La peste di Atene: Tucidide tra scienza e pathos | CM

Introduzione al tema della peste

Ormai da decenni la peste rappresenta nell’immaginario collettivo una terribile visione di morte tipica del periodo tardo-medievale; ma non è sempre stato così. Dipinti, racconti, poesie e persino leggende si sono succeduti per tentare di rappresentare un male considerato spesso divino e quindi inspiegabile agli occhi dell’uomo, un male che in varie epoche non ha mai lasciato scampo e sul quale si sono ripetutamente interrogati i più autorevoli medici, autori, maestri e filosofi del tempo.

Nel corso dei secoli infatti gravi pestilenze si sono abbattute su tutto il vecchio continente, in epoche e luoghi assai differenti. Una delle più disastrose epidemie di peste della storia si è manifestata nell’Atene classica, intorno al V secolo a.C., durante un periodo storico a dir poco travagliato per la storia della Grecia: la Guerra del Peloponneso” (431-404 a.C.).

L’opera tucididea e il conflitto tra Atene e Sparta

Narratore di questi eventi è appunto uno dei più grandi storici dell’epoca, Tucidide, vissuto tra il V ed il IV secolo a.C., fautore di un’opera che porterà con sé fonti ed elementi storici di grandissimo rilievo: “La Guerra del Peloponneso“. La celebre opera, suddivisa in otto libri, offre anche uno spunto essenziale per ricavare accurate riflessioni su quello che oggi definiamo un “metodo storico” scrupoloso, quasi scientifico, basato cioè su fonti certe e attendibili, di cui Tucidide viene considerato padre e fondatore. Su tale base l’autore sceglie di introdurre la narrazione in questo modo:

Giacché gli avvenimenti precedenti alla guerra e quelli ancora più antichi erano
impossibili a investigarsi perfettamente per via del gran tempo trascorso e, a giudicar dalle prove che esaminando molto indietro nel passato mi capita di riconoscere come attendibili, non li considero importanti né dal punto di vista militare né per il resto.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (1,3, libro I)

Trattandosi di un testo prettamente storico prevalgono ovviamente numerosi riferimenti diretti alla “Guerra del Peloponneso”, tra cui strategie belliche e scelte politiche, per la partecipazione attiva di Tucidide come testimone oculare, il quale combatté in prima persona come stratega venendo poi esiliato a causa di un grave e imperdonabile fallimento. Si tratta di un conflitto senza precedenti, scoppiato tra il 431 e il 404 a.C., rivolto unicamente contro la fiorente città di Atene.

Tra le cause secondarie e il casus belli principale bisogna però considerare la situazione di tutta la Grecia, ormai esausta a per gli ingenti tributi a cui era sottoposta e per le vessazioni imposte dal duro imperialismo egemonico ateniese. Tuttavia, nonostante Atene dominasse il mare con una potentissima flotta, Sparta riuscì a invadere l’Attica con un grande esercito, costringendo gran parte della popolazione a cercare rifugio all’interno delle grandi mura del Pireo, il porto ateniese. Fu proprio in quella tragica situazione di sovraffollamento che scoppiò l’epidemia, aggravata ancor più da un clima torrido e da condizioni igieniche pessime e precarie. Tucidide si sofferma poi su tre celebri discorsi relativi al conflitto tenuti da Pericle, personaggio fondamentale per le vicende storiche e politiche dell’Atene classica, morto anch’egli a causa del morbo.

Per ultimo, ma non per importanza, l’autore all’interno del II libro oltre a narrare le vicende belliche dedica un ampio excursus storico riferito all’epidemia che devastò Atene tra il 430 e il 427 a.C. contemporaneamente alla guerra, già di per sé estremamente rovinosa per le sorti del conflitto e della città. Si tratta pertanto di un’opera completa, storicamente e politicamente, soprattutto per l’attenzione rivolta ai dettagli e l’accuratezza mostrata verso i principali fatti storici narrati. Tuttavia a rendere Tucidide un maestro del “metodo storico” non è solamente un testo basato su indizi sicuri e veridicità storiche (fondate cioè su fatti realmente accaduti), ma la sua acuta capacità di descrizione nei confronti di eventi estranei a vicende storiche degne di nota, come la pestilenza.

