologicamente l’umore e la quotidianità delle persone, e provocando migliaia di morti; forse addirittura arrivò a dimezzare la popolazione ateniese, cifre per l’epoca davvero esorbitanti, di cui Tucidide stesso si rese conto, riportando puntualmente lo sgomento che vigeva in quel tempo.

Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al male, fosse robusto o
debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati con ogni genere di dieta. Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoraggiamento quando uno si accorgeva di essere ammalato (poiché i malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano), e il fatto che per aver preso la malattia uno dall’altro mentre si curavano, morivano come pecore: questo provocava il maggior numero di morti.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (51,4, libro II)

L’importanza dei comportamenti umani nel corso della storia

Attraverso una digressione tanto struggente Tucidide dimostra ancora una volta che la storia non è riassumibile in un muto susseguirsi di vicende più o meno rilevanti, ma va invece rappresentata e studiata anche attraverso le reazioni umane. Pertanto assumono un ruolo di assoluto rilievo la psicologia, i comportamenti degli uomini e le azioni quotidiane in relazione a tali fenomeni tanto significativi per lo studio della storia.

Tucidide sceglie di esporre molto dettagliatamente la pestilenza proprio per l’effetto che quest’ultima ebbe sull’animo degli uomini, e non per come influenzò l’andamento degli eventi storici futuri. In una critica situazione di guerra il sopraggiungere di un’epidemia portò gli ateniesi al limite della sopportazione, rendendoli capaci di azioni ignobili e disumane, e questo l’autore lo esprime con una grande cura verso i dettagli.

A regnare è infatti l’“anomia”, ovvero la più totale assenza di leggi, che porterà inevitabilmente a una situazione di disordine e anarchia in cui gli individui cercano disperatamente di sopravvivere aggrappandosi ai propri istinti senza più alcuna inibizione. Attenendosi perciò strettamente al suo ruolo di storico Tucidide si mostra come testimone diretto dell’evento e ce lo riporta privandosi di ogni possibile elemento etico o morale, con il solo e unico scopo di informare e documentare i posteri riguardo l’andamento della storia e di come essa possa interagire con la labile natura umana. E, proprio come scrive l’autore: Atene fu distrutta dalla paura della peste, non dalla peste. Si tratta certo di uno squarcio raccapricciante, incapace di infondere sicurezza e perciò ancor oggi perfettamente in grado di suggestionare qualsiasi lettore moderno.

La peste di ieri e la peste di oggi

Il tema della pestilenza rappresenta ormai da secoli una delle più grandi occasioni per parlare di storia, scienza e medicina allo stesso tempo. Autori, poeti, scrittori e persino pittori e scultori si sono destreggiati su questo tema cercando di mostrare nel miglior modo possibile gli effetti del male, come esso influisce sulla psicologia umana e come viene affrontato in base alle diverse epoche storiche. L’idea di un morbo che esplode all’improvviso scatenando il panico e l’incertezza verso cure e guarigioni introvabili garantisce ancor oggi una fonte tragica sulla quale poter costruire grandi narrazioni storiche ma anche possibili racconti di fantasia.

La tragicità causata da morte e distruzione rappresenta anche un’occasione per evidenziare gli effetti della malattia sul corpo umano, a livello quindi medico/scientifico, ma porta spesso e soprattutto a profonde riflessioni di tipo religioso/divino, poiché l’uomo da sempre necessita di un elemento superiore a cui appoggiarsi in caso di estremo pessimismo. Si tratta pertanto di un tema largamente discusso ancor oggi, in grado di scatenare ferventi discussioni e, ma anche capace di lasciare un enorme fascino nella letteratura e nella storia di tutti i tempi.

Il segreto delle macchine anatomiche

Le macchine anatomiche, di cui vi ho raccontato la storia in un video sul mio canale youtube, sono dei modelli anatomici del XVIII secolo, realizzati da Giuseppe Salerno, un medico e alchimista palermitano, in cui, oltre allo scheletro umano, è perfettamente visibile l’intero apparato arterio venoso, comprensivo di occhi e cuore, e con un livello di dettaglio impressionante che permette all’osservatore di vedere anche i più sottili capillari.

Questi modelli sono stati successivamente acquistati da Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, nel napoletano e appassionato di anatomia e alchimia.

