Il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte | Storia Laggera

il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo, fu un sogno, un idea, una visione, ma anche un incubo, una dannazione, una delusione.
Il 5 Maggio moriva un uomo, ma non la leggenda di Napoleone.

Ei fu. Siccome immobile, Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore…

Al Manzoni non serve altro per definire quel momento, non servono nomi, perché la storia, la fama e l’eco della leggenda di Napoleone sono più che sufficienti affinché chiunque legga, sappia e capisca che si parla di lui e della sua inattesa e prematura scomparsa.

Un unico indizio ci viene dato, nel titolo, la data, quella data, il 5 maggio, quel 5 maggio, quel fatidico 5 maggio 1821, in cui Napoleone lasciò per le proprie spoglie mortali.

Prologo

200 anni fa, il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo. Napoleone fu un sogno, un idea, una visione, ma allo stesso tempo Napoleone fu un incubo, una dannazione, una delusione.

Celebrato, osannato, temuto, discusso, deriso.

Napoleone fu tutto e nulla, fu uomo e leggenda e quel 5 maggio la sua morte segnò una ferita profonda nella storia dell’umanità.

Luce polare o macchia indelebile che fosse, il 5 maggio napoleone morì, e il mondo sapeva che con la sua morte qualcosa finiva, ma allo stesso tempo sapeva, perfettamente che quel giorno moriva un uomo, ma non la sua leggenda.

Così, giocando con le parole di Alessandro Manzoni e della sua ode “il 5 maggio” , un componimento che in me ha sempre acceso le stesse sensazioni della “stagioni” di Francesco Guccini (brano che cita la stessa 5 maggio, ma questa è un altra storia, che vi ho già raccontato qualche anno fa), ho voluto scrivere questo mio post, questo mio pensiero su quell’uomo che cavalcò sull’Europa, che conquistò i cuori di milioni di uomini e donne, di milioni di anime in tutta Europa, anime che deluse furono la causa della sua caduta.

La notizia

La notizia giunge in Europa diverse settimane dopo la dipartita dell’ex imperatore, ma è normale, ci troviamo agli inizi del XIX secolo, i tempi dell’informazione dell’epoca sono molto lenti, perché una notizia giunga dalla periferia estrema dell’impero britannico, dall’isola di Sant’Elena, luogo di prigionia dell’ex imperatore, scelta perché lontana dalle principali rotte commerciali, è necessario che una nave parta ed approdi in qualche porto più frequentato, e da lì, può diffondersi verso l’Europa e il mondo.

L’aria che si respira in Europa è in quel momento un’aria tesa, pesante, è aria di tempesta che mina le fondamenta stesse dell’Europa post congresso di Vienna. Italia e Spagna sono attraversate da un’idea di rivoluzione, che però non riesce a concretizzarsi, almeno non in quel momento, e le rivolte che si consumano in quegli anni tra 1820 e 1821, una dopo l’altra vengono sedate nel sangue proprio in quel 1821.

Il tessuto del congresso di Vienna regge, l’Europa delle teste coronata è sopravvissuta a Napoleone, o almeno così sembrava in quel momento.

Gli effetti della morte di Napoleone sulla gente

Napoleone Bonaparte era morto, l’uomo era morto, ma non il suo ricordo, non le leggende né l’eco del suo nome. Un nome che, anche se non particolarmente amato era sinonimo di cambiamento. Napoleone era stato la spina nel fianco delle teste coronate e nonostante tutto, aveva portato in Europa una nuova classe dirigente di astrazione popolare.

Qualcuno gioiva di fronte alla notizia della dipartita del tiranno, altri speravano, o forse sapevano, che un giorno quello spirito ardente, figlio e incarnazione stessa della rivoluzionario, espressione del destino, della volontà di Dio, sarebbe ritornato ad infiammare l’Europa.

I contemporanei di Napoleone non sanno dove o quando, ma non hanno dubbi, da qualche parte, un giorno, un nuovo “Napoleone” sarebbe tornato, da qualche parte, in modo totalmente inaspettato, sarebbe apparso qualcuno che come lui avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia umana. E in quel momento Napoleone era esattamente quello, un segno indelebile, per alcuni una stella polare, per altri una macchia, nella storia umana.

Manzoni e Napoleone

Manzoni nel proprio componimento, nella sua ode “il 5 maggio” ripensa a se e al proprio rapporto con la figura di Napoleone, al quale, per scelta, prima di quel momento, mai aveva dedicato alcunché, né un ode, né una poesia, nulla.

La scelta del Manzoni è dettata dal rammarico e dalla delusione da quell’uomo, la cui vita è stata degna di un poema epico, ma al contempo, pur essendosi presentato al mondo come paladino di certi ideali rivoluzionari, rimaneva un uomo, un uomo che alla fine antepose il proprio potere e i propri interessi ai popoli d’Europa, popoli che in origine erano il muscolo più forte delle armate napoleoniche ma che alla fine gli si voltarono contro, scegliendo le antiche aristocrazie contro quello stesso Napoleone conosciuto come salvatore e liberatore.

Come era percepito Napoleone dai contemporanei?

Napoleone è stato un uomo che dal nulla creò un impero universale su suolo europeo, degno di Roma, un uomo il cui genio fu sconfitto solo dalle proprie ambizioni e dal proprio orgoglio, dal tradimento dei popoli e la riluttanza a stringere alleanze.

Napoleone è stato un uomo che si scagliò contro il mondo, andando in contro ad una certa sconfitta e, anche se sconfitto, anche quando fu “mutilato” del proprio impero, non si arrese, tornò in campo, marciò su Parigi, riconquistò il potere e solo sfidò nuovamente il mondo. Ma era tardi, e in quella lotta con il mondo, il mondo gli oppose i popoli in armi che lui per primo aveva concepito, quei popoli che lui aveva tradito, e fu proprio la collera di quei popoli abbandonati che infuriò contro l’uomo, ma non contro ciò che l’uomo rappresentava, segnando definitivamente il declino del suo potere temporale, pur lasciando accesa la fiamma di una nuova speranza.

Una speranza fondata sul ricordo nostalgico di quelle imprese raccontate nell’allegria amara di boccali di vino e calici di birra. Rigorosamente invertiti, a rappresentanza figurata di quell’ordinamento sociale già una volta stravolto. 

Napoleone è morto, viva Napoleone!!!

Il 5 maggio 1821, moriva Napoleone bonaparte, e la notizia della sua dipartita si diffuse a macchia d’olio in tutto il mondo, tra i suoi sostenitori e i suoi avversari, tra chi ancora credeva in lui, chi ne era rimasto deluso e chi lo temeva. 

Ma indipendentemente dalle proprie posizioni, tutti, senza eccezione, apprendendo la notizia rimasero senza parole, perché tutti sapevano, senza eccezione, che la morte dell’uomo non ne segnava la fine. Che il suo paradiso, o inferno, era terreno che lì sulla terra, tra gli uomini, quel nome non sarebbe stato mai più dimenticato, e in quel momento, di fronte alla notizia uno degli uomini più influenti del proprio tempo, forse il più influente di quello e dei secoli immediatamente precedenti e successivi, non era più, il mondo trattenne il fiato.

Manzoni chiude il proprio componimento richiamando la divina provvidenza, la mano di Dio che interviene per sottrarre ad una vita di sofferenze un uomo immenso, che la satira britannica dipingeva come minuto. E l’intervento divino è sufficiente a passare una mano di spugna sulla salma di Napoleone, allontanando da essa ogni parola malevola.

Napoleone come idea

Nella morte Napoleone ritrova la propria grandezza perduta, la propria essenza ascetica, dismettendo i panni del tiranno, dismettendo i panni dell’uomo e indossando ancora una volta e per sempre, la splendente veste degli ideali rivoluzionari.

Ecco che la morte passa la propria mano sulle ceneri dell’uomo, consacrando la sua leggenda e restituendo, alle generazioni future il nodo materiale del giudizio.

Napoleone per i compagni è stato, ed ora non è più, e se la sua vita sia quella di un tiranno, di un conquistatore, di un giusto tra gli uomini o di un visionario, la decisione ultima sarebbe spettata alla storia.

Manzoni lascia ai posteri l’arduo compito di esprimere un giudizio morale su napoleone, e nel proprio componimento immortale, lo racconta tra luci e ombre, attraverso l’occhio di un uomo, un poeta, un intellettuale ottocentesco che Napoleone lo ha visto e vissuto, da lontano, da uomo comune che rimane deluso per le scelte politiche del grande imperatore.

Manzoni, e come lui una fetta importante di uomini e donne europei avevano visto in Napoleone un qualcosa, una speranza, una visione mai completamente realizzata, un sogno troppo a lungo rimandato, l’uomo era stato idealizzato e in quella umana elevazione si tradusse presto in una amara delusione vissuta con sofferto rammarico, almeno fino a quel 5 maggio.

La repubblica Weimar, lotta di uomini e ideali, Guida alla lettura

Guida alla lettura del saggio storico “La repubblica di Weimar, lotta di uomini e ideali” di Davide Bernardini, edito da Diarkos.

La Repubblica di Weimar è uno di quei capitoli particolari della storia del mondo, radicato all’interno di un ben preciso e delineato contesto storico e politico, quello della Germania post grande guerra, i cui effetti però, si riversarono sull’intera umanità e, a distanza di oltre un secolo dalla sua “fondazione” la repubblica di Weimar continua a far parlare di se, ed è sempre più presente nel mondo moderno.

Nell’immaginario comune Weimar rappresenta l’anticamera del totalitarismo tedesco ed è utilizzata da anni ormai, come esempio di una civiltà in decadenza che, con le ultime forze, prova a resistere alla barbarie che si sviluppa al proprio interno.

Nel 1993, in un Italia al che si ritrovava ad affrontare parallelamente la fine della prima repubblica e della guerra fredda, immersa in un clima globale di grande incertezza, un clima fatto di tensioni, scontri e incontri. In quel panorama politico e geopolitico dal sapore internazionale, furono in molti a parlare di “fine della storia” e in Italia qualcuno osservò con audacia, di intravedere in quel clima, orizzonti già visti altrove e in altre epoche, raccontando l’Italia all’alba della seconda repubblica come una novella Weimar.

In quel contesto Francesco Guccini, nell’album Parnassius Guccini, pubblica la canzone “Nostra signora dell’ipocrisia“, in cui racconta il dramma politico dell’epoca, citando proprio Weimar nelle primissime strofe della canzone.

Un artigiano di scoop forzati scrisse che Weimar già si scorgeva e fra biscotti sponsorizzati videro un anchorman che piangeva e poi la nebbia discese a banchi ed il barometro segnò tempesta, ci risvegliammo più vecchi e stanchi, amaro in bocca, cerchio alla testa…

F.Guccini, Nostra signora dell’Ipocrisia, Parnassius Guccini, 1993

L’anticamera del totalitarismo

La Repubblica di Weimar fu, per la storia tedesca, e non solo, una complicata e controversa esperienza politica, oltre che storica, fu una parentesi dal profumo democratico che si colloca tra la fine del secondo impero e l’istituzione del terzo reich hitleriano. Weimar fu il luogo storico e politico, in cui vennero gettate le basi del futuro regime nazista, e per certi versi fu l’anticamera di quell’oscuro e devastante regime totalitario fondato su rancore, odio, rabbia, intolleranza e finto patriottismo elitario.

La repubblica di Weimar segna il punto d’arrivo della democrazia tedesca, segna il fallimento della democrazia difronte a certe istanze e definisce il trionfo delle correnti più estreme e radicali sulle correnti più moderate, configurandosi per molti come la concretizzazione di quelle profetiche parole messe per iscritto da Platone nel libro quarto della repubblica, e noto come il brano sulla “sete di Libertà“.

Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.

Platone, La Republica, Libro IV

Il grande laboratorio di Weimar

Weimar non fu solo il luogo in cui germogliarono i semi del nazional socialismo, ma fu anche un grande laboratorio politico, collocato nel cuore dell’Europa, in cui si sperimentò un alternativa alla rivoluzione sovietica.

In questo immenso laboratorio, rimasto in funzione, con non poche difficoltà, per circa 15 anni, dal 1918 al 1933, tanti furono gli esperimenti frutto dell’incontro, scontro, intreccio e rielaborazione delle principali idee e correnti politiche del primo novecento, e tanti furono i fallimenti.

E fu proprio per effetto di quegli esperimenti non riusciti che si consolidò l’idea di una politica più radicale fondata su idee combattenti, su idee che dovevano essere difese non solo con il dialogo, ma anche e soprattutto con la forza e le armi.

Weimar, lotta di uomini e ideali

Il saggio storico di David Bernardini intitolato La Repubblica di Weimar, Lotta di uomini e ideali, edito da Diarkos si pone l’obbiettivo di ripensare, a distanza di un secolo dalla propria nascita, la Repubblica di Weimar. Ripensare non significa revisionare, il saggio va precisato, non ha un carattere revisionista e il suo obbiettivo è quello di scavare a fondo nella storia di Weimar, nel tentativo di comprendere quali sono stati gli errori che hanno portato al tracollo quell’esperienza democratica, permettendo la nascita e l’affermazione del regime nazista.

