Il ricordo storico delle Foibe

Oggi è la giornata delle memoria per le vittime delle Foibe, parliamo allora delle vittime delle foibe. Ma parliamone in termini storici e senza fare propaganda.

Quando si parla delle Foibe, la prima cosa che si dice è che furono uccisi perché “colpevoli di essere italiani”.
La verità, è leggermente più complicata di così e la storia che le vittime delle foibe furono vittime di un qualche odio verso gli italiani/italiofoni, è in realtà, frutto della propaganda.

La vera “colpa” delle vittime delle foibe (e con questo non voglio assolutamente giustificare i foibisti, anzi, condanno i loro crimini, non meno disgustosi di quelli del fascismo e del terzo reich) non era quella di “essere italiani o italiofoni” perché tra i foibisti, in realtà, c’erano moltissime persone che parlavano italiano, e che erano molto più vicini alla cultura e alle tradizioni italiche che a quelle dell’area balcanica.

La loro colpa era quella di essersi rifiutati di lasciare le terre che pochissimi anni prima avevano occupato, la loro colpa era quella di essere andati lì come fascisti e di aver stuprato donne e assassinato brutalmente chiunque si fosse opposto a loro, erano colpevoli di aver cacciato i locali dalle proprie terre e dalle proprie case e di essersi impossessati di quelle terre e di quelle case.
Va però altresì detto che non tutti gli “italiani” o per essere più precisi, tutti i non slavi nella regione rientravano in questo profilo, vi erano anche moltissime persone che erano andate lì come lavoratori stagionali e che erano rimaste lì, pacificamente, e che avevano vissuto pacificamente con i locali, ma purtroppo, durante le ondate “nazionaliste” quando si va a tracciare una linea di confine tra “noi e loro” chiunque non sia “noi” diventa automaticamente portatore di tutti i crimini commessi dagli altri, e di conseguenza moltissimi italiani innocenti, vennero trattati come dei criminali e vennero messi al bando, vennero cacciati e costretti ad andare via, a lasciare per sempre quelle terre, in un modo o nell’altro.
Alcuni capendo la situazione fuggirono, e i primi a fuggire furono proprio quelli con la coscienza sporca, quelli che si sentivano direttamente minacciati, molti altri invece, non avendo fatto nulla di male, decisero di rimanere, e nel rimanere, andarono in contro alla rappresaglia disumana e sproporzionata dei foibisti e vennero trattati, come gli italiani avevano trattato chi si era rifiutato di giurare fedeltà al Fascismo.
Vennero arrestati, portati sui monti, assassinati e gettati nelle Foibe.

Ciò che è successo è stato schifoso e disumano, e lo è stato sia prima che durante che dopo la guerra, è stato disgustoso e disumano il comportamento degli italiani prima e durante la guerra, nei confronti dei locali, così come lo è stato quello dei locali, dopo la guerra, nei confronti degli italiani, e personalmente trovo altrettanto schifoso far finta che la colpa sia solo dell’una o dell’altra parte, senza invece considerare il contesto storico e tutto ciò che vi era dietro e che tra il 1919 (dall’occupazione di fiume) e il 1945 aveva contribuito ad alimentare tensione e intolleranza nella regione.

Le vittime delle foibe sono anzitutto vittime del Nazionalismo cieco e brutale, sono vittime della generalizzazione, dell’incapacità di distinguere il vero colpevole, da un qualcuno che si trovava lì per caso, ed è abbastanza surreale, che oggi, siano proprio i nazionalisti e sovranisti a puntare il dito contro i crimini del nazionalismo e il sovranismo della jugoslavia di Tito.

Va detta anche un altra cosa, nel 1948 il governo italiano, in accordo con il governo jugoslavo, ha scelto di mettere una pietra su questa vicenda, di passare oltre.
L’italia nel dopoguerra aveva tanti problemi, e rischiava di perdere il controllo di alcune città e regioni di “frontiera” a causa di una disputa sulla liberazione, con la Jugoslavia, inoltre vi erano accuse reciproche, tra Italia e Jugoslavia, di aver commesso atroci crimini durante il periodo bellico.

Settant’anni dopo, quello che è successo va assolutamente ricordato, ma va ricordato in modo Storico, come fatti ormai conclusi da oltre settant’anni. Delle stragi, gli eccidi, la pulizia etnica, sia in età fascista che nel regime di Tito, va preservata la memoria storica, non va invece proseguita la narrazione politica, politicizzata e propagandistica.

Anche perché, a volerla dire tutta, fu la corrente di destra della DC e successivamente il MSI a spingere per l’archiviazione dei fascicoli per crimini di guerra, mentre il PCI si configurò nella scena politica degli anni cinquanta, come l’unico partito italiano condannò apertamente i crimini di guerra della Jugoslavia e che a più riprese, in modo costante fino al 1954 e in modo saltuario fino ai primi anni sessanta, chiese pubblicamente la riapertura dei fascicoli, ma la sua voce rimase inascoltata fino a quando non svanì del tutto.

Bibliografia e Fonti

Michele Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza. 
Jon Elster, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche, Il Mulino.
Jacques Sémelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Einaudi.
Joanna Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, Carocci.
Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia, Einaudi.
Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori, Feltrinelli.
Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Storia dell’emigrazione italiana, Donzelli.
Corrado Barberis, Le campagne italiane dall’ottocento ad oggi, La Terza

Bella Ciao è una canzone di Destra

Bella ciao il canto partigiano per eccellenza, un canto che i partigiani non cantavano, e che nel tempo è diventato un simbolo della sinistra, pur raccontando concetti nazionali che tradizionalmente sono associati alle idee di destra.

Il titolo di questo post è una provocazione ovviamente, però pensateci, fate finta, per un attimo, di dimenticare o di ignorare tutto quello che sapete o credete di sapere sui partigiani e sulla resistenza, ovvero l’ambiente in cui è nata questa canzone. Estrapolata dal contesto storico in cui è stata concepita, quel che rimane è una canzone che parla di unità nazionale, un brano che racconta un concetto di patria, una patria che qualcuno ha tradito, consegnando la patria ad un invasore straniero, è una canzone che racconta un popolo unico, unito e unitario, mobilitato contro quell’invasore straniero.

Questa canzone è l’emblema del nazionalismo, concetto che nella storia recente appartiene più ai movimenti di destra che a quelli di sinistra (tradizionalmente di visione più internazionalista).

Bella Ciao in realtà non è una canzone di destra, ne una canzone di sinistra, è semplicemente un canto popolare, che parla al popolo di un popolo che si trova a confrontarsi con il fascismo reale.

Questo brano racconta un concetto di patria e di antifascismo e nel farlo, ci ricorda qualcosa qualcosa di semplice, qualcosa che un tempo sapevamo e che abbiamo dimenticato, ovvero che Patria e Antifascismo, non sono concetti di destra o di sinistra, ed è per questo che nel tempo, Bella Ciao è diventata un fenomeno Globale.

Fine della premessa, ora parliamo della canzone e della sua vera genitrice, la guerra italica del 1943-1945.

Le due Italie

Tra il 1943 ed il 1945 l’Italia, come è noto, fu attraversata da un grande conflitto interno, che intrecciava insieme le tre componenti della guerra sociale, della guerra civile e della guerra di resistenza o liberazione, questa divisione tripartitica del conflitto, è stata formulata per la prima volta da Claudio Pavone, lo storico italiano che ha introdotto il concetto di guerra civile applicato al conflitto italico interno alla seconda guerra mondiale, e in quel conflitto, coesistevano diverse energie.

Vie erano due forze straniere in gioco, nell’Italia settentrionale gli ex alleati tedeschi che, non rispettando l’armistizio italiano, passarono dall’essere una forza alleata ed amica ad una forza ostile, vi erano poi, nell’Italia meridionale, gli ex nemici angloamericani, vincitori del conflitto e ai quali il legittimo governo italico e il capo dello stato, il re, si erano arresi.

Nel mezzo, vi erano simpatizzanti dell’una o dell’altra potenza straniera, mobilitati in diverse configurazioni. Vi erano due italie, una monarchica nel meridione ed una finta repubblica controllata dal terzo Reich nella parte settentrionale del paese, che prendeva il nome di Repubblica Sociale Italiana, vi era poi da un lato una parte dell’alta borghesia italica, in debito e fedele al Fascismo, che scelse di schierarsi con RSI e vi era una parte dell’alta borghesia italica che vedeva nell’alleanza con gli USA, nuovi orizzonti commerciali ed una potenziali interessi economici, vi era una classe popolare, operaia e contadina, che vedeva nell’unione sovietica un futuro radioso, migliore della realtà popolare conosciuta durante il ventennio fascista, ma anche una folta schiera di operai e contadini che grazie al fascismo non avevano sofferto la fame ed avevano avuto, per così dire e ai quali, in fondo, delle limitate libertà politiche e civili del regime, non importava molto, in fondo loro erano bianchi e cattolici, e non gli serviva altro.

La terza Italia

Vi era poi il grande gigante dormiente, degli italiani a cui non importava nulla di tutto ciò, quell’enorme massa insipida di italiani, pronti a dichiararsi fascisti, comunisti, cattolici, atei e liberali, e se le necessità lo avessero richiesto, si sarebbero dichiarati tali, contemporaneamente.

L’Italia tra il 1943 ed il 1945 è forse il luogo più confuso, caotico e imprevedibile del pianeta, ma anche il paese più rassicurante del mondo, poiché, nonostante la guerra, quel paese era certo che avrebbe seguito i vincitori, o comunque i migliori offerenti, senza fare troppe domande, ma questo è solo un modo edulcorato per descrivere mamma Italia, la grande proletaria, come il paese più opportunista e inaffidabile della storia.

E nella propria sterminata ipocrisia morale, gli italiani che parteciparono attivamente a quella guerra deforme e ambigua, produssero tanti canti popolari, alcuni guardavano a destra, altri guardavano a sinistra, altri ancora guardavano l’orizzonte, e poi, vi è quel capolavoro nazional popolare che avrebbe avuto successo soprattutto dopo la guerra, e che era l’incarnazione perfetta dell’essere italico, mi riferisco a Bella Ciao, una canzone il cui testo, assolutamente meraviglioso, avrebbe potuto competere e probabilmente vincere il festival di Sanremo, perché nelle sue parole andava bene per chiunque.

Che si stesse combattendo un conflitto sociale o una guerra civile, che fosse una guerra di resistenza o liberazione, che il nemico, l’invasore, fosse angloamericano o teutonico, Bella Ciao, andava bene per chiunque.

Poi però è successo che qualcuno quella guerra l’ha vinta, e qualcun altro l’ha persa, ed è anche successo che, una classe politica, si appropriasse indebitamente di quell’opera popolare dalle origini sconosciute.

Chi ha scritto il testo di Bella Ciao?

Noi non sappiamo chi ha scritto il testo di Bella Ciao, sappiamo però che durante la guerra non la cantava nessuno, e non è un caso se all’epoca questa canzone non venisse cantata.

Gli italiani, durante la guerra civile no la cantavano, perché il suo testo era fin troppo criptico, e non era chiaro chi fosse realmente l’invasore.

Non vi è alcun dubbio sul dove sia nata questa canzone, il suo testo è nato nel mondo partigiano, e, chiunque abbia scritto il testo di questo brano, l’ha fatto con in mente una precisa idea di patria e di nazione. Certo, è il 1943, e un intera generazione è nata ed è cresciuta nel mito della patria italica, una nazione, fiera, forte e orgogliosa, una nazione che era stata tradita e abbandonata dal resto del mondo e che aveva dovuto rialzarsi e farsi da sola, dopo la prima guerra mondiale.

Bella Ciao nasce dalla mente di uomini e donne che non stanno vivendo una guerra civile, il nemico descritto e temuto in questa canzone, non sono altri italiani, non nasce da chi stava vivendo una guerra sociale, non è una canzone che contrappone il popolo all’elite aristocratica o borghese, è invece un canto di resistenza, che racconta un unico popolo, diviso da idee politiche, che si sente morire per un grande tradimento subito, ma che in fondo sa di essere un unico popolo e sa che gli italiani nelle città, nei villaggi, sui monti in appennino, anche se avevano scelto di sposare cause diverse, erano pur sempre italiani, erano in fondo sempre fratelli.

Questa canzone, ha un enorme valore patriottico, nazionale e nazionalista, nata in un momento in cui il paese Italia, era estremamente frammentario e diviso, soprattutto, è una canzone che, raccontando un concetto di patria, non trova molto spazio nella visione internazionalista sovietica, insomma, e questo è molto significativo, perché dona alla canzone un carattere certamente antifascista, ma di un antifascismo ampio e reale, che non aveva un unico e preciso colore. A differenza di altri canti popolari che, durante la guerra civile ebbero maggior successo, Bella Ciao, non era una canzone che strizzava l’occhio al mondo sovietico/comunista.

Bella Ciao dopo la Guerra

Passano gli anni, cambiano le stagioni, nell’Italia post bellica nasce e cresce una nuova generazione, la prima generazione libera dal fascismo e non è un caso se, nella seconda metà degli anni sessanta, tra fenomeni di massa e rivoluzioni culturali immerse nel contesto generale della guerra fredda, Bella Ciao esplode e si afferma, inserendosi di prepotenza, nella memoria collettiva di un paese che non aveva ancora fatto e mai avrebbe fatto, i conti col passato.

L’attività politica di una certa classe politica negli anni cinquanta e sessanta, che si è impossessata dei simboli della resistenza e del concetto di antifascismo, hanno tinto di rosso la resistenza, il CLN e dato una connotazione politica ad un canto nazionale e fortemente nazionalista, come Bella Ciao, una canzone che, per le sue parole, oggi dovrebbe trovare il proprio spazio, nei cori di militanti di movimenti Nazionalisti, e pure, quei movimenti, quelle forze, quelle energie che premono con forza sul concetto di nazione, quasi si sentono offesi e ripudiano, un canto che tra le sue parole racconta proprio l’unità nazionale durante una guerra contro un ex amico, traditore, divenuto da un giorno all’altro un invasore straniero.