La peste dal punto di vista medico, scientifico e umano

Tucidide dedica un lungo paragrafo al tema dell’epidemia ateniese, nel quale sceglie di soffermarsi non sull’evento storico in sé, quanto più sul tema della pestilenza a livello scientifico e umanitario. Scopo principale dell’autore è infatti narrare e documentare, ovvero mettere in guardia il lettore nei confronti di una storia che non è mai totalmente magistra vitae ma piuttosto pessimistica, da cui l’uomo non impara mai veramente e di cui non è l’unico protagonista delle vicende, ma vi partecipa attivamente insieme a epidemie, carestie, eclissi e terremoti; elementi mai trascurati nonostante le narrazioni di Tucidide abbiano un carattere prettamente storico.

La storia di Tucidide andrebbe perciò “ammaestrata” in modo da permettere all’uomo di non ripetere gli stessi errori del passato. Tuttavia tale insegnamento è molto relativo, poiché questi errori vengono con estrema facilità ciclicamente ripetuti, nonostante Tucidide cerchi di trasmettere come combatterli. La peste rappresenta infatti la grande occasione tucididea per attuare il suo “metodo storico”. Essa viene descritta in modo scientifico e razionale per comprenderla e conoscerla al meglio anche dal punto di vista umano, oltre che ovviamente medico. Nel descrivere la tremenda malattia, fino ad allora sconosciuta agli ateniesi, Tucidide si sofferma sul momento iniziale del morbo: le cause, i sintomi, i morti e la reazione dei medici di fronte a un male totalmente ignoto; ed erano proprio i medici a morire per primi, a causa della necessaria vicinanza con i pazienti.

Né i medici erano di aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta, ma anzi loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si
avvicinavano ai malati; né serviva nessun’altra arte umana.”

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (47,4, libro II)


Giunge poi a una descrizione fortemente umanitaria e ricca di pathos, nella quale evidenzia le principali reazioni umane, tra le quali spiccano paura, sgomento, solitudine e scoraggiamento. Uno degli scopi principali dell’autore è inoltre riportarci vari eventi quotidiani, per sottolineare come vennero completamente sconvolti dal morbo, tra i quali troviamo: numerosi furti per lo spopolamento delle case a causa della malattia, non più solenni funerali singoli ma roghi comuni per sbarazzarsi dei cadaveri, sempre più persone ammassate nei templi per riversare lo sgomento generale sulle preghiere e affidarsi agli dei, e infine varie congetture con lo scopo di dare un senso a questo male sconosciuto, come l’accusa verso i peloponnesiaci di aver avvelenato i pozzi.

Nella città di Atene piombò improvvisamente, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; e così tra essi si disse anche che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là infatti non c’erano ancora fontane. Poi arrivò anche nella città alta, e da allora i morti aumentarono di molto.”

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (48,2, libro II)

Nonostante il morbo sia stato catalogato per lunghissimo tempo come una vera e propria pestilenza, oggi esperti e studiosi pensano in realtà che si trattasse di un altro tipo di malattia, e che più probabilmente fosse una sorta di vaiolo o di febbre tifoide, per i sintomi violenti e immediati che procurava in un tempo brevissimo (rispetto a come sarebbe stato per una comune epidemia di peste).

Gli altri invece, senza nessuna causa apparente, mentre erano sani improvvisamente
venivano presi da violente vampate di calore alla testa e da arrossamenti e infiammazioni agli occhi, e tra le parti interne la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da una forte tosse. E quando si fissava nello stomaco, lo sconvolgeva, e ne risultavano vomiti di bile di tutti i generi nominati dai medici, e questi erano accompagnati da una grande sofferenza.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (49, 2-3, libro II)

Tuttavia essa ebbe tutte le caratteristiche proprie di qualsiasi epidemia della storia, riuscendo ad abbattere psicologicamente l’umore e la quotidianità delle persone, e provocando migliaia di morti; forse addirittura arrivò a dimezzare la popolazione ateniese, cifre per l’epoca davvero esorbitanti, di cui Tucidide stesso si rese conto, riportando puntualmente lo sgomento che vigeva in quel tempo.

Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al male, fosse robusto o
debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati con ogni genere di dieta. Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoraggiamento quando uno si accorgeva di essere ammalato (poiché i malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano), e il fatto che per aver preso la malattia uno dall’altro mentre si curavano, morivano come pecore: questo provocava il maggior numero di morti.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (51,4, libro II)

L’importanza dei comportamenti umani nel corso della storia

Attraverso una digressione tanto struggente Tucidide dimostra ancora una volta che la storia non è riassumibile in un muto susseguirsi di vicende più o meno rilevanti, ma va invece rappresentata e studiata anche attraverso le reazioni umane. Pertanto assumono un ruolo di assoluto rilievo la psicologia, i comportamenti degli uomini e le azioni quotidiane in relazione a tali fenomeni tanto significativi per lo studio della storia.