Il saggio si struttura in due grandi parti, e racconta la storia e le idee che fecero la Repubblica di Weimar, in maniera non lineare, ma seguendo temi e tematiche.

Weimar, lotta di uomini e ideali si sviluppa in un articolata e non troppo semplice rete di punti e concetti, che, nel complesso, forniscono un panorama ampio e completo su tutta l’esperienza di Weimar.

Parte prima

La prima parte del libro ha un carattere fortemente divulgativo, e permette di inquadrare a pieno tutti gli aspetti e gli elementi che andarono a comporre la struttura di Weimar, chi furono i suoi protagonisti, quali furono le idee che definirono l’esperienza politica di Weimar e quali furono i momenti salienti dell’intera esperienza politica iniziata nel 1918 e terminata nel 1933.

I vari capitoli del libro, sia della prima che della seconda parte, come anticipato, sono sviluppati su temi e concetti consequenziali, e, se bene scollegati tra loro, sono strutturati su un percorso cronologico che rende non troppo semplice ed efficace una lettura asincrona, almeno non alla prima lettura.

Nella prima parte infatti ogni capitolo e propedeutico, per ragioni cronologiche, ai capitoli successivi. Inoltre, l’intera prima parte costituisce la base concettuale ed evenemenziale, su cui è costruita la seconda parte.

Questo discorso ovviamente decade per eventuali letture successive alla prima.

Parte seconda

Se i temi ed argomenti trattati che compongono la prima parte del saggio sono trattati in modo netto e puntuale, volti a ricostruire la storia della Repubblica di Weimar, i temi trattati nella seconda parte, hanno un carattere più trasversale ed hanno il fine di favorire l’immersione del lettore in quell’esperienza storica.

Diversamente dai capitoli della prima parte, quelli della seconda parte possono essere letti in maniera asincrona, poiché non consequenziali, di conseguenza le informazioni contenute in un capitolo, non sono propedeutiche per la lettura e comprensione dei capitoli successivi.

Conclusioni

Anche se di carattere generalmente divulgativo, i vari temi trattati, per essere compresi a pieno, soprattutto nella seconda parte, richiedono alcune conoscenze preliminari, senza le quali, purtroppo, non è possibile cogliere completamente tutte le sfumature del saggio.

La divisione del saggio in due parti permette in parte di ovviare ad una preliminare carenza di informazioni di base, la prima parte infatti, ha una struttura più manualistica con cui, l’autore, oltre a fornire una narrazione ampia e completa dell’esperienza storica della repubblica di Weimar, getta le basi per la seconda parte, di carattere più avanzato.

In definitiva, La repubblica di Weimar, Lotta di uomini e ideali, non è un libro adatto a chiunque. Il saggio si rivolge prevalentemente a chi vuole conoscere e approfondire meglio la storia della Germania degli anni venti. Il lettore ideale ha già una conoscenza basilare degli avvenimenti di quel periodo oltre che del contesto e delle idee politiche dell’epoca.

Chi è Davide Bernardini?

Davide Bernardini è un giovane storico italiano, classe 1988, laureato presso l’università di Teramo e attualmente docente a contratto presso l’Università degli studi di Milano, è inoltre socio del SISSCO può vantare numerose recensioni in collaborazione con la Rivista storica del socialismo ed Giornale di storia contemporanea, oltre a diversi articoli di ricerca e alcuni saggi, tra cui Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa edito da ShaKe.

Il Fascismo Ungherese di Miklós Horthy

l’Ungheria di Miklos Horthy fu un regime autoritario, conservatore, di estrema destra, fortemente legato al fascismo prima e al nazional socialismo tedesco poi.

L'Ungheria di Miklós Horthy fu un regime autoritario, conservatore, di estrema destra, fortemente militarista e legato al fascismo prima e al nazional socialismo tedesco poi.

Correva l’anno 1920 quando l’ammiraglio Miklós Horthy, già ministro della guerra nel 1919, venne proclamato capo del Governo del regno di Ungheria.

La figura di Miklós Horthy è estremamente importante per la storia politica dell’europa degli anni venti e trenta, perché fu, in un certo senso, l’anticipatore di quei movimenti nazionalisti anticomunisti che, negli anni seguenti, avrebbero coinvolto Italia, Germania, Spagna e tutto il resto d’europa, attraverso forme e nomi di partito diversi nella forma, ma tutti strutturati in maniera paramilitare, con una rigida gerarchia interna e caratterizzati da sentimenti di odio verso comunisti, ebrei e numerose altre minoranze etniche e culturali.

Horthy è il grande anticipatore di Mussolini, Oswald Mosley ed Hitler, ne condivide le idee e l’ideologia, se pur con qualche differenza.

La Carriera di Miklós Horthy

La carriera di Miklós Horthy è iniziata tra i ranghi dell’esercito ungherese, dove fece rapidamente carriera, grazie anche alle sue origini nobiliari, e negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, tra il 1909 ed il 1914, si ritrovò ad essere uno degli aiutanti e più stretti collaboratori dell’imperatore Francesco Giuseppe, per poi servire durante la guerra fino al raggiungimento del grado di contrammiraglio e comandante supremo della flotta imperiale della regia marina austro-ungarica.

Finita la guerra, Horthy ricopriva una delle più alte cariche militari dell’impero Austro-Ungarico, impero che tuttavia usciva sconfitto dalla guerra e si preparava alla propria disgregazione definitiva, che sarebbe avvenuta tramite una serie di scontri interni, e in quel contesto di crisi, la guida del governo ungherese venne affidata al comunista ungherese, Ábel Kohn, meglio noto come Béla Kun.

Il governo comunista di Béla Kun ebbe vita breve, sopravvivendo dal 21 marzo 1919 al 3 aprile dello stesso anno, e vi fece seguito un governo anticomunista guidato da Károly Huszár, appoggiato da Miklós Horthy che, tra il marzo 1919 e l’aprile del 1920, ricoprì la carica di ministro della guerra.

Lo scontro tra Comunisti e Anti-Comunisti in Ungheria, non fu solo politico, ci furono diversi scontri armati in tutta l’Ungheria, scontri che videro contrapposti i monarchici anticomunisti ai comunisti di Kun.

Una delle prime disposizioni del Governo di Huszár fu quella di ripristinare la monarchia ungherese, e preparare un ritorno degli Asburgo, tuttavia, il nuovo ordine europeo venutosi a formare dopo la fine della guerra, rendeva particolarmente ostico questo progetto, e alla fine, in seguito all’ingresso trionfale e conseguente occupazione militare di Budapest da parte di Horty e le sue truppe, l’ammiraglio assunse l’incarico di capo provvisorio dello stato, con il titolo di reggente del regno d’Ungheria, in ungherese kormányzó, carica che ricoprì fino alla fine della seconda guerra mondiale.

La Politica di Horthy

La politica di Miklós Horthy era inquadrabile nelle idee della destra sovranista e conservatrice, Horthy rappresentava gli interessi dell’aristocrazia e per lui e la propria cerchia sociale di appartenenza, il comunismo era una minaccia reale. Béla Kun nel proprio programma puntava a sottrarre le terre ai nobili per darle al popolo ungherese, Horthy era membro di una di quelle famiglie nobili a cui Kun voleva togliere le terre.

Una delle prime decisioni politiche che l’ammiraglio ungherese dovette affrontare in qualità di capo del governo, fu quella dei trattati di pace ancora in corso, e il ruolo giocato dall’Ungheria durante la prima guerra mondiale, non dava molto margine di manovra all’ammiraglio, fu quindi “costretto” ad accettare le dure condizioni del trattato di pace del Trianon, il trattato con cui vennero stabilite, dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, le sorti del nuovo Regno d’Ungheria, in seguito alla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico. Presero parte alla conferenza Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Italia, oltre ai loro alleati, Romania, Regno dei Serbi, Croati e Sloven e il trattato venne firmato il 4 giugno 1920.

Le dure condizioni del trattato di Trianon, come sarebbe accaduto anche in Germania, alimentarono una forte insofferenza nei confronti dei vincitori della guerra e, unito ad un crescente sentimento anticomunista e antisemita, portarono alla nascita di un regime, estremamente autoritario, anche se non assunse mai i tratti di una dittatura o di un regime totalitario come invece sarebbe accaduto all’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler, in cui il parlamento venne completamente esautorato.

Il regime di Horthy

Durante gli anni del regime di Horthy, che coincidono con gli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale, l’Ungheria rimase, se pur in modo parziale, una monarchia parlamentare, guidata da un reggente.

Il parlamento Ungherese come anticipavo non venne completamente esautorato, ne venne sostituito da altri organi e istituzioni, tuttavia, l’autorità del reggente fu particolarmente incisiva e il parlamento, il più delle volte, si ritrovò a seguire le direttive di Horthy.

Nel regime di Horthy l’ordine sociale ungherese doveva rimanere inalterato, e a tal proposito l’ammiraglio, da militare, aristocratico e conservatore qual’era, si impegnò profondamente affinché quell’ordine precostituito non venisse alterato, in particolare dalla minaccia della “barbarie sovietica” che aleggiava alle porte dell’Ungheria.

L’Ungheria di Horthy fu uno dei primi paesi europei a varare delle leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei e con largo anticipo rispetto alle leggi di Norimberga e le leggi razziali italiane, già nel 1921 Horthy ordinò che venisse limitata la percentuale di studenti di varie minoranze presenti in Ungheria.

La legge, firmata dal primo ministro ungherese del 1921 Pál Teleki, fissava al 6% il numero massimo di studenti di origine ebraica che potevano iscriversi alle università ungheresi. Altre leggi discriminatorie di questo tipo vennero varate negli anni seguenti, il cui corpo legislativo, per molti, preparò il terreno per le successive leggi di Norimberga del regime nazista, proclamate il 15 settembre 1935. In Ungheria, comunque, il culmine delle leggi razziali e antisemite arrivò nel 1938 con una serie di leggi proclamate dal’allora primo ministro fino al culmine di una vera e propria legislazione antiebraica introdotta nel 1938 dal primo ministro Kálmán Darányi, con cui il paese si preparò alle deportazioni naziste.

Il proto fascismo di Horthy

Il regime autoritario di Horthy si trova in un limbo ai limiti del fascismo, ideologia con la quale Horthy ebbe un forte legame, consolidato soprattutto dopo la firma dei protocolli di Roma del 1934, con cui l’Ungheria si legava all’influenza economica e politica dell’Italia. Tuttavia, nonostante questo legame Horthy non arrivò mai ad abbracciare totalmente il Fascismo e, in seguito alla morte di Engelbert Dollfuss, leader del fronte Patriottico, un partito austriaco di ispirazione fascista, Horthy, come molti altri proto fascisti in europa, si avvicinò maggiormente alle posizioni più radicali del nazional socialismo tedesco.

L’ambizione di Horthy

Come Hitler e Mussolini, anche Horthy ambiva al potere personale e puntava ad assumere il potere assoluto sullo stato che governava, questa ricerca del potere ebbe evoluzioni diverse in Ungheria, Italia e Germania, che si legano soprattutto allo status politico delle tre nazioni.

Ungheria ed Italia erano monarchie, anche se, l’Ungheria era de facto una monarchia senza re, mentre l’Italia, anche se non particolarmente presente nella scena politica, aveva comunque un re. Diversamente la Germania era una repubblica.

Secondo Max Weber, la legittimazione del potere può avvenire in tre diversi modi, ovvero in modo tradizionale, carismatico e legale/giuridico e, sempre secondo Weber, il potere politico (assoluto) può manifestarsi solo in presenza di questi tre elementi.

Noi oggi sappiamo che tra Hitler, Mussolini ed Horthy, l’unico a conseguire il potere assoluto fu Hitler, questo perché Hitler, grazie al proprio carisma e all’uso della forza, riuscì a conseguire una legittimazione legale e carismatica del proprio potere, inoltre, l’organizzazione paramilitare della Germania, collocava Hitler al vertice di una sorta di gerarchia tradizionale, simil feudale, garantendo quindi, anche un potere tradizionale in uno stato in cui non erano presenti forme di potere tradizionali.

Nell’Ungheria di Horthy, se bene l’ammiraglio, godesse di potere legale/giuridico, grazie al proprio, conseguito grazie a carisma e forza, proprio come Hitler, l’Ungheria era una monarchia, senza re, ma comunque una monarchia, e di conseguenza, per ascendere al rango supremo, Horthy aveva necessità di essere proclamato regnante e non semplicemente reggente della corona.

A tale proposito, durante il proprio governo Horthy estese progressivamente i propri poteri, cannibalizzando parti del parlamento e accentrando nelle proprie mani diverse cariche, e riuscì tantissimo ad avvicinarsi tantissimo al proprio obiettivo di diventare “re di Ungheria”, al punto che, nel 1937, alle soglie della seconda guerra mondiale, ad Horthy mancava soltanto il riconoscimento della chiesa cattolica per l’investitura ufficiale e l’ascesa al trono, ascesa che probabilmente non avvenne proprio a causa della guerra

Il primo bombardamento aereo della Storia

1 novembre 1911, l’italia era nel vivo della guerra italo turca, e Giulio Gavotti, un aviatore italiano, in questa data alle prime luci dell’alba partì a bordo del proprio monoplano Etrich Taube, un monoplano di fattura tedesca, ufficialmente per un operazione di ricognizione che, per iniziativa individuale dell’aviatore, si trasformò nel primo bombardamento aereo della storia.