Donna seminuda, inseguita da uomini armati durante il Pogrom di Leopoli

Con progrom, un termine di derivazione russa, generalmente si indica un insurrezioni popolare contro alcune minoranze etniche/culturali/religiose, ed è generalmente perpetuato da gruppi di ultra-nazionalisti, nelle regioni dell’europa orientale.

Ci troviamo a Lwowski (Leopoli), per ora, non vi dirò quando. Nella foto possiamo vedere una donna, ebrea, seminuda e sanguinante, inseguita da alcuni “uomini” e non credo serva spiegare quali sono le loro intenzioni o quale sarà il destino della donna, ma se proprio vi tenete, inizia con uno stupro e finisce con la un omicidio morte.

La colpa della donna? a quanto pare, essere nata donna Ebrea, a Leopoli, tra il 1881 ed il 1945, ed essere stata adulta durante un Poogrom.

“Pogrom” è una parola di derivazione russa che significa “devastazione” ed indica generalmente sommosse popolari ai danni di minoranze etniche e religiose, in particolare tra il 1881 e il 1943, nel mondo ai confini con la russia, si verificheranno numerosi pogrom/insurrezioni popolari, di matrice antisemita.

La popolazione ebraica di alcune città come Lwowski o Černobyl, nel novecento, fecero i conti con diversi pogrom, di matrice antisemita, alcuni dei quali in un clima sovietico ed altri, in un clima da terzo reich.

Nella foto, assistiamo alla ferocia di un pogrom, attraverso le sue vittime, vediamo una donna seminuda inseguita da uomini in armi, ma vediamo anche altro, oltre agli uomini vediamo anche bambino, con in mano un bastone, che insegue la donna divertito, il bambino è evidente dal suo sguardo che non sta capendo cosa sta accadendo in quel momento, ma avrebbe assimilato quell’odio, attraverso quello che per lui era un momento di gioco.

Non ho ancora detto quando la foto è stata scattata e non l’ho fatto per un motivo, scene come questa, ce ne sono state a migliaia, sia nel 1918, durante il Pogrom di Lwowski, ad opera dei polacchi, sia nel 1941, dopo l’ingresso degli Einsatzgruppen tedeschi nella città, ad opera dei collaborazionisti del Terzo Reich.

Nell’ottobre del 1918, geograficamente parlando, Lwowski si trova in Polonia, tuttavia, quell’anno, ad ottobre, fu creato il Consiglio nazionale ucraino di Leopoli, guidato da Jewhen Petruszewycz, un nazionalista ucraino che nel proprio suo manifesto proclamò la nascita della “Repubblica popolare dell’Ucraina occidentale”.

Jewhen Petruszewycz nella sua azione politica riconobbe l’esistenza di numerose minoranze nazionali, tra cui quella ebraica, cosa eccezionale ed estremamente rara per il tempo, poiché, non esistendo una nazione ebraica, gli ebrei non erano riconosciuti come un popolo da quasi nessuna nazione in europa.

Il 1 novembre 1918, venne creato a Leopoli il distretto ebraico, in cui, inizialmente era presente un presidio armato di milizie ebraiche filo ucraine, di circa 200 uomini e circa 100 civili (per lo più donne, anziani e bambini).

Leopoli, non va dimenticato, in questo momento è una città spaccata in due, attraversata da scontri armati tra due gruppi di nazionalisti, da una parte la città è “ucraina” e dall’altra parte è “polacca”, ed è proprio in questo clima di violenza, di divisione ed intolleranza, che iniziarono i problemi per la comunità ebraica di Leopoli o Lwowski o Lviv.

Senza dilungarmi troppo, gli ebrei, che erano riconosciuti come popolo dall’Ucraina, vennero accusati dalle milizie polacche di aver cospirato insieme alle milizie ucraine contro la Polonia, e si finì in pochissimo tempo a scaricare sulla popolazione ebraica ogni sorta di responsabilità per qualunque disastro mai avvenuto a Lwowski negli ultimi mille anni o giù di lì, innescando un escalation di violenza che si tradusse in un insurrezione popolare, di nazionalisti polacchi, contro gli ebrei di Leopoli.

Non conosciamo il numero esatto delle vittime, sappiamo però che almeno 2000 ebrei vennero assassinati e circa 4000 vennero ridotti in fin di vita, inoltre i testimoni parlano anche di numerosi stupri, spesso avvenuti in strada e sotto gli occhi di bambini.

Sappiamo inoltre che in quel momento, Leopoli era la terza città “polacca” per numero di cittadini ebrei, stando ai registri cittadini dell’epoca, Leopoli ospitava circa 100.000 ebrei. Sempre secondo i registri della città sappiamo anche che, nel 1941 (più di 20 anni dopo) a Leopoli vivevano circa 200.000 ebrei, e questo secondo dato ci porta al “secondo” pogrom di Leopoli, ovvero quello del 1941.

Il pogrom iniziò il 25 luglio 1941, quando, in seguito all’omicidio del leader ucraino Symon Petliura, circa 2.000 ebrei persero la vita, in alcuni scontri “civili” in cui gli ebrei di Leopoli vennero attaccati da nazionalisti polacchi di lingua tedesca, collaborazionisti del Terzo Reich e costituiti in milizie cittadine armate. Sappiamo dai testimoni che moltissimi ebrei vennero costretti a marciare, sotto la minaccia delle armi, fino al cimitero ebraico o alla prigione di Lunecki, dove vennero assassinati. Questi eventi sono noti come “I giorni di Petliura“, e rappresentano sono solo l’inizio di ciò che sarebbe successo di li a poco alla popolazione ebraica di Leopoli.

Non troppo tempo dopo infatti, i collaborazionisti del terzo reich aprirono le porte della città alle truppe tedesche e agli einsatzgruppen, che entrarono in città ed istituirono dall’8 novembre 1941 il ghetto ebraico di Lwowski, in pratica una parte della città venne recintata, sorvegliata da guardie armate e all’interno del lungo corridoio in filo spinato, sarebbero stati rinchiusi circa 100/120 mila ebrei, tra il novembre del 41 e il giugno del 43.

Se ricordate, poco fa ho detto che nel 1941 la popolazione ebraica di Leopoli era di circa 200.000 persone, ma nel ghetto di Leopoli ne sarebbero finite circa 100 mila, ed è curioso notare che, centomila, è anche il numero degli ebrei di leopoli nel 1918. Questo dato ci dice molte cose, ma lascio a voi le dovute deduzioni.

Torniamo però alla foto che mi ha permesso di aprire una parentesi sui pogrom di Leopoli, del 1918 e del 1941. Sono partito da quella foto, ed ho voluto raccontare entrambi gli episodi perché sono collegati attraverso il bambino presente nella foto.

La fotografia è stata scattata durante il Pogrom del 1918, e come dicevo, quel bambino avrebbe assimilato quella violenza, quell’intolleranza, quell’odio viscerale per la popolazione ebraica, attraverso il gioco. Quel bambino è cresciuto odiando gli ebrei e da adulto, 20 anni dopo, quando si è trovato di fronte uno stato, come il Terzo Reich, che gli parlava di superiorità della razza ariana, e prometteva lo sterminio ebraico, avrebbe compiuto determinate scelte che lo avrebbero spinto ad arruolarsi volontario nelle milizie filo naziste, diventando un collaborazionista polacco del Terzo Reich.

Ho voluto raccontare entrambi i pogrom anche per un altro motivo, il pogrom di leopoli del 1918 è spesso indicato come un pogrom di matrice “sovietica”, anche se, come abbiamo visto, non è esattamente così.

Il motivo per cui spesso si parla del pogrom del 1918 come di un pogrom di matrice sovieticha è in parte dovuto al termine “pogrom”, è un termine russo e questo sposta automaticamente l’attenzione sull’Unione Sovietica, del resto, il pogrom del 1941, non sempre è chiamato pogrom. Inoltre, nel 1918 esisteva l’unione sovietica già, ma a differenza del 1941, non esisteva il Terzo Reich, e se è vero che, se si parla di ebrei nell’Unione Sovietica, questi, almeno fino agli anni 80 furono fortemente discriminati e spesso perseguitati ed è altrettanto vero che la Russia è ha dato i natali al falso storico dei protocolli dei Savi di Sion, è anche vero che, nonostante l’URSS sia stata una nazione fortemente antisemita, praticava l’antisemitismo lontano dai riflettori, e non lo sbandierava nelle piazze.

Tutte queste teorie speculative alla fine della fiera significano poco o nulla, e c’è un unico elemento realmente significativo in tutta la vicenda, ovvero che gli artefici del Pogrom del 1918 non furono militanti bolscevichi e filo-sovietici, ma nazionalisti polacchi di lingua tedesca.

E a mio avviso è importante sottolineare che proprio questi gruppi, negli anni trenta, avrebbero sposato totalmente le teorie antisemite del nascente nazional-socialismo tedesco, al punto da produrre un nuovo pogrom di matrice antisemita, al fianco delle SS, nel 1941, pogrom che avrebbe portato all’occupazione nazista di Leopoli e la nascita del ghetto ebraico della città.

Quella volta che i Curdi ci hanno salvato dai Nazisti

Di recente, il presidente Trump ha dichiarato che gli USA non aiuteranno Curdi, perché loro (i Curdi) non hanno aiutato gli USA contro i Nazisti durante la seconda guerra mondiale e lo sbarco in normandia.

Facciamo finta per un attimo che, tra il “Kurdistan” e la Normandia, non ci siano centinaia e centinaia di kilometri, e facciamo anche finta che, tra la Normandia (nord della Francia) e il Kurdistan (medio oriente) non ci siano la Grecia, i Balcani, l’Austria, la Germania ovvero quello che durante la seconda guerra mondiale era il Terzo Reich e soffermiamoci solo (per modo di dire) sulla seconda guerra mondiale.

In questo conflitto (mondiale) che non si è combattuto solo in europa, ma anche in asia, africa, america e oceania, i curdi ovviamente non erano presenti ovunque, in ogni teatro bellico, anche perché all’epoca erano poco più che tribù nomadi, con qualche cavallo, qualche cammello e qualche residuato bellico risalente alla prima guerra mondiale, e proprio per questo, la loro partecipazione alla guerra va circoscritta alla sola regione in cui potevano muoversi, ovvero quello stato immaginario condiviso tra Turchia, Siria, Iraq e Iran chiamato Curdistan, quella regione che aveva questo nome quando era parte dell’impero ottomano e che successivamente è stata smembrata (tradendo la promessa di indipendenza fatta da Francesi e Britannici durante la Grande Guerra) e suddivisa tra le naonate nazioni/protettorati nate dalle ceneri dell’Impero ottomano e sottoposte al controllo indiretto di Francia e Regno Unito.

Nonostante questo, durante la seconda guerra mondiale, i curdi hanno imbracciato nuovamente le armi ed hanno combattuto al fianco degli alleati (prima ancora che questi assumessero il nome di Nazioni Unite) contro i Nazisti. In questa seconda fase della grande guerra del novecento, meglio nota come seconda guerra mondiale, va detto che Turchia, e dunque tutte le popolazioni che si trovavano entro i confini turchi, curdi compresi, erano simbolicamente dalla parte degli alleati, praticamente erano neutrali e anzi, vi sono anche alcuni casi di collaborazionismo tra turchia e terzo reich, soprattutto nella zona più occidentale del paese, ad ogni modo, fingiamo che la Turchia fosse davvero neutrale e dunque, poniamo i Curdi Turchi sono fuori dai giochi.

Restano nell’equazione i Curdi Siriani, i Curdi Iraqueni e i Curdi Iraniani, che invece, come vedremo in questo post, si sono dati parecchio da fare contro i nazisti.

Faccio una premessa, quei curdi che hanno combattuto nella seconda guerra mondiale, sono i nonni e i bisnonni degli attuali curdi e che quindi dire che “non ci hanno aiutati” ehm, eh? cosa? è una grandissima stronzata, se ragioniamo in questi termini allora neanche Trump, che oggi è il presidente degli USA, ha aiutato, visto che lui è nato nel 1946, quando la guerra era finita. Ma comunque, fingiamo che, eventi di oltre settant’anni fa, che coinvolgono nel migliroe dei casi la generazione dei nostri padri, nel peggiore quella dei nostri bisnonni, possano avere un qualche legame diretto, di causa ed effetto, negli eventi odierni.

La domanda che dobbiamo porci è :

è vero che i Curdi non hanno aiutato gli alleati nella seconda guerra mondiale?

La risposta a questa domanda è NO.

I curdi hanno aiutato, e se lo sono preso nel cu… come era già successo nella prima guerra mondiale.
(mi viene da pensare che sono coglioni loro allora, visto che puntualmente hanno aiutato gli “noi” occidentali che, nel momento del bisogno gli “abbiamo” promesso autonomia e indipendenza, e poi finita la guerra “ci siamo” rimangiati tutto.

Ogni riferimento a Francia, Regno Unito, Russia, e USA è puramente voluto.

Nel 1936 la Siria e il Libano erano “protettorati” francesi e in quanto tali, godevano di una certa autonomia, almeno per quanto riguarda la politica interna (quella estera no, quella estera dipendeva da Parigi), questi protettorati erano stati creati sulle ceneri dell’impero ottomano, in un processo di ripartizione territoriale tra i vincitori della guerra, che aveva visto un parziale mantenimento delle promesse fatte da Francia e Regno Unito agli alleati mediorientali, dando così ad alcune tribù (e a discapito di altre tribù) no stato più o meno autonomo in cui vivere, e, all’interno dei confini di questi stati, erano stati inglobati territori e regioni abitati da altre popolazioni, e, una delle popolazioni cha aveva visto smembrare la propria regione, per vederla poi inglobare in altre realtà statali, erano proprio i Curdi, la cui regione di origine venne inglobata in Siria, Iraq e Iran.

Con la caduta di Parigi nel 1940 e l’annessione, chiamiamola così, della Francia al Terzo Reich, con l’istituzione del governo di Vichy, queste regioni autonome, diventarono decisamente meno autonome, e sempre più vicine, per non dire piegate, alla volontà tedesca. Detto in soldoni, Siria e Libano, un tempo protettorati autonomi francesi, dal 1940 diventano avamposti mediorientali del terzo reich.