Per la storia delle macchine anatomiche, vi rimando al mio video su youtube che trovate di seguito, qui invece voglio raccontarvi, in modo più approfondito, il processo, o almeno quello che si ipotizza essere il processo di realizzazione eseguito da Giuseppe Salerno.

Studiano i modelli anatomici di Sansevero, è emerso che, l’intero apparato arterio venoso visibile, non è autentico, si tratta infatti di una riproduzione o ricostruzione post mortem, eseguita manualmente dal medico siciliano.

Per secoli si è creduto che vene e arterie fossero le vere vene e le vere arterie dell’uomo e la donna raffigurati nei modelli, in realtà, molto recentemente, abbiamo scoperto che il sistema cardio circolatorio è costituito da una lega di materiali vari e coloranti, a base di cera d’api.

Viene allora da chiedersi, e me lo chiedo anche io nel video, come è possibile che un medico e alchimista del XVIII secolo conoscesse così bene l’anatomia umana, al punto da riuscire a ricostruire alla perfezione anche i più sottili vasi capillari?

Ancora oggi non è possibile dare una risposta netta a questa domanda, ma, sulla base delle informazioni che abbiamo a proposito della chimica e dell’alchimia del XVIII secolo, possiamo fare delle ipotesi.

Oggi gli studiosi credono che Giuseppe Salerno abbia compiuto degli esperimenti per via iniettiva su alcuni cadaveri presenti nelle botteghe dell’epoca, sezionare e studiare corpi umani nel XVIII secolo va detto, non era una prassi anomala, anzi, era una pratica molto diffusa tra artisti e studiosi di anatomia.

Questi esperimenti, si ipotizza, abbiano provocato una qualche reazione nel corpo calcificando o plastificando l’intero apparato arterio venoso, che poi, successivamente, il medico ha ripulito, analizzato e ricostruito.

Questa ipotesi abbastanza inquietante, lo ammetto, porta con se una domanda, ovvero, è possibile fare qualcosa del genere? e soprattutto, è possibile che un alchimista del XVIII secolo sia riuscito a farlo per almeno due volte?

Andiamo con ordine e la risposta alla prima domanda è, si.

Escludendo eventuali cause naturali, c’è effettivamente uno, anzi, molti modi cui ottenere un risultato di questo tipo.

Il più elementare dei metodi è attraverso l’uso della formalina, una molecola molto semplice da sintetizzare, il cui processo di sintetizzazione è stato formulato per la prima volta nel 1867 dal chimico tedesco August Wilhelm von Hofmann , tuttavia, va precisato che, nel XVIII e in larga parte nel XIX secolo, era molto sperimentale ed è molto probabile che, prima del 1867, anche altri chimici e alchimisti, siano riusciti a sintetizzare la molecola della formalina, senza però tramandarla ai posteri.

Tornando alla formalina, questa, se iniettata, interrompe il processo di decomposizione attraverso le arterie, uccidendo i batteri e arrestando il decadimento tissutale. Permettendo quindi al medico o all’imbalsamatore, di rimuovere la pelle, il tessuto connettivo e il tessuto adiposo e conservare soltanto vene, arterie e organi.

L’uso della Formalina nel processo di imbalsamazione, per la preservazione degli organi , è stato teorizzato e successivamente brevettat dall’anatomopatologo tedesco Gunther von Hagens nel 1978, all’interno di un più ampio procedimento che porta alla Plastinazione di vene, arterie e organi interni, che, una volta preservati dalla decomposizione, vengono “plastificati” operando una sostituzione dei liquidi con dei polimeri di silicone.

Nel XVIII secolo è improbabile che giuseppe Salerno abbia fatto ricorso ai polimeri di silicone, tuttavia, i suoi modelli, potrebbero essere stati realizzati proprio in questo modo, con una leggera variazione al processo di plastinazione di Hagens.

Una volta iniettata la formalina, o più probabilmente una sua versione più grezza e primitiva, nel corpo delle proprie cavie, ed aver interrotto la decomposizione delle vene e arterie, Giuseppe Salerno potrebbe aver introdotto, con successive iniezioni, il suo composto colorato a base di cera d’api che, con il tempo si sarebbe solidificato permettendo così, al medico e alchimista palermitano, di poter godere a pieno di un modello anatomico completo dell’intero apparato arterio venoso.