Va detto che, prima del 1911 i dirigibili erano già stati utilizzati per operazioni offensive, e quindi c’erano già stati dei “bombardamenti aerei” tuttavia, nel 1911 , per la prima volta, l’offensiva fu portata a termine da un aereo-plano e non da un dirigibile, ed è proprio l’uso dell’aereo-plano l’elemento di novità che avrebbe cambiato per sempre il volto della guerra, segnando un punto di non ritorno nelle operazioni belliche.

Del bombardamento aereo del 1911 durante la guerra italo turca abbiamo molte informazioni e numerose fonti, una in particolare ci permette di ricostruire quei momenti, attraverso la testimonianza diretta di Giulio Gavotti, all’epoca un semplice aviere che da poco aveva terminato il corso di allievo ufficiale a Torino con il 5º reggimento “Genio Minatori” , dopo questa operazione, la carriera di Gavotti sarebbe decollata portandolo fino al grado di Tenente Colonnello, ma questa è un altra storia.

Il resoconto dettagliato degli avvenimenti del 1 novembre ci viene fornito da Gavotti, oltre che dal rapporto missione ufficiale, anche da una più interessante lettera, indirizzata al padre e che, vista la ricchezza di informazioni sul volo, si presume essere stata scritta nella stessa giornata del 1 novembre 1911. In questa lettera Gavotti scrive.

"Ho deciso di tentare oggi di lanciare delle bombe dall'aeroplano. È la prima volta che si tenta una cosa di questo genere e se riesco sarò contento di essere il primo."

Da queste prime parole possiamo osservare che Gavotti è perfettamente conscio di ciò che sta per fare, il suo obbiettivo è quello di mettersi in mostra con i propri superiori, lui è perfettamente consapevole di ciò che sta per compiere e, a discapito di quello che molti pensano, la sua azione non è stata improvvisata, ma anzi, è stata pianificata, se bene non sia chiarissimo quanti i superiori di Gavotti sapessero effettivamente delle sue intenzioni. Dal rapporto missione emerge una certa ambiguità lessicale, e probabilmente la sua era un operazione clandestina o comunque.

Il testo della lettera comunque continua dicendo che sarebbe quella mattina del 1 novembre era partito alle prime luci dell’alba “Appena è chiaro sono nel campo. Faccio uscire il mio apparecchio.” Aggiunge poi che, nell’abitacolo, se così lo si può chiamare, ha inchiodato un contenitore in cuoio “Vicino al seggiolino ho inchiodato una cassettina di cuoio; la fascio internamente di ovatta e vi adagio sopra le bombe con precauzione.”

Capiamo, da queste parole che è tutto molto amatoriale, forse troppo amatoriale, tuttavia, risulta strano e poco chiaro, come abbia fatto l’aviere Gavotti ad entrare in possesso di quattro bombe Cipelli. “Queste bombette sono sferiche e pesano circa un chilo e mezzo. Nella cassetta ne ho tre; l’altra la metto nella tasca della giubba di cuoio.” in questo passaggio ci viene data un informazione molto significativa sul tipo di ordigni di cui dispone, si tratta, come anticipato, di tre bombe “Cipelli”, uniche bombe in dotazione al regio esercito nel 1911, di forma sferica ad avere il peso di circa 1,5Kg e, il passaggio successivo ci conferma ulteriormente essere bombe Cipelli, poiché ci dice “In un’altra tasca ho una piccola scatoletta di cartone con entro quattro detonatori al fulminato di mercurio” e, le bombe Cipelli, erano attivate da detonatori esterni che andavano combinati alla bomba perché questa potesse essere innescata, diversamente da altre bombe che invece avevano un detonatore integrato.

Gavotti ci fornisce poi una serie di informazioni più o meno dettagliate sulla propria posizione e sul proprio itinerario “…Arrivo fin sopra la “Sicilia” ancorata a ovest di Tripoli dirimpetto all’oasi di Gurgi poi torno indietro passo sopra la “Brin”, la “Saint Bon” la “Filiberto” sui piroscafi ancorati in rada.”, ma l’informazione più interessante riguarda l’altitudine a cui avrebbe volato, “Quando ho raggiunto 700 metri mi dirigo verso l’interno”

Gavotti ci dice di volare ad un altitudine di circa 700 metri, e che prende quota sul mare per poi seguire il proprio itinerario nell’entroterra, oltre le linee nemiche, questi dati sono molto interessanti perché ci dicono molto sul volo e quello che è in qualche modo lo stato d’animo dell’aviatore, ci comunicano infatti eccitazione ma anche determinazione e tensione, oltre che voglia di riuscire nell’impresa e questo desiderio di successo si traduce nella decisione di volare a bassa quota ovvero a circa 700 metri, probabilmente per riuscire a colpire con maggiore precisione i bersagli.

Un monoplano Etrich Taube dell’epoca, stando alle informazioni tecniche della Igo Etrich, poteva volare fino a 2000 metri di altitudine, ma poteva spingersi anche più in alto e per le operazioni di ricognizione, generalmente era previsto un volo a circa 1500 metri, quasi al limite delle possibilità del Taube.

La lettera continua e da qui in avanti, sembra più un rapporto missione che una lettera informale al padre, Gavotti scrive “Oltrepasso la linea dei nostri avamposti situata sul limitare dell’oasi e mi inoltro sul deserto in direzione di Ain Zara altra piccola oasi dove avevo visto nei giorni precedenti gli accampamenti nemici (circa 2000 uomini).”

Arrivati all’altezza dell’oasi Gavotti si prepara all’azione offensiva “Con una mano tengo il volante, coll’altra sciolgo il corregile che tien chiuso il coperchio della scatola; estraggo una bomba la poso sulle ginocchia.” poi “Cambio mano al volante e con quella libera estraggo un detonatore dalla scatoletta e lo metto in bocca. Richiudo la scatoletta;”

L’azione che ci viene descritta è estremamente cinematografica, è una scena che abbiamo visto in centinaia di film, c’è questo giovane aviatore, solo nei cieli sopra i campi del nemico che con una mano pilota il proprio mezzo aereo e con l’altra, estrae il primo ordigno, lo innesca e guardando fuori dall’aereo-plano cerca di individuare un possibile bersaglio “metto il detonatore nella bomba e guardo abbasso. Sono pronto.”

Gavotti è vicinissimo al nemico, ci dice nella lettera, di trovarsi a circa un chilometro dall’oasi e già riesce ad identificare le sagome delle tende tende arabe, “Vedo due accampamenti vicino a una casa quadrata bianca uno di circa 200 uomini e, l’altro di circa 50.”

Queste informazioni sono per alcuni troppo accurate per la distanza che, secondo la lettera, in quel momento lo separava dal campo, non sappiamo se si tratti di una stima e dunque Gavotti abbia visto gli accampamenti e ipotizzato il numero di uomini che, sulla base della propria esperienza, potevano trovarsi nel campo, o se invece si tratti di un espediente narrativo, volta ad enfatizzare il momento, in fondo, si tratta pur sempre di una lettera al padre e non di un vero e proprio rapporto missione. Nel rapporto missione non vi è alcun riferimento a questo passaggio quasi acrobatico.

In ogni caso, la lettera continua “Poco prima di esservi sopra afferro la bomba colla mano destra; coi denti strappo la chiavetta di sicurezza e butto la bomba fuori dall’ala. Riesco a seguirla coll’occhio per pochi secondi poi scompare. Dopo un momento vedo proprio in mezzo al piccolo attendamento una nuvoletta scura.”

L’azione continua ad essere estremamente cinematografica, vediamo questo pilota che strappa la chiavetta di sicurezza dell’ordigno e lancia fuori dall’abitacolo per poi vederlo svanire, a causa delle piccole dimensioni dell’ordigno e della distanza crescente tra l’ordigno e l’aereoplano, ma poi, ecco che si giunge al momento decisivo, l’ordigno tocca il suolo ed esplode, il pilota vede una nuvola di fumo nero alzarsi dal campo, l’esplosione esalta l’aviatore e allo stesso tempo turba l’equilibrio del campo, che certo non immaginava cosa stava accadendo. Prima d’allora non era mai successo nulla di simile, prima d’allora nessun’aereo da ricognizione aveva mai sganciato bombe.

Il racconto di Gavotti continua e ci dà un altre informazioni, ci dice che nonostante il successo in realtà l’obiettivo a cui aveva mirato è stato mancato, ma ciò nonostante è soddisfatto del risultato e decide quindi di ripetere l’esperimento, lanciando altre bombe “Io veramente avevo mirato il grande ma sono stato fortunato lo stesso; ho colpito giusto. Ripasso parecchie volte e lancio altre due bombe di cui però non riesco a constatare l’effetto. Me ne rimane una ancora che lancio più tardi sull’oasi stessa di Tripoli.”

In questo passaggio Gavotti ci ha ha detto qualcosa che in realtà già conoscevamo, questo tipo di azioni si porta dietro molta imprecisione, Gavotti è stato fortunato, molto fortunato, probabilmente la sua conoscenza delle leggi della fisica gli hanno permesso di stimare e calcolare ad occhio il momento esatto in cui lanciare l’ordigno affinché questo potesse avvicinarsi il più possibile al bersaglio.

Conoscendo infatti l’altezza, la velocità e la direzione dell’aereo, per un ingegnere con una formazione da aviatore non doveva essere troppo difficile calcolare la traiettoria del lancio, e il caso volle che Gavotti fosse proprio un ingegnere con una formazione da aviatore e probabilmente questa stessa azione, portata avanti da un qualsiasi altro aviere, non avrebbe avuto lo stesso risultato.

Queste fortuite coincidenze non sappiamo quanto siano fortuite e quanto siano coincidenze, per quanto ne sappiamo, l’intera operazione fu un azione individuale, ma possiamo immaginare che forse, Gavotti fu scelto, proprio per l’insieme delle proprie esperienze, come campione ideale per questo test.

Dalla lettera al padre Gavotti appare molto soddisfatto del successo ottenuto e ansioso di riferire l’esito dell’operazione ai propri superiori “Scendo molto contento del risultato ottenuto. Vado subito alla divisione a riferire e poi dal Governatore gen. Caneva. Tutti si dimostrano assai soddisfatti”

Le ultime parole della lettera sono molto particolare ed interessante, se si trattasse di un iniziativa individuale Gavotti sarebbe colpevole di aver rubato degli ordigni, di aver portato avanti un azione offensiva senza autorizzazione e di aver messo a rischio un aereo del regio esercito, tutti fattori che lo avrebbero portato di fronte alla corte marziale, ma noi sappiamo che Gavotti venne celebrato come eroe di quella guerra e che ricevette, per le proprie azioni, una medaglia d’argento per il valore militare, e questo ci fa supporre che, nonostante non esistano ordini scritti, questa operazione fu autorizzata dall’alto.Album dei Pionieri della Aviazione italiana, Roma 1982 Stampato presso Tipolitografia della Scuola di Applicazione A.M. – FI 1982.

Gli sports meccanici, Roma, 15 maggio 1933;
G. Dicorato, G. Bignozzi, B. Catalanotto, C. Falessi, Storia dell’Aviazione, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1973.
R.G. Grant, (ed. italiana a cura di R. Niccoli), Il volo – 100 anni di aviazione, Novara, DeAgostini, 2003,

Chi era Leopoldo II del Belgio ?

Leopoldo II del Belgio è un re dal doppio volto, apparentemente illuminato in europa, ma demoniaco in Africa

Leopoldo II del Belgio, nato Leopoldo Luigi Filippo Maria Vittori di Sassonia-Coburgo-Gotha, principe del Belgio, duca di Brabante e re dei Belgi, dal 10 dicembre 1865 al 17 dicembre 1909.

Leopoldo II del Belgio era il secondo figlio di Leopoldo del Belgio, il primo re del Belgio e soprattutto dei Belgi, e di conseguenza era un cugino, da lato materno della regina Vittoria e dal lato paterno, era anche cugino del principe consorte Alberto, marito di Victoria, e proprio durante il regno di sua cugina, trovò rifugio in Inghilterra, quando nel 1848, suo nonno, Luigi Filippo duca d’Orleans e re dei Francesi, venne deposto nel contesto della seconda rivoluzione Francese.

Il re dei Belgi

Leopoldo II del Belgio è quindi un uomo totalmente immerso nella storia del proprio tempo, conosce perfettamente le dinamiche, gli equilibri e le meccaniche dell’europa del secondo XIX secolo, e quando, nel 1865 succedette a suo padre al trono del Belgio come re dei Belgi, fu, in un certo qual’modo, costretto ad essere un re al passo con i tempi.

Aveva appreso dalla permanenza britannica i segreti per la sopravvivenza e il mantenimento della corona, ed aveva appreso dalla giovanile permanenza in francia, e da suo nonno, gli errori da non commettere se si voleva restare sul trono, inoltre, aveva appreso da suo padre, l’importanza di costruire una solida rete di alleanza internazionali, tali da rendere anche un piccolo regno come quello del Belgio, centrale nello scacchiere europeo e internazionale.