Parallelamente, la germania stava cercando di assumere il controllo, indiretto, anche dell’Iraq e dell’Iran, protettorati britannici, e per farlo, già a partire dal 1939, la germania aveva appoggiò una serie di insurrezioni, armato milizie locali di gruppi nazionalistici antisemiti e finanziato un tentato colpo di colpo di stato in Iraq.

Il colpo di stato in Iraq portò inizialmente alla deposizione del reggente iraqueno filo-brigtannico ‘Abd al-Ilah e del suo primo ministro Nuri al-Said, insediando al loro posto, Rashid Ali al-Gaylani come nuovo primo ministro del nuovo governo, questa volta filo-tedesco. Con il colpo di stato in Iraq si apre una parentesi durata circa quaranta giorni e nota come “quarto d’oro”.

Il governo del quarto d’oro non fu semplice, e la transizione non fu pacifica, anzi, le insurrezioni continuarono, i combattimenti continuarono e gli Iracheni “filobritannici” fedeli al legittimo re, armati dai britannici e con l’aiuto delle numerose tribù indigene (tra cui i curdi) riuscirono a sottrarre nuovamente il paese al controllo dell’asse e riportarlo al fianco degli “alleati“.

Questo colpo di stato fallito, grazie anche e soprattutto al ruolo giocato dalle tribù locali armate dai britannici, è più che sufficiente a dirci che non è affatto vero quanto asserito da Trump, ovvero che i Curdi non hanno aiutato gli alleati nella seconda guerra mondiale. Ma, visto che in questo momento non c’era ancora stata l’operazione Barbarossa e che questi eventi precedono di almeno due anni la conferenza di Teheran, probabilmente per Trump non sono rilevanti, anche perché poi diciamolo, in questa vicenda, gli USA non sono intervenuti.

Torniamo allora in Siria, abbiamo visto che questa, dopo il 1940 è passata sotto il controllo di Vichy e del Terzo Reich, sempre nel 1941, gli “alleati” , ancora una volta Britannici, con al seguito quello che rimaneva delle milizie francesi che avevano deciso di non piegarsi alla germania, ma anche l’india britannica e l’Australia, diedero supporto alle tribù indigene della Siria settentrionale, da cui, tra giugno e luglio del 1941, partì l’offensiva verso Damasco e la conseguente occupazione della regione.

Gli scontri tra le tribù armate dagli alleati e le forze governative armate dall’asse ebbe come esito, ancora una votla, una vittoria “alleata” ma, anche questa volta, evidentemente, il fatto che gli USA non fossero coinvolti negli sconti e che questi siano avvenuti prima della conferenza di Teheran, evidentemente per Trump è da considerarsi una vicenda irrilevante o comunque poco significativa, del resto, cosa vuoi che sia la liberazione del medio oriente dalla presenza nazifascista.

Rimangono nell’equazione i curdi turchi, ma come già detto, sulla carta la turchia era alleata degli alleati, e i curdi Iraniani.

Vediamo allora come si sono comportati i curdi in Iran.

In Iran, come in Iraq e Siria, si combatte sempre nel 1941 e, come avvenuto in Siria e Iraq, anche in Iran, gli alleati (sempre i britannici), combatterono con l’aiuto delle tribù indigene, e come avvenuto in Siria e Iraq, ebbero ragione sulle milizie nazionaliste filo germaniche e antisemite nella regione.

Detto molto brevemente quindi, ogni volta che in “Kurdistan” si è combattuto, durante la seconda guerra mondiale, i Kurdi hanno imbracciato le armi e le uniformi degli alleati, hanno combattuto al fianco dei Britannici contro i Nazisti e le tribù armate dai nazisti, hanno aperto il fuoco, mettendo a rischio e sacrificando la propria vita per combattere il terzo reich.

I Curdi, e cito loro per citare tutte le tribù indigene che hanno combattuto contro il terzo reich, hanno giocato un ruolo decisivo nella regione, assicurando agli alleati una vittoria altrimenti impossibile da raggiungere, e dire che, i Curdi non hanno aiutato gli alleati durante la seconda guerra mondiale, perché non sono sbarcati in normandia è una bugia grossa come l’america.

Una colossale bugia, detta (a mio avviso) da Trump, sapendo di mentire, ignorando Storia (e anche un po’ di geografia) pur di non ammettere che gli USA si sono piegati alla volontà Russa e che ormagli l’Impero Americano, non è più il garante dell’ordine e della sicurezza globale, ruolo che gli USA avevano rivendicato per se, dopo la guerra fredda, appuntandosi da soli, la stella dello sceriffo sul petto.

Perché la Germania si vergogna del Nazismo mentre l’Italia non fa lo stesso con il Fascismo?

Perché in germania i tedeschi si vergognano del Nazismo, metre gli italiani non sembra si vergognino più del fascismo e in alcuni casi sembrano desiderare un suo ritorno?

Come mai in Germania, l’opinione pubblica, si vergogna di essere stati nazisti (nonostante qualche rare eccezione), mentre da in italia, l’opinione pubblica, molto spesso è spesso nostalgica di quegli anni e addirittura nel nostro paese ci sono forze politiche, non irrilevanti, dichiaratamente simpatizzanti per la politica fascista, pur non dichiarandosi apertamente fascisti perché fortunatamente la costituzione lo impedisce?

Perché in Italia il Fascismo non è universalmente percepito come una macchia nel nostro passato, un qualcosa di cui vergognarsi e da cui mantenere le distanze, ostracizzando quelle idee, quelle proposte e quegli elementi propri della politica fascista?

Detto più banalmente, perché gli eredi di Hitler, Himmler e degli altri gerarchi nazisti si vergognano dei propri antenati, mentre in italia gli eredi di Mussolini e degli altri gerarchi fascisti vanno fieri dei propri antenati e in alcuni casi, ne esaltano la memoria, cercando in ogni modo di evidenziare le “cose buone” fatte dal fascismo… come se aver bonificato una palude potesse giustificare omicidi, pestaggi, deportazioni ed eccidi…

La risposta a queste domande non è semplice, ma voglio provare comunque a rispondere.

La ragione è politica, ma non parlo della politica odierna, mi riferisco invece alla politica del dopoguerra, perché è in quegli anni, tra il 1945 ed il 1948 circa, che il problema del fascismo nostalgico, affonda le proprie radici.

Finita la guerra, finita la seconda guerra mondiale, la Germania ed i tedeschi, hanno dovuto prendere coscienza del proprio passato, di ciò che era successo, di ciò che era stato fatto e di ciò che la popolazione tedesca aveva permesso al Nazismo di fare. Mentre in Germania il nazismo è stato ufficialmente condannato, sia politicamente che giuridicamente, e la popolazione tedesca ha in qualche modo “pagato il conto” dell’esperienza nazista, in italia tutto questo non è successo e la popolazione italiana è stata in un certo senso assolta. Complice anche la guerra civile (1943-1945) e le operazioni di “resistenza” al fascismo da un lato, e la mancata volontà politica di parlare di guerra civile per decenni, facendo invece percepire il conflitto avvenuto nella penisola tra il 1943 ed il 1945 come una guerra tra italiani e stranieri (americani o tedeschi che siano), creando così, sul piano politico dell’epoca un vero e proprio divario tra “italiani” e “fascisti”.

Nel 1945, la Germania prendeva cosicenza che i tedeschi avevano appoggiato e voluto il Nazismo, e chi non lo voleva si era banalmente voltato dall’altra parte o era scappato, dando de facto la percezione che, tutti i tedeschi erano nazisti e dovevano pentirsi di ciò che avevano fatto. In Italia invece, questo non avviene, gli italiani, per via della guerra civile, nonostante per circa un ventennio non abbiano mosso un dito, improvvisamente non sono più fascisti, e dunque non c’era motivo di vergognarsi delle azioni dei fascisti, solo i fascisti erano colpevoli… dimenticando forse troppo facilmente che per oltre vent’anni il fascismo aveva regolato ogni aspetto della vita degli italiani, e che, salvo pochissime eccezioni, quasi nessuno prima del 43 si era opposto in modo incisivo. Gli italiani, esattamente come i tedeschi, avevano scelto il fascismo, ma, una volta che il fascismo non c’era più, semplicemente si voltarono dall’altra parte, così come per vent’anni si erano voltati dall’altra parte mentre il fascismo imperava nel paese.

Detto più semplicemente, all’epoca, nell’immediato dopoguerra, il discorso politico in Germania si impostò sul concetto che in Germania, i tedeschi avevano scelto volontariamente il nazismo, e quindi erano complici del Nazismo. Diversamente, in Italia, l’impostazione fu che gli italiani subirono il fascismo, partito da un colpo di stato, e dunque non ne erano complici, e non avevano di che vergognarsi… avevano semplicemente chinato il capo all’uomo col manganello e l’olio di ricino.

Questo tipo di impostazione, permise all’Italia e agli italiani, da un lato di “ripulire le coscienze” degli italiani, che de facto non dovettero mai fare i conti con il fascismo e i suoi crimini, non erano stati gli italiani ad assassinare Matteotti, erano stati i fascisti, non erano stati gli italiani a tacere quando i fascisti andaro a prendere Gobetti, ma gli era stata tappata la bocca, non erano gli italiani ad aver accettato le leggi raziali, erano state imposte dai fascisti. Ma non solo, questa operazione di “pulizia delle coscienze”, si trasferì anche nelle aule dei tribunali e dei tribunali militari, aule vuote in cui dovevano essere processati i i criminali di guerra italiani, i fascisti, ma de facto, ciò non avvenne, non ci furono processi ne condanne, e questo perché, sulla base del principio di reciprocità, l’Italia accettò di processare i propri criminali, ma solo se anche francesi, jugoslavi e americani, vincitori della guerra, avessero processato i propri criminali, e i vincitori della seconda guerra mondiale questo non lo avrebbero mai fatto, mai si sarebbero piegati, da vincitori, alle richieste degli sconfitti, e dunque, l’Italia, ottenendo di poter processare autonomamente i propri criminali, de facto non li processò mai.

La mancata norimberga italiana, per usare un termine coniato nei primi anni duemila da diversi storici italiani che affrontarono la vicenda, è in larga parte responsabile del fatto che, gli italiani non hanno mai fatto i conti col fascismo e che il fascismo non è mai stato completamente consegnato alla storia.

Nel dopoguerra, tutti i partecipanti alla seconda guerra mondiale stilarono enormi liste di criminali di guerra, e dopo anni di trattative e richieste respinte, alla fine si accettò di far ricorso al principio di reciprocità, così da mettere fine, una volta per tutte, alla seconda guerra mondiale. Ogni paese accettò di farsi carico dei processi ai propri criminali, accusati da altre nazioni, così fece anche l’italia, i cui processi furono in qualche modo avviati, i fascicoli furono aperti, le indagini preliminari iniziarono, ma poi accadde qualcosa e tutto venne archiviato e dimenticato in quello che Franco Giustolisi intorno alla metà degli anni 90, definì l’“armadio della vergogna” .

Si tratta di un armadio rimasto chiuso per oltre quarant'anni, in cui, nel 1994 vennero trovati gli incartamenti dei processi mai computi ai criminali di guerra italiani.

Viene da chiedersi, perché, al di la del principio di reciprocità, l’italia non portò a termine quei processi, e la risposta a questa domanda ci arriva direttamente dal materiale trovato in quell’armadio.

Analizzando i documenti, oggi liberamente consultabili da chiunque e conservati presso gli uffici dell’ex tribunale militare di La Spezia, emerge che all’epoca, sul finire degli anni quaranta, a ormai qualche anno di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale, in italia si manifersò la precisa volontà politica, dell’allora classe dirigente italiana “dimenticare il fascismo”, di lasciarselo alle spalle, senza però mai farci realmente i conti, senza mai affrontarlo realmente e concretamente, e non affrontandolo il fascismo è rimasto lì, a sedimentare e fermentare.

Oggi, col senno di poi, possiamo dire che ignorare quei fascicoli ed evitare quei processi è stato un gravissimo errore, e volendo cercare dei responsabili, non è difficile individuarli. Tra il materiale emerso dall’armadio della vergognia vi è infatti anche un appunto di un giovane Giulio Andreotti, all’epoca appena un sottosegretario di un ministero senza poetafogli, in cui si invita a ignorare la questione dei processi, per evitare eventuali problemi politici sia interni che internazionali.

Erano anni in cui alcune città italiane, come Trieste, erano sotto il controllo non dello stato italiano ma di forze internazionali, e vi erano pressioni politiche da parte della Jugoslavia per cui le aree liberate dai Jugoslavi durante la guerra, diventassero territori Jugoslavi, e l’unico modo per evitare che questo accadesse era trovare un accordo tra Italia e Jugoslavia.

L’Italia decise quindi, per mantenere l’integrità e l’unità dei propri territori, di non richiedere alla Jugoslavia di processare i propri criminali, tra cui i responsabili degli eccidi delle Foibe, che nel nuovo asset del governo di Tito ricoprivano incarichi di rilievo e posizioni centrali.

L’Italia, o meglio, la sua leadership politica, scelse di non processare i fascisti per ragioni politiche e geopolitiche.

Va detto che, già tra 45 e 48, sulle pagine de l’unità, queste scelte politiche furono aspramente criticate, l’unità fu, fino ai primi anni cinquanta, l’unico giornale in italia che continuò a chiedere apertamente di processare i criminali italiani, ma la sua voce rimase inascoltata. Principalmente perché, per una fetta importante dell’opinione pubblica, queste richieste mascheravano la volontà politica dei comunisti italiani di proseguire la guerra o comunque di aiutare i comunisti Jugoslavi a danno dell’Italia.