Tucidide sceglie di esporre molto dettagliatamente la pestilenza proprio per l’effetto che quest’ultima ebbe sull’animo degli uomini, e non per come influenzò l’andamento degli eventi storici futuri. In una critica situazione di guerra il sopraggiungere di un’epidemia portò gli ateniesi al limite della sopportazione, rendendoli capaci di azioni ignobili e disumane, e questo l’autore lo esprime con una grande cura verso i dettagli.

A regnare è infatti l’“anomia”, ovvero la più totale assenza di leggi, che porterà inevitabilmente a una situazione di disordine e anarchia in cui gli individui cercano disperatamente di sopravvivere aggrappandosi ai propri istinti senza più alcuna inibizione. Attenendosi perciò strettamente al suo ruolo di storico Tucidide si mostra come testimone diretto dell’evento e ce lo riporta privandosi di ogni possibile elemento etico o morale, con il solo e unico scopo di informare e documentare i posteri riguardo l’andamento della storia e di come essa possa interagire con la labile natura umana. E, proprio come scrive l’autore: Atene fu distrutta dalla paura della peste, non dalla peste. Si tratta certo di uno squarcio raccapricciante, incapace di infondere sicurezza e perciò ancor oggi perfettamente in grado di suggestionare qualsiasi lettore moderno.

La peste di ieri e la peste di oggi

Il tema della pestilenza rappresenta ormai da secoli una delle più grandi occasioni per parlare di storia, scienza e medicina allo stesso tempo. Autori, poeti, scrittori e persino pittori e scultori si sono destreggiati su questo tema cercando di mostrare nel miglior modo possibile gli effetti del male, come esso influisce sulla psicologia umana e come viene affrontato in base alle diverse epoche storiche. L’idea di un morbo che esplode all’improvviso scatenando il panico e l’incertezza verso cure e guarigioni introvabili garantisce ancor oggi una fonte tragica sulla quale poter costruire grandi narrazioni storiche ma anche possibili racconti di fantasia.

La tragicità causata da morte e distruzione rappresenta anche un’occasione per evidenziare gli effetti della malattia sul corpo umano, a livello quindi medico/scientifico, ma porta spesso e soprattutto a profonde riflessioni di tipo religioso/divino, poiché l’uomo da sempre necessita di un elemento superiore a cui appoggiarsi in caso di estremo pessimismo. Si tratta pertanto di un tema largamente discusso ancor oggi, in grado di scatenare ferventi discussioni e, ma anche capace di lasciare un enorme fascino nella letteratura e nella storia di tutti i tempi.

Il segreto delle macchine anatomiche

Le macchine anatomiche, di cui vi ho raccontato la storia in un video sul mio canale youtube, sono dei modelli anatomici del XVIII secolo, realizzati da Giuseppe Salerno, un medico e alchimista palermitano, in cui, oltre allo scheletro umano, è perfettamente visibile l’intero apparato arterio venoso, comprensivo di occhi e cuore, e con un livello di dettaglio impressionante che permette all’osservatore di vedere anche i più sottili capillari.

Questi modelli sono stati successivamente acquistati da Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, nel napoletano e appassionato di anatomia e alchimia.

Per la storia delle macchine anatomiche, vi rimando al mio video su youtube che trovate di seguito, qui invece voglio raccontarvi, in modo più approfondito, il processo, o almeno quello che si ipotizza essere il processo di realizzazione eseguito da Giuseppe Salerno.

Studiano i modelli anatomici di Sansevero, è emerso che, l’intero apparato arterio venoso visibile, non è autentico, si tratta infatti di una riproduzione o ricostruzione post mortem, eseguita manualmente dal medico siciliano.

Per secoli si è creduto che vene e arterie fossero le vere vene e le vere arterie dell’uomo e la donna raffigurati nei modelli, in realtà, molto recentemente, abbiamo scoperto che il sistema cardio circolatorio è costituito da una lega di materiali vari e coloranti, a base di cera d’api.

Viene allora da chiedersi, e me lo chiedo anche io nel video, come è possibile che un medico e alchimista del XVIII secolo conoscesse così bene l’anatomia umana, al punto da riuscire a ricostruire alla perfezione anche i più sottili vasi capillari?