Leopoldo aveva tutte le carte in regola per essere, in europa, un grande e brillante sovrano, potremmo quasi definirlo un sovrano illuminato, che , proprio grazie alle proprie alleanze e parentele, sarebbe riuscito, nel 1884-85, durante la conferenza dell’Africa occidentale, a Berlino nota anche come conferenza di Berlino, ad ottenere per se, un piccolo pezzo d’Africa, durante il processo di ripartizione continentale tra le potenze europee.

Il re del Congo

Nel 1885 Leopoldo II del Belgio assume sulla propria testa una seconda corona, la corona di re del Belgio.

Già nella dicitura possiamo individuare un interpretazione monarchica differente rispetto alla corona belga, in Belgio Leopoldo era Re dei Belgi, per volontà del popolo del Belgio, in Congo invece, adottava una dicitura antica, quella di Re del Congo, una dicitura propria dell’ancient regime e delle monarchie assolute svanite con la rivoluzione Francese e successivamente congresso di Vienna (nel caso britannico, con la gloriosa rivoluzione e in Russia con la rivoluzione di febbraio). Insomma, una dicitura che era stata spazzata via dall’Europa con insurrezioni, rivolte, e fiumi di sangue, ma l’Africa non era Europa, l’Africa era un mondo a se, e lì, i nobili principi del mondo moderno, vennero presto a mancare.

L’imperialismo ottocentesco non appartiene solo a Leopoldo del Belgio, ma viene praticato, in maniera violenta e a tratti spietata un po’ da tutte le potenze europee, tuttavia, nel Congo di Leopoldo, ci si spinse forse un po’ troppo oltre, raggiungendo un livello di crudeltà e disumanità, che nella storia può essere associato soltanto al III Reich.

Il regno di Leopoldo I del Congo, rappresenta uno dei capitoli più cruenti, oscuri, violenti e vergognosi della storia dell’intera umanità e fu caratterizzato da una politica interna terrificante e disumana che si spinse oltre ogni limite e ogni immaginazione.

Gli orrori di Leopoldo in Congo

Mutilazioni, umiliazioni, stupri, decimazioni ecc vennero usati come strumenti punitivi, nei confronti della popolazione indigena del Congo, una popolazione che fu totalmente ridotta in schiavitù, attraverso la pratica di quello che oggi è noto come colonialismo privato, ovvero la concessione di licenze di sfruttamento territoriale a privati investitori che, in possesso di quella licenza assumevano pieni diritti sulla terra, entro certi confini stabiliti d’ufficio, e tutto ciò che si trovasse entro quei confini.

Questo tipo di colonialismo, alimentato dall’avidità del re e dei colonizzatori, ebbe come principale effetto, la reintroduzione della schiavitù in Congo, che si tradusse immediatamente in condizioni di vita e di lavoro al limite.

I colonizzatori privati di Leopoldo scoprirono ben presto che la paura era uno strumento estremamente efficace per aumentare la produttività dei propri schiavi e che, più crudeli erano le punizioni inflitte, minori erano le diserzioni, e l’unico effetto collaterale era un elevato tasso di mortalità, che però, era soppiantato da una riserva di schiavi, quasi illimitata.

Tra il 1885 e il 1909 la situazione del Congo è indescrivibile, e la popolazione indigena perde ogni tratto di umanità, poiché ridotti alla fame, costretti al lavoro continuo, perennemente incatenati, e sistematicamente mutilati e decimati.

L’apice della crudeltà venne raggiunta quando alcune compagnie coloniali svilupparono un metodo di controllo sulla popolazione indigena che consisteva nel creare coppie di lavoro, due uomini venivano incatenati insieme e se uno dei due non lavorava al giusto ritmo, l’altro era obbligato a punirlo. Queste fustigazioni avvenivano in pubblico, e purtroppo, rappresentavano solo l’inizio, di un lungo viaggio all’inferno.

Gli schiavi vennero sistematicamente mutilati e decimate, le donne vennero sistematicamente stuprate e vendute come oggetti di piacere se erano fortunate… se non lo erano, il loro destino era quello di diventare mettere al mondo nuovi figli, per alimentare le fila di lavoratori.

Nel caso non fosse chiaro cosa significa, stiamo parlando di allevamenti intensivi di schiavi, in cui le donne venivano stuprate e costrette a partorire bambini destinati a diventare schiavi. Schiavi che avrebbero iniziato a lavorare nei campi di gomma, o come servitori nelle residenze private, appena ne avessero avuto la capacità fisica, parliamo di schiavi bambini di cinque o sei anni al massimo, e di bambine stuprate al primo mestruo.

Questo è il Congo di Leopoldo I del Congo, e non c’è da stupirsi se alla sua morte la corona del Congo sarebbe svanita e il suo successore in Belgio, Alberto I del Belgio, nipote di Lopoldo II e figlio di Filippo del Belgio (terzogenito di Leopoldo I) avrebbe preso totalmente le distanze dal regno e dalla politica di suo zio, e durante la I guerra mondiale, avrebbe dichiarato il Belgio neutrale, poiché, a suo dire, di orrore e di sangue, la corona belga ne aveva già versato troppo.

Per approfondire

G. Piccolino, Vive la civilisation! Re Leopoldo e il suo Congo, https://amzn.to/320uaHw
M.Camargo Milani , Genocídio no Congo: Leopoldo II, o Imperialismo e o Holocausto Africano ( 1885-1908), https://amzn.to/2PrZrAu
M.Twain, Soliloquio di re Leopoldo. Apologia del suo ruolo in Congo, https://amzn.to/2N2oXuF
E.Hobsbawm, L’età degli imperi (1875-1914), https://amzn.to/2JzSx8y
M.Bloch, La società Feudale, https://amzn.to/2MZvGoX
J.Newsinger, Il libro nero dell’impero britannico, https://amzn.to/2MX5I5w

La Breccia di Porta Pia, cosa è successo il 20 settembre 1870 ?

Con la breccia di porta Pia, Roma capitola, lo stato pontificio smette di esistere e l’Italia completa la propria unificazione, ma cosa è successo esattamente il 20 settembre 1870?

La presa di Roma del 20 settembre 1870 nota anche come capitolazione di Roma o Breccia di porta Pia, è uno degli episodi più iconici del risorgimento italiano, oltre ad essere passato alla storia come l'atto finale dell'unificazione italiana ed uno dei passaggi conclusivi dell'Ancient Regime, ma cosa è successo esattamente in questa data storica che, per oltre 70 anni è stata una delle più importanti ricorrenze e festività del regno d'Italia? 

Come sempre andiamo con ordine, e cerchiamo di fare chiarezza.

La prima cosa da sapere a proposito del 20 settembre 1870 è che questa data rappresenta soltanto l’atto finale dell’intera “guerra” Italo-Pontificia, ovvero della guerra tra il Regno d’Italia e lo Stato Pontificio, la prima, una monarchia parlamentare estremamente giovane, la seconda, una monarchia assoluta, di stampo tradizionale, anchessa politicamente molto giovane, in quanto lo stato pontificio esisteva ufficialmente come entità politica, soltanto dal 1815.

Lo scontro militare tra i due regni italici inizia ufficialmente sul finire di Agosto e i primi di Settembre del 1870, quando, il regno d’Italia, dichiara guerra allo Stato pontificio, con l’intenzione di annettere i suoi territori a quelli del regno italico.

La prima mobilitazione vede l’invio di circa 50 mila uomini ai confini, settentrionale e meridionale, dello stato pontificio, in attesa di una mossa dell’esercito papale, in quel momento, sotto il comando dello stato maggiore pontificio, incarnato dai generali Hermann Kanzler, di origini tedesche e Fortunato Rivalta, di origini italiane.

I due Generali, all’avvicinarsi delle truppe italiche, si mobilitano per difendere i territori papali, e concentrano le proprie risorse e uomini nella capitale dello stato, Roma, la cui capitolazione avrebbe significato la fine dello stato pontificio.

Il 10 Settembre 1870, il luogotenente Generale del Regno d’Italia, Raffale Cadorna (padre di Luigi Cadorna e fratello minore di Carlo Cadorna) al comando spremo dell’operazione, cui facevano capo i Generali sul campo Nino Bixio, Enrico Cosenz, Gustavo Mazè de la Roche, Emilio Ferrero e Diego Angioletti, ricevette l’ordine di oltrepassare il confine con lo stato Pontificio ed iniziare l’occupazione.

Nei cinque giorni che seguono il 10 settembre, i vari generali riescono ad occupare diverse aree e città, senza incontrare troppa resistenza, lungo la via che li avrebbe condotti a Roma.

Il primo battaglione a valicare il confine era sotto il comando diretto di Nino Bixio, che diresse su Viterbo, per poi raggiungere Roma.

Il 15 Settembre l’esercito del regno d’italia, composto principalmente da Carabinieri e Bersaglieri, era giunto alle porte di Roma, che, in previsione dell’arrivo delle truppe italiche erano state chiuse e le mura erano state armate per ordine diretto del generale Kanzler. Sempre il 15 settembre, Cadorna inviò un emissario presso il comando romano, con una lettera destinata al comandante Kanzler in cui gli veniva richiesto di aprire le porte della città e permettere un occupazione pacifica di Roma. Kanzler, il cui compito primario era difendere l’integrità dello stato pontificio e Roma, per “ovvie ragioni” declinò l’invito, informando Cadorna che i suoi uomini, coadiuvati da numerose milizie cittadine, avrebbero difeso la città con ogni mezzo a loro disposizione.

Inizia così un breve assedio di Roma, nell’attesa di più precisi ordini sul da farsi. Nel mentre, Papa Pio IX minaccia la scomunica per chiunque avesse dato ordine di attaccare Roma. Una minaccia che in altri tempi avrebbe avuto come effetto la fine quasi immediata del conflitto e il ritiro delle forze italiche, ma quella minaccia, nel tardo XIX secolo, in uno stato relativamente moderno, una monarchia parlamentare, il cui Re era Re per volontà del popolo italiano e non per un qualche mandato divino, risuonavano come aria fritta, e non ebbero quasi alcun effetto.

Alla fine, l’ordine di attaccare Roma, arrivò, come dicevo, le minacce del pontefice non ebbero quasi alcun effetto, dico quasi perché qualche effetto in realtà ci fu, dato che, l’ordine esecutivo di attaccare Roma, e iniziare il cannonamento delle mura, non arrivò da Cadorna, bensì dal Capitano di artiglieria Giacomo Segre, che, essendo di origini ebraiche, non poteva essere scomunicato.

Giacomo Segre all’alba del 20 Settembre ca così l’ordine di attaccare le mura romane e il cannoneggiamento inizia alle ore 5:00 del mattino, ed ha come primo bersaglio Porta San Giovanni, cui seguono in rapida successione Porta San Lorenzo e Porta Maggiore e, alle ore 5:10, inizia l’attacco anche su Porta Pia.

Il cannoneggiamento prosegue incessantemente per oltre 4 ore, e si interrompe brevemente verso le ore 9:00 circa, quando, alcuni osservatori notano una breccia a circa 50 metri a sud da Porta Pia, per verificare l’effettiva presenza della breccia, vengono inviati alcuni bersaglieri e alle ore 9:30 circa, verificato il cedimento delle mura, Cadorna ordina di concentrare il fuoco sulla breccia, al fine di allargarla abbastanza da permettere ai propri uomini di poter passare e fare irruzione nella città, senza che questi corressero il rischio di fare da bersagli per il tiro a segno, passando in uno spazio estremamente ristretto e sotto il fuoco nemico.

Alle ore 9:35 i cannoni di Cadorna ricominciano a fare fuoco sulla breccia e dopo circa dieci minuti di fuoco concentrato, alle 9:45 la breccia era larga circa 30 metri, abbastanza da permettere agli uomini di passare in tutta sicurezza.

A questo punto i generali Mazè e Cosenz vengono incaricati di formare delle unità d’assalto, e prepararsi all’irruzione nella capitale pontificia, tuttavia alle ore 10:00 dalle mura capitoline viene issata la bandiera bianca, segno universale di resa da parte dello stato pontificio e dunque un invito al cessate il fuoco.

Roma ormai è Caduta, gli uomini di Kalzner e Rivalta si sono arresi, le milizie cittadine hanno ricevuto l’ordine di non proseguire gli scontri, ma, il Generale Nino Bixio non è dello stesso avviso ed i suoi uomini continuano a far fuoco per altri trenta minuti abbondanti, con l’intento di disincentivare ogni possibile resistenza, ma de facto ottenendo l’effetto opposto, le milizie cittadine, vedendo la resa non rispettata, decidono a loro volta di continuare la resistenza, con conseguenti scontri dentro le mura che avrebbero portato a numerose vittime “civili” e arresti. Le operazioni di guerriglia entro le mura continuano fino alle 12/13, per poi ridursi progressivamente fino a cessare completamente.

Alle ore 17:30, i generali dello stato maggiore dello stato pontificio, Kalzner e Rivalta, firma la capitolazione di Roma, che dal 21 settembre passò ufficialmente sotto il controllo delle milizie del regno d’Italia.