Ad ogni modo, ignorata o meno, già all’epoca, sulle pagine dell’unità e tra le fila del PCI (e in larga parte anche del PSI) si teorizzava (e col senno di poi, possiamo dire che si prevedeva e la loro previsione era molto oculata) che ignorare i criminali italiani e non affrontare seriamente il problema del fascismo, fingendo che questi non fosse mai esistito, avrebbe avuto l’effetto pericoloso, in un futuro non troppo reoto, di far sbocciare nuovamente il fiore del fascismo e di riportare alla luce quella pericolosa interpretazione politica della realtà.

Insomma, si diceva chiaramente che, se l’italia non avesse condannato i fascisti, in futuro questi sarebbero potuti tornare, facendo le vittime, poiché non essendo “colpevoli”, visto che nessun fascista era stato condannato da un equo tribunale, e che, i soli fascisti condannati erano stati condannati da tribunali popolari del CLN, potevano, colpevolizzare le scelte dell’Italia antifascista, e, associando l’antifascismo al comunismo, rimettere in discussione l’intera struttura repubblicana ed i suoi equilibri istituzionali, poiché, in questa chiave interpretativa, i fascisti non vennero condannati per i propri crimini di guerra e contro l’umanità, ma, apparentemente, solo per ragioni politiche, rendendo quelle condanne apparentemente inique.

Fonti :

C.Pavone, Una guerra Civile.
M.Battini, Peccati di memoria.
L.Paggi, Il popolo dei morti.
Michele Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana.
Jon Elster, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche.
Jacques Sémelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi
Joanna Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia.
Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia.
Einaudi.Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori.

Le infermiere del D-Day che non sono sbarcate in Normandia. Dove sono sbarcate?

Una fotografia ritrae alcune donne, infermiere della seconda guerra mondiale, probabilmente della croce rossa internazionale, durante alcune operazioni di sbarco e solitamente questa immagine è accompagnata dalla didascalia “infermiere della CRI sbarcano in Normandia durante il D-Day“, purtroppo però si tratta di un “falso storico” ma andiamo con ordine, questa è la foto.

Facendo qualche ricerca su internet effettivamente si incontrano molti re-upload di questa foto che parlano di D-Day e della Normandia, e questa teoria è supportata dal fatto che, durante il D-Day, oltre ai soldati, ed i mezzi, sulle spiagge della Normandia, sbarcarono anche numerose infermiere.

Per ovvie ragioni le infermiere sbarcarono in prima linea, e non furono mandate al macello contro l’artiglieria nemica, ovviamente sbarcarono e rimasero nelle retrovie ma ciò non toglie che sbarcarono comunque il 6 giugno, perché il loro compito era quello di prestare soccorso ai soldati feriti durante i primi scontri, e non era possibile aspettare la fine degli scontri per soccorrere i feriti.

Premesso quindi che le infermiere erano effettivamente presenti sul campo di battaglia di Normandia, impegnate a rischiare la propria vita, per salvare le vite dei soldati veniamo alla foto.

Secondo un fact check effettuato di Snopes, che ha fatto alcune ricerche per verificare l’autenticità di questa foto, questa foto ritraeva sì delle infermiere che sbarcavano sulle coste francesi durante la seconda guerra mondiale, ma non durante lo sbarco a Normandia del 6 giugno 1944, ma in un successivo sbarco avvenuto in francia meridionale il 15 gennaio 1945.

Per chi non fosse avvezzo alla geografia, specifichiamo che Normandia e Costa Azzurra sono agli antipodi del territorio francese, la prima affaccia sul nord atlantico, la seconda sul mediterraneo ai confini con l’Italia.

Snopes attribuzione queste informazioni alla fonte “Corbis Images“, celebre database fotografico che per primo ha ospitato questa immagine, e che per primo ha allegato una didascalia all’immagine che descrive nel dettaglio la scena, indicando nella descrizione il luogo approssimativo dello sbarco.

Questa è la didascalia originale

“Ladies Day” on the Riviera. Southern France. Time for Yanks in the coastal region of Southern France to sit up and take notice — lady visitors have arrived. As the ramp of this Coast Guard-manned landing barge swings down, American Red Cross women, carrying small packs and bags, jump out on the beach. Brought by Coast Guard transport from the US, they are prepared to carry out their duties and keep high the spirits of Yank fighting men.

Stando alla didascalia originale (di Corbis Images) questa foto raffigurerebbe uno sbarco soprannominato “Ladies Day” avvenuto in riviera, nella Francia meridionale nel gennaio del 45. C’è però un problema, il 15 Gennaio del 1945 non c’è stato nessuno sbarco anfibio.

Quindi, quando sono sbarcate queste infermiere?

I più attenti avranno notato che ho detto “quando” e non “dove” e il motivo è che il dove in realtà lo sappiamo, o meglio, possiamo dedurlo.

Se non è il D-Day o comunque non è lo sbarco in Normandia, ipotizzando però che la località dello sbarco sia effettivamente la costa francese, e in effetti non è che ci siano molte altre alternative, se non è la Normandia è la riviera francese

Sappiamo infatti che più o meno contestualmente all’avvio delle operazioni di liberazione dell’europa, come riflesso del successo dell’operazione cobra (sbarco in Normandia), il 15 agosto del 1944 (circa due mesi dopo il D-Day) gli alleati sbarcarono effettivamente in riviera, in diversi punti tra Tolone e Cannes, in quella che prese il nome di “operazione Dragoon” e visto che, alle spalle delle infermiere immortalate durante lo sbarco, si intravedono delle montagne, e che l’unica baia stretta dell’intero litorale è la baia di Saint-Tropez, possiamo supporre che lo sbarco sia avvenuto non lontano da lì, probabilmente ad est di Sainte-Maxime il 15 Agosto 1945 nel corso dell’operazione dragoon.

Papa: Tra un anno si aprirà l’archivio segreto di Pio XII

Papa Francesco ha dichiarato che dal 2 marzo 2020 verrà aperto alla ricerca l’archivio segreto contenente tutta la documentazione di e su Pio XII. L’archivio comprende tutta la documentazione prodotta dal pontefice, diari personali, lettere ricevute, copie delle lettere inviate e tanto altro ancora. Si tratta di una vera e propria miniera d’oro che, permetterà di guardare sotto una luce nuova il ruolo della chiesa durante la seconda guerra mondiale.

Non so se vi rendete conto della portata epocale di questa dichiarazione, o forse si, ma fingiamo che di no.

Il Papa ha annunciato l’apertura, più o meno al pubblico (più precisamente di aprire alla consultazione dei ricercatori) la documentazione archivistica attinente al pontificato di Pio XII, dalla sua elezione alla sua morte. Documentazione che verrà usata da storici e ricercatori di tutto il mondo per ricostruire il ruolo della chiesa durante la seconda guerra mondiale e che di conseguenza, produrrà una quantità sterminata di articoli, conferenze e libri, che porteranno quelle informazioni “segrete” al grande pubblico oltre che agli addetti ai lavori.

Sul piano storiografico è qualcosa importantissimo, perché l’apertura di questo archivio ampia enormemente le informazioni in nostro possesso, sia per quanto riguarda la seconda guerra mondiale che gli anni immediatamente successivi e l’occupazione sovietica dell’europa orientale.

Papa Pio XII è stato pontefice in un periodo paradossale, sul quale abbiamo tante informazioni, tante fonti, ma allo stesso tempo, sappiamo ancora pochissimo a causa di un enorme vuoto dovuto alla mancanza di informazioni su cosa accadeva nelle retrovie.

Sappiamo cosa facevano i cristiani in questo periodo, ma non sappiamo come lo facevano, non sappiamo perché, non sappiamo quali erano gli ordini partiti da Roma e se c’erano degli ordini o delle indicazioni partite da Roma, non sappiamo come funzionavano le reti di contatti che furono usate dai cristiani durante la seconda guerra mondiale per salvare le vittime del reich dalla deportazione e nel dopoguerra, per salvare le vittime dell’URSS dall’occupazione sovietica dell’est europa e la deportazione, ne sappiamo se queste reti esistevano davvero ed erano supportate da Roma, o se invece erano organizzazioni aliene alla volontà del papa e di fatto erano organizzazioni laiche.

Non abbiamo un idea chiara di quale fosse la reale posizione di Roma, in effetti non abbiamo idea di quale fosse la posizione di Roma e della chiesa, abbiamo solo mille domande che da oltre settant’anni giacciono senza risposta, domande a cui non è stato possibile dare una risposta perché non c’erano fonti o meglio, non c’erano fonti accessibili visto che l’archivio era blindato, e ora questi dubbi mai sradicati, con l’apertura di questo archivio segreto, finalmente possono essere risolti. Finalmente è possibile fare chiarezza sulla posizione della chiesa, almeno durante il mandato di Pio XII.

Papa Pio XII, nato Eugenio Maria Giuseppe Pacelli, detto Pastor Angelicus, è stato in carica dal 12 marzo 1939 al 9 ottobre 1958 e l’apertura del suo archivio segreto, ci fornirà una quantità di informazioni uniche su quegli anni, in particolare sul ruolo della chiesa durante la seconda guerra mondiale e nei primi anni della guerra fredda.

Faccio una piccola considerazione personale, visto che il ruolo di Pio XII è spesso (per non dire da sempre) al centro di polemiche, da alcuni accusato di collaborazionismo, da altri di essersene lavato le mani, da altri ancora è proposto come un eroe che ha salvato migliaia di vite, ipotizzo, che Papa Francesco abbia incaricato una commissione ecclesiastica per verificare il contenuto di questi documenti prima di darli in pasto agli storici e solo dopo aver stabilito se Pio XII aiutò (direttamente o indirettamente) il nazifascismo o lo contrastò (direttamente o indirettamente) siano giunti alla decisione di aprire l’archivio.

Personalmente non credo che Papa Francesco abbia predisposto l’apertura di un archivio che potrebbe in qualche modo “macchiare” la reputazione del suo predecessore e della chiesa senza aver prima presto le dovute precauzioni, credo invece che, credo invece che questa mossa sia di natura “politica” e che abbia un ruolo fondamentale nel dettare la linea d’azione dei cattolici nella società contemporanea.

Ipotizzo, e ci tengo a precisare che le mie sono solo congetture, perché non ho ovviamente visto cosa c’è nell’archivio, che da quell’archivio verrà fuori molto materiale che dimostrerà il ruolo attivo del papato e della chiesa, nella “lotta sotterranea” al nazifascismo prima e al comunismo sovietico dopo, una lotta che vedrà la chiesa impegnata più nelle retroguardie che in prima linea, a difendere il diritto alla vita di atei, ortodossi, ebrei, musulmani, insomma, produrrà l’immagine di una chiesa che negli anni quaranta e cinquanta si è impegnata nella difesa di culture aliene al cristianesimo romano, e fare questa mossa, in anni in cui molti leader politici si fanno portatori di una “moderna crociata” contro culture non cristiane, o semplicemente puntano il dito contro i poveri e gli oppressi, aprire questo archivio, in questo contesto storico, che da molti è proposto come una riedizione in chiave moderna della crisi degli anni trenta e quaranta, rappresenta una presa di posizione importante e forte per la chiesa, che esce dalla sua confort zone, e si mobilita al fianco degli ultimi.

Se questi documenti dovessero dimostrare che, durante la seconda guerra mondiale, Pio XII, da Roma, si è impegnato a contrastare le deportazioni, il razzismo, l’intolleranza culturale, e sono sicuro che il materiale presente in quell’archivio dimostri esattamente questo, perché in caso contrario gli archivi non sarebbero stati aperti, e noi neanche sapremmo della loro esistenza, si tratterebbe di fatto di una chiamata alle armi per i cristiani, l’invito definitivo, da parte del pontefice, ad aiutare “il prossimo” e per prossimo non intende in senso di “prossimità” come qualcuno ha dichiarato recentemente, ma il prossimo è inteso nella sua forma originale cristiana come colui che viene dopo, il prossimo di cui dobbiamo prenderci cura in qualità di cristiani è l’ultimo, il povero, il malato, l’oppresso, il perseguitato, il prossimo è colui che affronta un esodo, attraverso il deserto e attraverso il mare, come fecero nei testi biblici gli ebrei in fuga dall’Egitto.

E questo invito è rafforzato, dall’esempio storico di Papa Pacelli che si è mobilitato per gli ultimi in un momento storico estremamente duro, in cui l’europa era avvolta dal velo oscuro del totalitarismo, e se ci hanno provato in anni in cui aiutare un Ebreo significava mettere a rischio la propria vita e quella dei propri cari, oggi che, aiutare qualcuno non comporta rischi diretti per la propria sicurezza, in teoria, dovrebbe essere più facile.

Personalmente non ho dubbi su cosa verrà trovato in quegli archivi, perché ripeto, se quel materiale rischiasse di compromettere l’immagine di Pio XII gli archivi rimarrebbero chiusi, lo scopo di questa apertura, a mio avviso, è quello di ripulire e fugare ogni dubbio sul ruolo della chiesa durante la seconda guerra mondiale, e credo che il papa voglia realizzare questa ripulita, questa operazione di riqualificazione del cristianesimo e del papato, nell’unico modo possibile, ovvero consegnando alla storia questi episodi ed affidando agli storici il compito di ricostruire, nella maniera più completa e oggettiva possibile ciò che è successo in quegli anni.

La narrazione cristiana non è sufficiente a ripulire i cristiani e il papato, per via di un evidente conflitto di interessi, ma una narrazione storica, aliena ad ogni qualsiasi pregiudizio, una narrazione oggettiva e superpartes, supportata da fonti e documenti di ogni tipo, quella è difficile da non accettare.

Sul piano della ricerca quel materiale rappresenta una vera e propria miniera d’oro, il loro valore è inestimabile e può letteralmente riscrivere ciò che sappiamo di quegli anni, aggiungendo alle voci già note, una nuova voce molto importante che, fino ad oggi era rimasta inascoltata, la voce del papa, la voce della chiesa, la voce dei cristiani.

Dal 2020, grazie alla decisione di Papa Francesco, potremmo finalmente definire in maniera inequivocabile e al di la di ogni ragionevole dubbio, quello che è stato il reale ruolo della chiesa, durante la seconda guerra mondiale e durante i primi anni dell’occupazione sovietica della Polonia e dell’est europa, aggiungendo un nuovo capitolo alla nostra storia.