Ancora oggi non è possibile dare una risposta netta a questa domanda, ma, sulla base delle informazioni che abbiamo a proposito della chimica e dell’alchimia del XVIII secolo, possiamo fare delle ipotesi.

Oggi gli studiosi credono che Giuseppe Salerno abbia compiuto degli esperimenti per via iniettiva su alcuni cadaveri presenti nelle botteghe dell’epoca, sezionare e studiare corpi umani nel XVIII secolo va detto, non era una prassi anomala, anzi, era una pratica molto diffusa tra artisti e studiosi di anatomia.

Questi esperimenti, si ipotizza, abbiano provocato una qualche reazione nel corpo calcificando o plastificando l’intero apparato arterio venoso, che poi, successivamente, il medico ha ripulito, analizzato e ricostruito.

Questa ipotesi abbastanza inquietante, lo ammetto, porta con se una domanda, ovvero, è possibile fare qualcosa del genere? e soprattutto, è possibile che un alchimista del XVIII secolo sia riuscito a farlo per almeno due volte?

Andiamo con ordine e la risposta alla prima domanda è, si.

Escludendo eventuali cause naturali, c’è effettivamente uno, anzi, molti modi cui ottenere un risultato di questo tipo.

Il più elementare dei metodi è attraverso l’uso della formalina, una molecola molto semplice da sintetizzare, il cui processo di sintetizzazione è stato formulato per la prima volta nel 1867 dal chimico tedesco August Wilhelm von Hofmann , tuttavia, va precisato che, nel XVIII e in larga parte nel XIX secolo, era molto sperimentale ed è molto probabile che, prima del 1867, anche altri chimici e alchimisti, siano riusciti a sintetizzare la molecola della formalina, senza però tramandarla ai posteri.

Tornando alla formalina, questa, se iniettata, interrompe il processo di decomposizione attraverso le arterie, uccidendo i batteri e arrestando il decadimento tissutale. Permettendo quindi al medico o all’imbalsamatore, di rimuovere la pelle, il tessuto connettivo e il tessuto adiposo e conservare soltanto vene, arterie e organi.

L’uso della Formalina nel processo di imbalsamazione, per la preservazione degli organi , è stato teorizzato e successivamente brevettat dall’anatomopatologo tedesco Gunther von Hagens nel 1978, all’interno di un più ampio procedimento che porta alla Plastinazione di vene, arterie e organi interni, che, una volta preservati dalla decomposizione, vengono “plastificati” operando una sostituzione dei liquidi con dei polimeri di silicone.

Nel XVIII secolo è improbabile che giuseppe Salerno abbia fatto ricorso ai polimeri di silicone, tuttavia, i suoi modelli, potrebbero essere stati realizzati proprio in questo modo, con una leggera variazione al processo di plastinazione di Hagens.

Una volta iniettata la formalina, o più probabilmente una sua versione più grezza e primitiva, nel corpo delle proprie cavie, ed aver interrotto la decomposizione delle vene e arterie, Giuseppe Salerno potrebbe aver introdotto, con successive iniezioni, il suo composto colorato a base di cera d’api che, con il tempo si sarebbe solidificato permettendo così, al medico e alchimista palermitano, di poter godere a pieno di un modello anatomico completo dell’intero apparato arterio venoso.

Questa ipotesi sembra oggi la più plausibile, se bene non vi sia alcuna certezza.

Ho chiesto quindi Giuseppe Alonci, chimico, del canale youtube “la chimica per tutti” e autore del libro “Tutta questione di chimica. Sette brevi lezioni sul mondo che ci circonda” qualche informazione a riguardo e, mi ha anche spiegato quanto è semplice sintetizzare la formalina aggiungendo che per lui non è difficile immaginare che un alchimista del XVIII secolo, sia riuscito a sintetizzare la formalina e anticipare di due secoli la plastinazione di Hagens.

A Livermore c’è una lampadina accesa dal 1901

La lampadina centenaria di Livermore, è accesa (quasi) ininterrottamente dal 1901. Ma perché questa lampadina, estremamente longeva, del secolo scorso è così importante? La risposta è in una parola, anzi due, obsolescenza programmata, e questa lampadina è un residuo del mondo precedente la sua introduzione.

Non le fanno più come una volta… ed è vero, non le fanno più come una volta.
Ma, l’obsolescenza programmata è un bene o un male ?