La capitolazione di Roma però non segna automaticamente la fine degli scontri, infatti Roma era Caduta, ma lo stato pontificio continuava ad esistere politicamente, le milizie locali e cittadine continuavano ad essere fedeli al papa.

L’esperienza dello Stato Pontificio termina ufficialmente il 27 settembre 1870, quando il regio esercito italiano, riesce ad occupare anche Castel Sant’Angelo, riducendo così al solo “stato Vaticano”.

L’annessione dello stato pontificio al regno d’italia, viene consacrata e riconosciuta ufficialmente in seguito ad un plebiscito di annessione tenutosi il 2 ottobre.

Tra le conseguenze dell’a guerra Italo Pontificia, vi sono la celebre disposizione papale del Non Expedit, con cui il pontefice invitava i cattolici italiani a non esercitare il voto nello stato italiano, e il non riconoscimento della sovranità italiana su territori dell’ex stato pontificio, da parte del pontefice.

Dall’altra parte, per riallacciare i rapporti tra stato e chiesa, il regno d’Italia produsse la, meno nota, legge delle guarentigie, votata in parlamento il 13 maggio 1871, legge n.214, avente titolo ufficiale “Legge sulle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede, e sulle relazioni dello Stato con la Chiesa.” , questa legge, che verrà poi sostituita dai patti lateranensi del 1929.

La legge delle Guarentigie si componeva di 20 articoli suddivisi in due sezioni, nella prima sezione si faceva riferimento alla figura papale, garantendone l’inviolabilità della persona, gli onori sovrani, il diritto di avere al proprio servizio guardie armate a difesa dei palazzi vaticani, Laterano, cancelleria e Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo. Questi palazzi erano riconosciuti dalla stessa legge come extraterritorialità e di conseguenza erano esenti dalle ordinarie leggi italiane. Inoltre, veniva garantita allo stato vaticano la piena libertà di comunicazione postale e telegrafica, oltre al diritto di rappresentanza diplomatica. Infine, ma non meno importante, si garantiva allo stato vaticano, un versamento annuo di lire 3.225.000 (pari a circa 14,5 milioni di euro) per il mantenimento del pontefice, del Sacro Collegio e dei palazzi apostolici.

Nella seconda parte della legge invece si regolavano i rapporti effettivi tra lo stato Italiano e la Chiesa cattolica, garantendo a entrambi la massima pacifica indipendenza, inoltre al clero veniva riconosciuta illimitata libertà di riunione e si esoneravano i vescovi dal giuramento al Re, in quanto, considerati dallo stato italiano come dei rappresentanti/ambasciatori di uno stato estero, e, sulla stessa linea, le chiese erano assimilate allo status di “ambasciata”.

Bibliografia
M.Borgogni, La gloria effimera. Forze armate e volontari dalla prima guerra d'indipendenza alla breccia di Porta Pia (1848-1870)
G.Darby, The Unification of Italy by Mr Graham Darby
A.M.Banti, Il risorgimento Italiano
G.Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell'Italia contemporanea
G.Calchi Novati, Il canale della discordia. Suez e la politica estera italiana
E.Hobsbawm, Il trionfo della Borghesia
A.M.Banti, L'età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all'imperialismo

La Presa di Roma e la sua importanza epocale, che va oltre l’Unità d’Italia

L’importanza storica della Presa di Roma (20 Settembre 1870) va ben oltre l’effimera e regionale Unificazione Italiana, la presa di roma segna un passaggio epocale ed è un avvenimento, che per importanza, è assimilabile alla presa della bastiglia e la presa del palazzo di inverno

L’importanza storica della Presa di Roma (20 Settembre 1870) va ben oltre l’effimera e regionale Unificazione Italiana. La presa di roma segna un passaggio epocale ed è un avvenimento, che per importanza, è assimilabile alla presa della bastiglia e la presa del palazzo di inverno.

Il 20 Settembre 1870, i manuali di storia contemporanea italiani, ci insegnano essere la data finale dell’unificazione italiana, la presa di roma è, e rappresenta, l’ultimo atto ufficiale del processo unitario, iniziato in sordina, tra moti rivoluzionari e ambizioni politiche di regni italici, nella prima metà del XIX secolo.

Ma il 20 settembre è anche altro, e la sua importanza storica viaggia ben oltre i confini nazionali, ponendosi, sul piano internazionale, alla stregua di avvenimenti come la presa della Bastiglia e la presa del palazzo d’Inverno di Pietrogrado (poi San Pietroburgo) in Russia.

Questi tre avvenimenti, insiema al congresso di vienna e i moti del 40, rappresentano a pieno, l’intero excursus del cambiamento epocale che porta l’età Moderna, caratterizzata dal sistema politico noto come Ancient Regime, ad un nuovo sistema politico, sociale e culturale, proprio dell’età contemporanea, ma andiamo con ordine.

La presa della Bastiglia, come è noto, è uno degli avvenimenti simbolici più importanti della Rivoluzione Francese, rivoluzione che segna il punto di inizio di un lungo e lento processo evolutivo che avrebbe attraversato tutta l’europa. Per quanto riguarda la bastiglia, l’assalto a questa struttura è stato spesso associato a due ragioni, la prima, più importante, di carattere politico, la seconda, meno incisiva, ma comunque importante, di carattere strategico militare.

La Bastiglia era percepito nella Francia del tempo, come uno dei simboli tangibili del dispotismo monarchico, una prigione politica, in cui erano rinchiusi per lo più oppositori del Re, oppositori della monarchia. La Bastiglia era una struttura militare fortificata, protetta da uomini armati e che ospitava, nel proprio arsenale, un discreto quantitativo di armi, munizioni e polvere da sparo, e la possibilità di mettere mano su queste risorse delinea il carattere dtrategico/militare dell’assalto alla bastiglia.

Come anticipavo, in realtà la ragione è per lo più politica, visto che era era “protetta” da circa 32 guardie svizzere, 82 soldati francesi invalidi di guerra, ed ospitava circa 30 cannoni, e il grande bottino di guerra che poteva offrire si cortituiva di circa 250 barili di polvere da sparo (contenenti circa 20.000 kg di polvere pirica) e circa 28.000 fucili che, possono sembrare tanti, ma non lo sono affatto, visto che le armi dell’epoca erano a colpo singolo e richiedevano diversi minuti per essere ricaricate prima di poter riaprire il fuoco, e questo significa che, durante un assalto, mentre un soldato sparava, un altro soldato ricaricava i fucili, ma nel frattempo, il soldato che sparava, utilizzava altri fucili, in caso di mobilità, un unità di questo tipo contava su circa 3 fucili, mentre in situazioni meno concitate e più stazionarie, ogni soldato disponeva in media di circa 10 fucili.

Tornando ai numeri della bastiglia, 28.000 fucili, potevano armare in maniera efficace, circa 3.000 uomini, o al massimo 10.000 o addirittura 28.000, dando loro, in questo caso, un’irrisoria capacità di fuoco.

Certo, va detto che la Bastiglia fu assaltata da circa 600 uomini, e quella quantità di polvere da sparo e fucili, per 600 uomini è più che sufficiente, tuttavia, 600 uomini, senza alcun addestramento militare possono avere a disposizione anche 1000 fucili cadauno, e risultare comunque poco efficaci in combattimento, ma questa è un altra storia.

Come dicevo, la presa della Bastiglia, è un evento più che altro simbolico, segna lo scontro con l’autorità monarchica, segna l’apertura del conflitto reale tra popolo e aristocrazia, segna l’inizio della fine di quello che è noto come Ancient Regime.

Ad ogni modo, dalla rivoluzione francese si passa al terrore, poi all’età Napoleonica, e per oltre 30 anni, l’antico ordine politico europeo e nella fattispecie Francese, sembra sgretolarsi, almeno fino al congresso di Vienna, in cui viene passata una mano di spugna sulle trasformazioni post rivoluzionarie e napoleoniche e l’europa torna, almeno sulla carta, ad avere lo stesso aspetto che aveva nel 1789, ovvero prima dell’inizio della Rivoluzione, le antiche case reali vengono riportate sui rispettivi troni e, si introduce un concetto tanto antico quanto nuovo, si introducono il principio di legittimità e concetto di “mandato divino” ovvero, il potere monarchico, l’autorità reale e imperiale, deriva direttamente da Dio, i Re, le Regine e gli Imperatori d’europa, sono tali perché è Dio che ha voluto così, e in quanto vicario di dio sulla terra, il ponetefice è interprete della sua volontà.

Con il congresso di Vienna il papato, diventa una monarchia assoluta che estende il proprio controllo diretto su di un ampio territorio nell’italia centro settentrionale, questa monarchia prende il nome di Stato Pontificio ed esiste ufficialmente, e soprattutto politicamente, dal 1815 al 1870, più precisamente, fino al 20 settembre 1870, interrotto brevemente dall’esperienza della Repubblica Romana del 1848.

Nel 1848, le assi portanti dell’europa costruita nel congresso di vienna, vengono a mancare, in particolare il mandato divino, l’autorità monarchica concessa direttamente da Dio, non ha più alcun valore, e il principio di legittimità, che legittima le monarchie europee si trasforma, affondando le proprie radici nella volontà popolare, i re non sono più sovrani, ma semplici regnanti, governatori che possono esercitare il proprio potere solo e se, è il popolo a delegare loro quella autorità. Max Weber nel suo saggio sul potere definisce diversi metodi di legittimazione del potere, tra cui rienrano la legittimazione popolare, propria delle monarchie parlamentari e delle repubbliche, e la legittimazione tradizionale, in cui rientrano le monarchie assolute.

Questi due sistemi di legittimazione, sono in aperto contrasto tra loro, il re o è legittimato da dio o dal Popolo, e con la primavera dei popoli che si conclude nel 1848, il secondo sistema di legittimazione si sostituisce, in più o meno tutta europa, alla legittimazione tradizionale.

Restano però, ancora vincolati all’Ancient Regime, l’impero Zarista, la cui casa regnante però, non è di fede cattolica e dunque non è consacrata dal pontefice e dalla chiesa romana, e l’impero ottomano, di fede islamica e la cui casa regnante, a sua volta non è consacrata dal papa e dalla chiesa romana e in fine, ma non meno importante, lo stato pontificio, questa volta di fede romana, unica teocrazia europea, il cui Re Imperatore è il Papa. Apro una piccola parentesi a proposito del Regno unito, che, se bene sia ufficialmente di fede Anglicana e la Regina/Re (in quest ocaso la regina Vittoria) è ufficialmente a capo della chiesa anglicana, Vittoria è in un certo senso di fede cattolica, come anche suo marito il principe Alberto e la casa regnante Britannica, per quanto autonoma rispetto alla chiesa romana, tende in questo periodo storico, ad essere molto vicina alla chiesa romana e tiene in grande considerazione l’opinione papale.

Con il 1848 la storia assiste al tramonto dell’antico regime, ma come è noto, tra il tramonto e l’inizo della notte vera e propria, passa qualche ora, e in queste ore l’Ancient Regime continua ad esistere in europa attraverso le monarchie assolute dello stato pontificio, dell’impero zarista e di quello ottomano.

Mettendo da parte Russia e Impero Ottomano, lo stato Pontificio rappresenta, in europa, l’ultimo vero baluardo dell’Ancient Regime, e questo ci porta direttamente al 1870.

Nel 1870 lo stato pontificio cade, viene completamente cancellato e i suoi territori vengono annessi al Regno d’Italia. Questo avvenimento è sì, l’atto finale dell’unificazione italiana, come ci è stato insegnato a scuola, ma come dicevo, è molto di più, prché è anche l’atto finale del potere politico del Papa in Europa (e fuori dall’europa), è il vero atto conclusivo dell’Ancient Regime.

Nel 1870 l’Italia, perché nel 1870 l’italia esisteva ormai politicamente da circa un decennio, può permettersi di dichiarare guerra allo stato Pontificio, può permettersi di attaccare Roma, fare breccia tra le sue mura e persino mettere in fuga il Papa, senza alcuna ripercussione.

Già in passato il Papa e la curia romana erano stati attaccati e messi in fuga ma, diversamente dal 1848 e dall’esperienza della repubblica romana durata meno di un anno perché Luigi Napoleone Bonaparte, meglio noto come Napoleone III, presidente della repubblica francese e fondatore del secondo impero, era intervenuto al fianco del Papa per liberare la città e, andando ancora più all’indietro e spingendoci fino al medioevo, quando un papa era sotto attacco, era minacciato da forze e correnti politiche sempre interne alla chiesa cattolica che vedevano in altri uomini la “vera” leadership papale. Insomma, in passato il papa era stato attaccato da alti prelati che ambivano a sostituirlo con altri pontefici, in questo caso invece, con la presa di roma del 1870, il papa viene semplicemente messo all’angolo, gli viene chiesto gentilmente di accomodarsi fuori dalla città degli imperatori, da quella città che un tempo era stata la capitale del mondo intero.

Qualcuno a questo punto potrebbe chiedersi:

Perché prendere roma nel 1870 e non prima, perché non attaccare Roma nel 1860 e far proseguire l’armata garibaldina ben oltre Teano?

Il motivo è politico, ma anche militare ed economico, insomma, è complicato.