Un capitolo che ha anche un risvolto politico, perché ci costringerà a guardare sotto una luce diversa anche l’attualità.

I problemi della Guerra Civile italiana

Tra l’estate del 1943 alla primavera del 45 l’Italia è stata attraversata da una lunga guerra civile, che avrebbe fatto da contenitore per innumerevoli altri conflitti interni all’Italia del tempo. Dalla lotta politica a quella sociale, dalla guerra di liberazione a quella di resistenza, dalla guerra civile a quella contro gli invasori stranieri

Sono passati circa 30 anni da quando Claudio Pavone ha sdoganato la questione della guerra civile italiana nel 1943-1945, utilizzando per la prima volta il termine guerra civile invece che i tradizionali guerra di liberazione o guerra di resistenza, e osservando che, in quel conflitto made in italy, al di la delle varie interpretazioni politico filosofiche che si potessero dare al conflitto, alla fine, a combattere erano semplicemente italiani contro altri italiani, riproponendo le dinamiche e le meccaniche di una guerra civile, senza se e senza ma.

Questo conflitto interno all’Italia e allo stesso tempo inserito nel più ampio contesto della seconda guerra mondiale, si porta dietro non poche complicazioni che, per decenni, l’utilizzo di termini come guerra di resistenza e di liberazione, avevano in qualche modo messo a tacere, deviando l’attenzione su una più generale dinamica di contrapposizione tra italiani buoni e stranieri cattivi. E in questo paradigma in cui gli italiani, tutti gli italiani, siano essi dalla parte del Re o della RSI, combattevano contro delle potenze straniere e resistevano all’invasione e l’occupazione straniera dell’italia, gli italiani che si trovavano “dall’altra parte”, “dalla parte sbagliata” erano semplicemente delle vittime, innocenti, delle politiche di occupazione straniera, e questo, all’indomani della fine del conflitto, permetteva una più moderata riappacificazione delle due parti, dando così, agli italiani che avevano combattuto per la RSI e quelli che avevano combattuto per il CLN, di tornare ad essere buoni amici, in alcuni casi ricongiungendo famiglie che la guerra aveva tenuto lontane.

Guarda anche il Video di approfondimento 

Questo precario equilibri però, si fondava su un drammatico equivoco storico, un equivoco voluto per ragioni politiche e alimentato da un errata percezione popolare della storia e delle vicende storiche che in esso confluivano, impedendo, per decenni, di analizzare in maniera chiara e completa, le dinamiche del conflitto intercorso in italia tra l’estate del 43 e la primavera del 45. Si tratta di un periodo apparentemente breve e pure estremamente lungo, in cui l’italia, e soprattutto gli italiani, hanno dovuto fare i conti con loro stessi e con il proprio passato, si tratta di un periodo in cui, il conflitto bellico dava spazio a pregressi conflitti interni all’Italia stessa che il paese si portava dietro fin dalla sua nascita, fin dalla propria unificazione avvenuta quasi un secolo prima e che, nonostante il grande potere unificatore del ventennio fascista, non erano mai stati completamente debellati. Nel 1943 non esisteva una sola Italia, ma neanche due o tre Italie, esistevano in realtà decine di italie differenti, ognuna con le proprie ragioni e le proprie necessità, ognuna con i propri interessi e la propria voglia di esprimersi ed espandersi al resto del paese.

Vi era l’italia dei fascisti legata a Mussolini e incarnata nella RSI, ben radicata nell’area più settentrionale del paese, appoggiata e supportata dal tradizionale alleato italico, la Germania del terzo Reich, al cui fianco l’Italia aveva iniziato la guerra, vi era poi l’italia tradizionale, l’italia monarchica ancora fedele al Re, ben radicata nell’area più meridionale del paese, appoggiata e supportata dai nuovi alleati anglo americani, dopo l’armistizio del settembre del 1943, vi era poi l’italia degli “ignavi”, quell’Italia che semplicemente lasciava che le cose accadessero, senza prendere parte alle vicende storiche in corso, senza scegliere se stare con il re o con il duce, insomma, quell’Italia che non sapeva da che parte stare e banalmente aspettava la fine del conflitto per esultare alla vittoria, indipendentemente dalle sorti della guerra e da chi fossero stati i vincitori. Vi era poi l’italia del CLN, che si contrapponeva alla RSI e combatteva contro la RSI, rivendicando la necessità di creare una nuova italia lontana dal Re e lontana dal Fascismo e nel disegnare una nuova italia di divideva tra chi inseguiva sogni ed orizzonti liberali guardando ad occidente, guardando all’America e chi invece guardava dall’altra parte, chi guardava ad Est, sognando la Russia e l’Unione Sovietica.

Tutte queste realtà sono solo la punta dell’Iceberg, e scavando più a fondo incontriamo sempre maggiori differenze tra gli italiani, oltre al conflitto politico sopra descritto, incontriamo anche un conflitto sociale, anzi, incontriamo diversi conflitti sociali, conflitti che contrapponevano le masse popolari all’alta borghesia e all’aristocrazia e in questa contrapposizione il modello Nazifascista da una parte, il modello Americano da un altra parte e quello Sovietico da un altra parte ancora, si manifestavano come tre possibili vie da seguire e da inseguire, tre possibili realtà per cui valeva la pena combattere e questo solo per quanto riguarda le fasce popolari della popolazione italiana, perché poi anche aristocratici e borghesi avevano i propri interessi e combattevano per i propri interessi.

Vi erano gli aristocratici, grandi proprietari terrieri vicini sia al Re che al regime, vi erano gli imprenditori e l’alta borghesia vicina soprattutto al regime (e non perché tutta la borghesia italiana fosse fascista ma perché, semplicemente, la sola borghesia sopravvissuta al ventennio era quella vicina al fascismo), vi erano poi gli operai e i lavoratori dipendenti, che si riavvicinavano al partito comunista, e poi c’erano i contadini, affittuari e mezzadri del mezzogiorno che, soprattutto nelle campagne più remote della penisola, vivevano in realtà fuori dal tempo e dalla storia, totalmente immersi in un mondo alieno al tempo in cui vivevano e in cui cristo, inteso come la modernità, per citare Carlo Levi, non era mai giunto, si tratta di realtà arcaiche immerse in dinamiche quasi feudali e culturalmente in uno stadio molto primitivo di civiltà.

Ognuna di queste realtà ha degli interessi, dei desideri, delle ambizioni da seguire, ognuna di queste realtà storiche, politiche, sociali e culturali, aveva degli obbiettivi da raggiungere e un modo di vivere da difendere, ognuna di queste realtà aveva una ragione per combattere in quella guerra civile e a seconda dei casi, scegliere da che parte stare.

Chi rivendicava l’ideologia e i valori del fascismo, chi credeva in Mussolini e vedeva negli anglo americani degli stranieri che stavano penetrando e occupando militarmente l’Italia, chi rivendicava un primato nella tradizione e nella cultura italica e reclamava un ruolo egemone dell’italia nel Mediterraneo e nel mondo, combatteva contro gli alleati.

Chi rivendicava i valori della tradizione, chi credeva nel Re e vedeva nelle forze del Reich presenti in Italia una presenza straniera che stava occupando militarmente il paese, chi desiderava una rivoluzione sociale e temeva la deriva nazifascista, chi desiderava la nascita di una nuova italia libera e democratica, combatteva contro la RSI.

La guerra civile italiana del 1943-1945 si configura quindi con un grande, enorme calderone, al cui interno sono confluiti innumerevoli conflitti differenti, nati in momenti diversi e per ragioni diverse ed esplosi in un momento di grande fermento e caos e limitare il conflitto ad una soltanto delle sue componenti, guerra di liberazione dagli angloamericani o dal reich, guerra di resistenza all’avanzata degli angloamericani o del reich, guerra sociale, guerra di classe tra masse popolari e aristocratici, tra contadini e proprietari terrieri, tra operai e imprenditori, o più generalmente tra servi e padroni, tra atei o laici e cristiani, tra italiani e stranieri, ecc ecc , sarebbe estremamente riduttivo, e se oggi si predilige l’utilizzo di guerra civile è perché, al di la di tutte le componenti del conflitto, di tutte le ragioni e di tutte le possibili implicazioni e le diverse interpretazioni, alla fine, a combattere da una parte e dall’altra c’erano semplicemente degli italiani, e se a combattere erano due parti dello stesso popolo, della stessa nazione, allora non c’è chiave interpretativa che tenga, si tratta semplicemente di una guerra civile.

Fonti

C.Pavone, Una guerra Civile, https://amzn.to/2S0Tb19
M.Battini, Peccati di memoria, https://amzn.to/2CbSV9N
L.Paggi, Il popolo dei morti, https://amzn.to/2zWiMBm
C.Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, https://amzn.to/2zSmjAz
E.De Martino, Sud e magia, https://amzn.to/2BthKgb

I processi di Norimberga tra vincitori e giustizia

Norimberga, un tribunale dei vincitori travestito da corte internazionale, tra irregolarità e giustizia.

I processi post-bellici sono spesso utilizzati dai vincitori come strumento di pressione sugli sconfitti, per proseguire la guerra ben oltre il cessate il fuoco, ne abbiamo parlato in un articolo sulle nuove guerre e voglio parlarne in maniera più approfondita in questo articolo riguardante i processi di Norimberga.

Durante i processi di Norimberga, sul piano giuridico, vi furono molte irregolarità, a partire dal fatto che sotto la veste della corte internazionale vi fosse in realtà un classico tribunale dei vincitori sui vinti e che furono introdotte nuove leggi per punire vecchi crimini le cui dimensioni erano diventate troppo grandi per essere punite secondo i canoni tradizionali, tuttavia, questo procedimento ha portato ad un contraddittorio giuridico che fece venir meno uno dei principi fondamentali del diritto, la non retroattività dei crimini, creando un precedente pericoloso nel mondo che si andava a costruire da quel momento in avanti.

Finita la seconda guerra mondiale con la sconfitta del Terzo Reich da parte delle Nazioni Unite (meglio note come Alleati), ovvero Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito, fu costituito un tribunale internazionale nella città di Norimberga. Norimberga fu scelta per il suo valore simbolico in quanto era una delle città più iconiche del Reich ed era una delle città simbolo della dittatura nazista, inoltre era la città in cui, nel 1935 in occasione del 7° raduno nazionale del partito Nazista, furono varate la “legge per la protezione del sangue e dell’onore tedesco” (RGBl. I S. 1146), la “legge sulla cittadinanza del Reich” (RGBl. I S. 1146) e la “legge sulla bandiera del Reich”, note al mondo come le leggi di Norimberga.

Tavola illustrata del
Tavola illustrata del Blutschutzgesetz (Leggi sulla purezza della razza) del 1935

Il tribunale militare, costituito dagli alleati a Norimberga si proponeva al mondo come una corte internazionale, giusta e imparziale che tuttavia si componeva esclusivamente di membri delle potenze vincitrici della guerra, configurandosi de facto come un vero e proprio tribunale dei vincitori.

History Fact:


Inizialmente fu scelta la città di Berlino (presidiata dall’Unione Sovietica) come sede del Tribunale Militare Internazionale, successivamente si decise di svolgere i processi a Norimberga pur mantenendo la sede del TMI a Berlino.
Le principali ragioni per cui i processi si svolsero a Norimberga e non a Berlino sono le seguenti:

1) Norimberga era situata nel settore statunitense di competenza degli USA in base a quanto stabilito durante la conferenza di Potsdam (in cui i territori del terzo Reich furono divisi in quattro settori controllati dalle nazioni vincitrici, USA, UK, URSS e Francia).
2) Il palazzo di Giustizia di Norimberga era molto spazioso e quasi completamente illeso dai bombardamenti, era uno dei pochi edifici presenti in Germania a non essere stato distrutto, inoltre ospitava al proprio interno un grande prigione.
3) Norimberga era stata riconosciuta dalle potenze alleate e dallo stesso popolo tedesco come la città delle “Celebrazioni del Partito del Reich” (Reichsparteitag), aveva quindi un grande valore simbolico per la storia tedesca e svolgendo lì i processi, si volle rendere Norimberga come la sede della sconfitta finale del partito nazista.

Le quattro principali potenze vincitrici della guerra, Francia Regno Unito, Stati Uniti e Unione Sovietica, nell’organizzare il tribunale stabilirono che ognuno dei vincitori avrebbe nominato due giudici, uno principale ed un sostituto, e furono nominati due procuratori, che avrebbero avuto il compito di giudicare e punire i criminali di guerra del terzo Reich.

Elenco dei Giudici:


Geoffrey Lawrence (britannico, giudice principale e presidente)
Norman Birkett (britannico, sostituto)
Henri Donnedieu de Vabres (francese, giudice principale)
Robert Falco (francese, sostituto)
Francis Beverley Biddle (statunitense, giudice principale)
John Parker (statunitense, sostituto) 
Iona Timofeevič Nikitčenko (sovietico, giudice principale)
Aleksandr Fëdorovič Volčkov (sovietico, sostituto)
Robert Houghwout Jackson (statunitense, procuratore)
Hartley Shawcross (britannico, procuratore).

Già dalle premesse il tribunale di Norimberga appariva come un tribunale politico, sembrava più un tribunale dei vincitori volto a proseguire in aula la guerra, più che un tribunale internazionale volto a fare giustizia, fu tuttavia concesso agli imputati che non vollero ricorrere ad un avvocato difensore privato, di poter disporre di un avvocato “d’ufficio”, e vista l’entità e la portata delle imputazioni e dei capi d’accusa, la vita degli avvocati difensori non fu semplice e in previsione degli anni a venire, avere nel proprio curriculum la difesa di un ex gerarca nazista di sicuro non avrebbe giovato agli affari. Ad ogni modo, i processi si svolsero con una certa regolarità, in quell’aula di tribunale era presente il mondo intero, tutti aspettavano la sentenza e nessuno si aspettava assoluzioni o perdoni, possiamo anzi dire che l’esito dei processi di Norimberga era già scritto prima ancora che si iniziasse a pensare a Norimberga, prima ancora che si iniziasse a pensare ai processi, tuttavia fu necessario realizzare uno show internazionale e svolgere un regolare processo farsa.