è sicuramente un bene per le imprese e per i lavoratori, che possono continuare a produrre.
è un bene per l’economia e la finanza, che grazie ad essa più alimentarsi e produrre ricchezza.
è un forse per la società che da un lato vede aumentare i propri benefici, ma dall’altra è soggetta a spese cicliche.
è un male minore per i consumatori, che sono costretti a rinnovare i propri beni riacquistando più volte lo stesso oggetto (tipo la lampadina), ma allo stesso tempo è un bene minore, perché permette di migliorare l’efficenza con oggetti nuovi, più performanti (tipo, lampadine che consumano di meno)
è un male, decisamente un male, per il pianeta, perché alimenta la produzione di rifiuti, il fabisogno enegetico dovuto alla produzione dei beni e l’estrazione di risorse necessarie per produrre quei beni, ed è un male perché impoverisce il pianeta, svuotandolo dall’interno (passatemi la metafora).

Dunque… l’obsolescenza programmata, è un bene o un male? voi da che parte state?

“State dalla parte di chi ruba nei supermercati, o di chi li ha costruiti… rubando” ? [cit de Gregori, chi ruba nei supermercati]

Con questo articolo voglio parlarvi di Obsolescenza programmata, e voglio farlo in un modo diverso dal solito, senza polemiche, senza costrutti filosofici o dati statistici ed economici. Voglio farlo, raccotandovi una storia, ed è una storia davvero molto bella, a tratti avvincente e commovente, ed è la storia di una lampadina accesa da oltre un secolo.

Quando si parla di obsolescenza programmata, spesso lo si fa in modo critico e in termini estremamente negativi, ignorando la storia di questa pratica, dalla dubbia moralità, che determinato le sorti della nostra civiltà, al pari della prima e della seconda rivoluzione industriale, e qualcuno, azzarda, con un po’ di imprudenza, che l’obsolescenza programmata, rappresenti de facto, la terza rivoluzione industriale.

La sua storia inizia ufficialmente nel 1924, negli stati uniti d’america, quando alcune aziende produttrici di lampadine decisero di unirsi insieme e stabilirono un tempo predeterminato per la vita delle lampadine di loro produzione, costituendo, de facto, il primo caso certo (e ampiamente documentato) di obsolescenza programmata della storia.

Nel 1924 diverse società attive nella produzione di lampadine (tra le principali General Electric Company, Tungsram, Compagnie di Lampes, OSRAM, Philips), fondarono il cartello Phoebus, per la produzione e vendita delle lampadine, e le società che si adeguarono al cartello iniziarono a “programmare” il tempo di vita delle lampadine, così che dopo un certo numero di ore di utilizzo, fosse necessario sostituirle.

Ad oggi molte lampadine indicano una durata che va mediamente dalle 1000 alle 30000 ore (mediamente 15000).

Trentamila ore sono tante direte voi, beh, in realtà anche centomila ore di utilizzo probabilmente sarebbero sono poche se rapportate alla longevità di alcune delle lampadine (alogene) prodotte prima del 1924, ed ho un esempio che sono sicuro, vi lascerà letteralmente senza parole.

Negli USA, in una caserma dei pompieri di Livermore, è presente una lampadina che è accesa ininterrottamente dal 1901. In realtà non è proprio accesa dal 1901, la sua storia è divisa in due step, questa lampadina è stata accesa per la prima volta nel 1901 ed è rimasta accesa fino al 1976, quando venne spenta per circa 23 minuti, a causa di un trasferimento della caserma in un nuovo edificio, poi venne riaccesa, e attualmente è ancora lì, ancora accesa.

Secondo alcune leggende metropolitane, durante lo spostamento della lampadina la popolazione di Livermore rimase letteralmente con il fiato sospeso in quei 23 minuti, perché temevano che la lampadina, ormai divenuta simbolo intramontabile della cittadina, potesse non riaccendersi.

Il caso della vecchia Centennial Light, è ovviamente un caso estremo, non tutte le lampadine prodotte all’inizio del XX secolo erano così longeve, ma erano comunque molto longeve, abbiamo lampadine accese agli inizi del XIX secolo e sostituite per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, e questa longevità forse eccessiva è il motivo per cui i produttori di lampadine associati al cartello (ma in realtà tutti i produttori di lampadine) hanno deciso di limitare il tempo di vita delle proprie lampadine.