Questa ipotesi sembra oggi la più plausibile, se bene non vi sia alcuna certezza.

Ho chiesto quindi Giuseppe Alonci, chimico, del canale youtube “la chimica per tutti” e autore del libro “Tutta questione di chimica. Sette brevi lezioni sul mondo che ci circonda” qualche informazione a riguardo e, mi ha anche spiegato quanto è semplice sintetizzare la formalina aggiungendo che per lui non è difficile immaginare che un alchimista del XVIII secolo, sia riuscito a sintetizzare la formalina e anticipare di due secoli la plastinazione di Hagens.

Perché i greci non inventarono la macchina a vapore ?

Non appena una civiltà raggiunge un dato livello di controllo e manipolazione del proprio ambiente si trova d’avanti un bivio, che la porterà a scegliere se continuare sulla strada del progresso e dell’innovazione, progredendo quindi verso una sempre maggiore capacità tecnica o continuare sulla strada della gerarchia, mantenere attiva l’istituzione della schiavitù rendendo così, la propria civiltà statica e limitando la propria capacità di produrre “profitto e ricchezza”.

Alla civiltà che si trova a dover compiere questa scelta, le due strade presentano sia vantaggi che svantaggi, e se da un lato i profitti legati all’istituzione dello schiavismo possono essere ridotti rispetto ai profitti legati alla produzione industriale, è anche vero che la produzione industriale necessita di macchinari costosi e difficili da implementare, e la promessa di un profitto maggiore deriva prevalentemente dalla disponibilità di una società di rischiare tutto.

L’innovazione tecnologica da questo punto di vista può spaventare, perché rappresenta un incognita, e gli esseri umani sono naturalmente spaventati da ciò che non conoscono, tuttavia, tecnica e tecnologia sono elementi fondamentali di una civiltà, senza di essi una vera civiltà è impossibile e impensabile, e non mi dilungherò sul tradizionale esempio dell’invenzione dell’aratro che permette ad un popolo di passare dal nomadismo alla vita sedentaria, iniziando così a costruire i propri villaggi e le proprie città.

Gli effetti della tecnica e della tecnologia sulla nostra civiltà sarebbero diventati particolarmente evidenti nel diciannovesimo secolo, in seguito alla rivoluzione industriale, portando con essi un crescente interesse per lo studio della storia della scienza e delle tecnologie, in questo senso gli scritti di Samuel Smiles sono un esempio più che eloquente, successivamente questo interesse sarebbe progressivamente venne meno, fino a sparire quasi del tutto agli inizi del secolo successivo.
Questa parentesi aurea nel diciannovesimo secolo ci ha permesso di comprendere meglio le dinamiche del pensiero scientifico, e soprattutto, ci ha permesso di capire perché, alcune civiltà del mondo antico, scelsero la via della gerarchia e della schiavitù, con tutti i loro vantaggi e vantaggi, frenando così la propria capacità di sviluppo tecnologico.

Nel mondo antico, più precisamente nel mondo greco e greco-romano, la tecnica era associata all’attività delle classi inferiori, più precisamente degli schiavi, ed era vista come un “arte minore”, e questo avrebbe reso la “scienza greca” particolarmente infeconda. Di fatto non ci furono “scienziati” nel mondo antico, anche perché questa istituzione sociale non sarebbe apparsa prima del diciassettesimo secolo, ma questo non significa che il mondo antico fosse totalmente alieno alla scienza e al pensiero scientifico, anzi, i greci erano convinti che tutti i fenomeni naturali fossero determinati da leggi e principi (e non dai capricci di qualche divinità, spiriti o demoni). Questa convinzione avrebbe permesso alla civiltà greca di sviluppare in modo notevole la matematica e avrebbe inventarono l’idea che, una data ipotesi per essere considerata vera, dovesse necessariamente essere certificata da una prova. Grazie alla sperimentazione, soprattutto degli intellettuali di Alessandria d’Egitto in eta tolemaica, gli intellettuali greci avrebbero dato un importante contributo alla cartografia, alla meccanica teorica e pratica, all’astronomia, alla chimica, alla medicina e all’anatomia. Ed è probabile che questi risultati fossero frutto dell’incrocio della cultura greca e quella egiziana.
Nonostante una prima promettente fase scientifica, e se bene il livello di conoscenza tecnico e tecnologico del mondo antico avrebbe permesso alla civiltà Greco-Romana di compiere un epocale balzo in avanti sul piano tecnologico, costruendo la macchina a vapore, emblema della rivoluzione industriale, la civiltà greca, giunta al bivio, non avrebbe dimostrato un interesse per la scienza maggiore rispetto a quello dimostrato da altre civiltà quali le civiltà Islamica, Indiana e Cinese, prediligendo invece le garanzie del tradizionale sistema schiavistico.
Non è un caso se il più grande lascito della civiltà greco-romana è legato all’ordinamento amministrativo e giuridico e non al mondo scientifico, e in questo senso è importante ricordare che, nessuna delle “meraviglie del mondo antico” fu opera dei romani.