Se da una parte l’esito dei processi non sorprende, non sorprende la severità con cui furono puniti gli imputati e non sorprendono le condanne emesse, ciò che sorprende è il modo in cui si giunse a quelle sentenze, poiché a Norimberga non si fece ricorso a leggi vigenti in Germania, anche perché secondo la legge tedesca del terzo Reich i nazisti avevano agito nel pieno della legalità, ne si fece ricorso ai codici militari statunitensi, francesi, britannici o sovietici, nei quali erano previste punizioni per i crimini commessi dai nazisti durante la guerra, tuttavia i vari codici militari e civili prevedevano pene differenti per lo stesso crimine e in quel determinato contesto politico utilizzare un codice penale anziché un altro aveva un enorme peso politico, gli statunitensi non volevano che venissero applicate le norme statunitensi, i sovietici le norme sovietiche, i francesi volevano che i criminali nazisti fossero privati dello stato di diritto e messi fuori dalla legge, ma mentre si dibatteva e si discuteva per decidere cosa fare c’era la necessità impellente di processare, giudicare e punite i criminali tedeschi e allora si trovò una soluzione “alternativa” particolarmente originale, si decide di fare ricorso alle norme internazionali contro la pirateria, definendo così i criminali nazisti come hostis generis humani, nemici del genere umano, e partendo da questo principio si costruirono nuove leggi per punire vecchi crimini che avevano raggiunto una dimensione tale da rendere sproporzionata ogni possibile condanna tradizionale.

Nacque così il concetto di crimini contro l’umanità e fu stabilita la natura retroattiva delle norme volte a perseguire e punire i criminali che si erano macchiati di quei crimini. I crimini contro l’umanità erano nati nel 1946 ma si applicavano a chiunque, o quasi, si applicarono agli sconfitti, si applicarono a Norimberga prima e Tokyo poi.
La natura retroattiva di queste norme che si applicavano quindi a crimini commessi prima che quelle stesse leggi stabilissero l’esistenza di quei crimini, ha rappresentato una problematica etica e giuridica, da una parte si sentiva la necessità di punire quelli che il mondo intero riconosceva come crimini, tuttavia erano crimini senza precedenti erano crimini compiuti nel rispetto della legge e della legalità dello stato in cui erano stati compiuti, ed era difficile decidere come comportarsi. Il mondo chiedeva giustizia, le vittime chiedevano giustizia ma il confine tra giustizia e vendetta era molto sottile, quasi impercettibile e per molti era difficile concepire una giustizia ottenuta violando le leggi.

Alla fine comunque si decise di rendere effettivamente retroattive quelle nuove norme e di punire i criminali nazisti sulla base di un neonato diritto internazionale che in quell’occasione sarebbe stato retroattivo.
questa decisione produsse condanne importanti, molti furono condannati a morte, altri all’ergastolo, altri ancora furono condannati a scontare 20 e 10 anni di carcere e solo pochissimi imputati alla dei processi fine furono assolti.

I sette condannati da pene detentive (dai dieci anni al carcere a vita) dalla corte militare internazionale di Norimberga, furono trasferiti nel 1947 nel carcere di Spandau dove avrebbero scontato la propria condanna.

Il primo a varcare in uscita i cancelli di Spandau fu Konstantin von Neurath, condannato a 15 anni di detenzione e rilasciato per motivi di salute nel 1954,  von Neurath morì 2 anni più tardi, nel 1956, e sempre per motivi di salute, nel 1955 Erich Raeder lasciò la prigione nonostante la sua condanna a vita. Nel 1956 fu il turno di Karl Dönitz, uscito dal carcere dopo aver scontato per intero la propria condanna a 10 anni di detenzione e l’anno dopo, nel 1957 a lasciare la prigione fu Walter Funk, condannato al carcere a vita e uscito anch’esso per ragioni di salute.
Gli ultimi due prigionieri a lasciare Spandau furono Albert Speer e Baldur von Schirach, entrambi condannati a 20 anni di detenzione ed entrambi rilasciati nel 1966 una volta scontata la pena.
L’unico condannato a vita che non avrebbe mai lasciato fu Rudolf Hess, che scontò la sua pena fino al 1987, anno della sua morte in carcere.

History Fact:


Rudolf Hess è stato l’unico detenuto del carcere di Spandau per più di 20 anni e dopo la sua morte il carcere fu demolito

Fonti :
L.Baldissara, P.Pezzino, Giudicare e Punire
R.H. Jackson, Il tribunale dell’umanità. L’atto di accusa del processo di Norimberga
C.Schmitt, Risposte a Norimberga
D.Zolo, La giustizia dei vincitori, da Norimberga a Baghdad

Occupazione Italiana dell’Istria nel primo dopoguerra e gli effetti nel secondo dopoguerra

Inizialmente questo articolo si intitolava “Foibe: la responsabilità degli italiani nelle stragi”, era un titolo altamente provocatorio e come spiegato nelle premesse, è ovvio che le vittime non hanno alcuna responsabilità nella strage. Le vittime delle foibe hanno pagato per i crimini dei propri padri e nonni, e questo, per il mio codice di giustizia è forse anche più grave.

Il mio intento con questo articolo non è quello di esprimere un giudizio morale sull’accaduto ne di piegarlo alla mera propaganda politica, il mio intento è puramente storico e l’oggetto dell’articolo, se bene chiami in causa le stragi delle Foibe non sono le foibe, ma l’occupazione Italiana dell’Istria negli anni 20 e 30.

Si tratta di un tema a mio avviso fondamentale per comprendere quanto successo nel secondo dopoguerra, soprattutto perché sulla questione delle Foibe spesso sentiamo pronunciare frasi di questo tipo “Gli Italiani sono stati massacrati senza pietà dai Comunisti di Tito, per la sola colpa di essere Italiani.”

Segue quindi un post probabilmente “molto impopolare“, ma purtroppo la realtà storica è un po più complicata della semplice propaganda politica e alcune vicende non sempre sono totalmente bianche o nere. In alcuni casi, e le stragi delle foibe sono uno di questi casi, può capitare che entrambe le parti coinvolte abbiano la propria dose (più o meno ampia) di responsabilità.

Faccio un ultima premessa, ho già spiegato ampiamente in un altro articolo perché nel 1948 alla fine il governo italiano decise di non perseguire i criminali Jugoslavi, in questo articolo mi limito a dire che i crimini dell’Italia e degli Italiani erano di gran lunga più numerosi e diluiti in un tempo maggiore rispetto a quelli commessi dai partigiani Jugoslavi e di conseguenza, insistere sulla punizione dei crimini Jugoslavi da parte del governo italiano, sarebbe costato all’Italia e al suo nuovo ruolo nella comunità internazionale, un prezzo che non poteva permettersi di pagare. Detto questo.

È vero, in Jugoslavia è stato commesso un terribile crimine ai danni degli italiani che si trovavano lì, questo è innegabile e anche se in questo post andrò a spiegare chi erano effettivamente quegli italiani, perché si trovavano lì e perché sono stati massacrati, non voglio in alcun modo legittimare l’accaduto, ciò che è successo è un crimine e rimane un crimine, non ci sono attenuanti, ma le responsabilità comuni non possono essere ignorate. In questo caso specifico abbiamo a che fare con un crimine compiuto come risposta a decenni di crimini ed abusi, ma il fatto che le stragi delle foibe siano una risposta ad altri crimini non le rende un crimine meno grave, ma andiamo con ordine.

Cominciamo col dire che la regione dell’Istria non è una regione storica italiana, storicamente, e per storicamente intendo nelle ultime migliaia di anni, è sempre stata abitata da popolazioni di origine slava. Per molti secoli questi territori sono stati sotto il controllo del sacro romano impero prima, dell’impero Austriaco e poi dell’impero Austro Ungarico, quando nel XIX secolo l’impero egli Asburgo ha cambiato nome.
Nella seconda metà del XIX secolo, quando in Italia si proclamava l’unità nazionale e si combattevano le guerre di indipendenza, gli allora abitanti dell’Istria, così come anche quelli della Dalmazia, non se ne preoccuparono più di tanto, non insorsero contro gli Asburgo per unirsi alla nuova nazione guidata dai Savoia e questo perché non si sentivano parte della tradizione e della cultura italica, un discorso a parte va fatto per la città di Trieste la cui popolazione era per lo più di origini “venete”, per non dire veneziani, ma un unica città in un’intera regione non è sufficiente a definire l’identità regionale.

è come se dicessimo che la luna è stata colonizzata perché un paio di volte, alcuni astronauti terrestri sono usciti a fare una “passeggiata” sulla superficie lunare.

Finito il periodo delle guerre di indipendenza e ufficialmente completata l’unità d’Italia nel 1871 (quando venne annesso anche lo stato pontificio) o se preferite 1861, in Istria non ci furono insurrezioni anti-asburgiche o rivendicazioni di appartenenza all’Italia, perché appunto gli abitanti di quelle regioni non si reputavano italiani, come detto sopra un discorso a parte va fatto per la città di Trieste dove effettivamente qualche “italiano” c’era, e scese in piazza, ma erano comunque 4 gatti, troppo pochi per mobilitare un intera città, figuriamoci un intera regione.

Passano gli anni, passa più di mezzo secolo, inizia la prima guerra mondiale, gli imperi centrali stanno collassando e i capi politici europei se ne rendono conto, sono consapevoli che l’imminente disfacimento degli imperi centrali provocherà un vuoto di potere in vaste aree dell’europa e del nord Africa e non a caso cercano di approfittarne del vuoto per rivendicare il controllo su nuovi territori, fondamentalmente per espandere e aumentare i propri imperi e l’Italia non è da meno. ricordiamo che l’Italia, tra le tante ragioni per cui entra in guerra, dichiara un per nulla velato desiderio di espandere i propri territori e in questo è incoraggiata dai discorsi di Cesare Battisti (da non confondere con il Cesare Battisti terrorista degli anni di piombo), deputato socialista di Trieste al parlamento di Vienna.

L’italia vuole entrare in guerra ed espandere i propri possedimenti e l’unico possibile avversario abbastanza vicino e debole contro cui scontrarsi è l’impero austro-ungarico e come sappiamo si l’Italia riesce ad accordarsi con Francia e Regno Unito per poter conquistare territori Austriaci, de facto la guerra degli italiani è una guerra, fallimentare, di conquista, che ha come fine ultimo la conquista di nuovi territori, tra cui appunto, Istria e Dalmazia.

La scelta dell’Italia cade su Istria e Dalmazia (ed eventualmente altri territori della costa adriatica dei Balcani) per ragioni politiche e strategiche, principalmente perché “sono a portata di bagnarola”, nel senso che la flotta italiana non era proprio una delle migliori del mediterraneo, ma l’Adriatico non era un mare impegnativo e la flotta asburgica non costituiva una reale minaccia.
La guerra termina con una sconfitta militare dell’Italia perché essendo una guerra di conquista, se ti ritrovi ad avere meno territori di quanti ne avessi quando hai iniziato la guerra, è una sconfitta, ma gli alleati gli concedono comunque qualche territorio all’Italia, principalmente per premiare lo sforzo bellico, questo però all’Italia non basta e pretende molto di più di quanto gli è stato concesso (e ci tengo a precisare che, a mio avviso gli è stato concesso anche troppo).

Non stiamo a girarci intorno, nel dopoguerra Istria e Dalmazia vengono occupate “illegalmente” da numerosi migranti italiani, tacitamente appoggiati dal governo, per lo più sono persone che conoscono quelle terre, fatta eccezione per qualche caso isolato (come D”Annunzio) la maggior parte erano migranti stagionali che già prima dell’unificazione si recavano periodicamente nei territori austro ungarici per lavorare soprattutto come operai, in miniere e nelle cave. Insomma, gli Italiani erano frequentatori/lavoratori abituali della regione da più di un secolo e tra la prima e la seconda guerra mondiale, molti migranti stagionali decisero di stabilirsi lì regolarmente, insomma, andarono lì e non tornarono più in Italia. Molti rimasero lì per varie ragioni, un po perché convinti che quelle terre fossero loro di diritto, un po perché quelle terre un tempo appartenevano alla corona asburgica, ma dopo la guerra la corona era caduta e fondamentalmente per il controllo delle terre vigeva la legge del più forte, “la terra è di chi se la piglia” e gli italiani se la presero senza troppi complimenti.

In questa fase gli scontri tra locali e italiani sono molto limitati, perché i piccoli proprietari terrieri locali (che bene o male avevano fatto la stessa cosa degli italiani) conoscevano da generazioni gli italiani e da generazioni avevano lavorato insieme e in breve, ognuno si prese il pezzo di terra in cui lavorava prima della guerra o in cui lavoravano i propri antenati.

I problemi iniziano verso la metà degli anni venti, con la svolta fascista in Italia, e ancora di più con l’ascesa del Nazismo in Germania, negli anni trenta.

L’avvento delle ideologie di razza si tradusse in una rivendicazione totale di quei territori, ormai l’occupazione delle terre è totale ma gli italiani continuano ad arrivare in Istria e il governo fascista assegna loro terre che fino a quel momento erano state occupate dai locali, insomma, in una terra di nessuno il governo fascista decide che determinati terreni debbano appartenere agli italiani e quindi, i non italiani che vivevano lì, vengono cacciati dalle proprie case e terre fondamentalmente con la forza, e questo è il primo di una serie di passi che per oltre vent’anni avrebbe alimentato il rancore nei confronti degli italiani e sarebbe esploso nel secondo dopoguerra con le stragi delle Foibe.

Durante la guerra l’Italia come è noto conduce una campagna di espansione nell’area balcanica, incorrendo in numerose figuracce e ricorrendo spesso al supporto tedesco, e ad un certo punto i popoli slavi, approfittando del poco controllo degli italiani sul territorio, riescono ad organizzarsi in gruppi partigiani e riescono a prendere il controllo di molti territori, va detto, a scanso di equivoci che, dopo l’armistizio del 43 molti soldati italiani si uniranno ai partigiani jugoslavi nella guerra contro i tedeschi.