Nel 1860, il papa, anche se molto depotenziato rispetto al passato, (depotenziamento iniziato in seguito al 1848 e conclusosi sul finire degli anni 60 del diciannovesimo secolo) era ancora molto influente e soprattutto, aveva molti alleati ed erano alleati del papa, sia alleati che i nemici di casa Savoia. Roma nel 1860 era alleata dell’Austria, con cui i Savoia erano in guerra, ma era anche alleata con la Spagna, con la Francia di Napoleone III e con l’Impero Britannico, e se da un lato il conflitto tra i Savoia e l’Austria-Ungheria era percepito all’estero come qualcosa di poco più grande di una banale disputa territoriale e, sulla base di quanto emerso dalla Guerra di Crimea, in cui ricordiamo che il Regno di Piemonte aveva partecipato al fianco di Francia e Regno Unito, Il Regno di Piemonte era legittimato a reclamare quei territori “occupati” dall’Austria, e dunque Francia e Regno Unito, non sarebbero intervenuti, o almeno non al fianco dell’Austria, va inoltre detto che, per quello che stava avvenendo in europa e nel mediterraneo, Francia e Regno Unito in primis, erano in un certo senso favorevoli all’idea di depotenziare ulteriormente l’impero Asburgico.

Diversamente però, fare guerra allo stato pontificio, era molto più complicato, non era più una disputa territoriale in cui il Regno di Piemonte era legittimato a rivendicare dei territori occupati da una potenza straniera, e questo perché, diversamente dall’Austria, lo stato pontificio godeva della stessa legittimità storica, culturale, politica e tradizionale del regno di Piemonte, nell’esercitare il proprio controllo sulla penisola italica e sull’Italia, dunque, i principi emersi dalla guerra di Crimea, che impedivano a Francia e Regno Unito di intromettersi nella guerra tra Italia e Austria, non erano validi in un ipotetico scontro tra Italia e Stato Pontificio. Va inoltre detto che la regina Vittoria a Londra e Napoleone III a Parigi, erano in ottimi rapporti con il pontefice e senza troppe licenze, avevano avvertito casa Savoia di un loro possibile intervento al fianco del pontefice, se l’Italia, nel suo processo unitario avesse inglobato militarmente lo stato pontificio. Specifico Militarmente perché un annessione politica e pacifica, che avrebbe portato ad un Italia Federale composta da due o tre stati, era invece ben vista sia dalla Francia che dal Regno Unito.

Cosa è cambiato nel 1870?

Nel 1870 è cambiato tutto, sono cambiati gli equilibri, sono cambiate le alleanze, è cambiata la percezione della chiesa, è cambiato il peso di Roma fuori dalla penisola italica ma soprattutto, è cambiato il ruolo dell’Italia nell’asset globale.

L’Italia durante l’età moderna ha visto un suo progressivo decentramento, in conseguenza dello slittamento delle vie commerciali dal mediterraneo al nord atlantico, l’Italia era bloccata nel mediterraneo, un mare chiuso, isolato dal resto del mondo.

Nel 1870 non era più così perché nell’anno precedente, nel 1869 era stati completati i lavori di costruzione del Canale di Suez, finanziato da Francia e Regno Unito, e la sua innaugurazione era la cosa migliore che potesse capitare all’Italia, perché regalava dava all’Italia una nuova e rinnovata centralità nel commercio internazionale e se da un lato Suez e Gibilterra erano diventati improvvisamente , da un giorno all’altro dei passaggi obbligati per chiunque volesse attraversare il Mediterraneo, e andare dall’Europa all’Asia, senza circumnavigare dell’Africa ed evitando il passaggio terrestre del medio e vicino oriente, dall’altro lato, l’Italia, con la sua centralità nel mediterraneo, rappresentava un importante snodo commerciale che avrebbe semplificato l’afflusso di merci in Europa, risparmiando giorni e settimane di navigazione, ma perché questo accadesse era necessario che l’Italia non fosse più divisa in due stati e che, lo stato pontificio che spaccava in due il Regno d’Italia, poteva essere inglobato nel regno d’Italia.

In questo contesto storico, ormai privo di coperture politiche e militari, il papa si trova da solo contro il regno d’Italia, che può quindi attaccarlo su due fronti e in poco, pochissimo tempo, riescire a fare breccia tra le mura capitoline e prendere Roma, completando ufficialmente quel processo unitario iniziato più di 20 anni prima, per assurdo, proprio a Roma, in quella città in cui si erano manifestate le prime istanze unitarie e dove per la prima volta, durante la fallimentare esperienza repubblicana del 48, si era parlato, per la prima volta nell’età contemporanea, di Italia come nazione.

Bibliografia
M.Borgogni, La gloria effimera. Forze armate e volontari dalla prima guerra d'indipendenza alla breccia di Porta Pia (1848-1870)
G.Darby, The Unification of Italy by Mr Graham Darby
A.M.Banti, Il risorgimento Italiano
G.Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell'Italia contemporanea
G.Calchi Novati, Il canale della discordia. Suez e la politica estera italiana
E.Hobsbawm, Il trionfo della Borghesia
A.M.Banti, L'età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all'imperialismo

Mussolini tagliò il debito italiano, ma la verità è leggermente più complicata

Benito Mussolini è stato l’unico uomo ad aver cancellato il debito pubblico italiano, ma questo taglio è costato all’Italia molto più del debito, ed ha alimentò una preesistente svalutazione monetaria e produsse l’impossibilità per l’italia di ottenere nuovi prestiti e finanziamenti da parte degli investitori esteri.

Qualche giorno fa, su un noto quotidiano molto schierato politicamente e noto per titoli forti e di cattivo gusto, ho letto un articolo in cui si affermava che, Benito Mussolini è stato l’unico uomo ad aver tagliato il debito pubblico italiano. Questa stravagante teoria non è nuova, ed emerge spesso negli ambienti di un certo orientamento politico, vicino agli ideali di Mussolini e del Fascismo, ma corrisponde alla verità o si tratta solo di Propaganda?
Come ogni questione storica, la risposta purtroppo non è semplice, e liquidare il tutto ad una frase non è semplice, ma, al di la della complessità della vicenda, una cosa è certa, dire che Mussolini tagliò il debito italiano è falso, e quando Mussolini nel 1928 bruciò (letteralmente) dei titoli di stato, di fatto bruciò della carta priva di qualsiasi valore. Ma andiamo con ordine.

Mussolini brucia titoli di stato nel 1928.
Mussolini brucia titoli di stato nel 1928.

Prima dell’ascesa al potere di Mussolini e l’avvento del fascismo, l’italia si trovò ad affrontare diversi e gravi problemi di natura economica, elemento che accompagnò tutti i paesi europei impegnati nella grande guerra.

Svalutazione monetaria

Per riavviare il paese, riconvertire il sistema produttivo e rilanciare l’economia, l’italia fece ricorso all’emissione di moneta e a molteplici interventi da parte di Banca d’Italia per “salvare” le aziende in difficoltà. La nuova moneta immessa sul mercato era solo in parte coperta dall’emissione di titoli di stato e di conseguenza la moneta italiana andò in contro ad una forte svalutazione.

L’alta inflazione che ne derivò andò a colpire soprattutto le fasce più povere della popolazione, principalmente lavoratori dipendenti che, allo svalutarsi della moneta ed il conseguente incremento dei prezzi, non videro corrispondere un aumento dei salari.

In questo clima economico, fortemente sfavorevole e di grande tensione si verificarono gli avvenimenti del famoso biennio rosso (1919-1920) che causarono gravi disordini in tutto il paese e spinsero molti lavoratori impoveriti a sostenere il Fascismo poiché, neanche Giovanni Giolitti, che in passato era stato protagonista di una stagione splendente per l’economia italiana, riuscì a risolvere la crisi e sanare il debito crescente.

Questa fu la situazione che spianò la strada alla prese di potere da Quando nell’ottobre del 1922 Vittorio Emanuele III affidò il governo a Mussolini, l’italia si trovava in una situazione stagnante, con un enorme debito crescente alimentato da una moneta molto debole ed un enorme spesa statale.

Questa lunga premessa può sembrare noiosa, ma è fondamentale per capire esattamente se Mussolini riuscì a tagliare realmente il debito, se non lo ridusse ma riuscì comunque a contenerlo o se invece provocò un incremento del debito pubblico italiano.

A questo punto bisogna aprire una breve parentesi sull’orientamento economico del regime, la politica economica fascista, detta della terza via, si colloca in un limbo, una zona grigia intermedia che derivavano dall’orientamento dei vari ministri delle finanze, dall’ideologia fascista e da varie contingenze nazionali e internazionali. E a tal proposito è importante ricordare che, se bene Accentrò nelle proprie mani numerosi ministeri ed esercitò grande influenza e pressioni sui ministeri che non erano di sua competenza, Mussolini non fu mai ministro delle Finanze, del Commercio e del Tesoro. Mussolini fu ministro dell’Areonautica, degli Esteri dell’Africa italiana, delle Colonie, delle Corporazioni, della Guerra, dei Lavori Publici e della Marina, ma nessuno di questi ministeri era in grado di intervenire direttamente sul debito, e anzi, i suoi ministeri erano quelli che assorbirono maggiori risorse economiche, giocando de facto un ruolo attivo nell’incremento e non nella riduzione della spesa, ma andiamo con ordine.

I ministri del Tesoro e delle finanze

Sul piano puramente linguistico possiamo dire con assoluta certezza che Mussolini, attraverso i suoi ministeri, non fece nulla per ridurre il debito, resta però da capire se invece il governo fascista, nel suo complesso, riuscì in qualche modo a ridurre il debito o comunque a contenere la spesa limitando l’aumento del debito.

Tra il 1922 ed il 1925, il ministero delle finanze e del tesoro fu affidato ad Alberto De’ Stefani che attuò una politica di grandi tagli alla spesa pubblica, e cercò di incrementare le entrate, con l’intento di rimettere in ordine il bilancio dello stato. Una politica comune in situazioni di questo tipo, da Agostino Magliani (ministro delle finanze agli albori della prima crisi economica del regno d’italia nell’ultimo quarto dell’ottocento) a Mario Monti.

La Politica economica di De’Stefani

Per quanto riguarda la riconfigurazione delle entrate, De’ Stefani non intervenne aumentando le tasse come spesso avviene, ma al contrario, osservando che una fetta enorme della popolazione era esclusa dalla partecipazione contributiva, fece in modo di allargare la base, tassando quelle fasce sociali fino a quel momento escluse, e allo stesso tempo, ridusse le aliquote per categorie sociali ritenute più inclini all’investimento.

Detto più semplicemente, tassò le fasce più povere della popolazione, fino a quel momento esonerati e ridusse le tasse all’alta e media borghesia, producendo così un incremento delle entrate dovuto al maggior numero di contribuenti.

L’intento di De’ Stefani era quello di rilanciare l’iniziativa privata e ridurre le spese dello stato, spese che, in quel momento, erano rappresentate soprattutto dai salari di dipendenti pubblici, e di conseguenza il taglio della spesa si configurò come un taglio netto nel personale dei settori “improduttivi” dello stato, licenziamento di circa 65.000 impiegati pubblici e circa 27.000 ferrovieri e favorendo l’ingresso dei privati in alcuni settori, fino a quel momento sotto il controllo dello stato, come il settore assicurativo, ferroviario e telefonico.

In termini numerici gli interventi di De’ Stefani furono positivi e il bilancio, almeno quello statale, fu riportato in pari, mentre quello degli enti locali non fu mai parificato durante tutto il ventennio. In ogni caso, questi interventi favorirono una leggera ripresa e innescarono un lieve processo di crescita per il paese che però non risolse il problema monetario, la lira valeva sempre meno e anche se, in termini numerici il debito cresceva più lentamente, il minor valore della lira, rendeva più difficile un suo risanamento.

Fin dai tempi dalla grande guerra la Banca d’Italia si era impegnata nel sostegno delle imprese e banche immobilizzate dalla riconversione e questo impegno continuò durante i primi anni del fascismo, producendo tra il 1922 e il 1925 un incremento di liquidità che portò ad un ulteriore ondata inflazionistica, alimentata da un peggioramento della bilancia dei pagamenti.
Nel 1925 De’ Stefani promosse alcuni provvedimenti che però si rivelarono insufficienti e portarono ad un tracollo della borsa italiana e al fallimento di numerose aziende italiane.

Gli industriali rappresentavano lo zoccolo duro del fascismo ed avevano molta influenza sulle azioni del governo, così, per non perdere il loro consenso, Mussolini sostituì il ministro delle finanze, assegnando l’incarico a Giuseppe Volpi.

La Politica economica di Volpi

Volpi rimase in carica dal 1925 al 1928 e durante il suo mandato giocò un ruolo decisivo per le sorti economiche e di bilancio dell’Italia.

Sul piano internazionale il 1924, con il piano Dawes aveva visto la fine alla questione delle riparazioni tedesche e si stava valutando un ritorno delle nazioni al gold standard per stabilizzare le monete, idea nata in seno al trattato di Versailles.