La discrepanza tecnologica tra il mondo antico e quello moderno è enorme ed è facilmente spiegabile se si accetta la verità che i romani non fossero degli ingegneri di prim’ordine, ma che semplicemente si limitarono ad imitare e “copiare” le innovazioni tecnologiche dei popoli con cui entravano in contatto e che invece l’età medievale fu un epoca particolarmente prolifera a livello tecnico, e non fu solo un periodo in cui su “abbandonò” e si trascurarono gli acquedotti e le strade romane.
Sorvolando sulle grandi città, sulle cattedrali, sulle fortezze ed i castelli che nulla avevano da invidiare, a livello tecnico e ingegneristico, alle ville romane e ali acquedotti. Durante il medioevo si sarebbero prodotte una serie di innovazioni tecniche che ancora oggi sono alla base della nostra civiltà.
Un confronto tra il sapere tecnico del medioevo e il mondo antico, la superiorità del sapere medievale appare immensamente superiore. I grandi motori della tecnica medievale non risiedono in Europa, ma nel mondo cinese, indiano e arabico, i quali furono i mediatori privilegiati in grado di condurre in Europa e nel mediterraneo il sapere scientifico proveniente dall’Asia.
Il mondo arabo aveva ereditato le basi del proprio sapere matematico, filosofico e astronomico dal mondo greco, e a questi avrebbe aggiunto un nuovo sapere proveniente dall’Asia e grazie ad esso avrebbero dato un ulteriore importante contributo alla medicina, soprattutto ottica ed olfattica, avrebbero sviluppato lo studio della chimica e prodotto una serie di innovazioni tecniche ad essa connesse.

Lo sviluppo tecnico dell’Europa medievale, se bene fosse una reazione e un imitazione dello sviluppo tecnico della prima civiltà islamica, denota comunque un importante livello di apertura culturale che avrebbe gettato le basi per uno sviluppo proprio europeo nei secoli successivi.
Un esempio più recente di una dinamica analoga possiamo incontrarlo nell’estremo oriente contemporaneo, in particolare in Cina, Korea e Giappone. Questi popoli sono spesso etichettati, sul piano tecnologico, come dei copiatori, degli imitatori della tecnologia Europea o Americana, ma la loro imitazione (a differenza di quella romana) non è statica, ed ha prodotto una propria identità tecnologica.

Un elemento indispensabile per lo sviluppo tecnologico di una civiltà è senza ombra di dubbio la sua capacità e disponibilità di imparare. Introdurre tecnologie di popoli stranieri per certi versi è anche piu’ importante dello sviluppo di tecnologie proprie, un esempio in questo senso ci arriva dalla Cina che ha alle proprie spalle una lunga storia di invenzioni e scoperte interne, ma che, difficilmente, negli secoli scorsi, ha permesso l’ingresso di tecniche e tecnologie straniere nel proprio paese, andando incontro ad un inevitabile inaridimento della propria tecnologia.
Nell’Europa medievale invece, la dinamica è totalmente invertita, le scoperte e le invenzioni interne sono relativamente poche, ma c’è una grande disponibilità ad imparare e introdurre nuove tecniche, così gli artigiani medievali avrebbero potuto sviluppare ed aggiornare continuamente le proprie tecniche finché non sarebbero stati in grado di sviluppare nuove e originali tecniche e tecnologie.

Fonti:
D.S.L. Cardwell, Tecnologia, scienze, storia, Il Mulino, Bologna 1976

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