Finita la guerra, finita l’occupazione nazifascista, c’è un problema politico legato all’ amministrazione di alcuni territori, tra cui la stessa città di Trieste, che da una parte sono stati “liberati” dall’ occupazione nazista dalle milizie jugoslave, dall’ altra, sono abitati soprattutto da italiani che nel corso del ventennio precedente hanno occupato quei territori e dunque sorge una domanda, quei territori devono essere considerati come italiani o jugoslavi?

Per le milizie di partigiani jugoslavi che esercitavano un controllo diretto del territorio, la risposta è semplice, quei territori sono stati liberati dai partigiani e rientrano ora sotto il controllo e l’autorità dei liberatori che sarebbero poi confluiti nel governo di Tito, chi abita in quelle regioni può scegliere se rimanere lì e “giurare fedeltà” al nuovo stato o tornare nella terra dei propri padri, liberamente o con la forza. Gli italiani, discendenti di quegli stessi italiani che qualche decennio prima avevano occupato quelle terre, ritenevano quella terra la propria terra, non vogliono lasciare la propria casa (così come non volevano lasciarla gli istriani quando gli italiani li hanno cacciati), non vogliono andarsene e allo stesso tempo vogliono continuare a vivere in Italia, insomma, vogliono che quei territori rimangano (o comunque diventino) italiani perché da qualche generazione lì vivono degli italiani.

Per intenderci, è un po come il governo Cinese rivendicasse la città di Prato come parte della Cina perché da qualche generazione a Prato vivono soprattutto cinesi…

La situazione è molto delicata oltre che problematica e viene mal gestita dal nascente governo jugoslavo che ricordiamo, non si è ancora consolidato, di fatto molte regioni sono ancora controllate dalle milizie che le hanno liberate e queste milizie non vogliono rinunciare a quelle terre che hanno liberato lottando duramente contro un nemico più forte e meglio organizzato, decidono così di “passare al lato oscuro” ed usare la forza per scacciare gli invasori stranieri, non uso queste parole a caso, commettendo stragi e crimini che sono tristemente noti a noi tutti.

La risposta internazionale alla crisi istriana e in particolare per la gestione della questione Triestina è una sorta di commissariamento internazionale, chiamiamolo così, della città di trieste, l’unica città “italiana” della regione. Trieste di fatto viene posta sotto il controllo internazionale, analogamente a quanto era successo alla Germania e alla Korea, e sarebbe tornata definitivamente sotto il controllo del governo italiano soltanto nel 1971, quasi 20 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando il governo italiano si impegnò formalmente di fronte alle Nazioni Unite a rinunciare definitivamente e permanentemente ad ogni rivendicazione territoriale sull’Istria, la Dalmazia e altri territori della costa adriatica dei Balcani.

In conclusione, ripeto, con il racconto di queste vicende non vogliono assolutamente depenalizzare i crimini commessi dai comandanti partigiani Jugoslavi, molti dei quali, successivamente avrebbero assunto posizioni chiave nel governo di Tito, ho già parlato ampiamente, in un altro articolo e in un video delle ragioni politiche e storiche per cui nel 1948 si decise di chiudere la questione dei crimini di guerra compiuti dagli italiani e ai danni degli italiani in quella che sarebbe diventata la Repubblica Federale Jugoslava. Il mio intento, con questo articolo, e spero di esserci riuscito, è quello di mostrare che gli italiani massacrati nelle stragi delle Foibe non erano solo “colpevoli di essere italiani”, la loro storia in Istria era breve e connotata di una profonda rivalità con i popoli locali, rivalità che per decenni avevano coperto violenti abusi perpetuati da parte italiana ai danni delle popolazioni slave e il ricordo di questi abusi fu il punto di partenza dei crimini commessi in Jugoslavia da entrambe le parti.

In Istria migliaia di italiani furono massacrati per i crimini commessi dai loro padri o da altri italiani, la loro unica colpa non è quella di essere italiani, ma di non aver preso coscienza della realtà in cui vivevano e di aver preteso, forse troppo presto e con troppa forza, di assumere il controllo di un territorio che non gli apparteneva e nel quale erano una minoranza non bene accetta e forse mai desiderata.

Bibliografia

IL SAGACE VIGLIACCO BADOGLIO e la fuga di Brindisi

All’alba del 9 novembre del 1943, l’allora re d’Italia Vittorio Emanuele III e il capo provvisorio del governo, il generale Pietro Badoglio, lasciarono la capitale d’Italia per rifugiarsi a Brindisi.
Questo avvenimento è spesso indicato come fuga di Pescara, fuga di Ortona o fuga di Brindisi (e questo perché la strada da Roma a Brindisi passa per Pescara e Ortona).

Va però specificato che il re e Badoglio non fuggirono da soli e per iniziativa personale, con loro infatti si mosse l’intero stato maggiore del regio esercito e tutti i membri del governo e ci sono precise ragioni militari, storiche e politiche per cui si decise di lasciare Roma.
La criticità della fuga sta nella sua organizzazione, ma non nelle sue ragioni, e il mio intento è quello di spiegare perché era necessario evacuare la leadership del paese dalla capitale e trasferire il governo e lo stato maggiore in una sede provvisoria più sicura di quanto non fosse Roma nell’estate del ’43.
Va detto inoltre che molti attribuiscono alla frettolosa e disorganizzata fuga, l’assenza di precisi ordini e disposizioni, alle truppe e ai vari apparati statali, per la corretta esecuzione dell’armistizio annunciato soltanto il giorno prima tramite un comunicato radiofonico che però non aveva esposto con chiarezza cosa comportasse effettivamente l’armistizio. Di conseguenza molti ritennero la guerra finita e l’effetto diretto di questo enorme fraintendimento avrebbe caratterizzato in maniera estremamente significativa gli eventi bellici nelle successive 72 ore, ovvero tra l’annuncio dell’armistizio e l’istituzione di una sede provvisoria del governo a Brindisi e quindi l’invio di nuovi ordini e disposizioni.

A mio avviso, la responsabilità di questa situazione di caos in cui fondamentalmente non si sapeva esattamente chi fossero gli alleati e chi i nemici, poiché dopo anni di guerra i vecchi alleati erano diventati i nemici ed i vecchi nemici erano ora gli alleati, non è da attribuire totalmente a quella che fondamentalmente è una situazione di emergenza. La messa in sicurezza del re, del governo e dello stato maggiore è un’antica procedura militare ed è dettata da precise ragioni politiche e militari, e l’intera gerarchia militare, composta da numerosi gradi tra ufficiali e sotto-ufficiali, che collegano lo stato maggiore alle truppe di soldati ne è a conoscenza poiché è uno dei motivi fondamentali per cui esiste una così lunga catena di comando. Mi spiego meglio.

I vari gradi militari, dal soldato semplice al capo dello stato maggiore, esistono per ovviare all’assenza di ordini dall’alto, ogni soldato prende ordini dal suo diretto superiore e in assenza di ordini precisi è lui ad assumere il comando e la responsabilità delle decisioni che prenderà riguarderanno lui e tutti i suoi sottoposti. In questo caso specifico, una volta annunciato l’armistizio, e si presume che un ufficiale militare di carriera sappia esattamente cosa significa questa parola, se non si ricevono precisi ordini o disposizioni dallo stato maggiore, i vari ufficiali presenti sul campo dovrebbero prendere il comando, osservare la situazione e dopo un certo periodo di tempo, più o meno breve a seconda delle circostanze, ma che comunque non dovrebbe durare più di qualche ora, l’ufficiale o il sotto-ufficiale in comando ha il dovere di emanare degli ordini provvisori in attesa di precise disposizioni da ufficiali di grado superiore e questa cosa, nel settembre del 1943 non è stata fatta.
I vari ufficiali del regio esercito, in occasione dell’armistizio, si sono dimostrati inadatti al comando e incapaci di gestire una situazione di crisi e c’è una precisa ragione se non furono in grado di prendere una decisione che potesse sopperire all’assenza di ordini.
La maggior parte degli ufficiali non era qualificata, non era in grado di gestire effettivamente il comando e nella maggior parte dei casi erano stati addestrati e istruiti a non fare nulla in assenza di ordini diretti.

Può sembrare questa una scappatoia politica, il classico scaricabarile con cui si attribuisce parte o la totalità delle responsabilità a “chi ricopriva quell’incarico in precedenza”, e in effetti, parte della responsabilità di ciò che accadde nelle 72 ore dopo l’armistizio fu proprio del precedente governo.
La politica fascista e la sua gestione autoritaria delle risorse e dell’esercito aveva creato una gerarchia fantasma in cui l’assenza di un ordine diretto dallo stato maggiore e quindi dalla leadership fascista, si traduceva in una situazione di stallo, di immobilità, i soldati italiani, a causa dell’autoritarismo fascista non sapevano essere soldati e senza ordini precisi non sapevano letteralmente cosa fare, non erano in grado di prendere una decisione e agire di propria iniziativa.
La situazione che si era creata in Italia dopo l’armistizio non era in realtà una novità per il regio esercito, già in altre occasioni, durante la stessa seconda guerra mondiale, si erano create situazioni analoghe con soldati impegnati in operazioni di occupazione che una volta compiuta effettivamente l’occupazione, non ricevendo ulteriori ordini, invece di continuare l’occupazione come logico che sia, abbandonarono le operazioni di controllo e rimasero lì a non far nulla, o quasi. La campagna italiana nei Balcani, che come sappiamo fu un totale disastro, è piena di esempi di questo tipo, con intere regioni conquistate e poi abbandonate a loro stesse, permettendo così la riorganizzazione delle resistenze locali e delle forze partigiane che si sarebbero scontrate successivamente con i soldati italiani, i quali non erano in grado di respingerli perché sprovvisti di mezzi, armi e soprattutto di ordini. Di fatto non sapevano effettivamente se e fino a che punto combattere le milizie e questo in moltissime occasioni si tradusse in un coinvolgimento diretto degli alleati tedeschi nella gestione del territorio, cosa che avrebbe contribuito a dipingere un immagine dell’esercito italiano come di un esercito di inetti e di incompetenti, ed è vero, è assolutamente vero perché l’esercito italiano non era pronto, non era addestrato e non era in grado di autoregolarsi in assenza di ordini diretti.

Dopo l’armistizio l’assenza di ordini fu dovuta ad una frettolosa ritirata strategica che sotto molteplici aspetti fu necessaria, in primo luogo perché Roma era diventata negli ultimi anni e in particolare negli ultimi mesi, un ricettacolo di soldati nazisti e militanti fedeli al fascismo, vi erano quindi troppe forze ostili nei paraggi e questo rendeva la città poco sicura per essere la sede del governo.
Sul piano politico restare a Roma avrebbe avuto certamente un grande valore simbolico, ma i rischi per la sicurezza del re, dei membri del governo e dello stato maggiore, erano troppi.

Col senno di poi sappiamo che soltanto 72 ore senza ordini misero in crisi il regio esercito, provate solo ad immaginare cosa sarebbe successo se lo stato maggiore fosse stato fatto prigioniero dai nazisti, se l’esercito italiano si fosse trovato definitivamente senza i propri comandanti. Spesso si dice che basta mozzare la testa perché il corpo muoia, e questo esempio è perfetto per descrivere cosa sarebbe successo all’Italia se la sua testa coronata fosse stata tagliata.

Pensate cosa sarebbe successo se il re e i membri del governo fossero stati catturati e fatti prigionieri. Sarebbero stati certamente prigionieri politici di un peso enorme e questo peso avrebbe costituito, per i nazisti, un vantaggio enorme nei negoziati, nelle trattative e nella gestione dell’intero conflitto sul territorio italico, ed è per le medesime ragioni che da parte nazista fu dato l’ordine di liberare Mussolini per poi condurlo al sicuro in territori occupati dalle forze tedesche.

Il re, Badoglio e Mussolini ricoprivano ed avevano ricoperto un ruolo centrale nello stato italiano e di conseguenza erano tre potenziali prigionieri politici la cui presenza da un lato o dall’altro “del fronte” avrebbe assunto un valore politico e strategico enorme, probabilmente tale da cambiare non tanto le sorti della guerra ma il ruolo e la posizione dell’italia nel conflitto e nella fase finale del conflitto, nei successivi trattati di pace e negli anni postbellici della ricostruzione. Non dimentichiamo che l’Italia, ha avuto un destino politico molto diverso da quello della Germania dopo la fine della guerra.

Così come per le forze dell’asse Mussolini non poteva essere lasciato nelle mani degli alleati, per gli alleati non era accettabile la possibilità che Vittorio Emanuele e Badoglio cadessero nelle mani dell’asse.

Sempre sul piano politico non va dimenticato che la vita e la sicurezza di un rappresentante dello stato sono di vitale importanza, in particolar modo se si parla dei massimi vertici dello stato e non è un caso se ancora oggi, in tutto il mondo, esistono numerose procedura di emergenza per la messa in sicurezza di capi di stato, dignitari politici e capi militari e in alcuni casi leader di partiti politici.

Restando in Italia e facendo un balzo in avanti di molti anni dal 1943 al 1978, chiamo in causa il rapimento di Aldo Moro, come sappiamo fu un evento drammatico e oscuro della più recente storia italiana, nonostante Moro fosse in quel momento “soltanto” un segretario di partito e non un capo di stato. Immaginiamo le conseguenze politiche per l’Italia se fosse stato rapito il presidente del consiglio dei ministri o il presidente della repubblica.
Sarebbe dilagato il panico, perché ne sarebbe derivata un immagine terrificante, se lo stato non è in grado di proteggere neanche i suoi massimi rappresentanti allora non può proteggere nessuno, allora ogni cittadino è in pericolo e in quel caso crollerebbe l’ordine. Verrebbe a mancare l’illusione di sicurezza che permette alle società di non implodere e ci si troverebbe nel caos più assoluto.