Nonostante questo però, la forte svalutazione della lira, il peggioramento della bilancia commerciale e numerosi altri fattori speculativi, non resero semplice il lavoro di Volpi e come se non fosse abbastanza, il fallimento del rinnovo dei BOT venticinquennali nel 1924, dovuto alla grande richiesta di liquidità di banche e privati, impedì all’Italia di emettere nuovi titoli di stato.

Nel 1925 il bilancio interno ufficialmente era in pari, ma nei fatti non lo era, nel bilancio infatti non erano stati conteggiati i titoli di stato da ripagare e l’italia, fortemente indebitata, non era in grado di ripagare i propri debiti.

Volpi decise quindi di agire in sintonia con la Banca d’Italia che sostenne il cambio, riuscendo a raggiungere un accordo con gli in investitori americani più favorevole in termini assoluti, ma va precisato gli investitori americani raggiunsero accordi simili in tutta europa e tra i tanti, l’accordo italiano fu quello “meno morbido“, il merito di Volpi non fu quindi quello di aver trovato un accordo favorevole, come spesso si dice, ma fu quello di aver trovato un accordo.

Il prestito Morgan

Sul finire del 1925 il governo statunitense accordò all’Italia un prestito, noto come Prestito Morgan, il cui intento era quello di risollevare la lira, di fatto acquistando parte del debito pubblico italiano. Sulla stessa linea nel gennaio del 1926 l’italia trovò un accordo simile con il regno unito. Secondo questo accordo l’italia cedette al regno unito la propria quota di riparazioni tedesche, gestite della Cassa autonoma di ammortamento dei debiti di guerra, costituita il 3 marzo 1926.
Grazie a questo accordo l’italia riuscì a ripagare parte dei propri debiti esteri, rinunciando al flusso costante di ripartizioni di guerra tedesche.

A questo punto, in termini numerici l’italia era ufficialmente in pari con il bilancio, ma questo pareggio come detto, va contestualizzato e il contesto è quello di un paese che ha dovuto fare letteralmente ricorso al baratto.

L’italia ha “cancellato” il proprio debito consegnando ai propri creditori tutto quello che aveva, l’italia ripaga i propri creditori cedendo titoli esteri acquistati dal tesoro in precedenza e rinunciando alle proprie riparazioni di guerra, dal valore di diversi milioni di marchi pagati in oro ogni anno, pagamenti che la Germania avrebbe interrotto qualche anno più tardi con una decisione unilaterale in seguito all’avvento del Nazismo e di Hitler, e che avrebbe ricominciato a pagare nel secondo dopoguerra.

Il Trattato di Versailes aveva imposto alla Germania il pagamento di 132 miliardi di marchi oro, e parte di quell’oro sarebbe andato all’Italia, e anche se rateizzato, la quota italiana delle riparazioni di guerra aveva un ammontare complessivo enormemente superiore al proprio debito.

In conclusione, se è vero che sul piano linguistico è falso dire che Mussolini tagliò il debito, ma nei fatti questo taglio è riconducibile a Mussolini, allo stesso tempo, è vero dire che il fascismo tagliò il debito, ma nei fatti, questo taglio è costato all’Italia miliardi in oro, avrebbe contribuito ad alimentare una progressiva e crescente svalutazione monetaria e produsse, parallelamente alla cancellazione del debito, l’impossibilità per l’italia di ottenere nuovi prestiti e finanziamenti, trascinando il paese verso un progressivo impoverimento generale che non sarebbe stato possibile disinnescare se non fosse stato per gli aiuti postbellici, ricevuti dopo la seconda guerra mondiale.

Dire quindi che Mussolini e il fascismo hanno “sanato il debito pubblico italiano” è la cosa più falsa che si possa dire.

Fonti e letture consigliate

V.Zamagni, Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie storica, in “Rivista di storia economica”, Il Mulino, 3/1988, dicembre.
P.Frascani, Finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni trenta.
R. de Felice, Mussolini il fascista, la conquista del potere, 1921-1925. https://amzn.to/2NVdhZs
S. Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza fra Giolitti e Mussolini. https://amzn.to/2XR9oJF
G.Mele, Storia del debito pubblico italiano dall’unità ai giorni nostri, Tesi di laurea presso università Luiss, Dipartimento di Economia e Management Cattedra di Storia dell’economia e dell’impresa, A.A. 2014/2015.

Papa: Tra un anno si aprirà l’archivio segreto di Pio XII

Papa Francesco ha dichiarato che dal 2 marzo 2020 verrà aperto alla ricerca l’archivio segreto contenente tutta la documentazione di e su Pio XII. L’archivio comprende tutta la documentazione prodotta dal pontefice, diari personali, lettere ricevute, copie delle lettere inviate e tanto altro ancora. Si tratta di una vera e propria miniera d’oro che, permetterà di guardare sotto una luce nuova il ruolo della chiesa durante la seconda guerra mondiale.

Non so se vi rendete conto della portata epocale di questa dichiarazione, o forse si, ma fingiamo che di no.

Il Papa ha annunciato l’apertura, più o meno al pubblico (più precisamente di aprire alla consultazione dei ricercatori) la documentazione archivistica attinente al pontificato di Pio XII, dalla sua elezione alla sua morte. Documentazione che verrà usata da storici e ricercatori di tutto il mondo per ricostruire il ruolo della chiesa durante la seconda guerra mondiale e che di conseguenza, produrrà una quantità sterminata di articoli, conferenze e libri, che porteranno quelle informazioni “segrete” al grande pubblico oltre che agli addetti ai lavori.

Sul piano storiografico è qualcosa importantissimo, perché l’apertura di questo archivio ampia enormemente le informazioni in nostro possesso, sia per quanto riguarda la seconda guerra mondiale che gli anni immediatamente successivi e l’occupazione sovietica dell’europa orientale.

Papa Pio XII è stato pontefice in un periodo paradossale, sul quale abbiamo tante informazioni, tante fonti, ma allo stesso tempo, sappiamo ancora pochissimo a causa di un enorme vuoto dovuto alla mancanza di informazioni su cosa accadeva nelle retrovie.

Sappiamo cosa facevano i cristiani in questo periodo, ma non sappiamo come lo facevano, non sappiamo perché, non sappiamo quali erano gli ordini partiti da Roma e se c’erano degli ordini o delle indicazioni partite da Roma, non sappiamo come funzionavano le reti di contatti che furono usate dai cristiani durante la seconda guerra mondiale per salvare le vittime del reich dalla deportazione e nel dopoguerra, per salvare le vittime dell’URSS dall’occupazione sovietica dell’est europa e la deportazione, ne sappiamo se queste reti esistevano davvero ed erano supportate da Roma, o se invece erano organizzazioni aliene alla volontà del papa e di fatto erano organizzazioni laiche.

Non abbiamo un idea chiara di quale fosse la reale posizione di Roma, in effetti non abbiamo idea di quale fosse la posizione di Roma e della chiesa, abbiamo solo mille domande che da oltre settant’anni giacciono senza risposta, domande a cui non è stato possibile dare una risposta perché non c’erano fonti o meglio, non c’erano fonti accessibili visto che l’archivio era blindato, e ora questi dubbi mai sradicati, con l’apertura di questo archivio segreto, finalmente possono essere risolti. Finalmente è possibile fare chiarezza sulla posizione della chiesa, almeno durante il mandato di Pio XII.

Papa Pio XII, nato Eugenio Maria Giuseppe Pacelli, detto Pastor Angelicus, è stato in carica dal 12 marzo 1939 al 9 ottobre 1958 e l’apertura del suo archivio segreto, ci fornirà una quantità di informazioni uniche su quegli anni, in particolare sul ruolo della chiesa durante la seconda guerra mondiale e nei primi anni della guerra fredda.

Faccio una piccola considerazione personale, visto che il ruolo di Pio XII è spesso (per non dire da sempre) al centro di polemiche, da alcuni accusato di collaborazionismo, da altri di essersene lavato le mani, da altri ancora è proposto come un eroe che ha salvato migliaia di vite, ipotizzo, che Papa Francesco abbia incaricato una commissione ecclesiastica per verificare il contenuto di questi documenti prima di darli in pasto agli storici e solo dopo aver stabilito se Pio XII aiutò (direttamente o indirettamente) il nazifascismo o lo contrastò (direttamente o indirettamente) siano giunti alla decisione di aprire l’archivio.

Personalmente non credo che Papa Francesco abbia predisposto l’apertura di un archivio che potrebbe in qualche modo “macchiare” la reputazione del suo predecessore e della chiesa senza aver prima presto le dovute precauzioni, credo invece che, credo invece che questa mossa sia di natura “politica” e che abbia un ruolo fondamentale nel dettare la linea d’azione dei cattolici nella società contemporanea.

Ipotizzo, e ci tengo a precisare che le mie sono solo congetture, perché non ho ovviamente visto cosa c’è nell’archivio, che da quell’archivio verrà fuori molto materiale che dimostrerà il ruolo attivo del papato e della chiesa, nella “lotta sotterranea” al nazifascismo prima e al comunismo sovietico dopo, una lotta che vedrà la chiesa impegnata più nelle retroguardie che in prima linea, a difendere il diritto alla vita di atei, ortodossi, ebrei, musulmani, insomma, produrrà l’immagine di una chiesa che negli anni quaranta e cinquanta si è impegnata nella difesa di culture aliene al cristianesimo romano, e fare questa mossa, in anni in cui molti leader politici si fanno portatori di una “moderna crociata” contro culture non cristiane, o semplicemente puntano il dito contro i poveri e gli oppressi, aprire questo archivio, in questo contesto storico, che da molti è proposto come una riedizione in chiave moderna della crisi degli anni trenta e quaranta, rappresenta una presa di posizione importante e forte per la chiesa, che esce dalla sua confort zone, e si mobilita al fianco degli ultimi.

Se questi documenti dovessero dimostrare che, durante la seconda guerra mondiale, Pio XII, da Roma, si è impegnato a contrastare le deportazioni, il razzismo, l’intolleranza culturale, e sono sicuro che il materiale presente in quell’archivio dimostri esattamente questo, perché in caso contrario gli archivi non sarebbero stati aperti, e noi neanche sapremmo della loro esistenza, si tratterebbe di fatto di una chiamata alle armi per i cristiani, l’invito definitivo, da parte del pontefice, ad aiutare “il prossimo” e per prossimo non intende in senso di “prossimità” come qualcuno ha dichiarato recentemente, ma il prossimo è inteso nella sua forma originale cristiana come colui che viene dopo, il prossimo di cui dobbiamo prenderci cura in qualità di cristiani è l’ultimo, il povero, il malato, l’oppresso, il perseguitato, il prossimo è colui che affronta un esodo, attraverso il deserto e attraverso il mare, come fecero nei testi biblici gli ebrei in fuga dall’Egitto.

E questo invito è rafforzato, dall’esempio storico di Papa Pacelli che si è mobilitato per gli ultimi in un momento storico estremamente duro, in cui l’europa era avvolta dal velo oscuro del totalitarismo, e se ci hanno provato in anni in cui aiutare un Ebreo significava mettere a rischio la propria vita e quella dei propri cari, oggi che, aiutare qualcuno non comporta rischi diretti per la propria sicurezza, in teoria, dovrebbe essere più facile.

Personalmente non ho dubbi su cosa verrà trovato in quegli archivi, perché ripeto, se quel materiale rischiasse di compromettere l’immagine di Pio XII gli archivi rimarrebbero chiusi, lo scopo di questa apertura, a mio avviso, è quello di ripulire e fugare ogni dubbio sul ruolo della chiesa durante la seconda guerra mondiale, e credo che il papa voglia realizzare questa ripulita, questa operazione di riqualificazione del cristianesimo e del papato, nell’unico modo possibile, ovvero consegnando alla storia questi episodi ed affidando agli storici il compito di ricostruire, nella maniera più completa e oggettiva possibile ciò che è successo in quegli anni.

La narrazione cristiana non è sufficiente a ripulire i cristiani e il papato, per via di un evidente conflitto di interessi, ma una narrazione storica, aliena ad ogni qualsiasi pregiudizio, una narrazione oggettiva e superpartes, supportata da fonti e documenti di ogni tipo, quella è difficile da non accettare.

Sul piano della ricerca quel materiale rappresenta una vera e propria miniera d’oro, il loro valore è inestimabile e può letteralmente riscrivere ciò che sappiamo di quegli anni, aggiungendo alle voci già note, una nuova voce molto importante che, fino ad oggi era rimasta inascoltata, la voce del papa, la voce della chiesa, la voce dei cristiani.

Dal 2020, grazie alla decisione di Papa Francesco, potremmo finalmente definire in maniera inequivocabile e al di la di ogni ragionevole dubbio, quello che è stato il reale ruolo della chiesa, durante la seconda guerra mondiale e durante i primi anni dell’occupazione sovietica della Polonia e dell’est europa, aggiungendo un nuovo capitolo alla nostra storia.

Un capitolo che ha anche un risvolto politico, perché ci costringerà a guardare sotto una luce diversa anche l’attualità.