Ora, nel 1943 il caos già c’era, eravamo ancora nel pieno della seconda guerra mondiale e le cose per l’italia si sarebbero fatte ancora più dure per via della guerra civile, mi rendo conto che è quindi molto difficile immaginare uno scenario peggiore, e pure, è quello che sarebbe successo se Badoglio e il re fossero caduti nelle mani dei nazisti.

Difficilmente in epoca moderna dei capi di stato di nazioni di primo piano sul teatro planetario sono stati rapiti o assassinati e quando è successo ci sono state enormi implicazioni e conseguenze, basti pensare in questo senso all’assassinio di J.F.Kennedy, di cui ancora oggi si parla tantissimo nonostante siano passati più di 50 anni, o ancora, l’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo che nel 1914 diede inizio ad una guerra mondiale, pensiamo alle innumerevoli guerre civili che da decenni insanguinano l’Africa, un continente dove i capi politici cadono letteralmente come mosche. Pensiamo a tutto questo per renderci conto di quanto possa essere tossico per la sicurezza di una nazione e di un popolo, mettere in pericolo personalità al vertice della gerarchia statale.

Questa non è una novità del nostro tempo e nel 1943, già consapevoli di questi rischi e con un po di sano istinto di conservazione, il re, i membri del governo e dello stato maggiore lasciarono Roma, lasciarono una città pericolosamente circondata da forze ostili per ritirarsi al sicuro in territorio occupato dagli alleati, e così come loro milioni di italiani fecero lo stesso fuggendo da una parte all’altra della Linea Gustav e della Linea Gotica, e in questo modo poterono continuare a guidare la nazione nel tentativo di traghettare il paese fuori dalla seconda guerra mondiale.

Molto probabilmente la cattura del re d’Italia da parte delle forze dell’asse non avrebbe cambiato radicalmente le sorti della guerra, e alla fine, quasi certamente gli alleati avrebbero comunque trionfato sul Reich, tuttavia, è molto probabile che l’Italia ne sarebbe uscita diversamente, magari il re avrebbe salvato la faccia, una faccia che era difficilmente salvabile dopo un ventennio di dittatura fascista, ma Vittorio Emanuele non era di certo un eroe, era un re ignavo come l’ho definito in un altro articolo e preferì salvarsi la vita piuttosto che la faccia e questa scelta è forse la cosa migliore che abbia fatto per l’italia e per gli italiani negli ultimi vent’anni del suo regno.
Scegliere il sacrificio, scegliere l’onore, scegliere di mantenere la capitale a Roma avrebbe avuto un valore simbolico sicuramente importante, ma avrebbe anche richiesto il pagamento di un costo enorme espresso in vite umane, fuggendo a Brindisi il re e il governo sono apparsi come dei codardi, e quella stessa codardia che è costata tantissimo all’Italia, in realtà ha permesso al paese e al suo popolo di risparmiare tantissime vite. Nonostante i massacri e gli eccidi perpetuati del nazismo durante la guerra civile italiana siano tantissimi e siano costati la vita a milioni di italiani innocenti e come dicevo, è difficile immaginare uno scenario peggiore, la cattura del re e di Badoglio di fatto avrebbe costituito uno scenario peggiore e le vittime, potete starne certi, sarebbero state molte di più.

Vittorio Emanuele III, il Re Ignavo

In questi giorni il nome Savoia è particolarmente legato alla cronaca, soprattutto per quanto riguarda Vittorio Emanuele III e la richiesta dei suoi eredi affinché l’antenato venga sepolto al Pantheon, dove giacciono altri suoi più illustri antenati e numerosi “patrioti” italiani.

Sono apparsi numerosi articoli biografici su Vittorio Emanuele III e sui Savoia in generale e penso sarebbe superfluo riproporre questi stessi contenuti anche qui, ma allo stesso tempo, da storico dell’età contemporanea, non posso esimermi dal parlarne e anzi, approfitto della vicenda per consigliarvi un libro. I Savoia di Gianni Oliva.

Cominciamo col dire che Gianni Oliva è uno storico italiano di origini torinesi, molto legato alla sua città e questo legame lo ha reso in qualche modo uno dei principali interpreti del novecento italiano, soprattutto per questioni riguardanti casa Savoia, questo libro in particolare ripercorre la storia di questa famiglia che, nel bene e nel male, ha giocato un ruolo centrale nella più recente storia italiana.
Nel libro Oliva racconta i Savoia sin dalle loro origini, ovvero quando non erano ancora una delle grandi famiglie della nobiltà europee, tuttavia, già dalla presentazione scopriamo che la storia dei Savoia è una storia molto antica, iniziata nella Borgogna del X secolo, quando la famiglia amministrava un i territori della Contea di Savoia nel regno di Borgogna. Circa cinque secoli più tardi, nel XV secolo quegli stessi territori furono elevati allo status di Ducato e continuarono ad essere amministrati dalla famiglia Savoia che di conseguenza fu elevata al titolo di Duca. Nei secoli successivi i membri di casa Savoia riescono a sopravvivere alle grandi turbolenze che in europa hanno portato alla capitolazione di molte teste coronate, in particolare la rivoluzione francese e campagne napoleoniche. In fine, nel XVIII secolo, sfruttando a proprio vantaggio alcune correnti e interessi politici di altre nazioni, riuscirono ad elevare il proprio ducato alla dignità di regno dando inizio a quello che sarebbe poi diventato il regno d’Italia e questo avrebbe permesso alla famiglia Savoia, di giocare finalmente un ruolo centrale sul grande scacchiere europeo, diventando a tutti gli effetti una casa reale degna di tale nome.

L’unificazione italiana è vista da alcuni storici come l’apice del potere di casa Savoia, secondo altri invece essa rappresenta solo l’inizio di una fase espansionistica. Questa seconda scuola di pensiero osserva che, non passò molto tempo dalla compiuta unificazione prima che l’italia si trasformasse in una “potenza coloniale” in grado di garantire ai propri regnanti il titolo e la dignità di Imperatore.
In questi termini qualcuno potrebbe obiettare, dicendo che l’Impero d’Italia è probabilmente uno dei più piccoli, brevi e peggio organizzati imperi della storia occidentale e non farebbe una piega, queste critiche sono assolutamente legittime e innegabili, l’Impero d’Italia ebbe un estensione minima, per non dire ridicola se confrontata ad altri imperi contemporanei, durò effettivamente pochi decenni, per non dire anni, ma nonostante tutto, fu comunque un impero.  Non sono infatti le dimensioni a fare un impero, ma la varietà dei popoli che lo abitano. C’è un video sul mio canale youtube dove spiego che cos’è un impero, qui mi limiterà a dare la definizione da “dizionario”.

Un impero è convenzionalmente un’entità statale costituita da un esteso insieme di territori e popoli, a volte anche molto diversi e lontani, sottoposti ad un’unica autorità, generalmente impersonificata dalla figura dell’imperatore (ma non necessariamente).

Se da una parte nel XIX secolo il regno d’italia vide la sua massima estensione territoriale, fino a diventare un impero, dall’altra, in quello stesso secolo, vide anche il suo declino, un declino che è legato soprattutto ad una serie di scelte politiche sbagliate e azioni sconsiderate che portarono il regno di Italia nella prima e soprattutto nella seconda guerra mondiale, una guerra dalla quale il regno sarebbe uscito sconfitto e distrutto, ma dalle cui ceneri non va dimenticato, sarebbe nata la Repubblica italiana.

E proprio la fine della seconda guerra mondiale e la nascita della repubblica Italiana rappresentano la chiave di lettura di questo mio personalissimo intervento.

Quando nel 1946 gli italiani furono chiamati a votare in un referendum per scegliere tra monarchia e repubblica, una vasta schiera di elettori (circa il 46%) confermò la propria fiducia alla monarchia e a casa Savoia votando in favore della Monarchia, tuttavia questo non fu sufficiente in quanto più del 53% degli italiani sfiduciò la monarchia scegliendo la Repubblica.

 

Come sappiamo la vittoria repubblicana non fu un trionfo, fu più una vittoria di fortuna e la differenza di appena 2 milioni voti tra Repubblica e Monarchia fu estremamente lieve,  e fu proprio la massiccia presenza dei Monarchici italiani, soprattutto nell’Italia meridionale, che spinse la nascente Repubblica Italiana a bandire ed esiliare i Savoia dal territorio italiano.
I padri costituenti sapevano che la presenza in italia dei Savoia avrebbe avuto un peso politico enorme, un peso che non poteva essere ignorato e che avrebbe permesso loro di influenzare le decisioni politiche, estremamente delicate, che avrebbero accompagnato i primi anni del dopoguerra. Per queste ed innumerevoli altre ragioni, si decise allora di allontanare i Savoia.

Allontanare i Savoia all’epoca sembrò una scelta necessaria per poter affrontare l’impegnativa sfida di creare e costituire uno stato repubblicano e allo stesso tempo per poter prendere le distanze dai numerosi crimini commessi dall’Italia Fascista e nel nome del Re, nel corso del ventennio appena trascorso.
Senza girarci troppo intorno, a distanza di oltre settant’anni possiamo dire che i Savoia e la dittatura furono usati come capro espiatorio per provare a ripulire le coscienze, coscienze che si erano compromesse con una politica dalla quale bisognava prendere le distanze, almeno  finché i loro cuori non sarebbero stati abbastanza maturi per poter affrontare il proprio passato e riconoscere le proprie responsabilità. Nel passato dell’italia e degli italiani c’è stato un ventennio particolarmente oscuro e doloroso, un ventennio con nel bene e nel male (soprattutto nel male) ha rappresentato un capitolo importantissimo della storia italiana.

Oggi Vittorio Emanuele III è noto come il re che ha appoggiato il fascismo, il sovrano d’italia che permise a Mussolini di conquistare il potere, il re che ha affidato il paese nelle mani di un dittatore particolarmente violento, ed è vero, è assolutamente vero e nessuno può negarlo, nessuno può negare il fatto che Vittorio Emanuele III si piegò alle pressioni di Mussolini e che lo nominò primo ministro, nessuno può negare il fatto che Vittorio Emanuele III avesse il potere di sollevare Mussolini dalla guida del paese e che, se bene avesse questo potere, non lo fece ma “restò impassibile a guardare il proprio paese che sprofondava”, ma è anche vero che Vittorio Emanuele III non è diventato re nel 1926, anzi, il suo regno è stato molto probabilmente uno dei più lunghi (nella breve storia del Regno d’Italia), fu incoronato re nell’estate del 1900 e regnò senza governare per più di 45 anni, ovvero fino al 1946 anno in cui abdicò in favore di suo figlio Umberto II, che a differenza del padre ebbe il regno più breve della storia italiana (circa un mese).

Durante il regno di Vittorio Emanuele si sono susseguiti numerosi governi che hanno letteralmente guidato il paese attraverso un passaggio epocale.
Il suo regno è iniziato negli anni conclusivi di una durissima crisi agraria ed economica per la quale il mondo, non solo l’Italia, non era preparato. In quasi mezzo secolo di regno, Vittorio Emanuele III ha assistito alla prima crisi agraria tipo moderno e dovette affrontare due delle più dure crisi economiche del secolo, ha assistito all’ascesa e il declino dello Stato liberale e successivamente all’ascesa e al declino del Fascismo crollato sotto i colpi della Resistenza antifascista. Ha visto la trasformazione dell’Italia, una nazione politicamente molto giovane, in una nazione di primo piano a livello internazionale, i cui modelli politici, per quanto estremi e pericolosi, furono esportati in gran parte dell’europa e visti con ammirazione quasi ovunque nel mondo “occidentale” almeno fino agli anni trenta e dovette affrontare non una, ma ben due guerre mondiali, inoltre vide l’introduzione del suffragio universale prima maschile e poi femminile.

Vittorio Emanuele III non era un santo e non era certamente un demone, un moderno Dante Alighieri probabilmente collocherebbe Vittorio Emanuele III nell’antiinferno insieme agli Ignavi e di fatto possiamo considerare Vittorio Emanuele III un re Ignavo, che non si è prodigato per il bene o per il male e che non ha mai osato, un re che ha limitato la propria autorità adeguandosi alla volontà dei più forti, prima i Liberali, poi i Fascisti e in fine agli Alleati.

I Savoia avrebbero pagato questa inadeguatezza dovendo accettare un profondo sacrificio, dovendo rinunciare alla monarchia, ma allo stesso tempo, proprio questo sacrificio avrebbe dato ad un paese letteralmente distrutto, la forza di ricominciare. L’Italia ha potuto affrontare il secondo dopoguerra con lo spirito di una nazione nuova, una nazione che si era lasciata alle spalle un enorme fardello, una nazione che era disposta a dimenticare e perdonare le responsabilità e le colpe di molti, alcuni dei quali forse con più responsabilità dello stesso re. Per molti ex fascisti l’italia del dopoguerra decise di chiudere un occhio e di perdonare per poter ricominciare, per poter dare inizio ad un nuovo capitolo della propria storia sotto l’emblema della repubblica.

Non sono un Fan di casa Savoia ne della monarchia, personalmente credo profondamente nella democrazia e nelle istituzioni repubblicane ma sono profondamente convinto che se oltre settant’anni fa l’Italia poté affrontare il cammino della ricostruzione e della rinascita, fu anche perché il re Vittorio Emanuele III si fece carico delle colpe e responsabilità di un intera nazione. Di certo questo non basta per cancellare quello che è stato e di certo non ridarà la vita ai milioni di uomini, donne e bambini, che persero la vita durante le guerre in Libia ed Etiopia, ne alle vittime del fascismo e della seconda guerra mondiale, ma, per quanto mi riguarda, credo sia sufficiente a garantire all’ex re d’italia, un posto d’onore nella nostra storia perché, per quanto Vittorio Emanuele III non sia stato un re molto presente nella vita politica del paese, ci ha lasciato un grande insegnamento. Non si può restare a guardare mentre un paese cade lentamente nelle mani di un movimento politico estremista, xenofobo e violento. Vittorio Emanuele III ha pagato con l’esilio e la vita di milioni di Italiani questa indifferenza.