I problemi della Guerra Civile italiana

Tra l’estate del 1943 alla primavera del 45 l’Italia è stata attraversata da una lunga guerra civile, che avrebbe fatto da contenitore per innumerevoli altri conflitti interni all’Italia del tempo. Dalla lotta politica a quella sociale, dalla guerra di liberazione a quella di resistenza, dalla guerra civile a quella contro gli invasori stranieri

Sono passati circa 30 anni da quando Claudio Pavone ha sdoganato la questione della guerra civile italiana nel 1943-1945, utilizzando per la prima volta il termine guerra civile invece che i tradizionali guerra di liberazione o guerra di resistenza, e osservando che, in quel conflitto made in italy, al di la delle varie interpretazioni politico filosofiche che si potessero dare al conflitto, alla fine, a combattere erano semplicemente italiani contro altri italiani, riproponendo le dinamiche e le meccaniche di una guerra civile, senza se e senza ma.

Questo conflitto interno all’Italia e allo stesso tempo inserito nel più ampio contesto della seconda guerra mondiale, si porta dietro non poche complicazioni che, per decenni, l’utilizzo di termini come guerra di resistenza e di liberazione, avevano in qualche modo messo a tacere, deviando l’attenzione su una più generale dinamica di contrapposizione tra italiani buoni e stranieri cattivi. E in questo paradigma in cui gli italiani, tutti gli italiani, siano essi dalla parte del Re o della RSI, combattevano contro delle potenze straniere e resistevano all’invasione e l’occupazione straniera dell’italia, gli italiani che si trovavano “dall’altra parte”, “dalla parte sbagliata” erano semplicemente delle vittime, innocenti, delle politiche di occupazione straniera, e questo, all’indomani della fine del conflitto, permetteva una più moderata riappacificazione delle due parti, dando così, agli italiani che avevano combattuto per la RSI e quelli che avevano combattuto per il CLN, di tornare ad essere buoni amici, in alcuni casi ricongiungendo famiglie che la guerra aveva tenuto lontane.

Guarda anche il Video di approfondimento 

Questo precario equilibri però, si fondava su un drammatico equivoco storico, un equivoco voluto per ragioni politiche e alimentato da un errata percezione popolare della storia e delle vicende storiche che in esso confluivano, impedendo, per decenni, di analizzare in maniera chiara e completa, le dinamiche del conflitto intercorso in italia tra l’estate del 43 e la primavera del 45. Si tratta di un periodo apparentemente breve e pure estremamente lungo, in cui l’italia, e soprattutto gli italiani, hanno dovuto fare i conti con loro stessi e con il proprio passato, si tratta di un periodo in cui, il conflitto bellico dava spazio a pregressi conflitti interni all’Italia stessa che il paese si portava dietro fin dalla sua nascita, fin dalla propria unificazione avvenuta quasi un secolo prima e che, nonostante il grande potere unificatore del ventennio fascista, non erano mai stati completamente debellati. Nel 1943 non esisteva una sola Italia, ma neanche due o tre Italie, esistevano in realtà decine di italie differenti, ognuna con le proprie ragioni e le proprie necessità, ognuna con i propri interessi e la propria voglia di esprimersi ed espandersi al resto del paese.

Vi era l’italia dei fascisti legata a Mussolini e incarnata nella RSI, ben radicata nell’area più settentrionale del paese, appoggiata e supportata dal tradizionale alleato italico, la Germania del terzo Reich, al cui fianco l’Italia aveva iniziato la guerra, vi era poi l’italia tradizionale, l’italia monarchica ancora fedele al Re, ben radicata nell’area più meridionale del paese, appoggiata e supportata dai nuovi alleati anglo americani, dopo l’armistizio del settembre del 1943, vi era poi l’italia degli “ignavi”, quell’Italia che semplicemente lasciava che le cose accadessero, senza prendere parte alle vicende storiche in corso, senza scegliere se stare con il re o con il duce, insomma, quell’Italia che non sapeva da che parte stare e banalmente aspettava la fine del conflitto per esultare alla vittoria, indipendentemente dalle sorti della guerra e da chi fossero stati i vincitori. Vi era poi l’italia del CLN, che si contrapponeva alla RSI e combatteva contro la RSI, rivendicando la necessità di creare una nuova italia lontana dal Re e lontana dal Fascismo e nel disegnare una nuova italia di divideva tra chi inseguiva sogni ed orizzonti liberali guardando ad occidente, guardando all’America e chi invece guardava dall’altra parte, chi guardava ad Est, sognando la Russia e l’Unione Sovietica.

Tutte queste realtà sono solo la punta dell’Iceberg, e scavando più a fondo incontriamo sempre maggiori differenze tra gli italiani, oltre al conflitto politico sopra descritto, incontriamo anche un conflitto sociale, anzi, incontriamo diversi conflitti sociali, conflitti che contrapponevano le masse popolari all’alta borghesia e all’aristocrazia e in questa contrapposizione il modello Nazifascista da una parte, il modello Americano da un altra parte e quello Sovietico da un altra parte ancora, si manifestavano come tre possibili vie da seguire e da inseguire, tre possibili realtà per cui valeva la pena combattere e questo solo per quanto riguarda le fasce popolari della popolazione italiana, perché poi anche aristocratici e borghesi avevano i propri interessi e combattevano per i propri interessi.

Vi erano gli aristocratici, grandi proprietari terrieri vicini sia al Re che al regime, vi erano gli imprenditori e l’alta borghesia vicina soprattutto al regime (e non perché tutta la borghesia italiana fosse fascista ma perché, semplicemente, la sola borghesia sopravvissuta al ventennio era quella vicina al fascismo), vi erano poi gli operai e i lavoratori dipendenti, che si riavvicinavano al partito comunista, e poi c’erano i contadini, affittuari e mezzadri del mezzogiorno che, soprattutto nelle campagne più remote della penisola, vivevano in realtà fuori dal tempo e dalla storia, totalmente immersi in un mondo alieno al tempo in cui vivevano e in cui cristo, inteso come la modernità, per citare Carlo Levi, non era mai giunto, si tratta di realtà arcaiche immerse in dinamiche quasi feudali e culturalmente in uno stadio molto primitivo di civiltà.

Ognuna di queste realtà ha degli interessi, dei desideri, delle ambizioni da seguire, ognuna di queste realtà storiche, politiche, sociali e culturali, aveva degli obbiettivi da raggiungere e un modo di vivere da difendere, ognuna di queste realtà aveva una ragione per combattere in quella guerra civile e a seconda dei casi, scegliere da che parte stare.

Chi rivendicava l’ideologia e i valori del fascismo, chi credeva in Mussolini e vedeva negli anglo americani degli stranieri che stavano penetrando e occupando militarmente l’Italia, chi rivendicava un primato nella tradizione e nella cultura italica e reclamava un ruolo egemone dell’italia nel Mediterraneo e nel mondo, combatteva contro gli alleati.

Chi rivendicava i valori della tradizione, chi credeva nel Re e vedeva nelle forze del Reich presenti in Italia una presenza straniera che stava occupando militarmente il paese, chi desiderava una rivoluzione sociale e temeva la deriva nazifascista, chi desiderava la nascita di una nuova italia libera e democratica, combatteva contro la RSI.

La guerra civile italiana del 1943-1945 si configura quindi con un grande, enorme calderone, al cui interno sono confluiti innumerevoli conflitti differenti, nati in momenti diversi e per ragioni diverse ed esplosi in un momento di grande fermento e caos e limitare il conflitto ad una soltanto delle sue componenti, guerra di liberazione dagli angloamericani o dal reich, guerra di resistenza all’avanzata degli angloamericani o del reich, guerra sociale, guerra di classe tra masse popolari e aristocratici, tra contadini e proprietari terrieri, tra operai e imprenditori, o più generalmente tra servi e padroni, tra atei o laici e cristiani, tra italiani e stranieri, ecc ecc , sarebbe estremamente riduttivo, e se oggi si predilige l’utilizzo di guerra civile è perché, al di la di tutte le componenti del conflitto, di tutte le ragioni e di tutte le possibili implicazioni e le diverse interpretazioni, alla fine, a combattere da una parte e dall’altra c’erano semplicemente degli italiani, e se a combattere erano due parti dello stesso popolo, della stessa nazione, allora non c’è chiave interpretativa che tenga, si tratta semplicemente di una guerra civile.

Fonti

C.Pavone, Una guerra Civile, https://amzn.to/2S0Tb19
M.Battini, Peccati di memoria, https://amzn.to/2CbSV9N
L.Paggi, Il popolo dei morti, https://amzn.to/2zWiMBm
C.Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, https://amzn.to/2zSmjAz
E.De Martino, Sud e magia, https://amzn.to/2BthKgb

La vendita dell’Alaska agli USA

L’acquisto dell’Alaska costò agli USA 7,2 milioni di dollari all’indomani della guerra di secessione, ma quell’acquisizione 30 anni dopo, fece guadagnare agli americani, più di 14 miliardi di dollari, grazie all’oro del Klondike

Nel 1867 l’Impero Russo vendette l’Alaska agli USA per 7.2 milioni di Dollari americani dell’epoca, che, calcolando l’inflazione, equivalevano a circa 121 milioni di dollari odierni.

Verso la metà del XIX secolo l’Alaska non era particolarmente popolata, si stima che ospitasse poco più di 90000 abitanti, di cui circa soltanto 2500 russi e circa 8000 aborigeni legati alla compagnia russa d’america.

L’Impero Zarista di Alessandro II esercitava un controllo soprattutto militare sui territori dell’Alaska, ma, le difficoltà economiche (la corte russa non navigava in buone acque) e la presenza dell’ingombrante vicino britannico, destavano non poche preoccupazioni, Alessandro II temeva che presto o tardi sarebbe stato costretto a cedere territori ai britannici che già controllavano il Canada.

Di fronte alla prospettiva di pagare a caro prezzo il controllo dei territori dell’Alaska, lo Zar Alessandro II optò per quella che all’epoca gli sembrò la migliore delle idee possibili, cedere l’Alaska agli USA, creando così un cuscinetto tra la Russia e i territori Britannici del Canada e ricavarci anche qualcosa.

Quello che Alessandro II non sapeva era che quel “mondo selvaggio e ghiacciato”, così simile alla Siberia, custodiva in realtà un ricco e dorato segreto e quando neanche 30 anni dopo la vendita, nel 1896 in Alaska furono scoperti i primi giacimenti d’Oro.

Il Senato degli Stati Uniti ratificò l’acquisto (approvando quindi la spesa di 7,2 milioni di dollari) il 9 aprile 1867, ottenendo 37 voti a favore e 2 voti contrari, tuttavia, perché il governo statunitense potesse effettivamente rogare quella cifra all’impero zarista era necessaria anche l’approvazione alla camera dei rappresentati, dove il programma di acquisizione dell’Alaska venne temporaneamente bloccando, causando lo il blocco dei fondi fino al 1868, quando alla fine anche la camera acconsentì all’acquisizione con 113 voti a favore e 48 contrari.

Il motivo principale per cui la camera si oppose all’acquisizione era legato alle dinamiche interne degli USA, la guerra di secessione si era conclusa da pochi anni e l’economia statunitense era tutt’altro che florida, impelagata in enormi spese dovute alla ricostruzione post bellica, in questo contesto una fuoriuscita di capitali di questa entità sembrava rischiosa, soprattutto per quegli stati in cui la guerra era stata effettivamente combattuta ed avevano molto lavoro da fare per riorganizzare lo stato e le economie locali dopo l’abolizione della schiavitù.

Alla fine comunque la situazione economica venne sbloccata e il pagamento venne erogato, anche perché già nell’ottobre del 1867 era avvenuta la cerimonia di passaggio dei poteri, con la cessione ufficiale dei territori dell’Alaska alle autorità statunitensi, in sostanza nel luglio del 1868 (quando il congresso approvò la spesa) gli USA avevano già ottenuto il controllo dell’Alaska ma non avevano ancora pagato la Russia.
Durante la cerimonia di passaggio, una delle pochissime volte nella storia in cui un territorio cambiava “bandiera” in maniera pacifica, in cui l’Alaska de facto era passata dall’essere Russia all’essere parte degli Stati Uniti d’America, si tenne una piccola parata militare che vide alcuni militari Russi e Americani, sfilare fuori dalla residenza del governatore, in seguito, la bandiera zarista svettante sull’edificio venne ammainata e quella statunitense fu issata.

Era il 18 ottobre 1867 quando i militari russi lasciarono ufficialmente l’Alaska e vi si insediavano i soldati Statunitensi, il generale Jefferson Columbus Davis si insediò nella residenza del governatore, diventando, tra il 1867 ed il 1870, il primo governatore dello stato dell’Alaska, e, a scanso di equivoci, Jefferson C.Davis, non il Jefferson Davis protagonista della secessione degli stati Confederati dall’Unione americana durante la guerra di secessione, se bene i due abbiano effettivamente nomi molto simili, si tratta di due persone diverse.

Dopo l’insediamento di Davis, la maggior parte dei coloni russi (ma non tutti) presenti in Alaska lasciarono il paese facendo ritorno in Russia, alcuni piccoli commercianti o proprietari terrieri che avevano costruito in quelle selvagge terre del nord la propria nuova vita, scelsero di rimanere, diventando in pochi anni cittadini statunitensi e tagliando quasi completamente ogni ponte e legame con la vecchia madre Russia.