Senza girarci troppo attorno, se vendi lampadine e produci una lampadina che dopo oltre un secolo di illuminazione costante, continua a fare luce, beh, ne hai sicuramente un grande ritorno a livello di immagine, e questo è innegabile, ma poi, in termini di economia reale, ne ricevi un danno, perché quando tutti avranno acquistato le tue lampadine “eterne“, a quel punto non ci sarà più mercato e la tua azienda, che produce e vende lampadine, non avrà nuovi clienti per almeno un secolo, e sarà quindi destinata a fallire o comunque a limitare o sospendere la produzione.

Da questo punto di vista, il cartello Phoebus, che rimase attivo tra il 1924 ed il 1939, ideando l’obsolescenza programmata segnò un passo importantissimo nella storia economica dell’età contemporanea e non solo, giocò anche un ruolo centrale, soprattutto negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, nel definite il carattere e le abitudini della società dei consumi, di fatto diventando il punto d’origine del consumismo reale.

Oggi l’obsolescenza programmata è di diversa natura ed è praticata, più o meno direttamente, da qualsiasi produttore di qualsiasi cosa sul pianeta, dalle scarpe ai pc alle automobili. Oggi, qualsiasi cosa è soggetta, inevitabilmente all’obsolescenza programmata, un obsolescenza che spinge il consumatore, dopo qualche anno di utilizzo a sostituire un prodotto con un analogo più recente, e molto spesso non a causa di un guasto o di un malfunzionamento, ma semplicemente perché il proprio prodotto è banalmente troppo vecchio.

Oggi i consumatori sono spinti a riacquistare periodicamente un qualcosa che fondamentalmente ha la stessa funzione di qualcosa di cui già disponeva, perché sul mercato è stata rilasciata una nuova versione più potente, più efficiente, con più funzioni, più aggiornata, che consuma meno, che produce meno rifiuti, o che banalmente, ha un design più moderno.

Al giorno d’oggi l’obsolescenza programmata è tacitamente accettata dai consumatori, nonostante in alcuni casi si muova in una zona grigia ai limiti della legalità che, in alcuni casi ha portato a vere e proprie condanne ad alcune multinazionali un po’ troppo spregiudicate nel mettere in atto questa pratica dalla doppia faccia.

Da un lato l’obsolescenza programmata rappresenta il cuore pulsante dell’economia di mercato, e di fatto tiene in vita l’attuale sistema economico, e ci aiuta a consumare col tempo meno energie o inquinare meno, facendoci magari acquistare, una lampadina prodotta con materiali riciclabili invece che tossici e che consuma meno energia, ma dall’altra parte, la necessità di alimentare i mercati, produce parallelamente una quantità crescente rifiuti e la produzione costante richiede un consumo continuo di energie.

L’impatto dell’obsolescenza programmata sulle nostre vite, sulla nostra economia, e in termini più ampi, sul nostro stesso pianeta, è qualcosa di enorme, se una lampadina durasse mediamente cento e non due anni, da un lato cambieremmo lampadine in casa probabilmente una sola volta nella nostra vita, di conseguenza producendo meno rifiuti, dovendo gettare meno lampadine guaste e non avendo confezioni di nuove lampadina da smaltire e allo stesso tempo richiederemmo al pianeta un minore consumo di risorse, perché l’industria produrrebbe meno lampadine, ma, allo stesso tempo, proprio la minor produzione di lampadine impiegherebbe meno operai sia in fase di produzione che di estrazione delle materie prime che in fase di commercio, ci sarebbe di fatto meno lavoro e questo significherebbe meno denaro in circolazione, con tutte le ovvie conseguenze del caso, sia per le aziende, che per i lavoratori, che per gli stati.

L’obsolescenza programmata, al di la di tutto, ha cambiato il nostro mondo e rivoluzionato la nostra economia e la nostra società, la sua introduzione forse un giorno verrà considerata come l’alba della terza rivoluzione industriale, più silenziosa e sotterranea delle precedenti, o forse, verrà riconosciuta come la causa principale degli enormi danni ambientali provocati dall’uomo proprio a partire dalla sua introduzione, poiché l’obsolescenza programmata ha attivato un meccanismo di produzione costante che ha moltiplicato esponenzialmente il nostro fabbisogno energetico quotidiano.

Se l’obsolescenza programmata è un bene o un male, lo lascio decidere a voi, fatemi sapere cosa ne pensate nei commenti.

Io sono Antonio e vi do appuntamento al prossimo episodio del podcast, L’osservatorio.

Chi era Galileo Galilei?

L’uomo che Inventò la scienza moderna.

Galileo Galilei, l’uomo che inventò il metodo scientifico e il telescopio, intuì l’esistenza della forza di gravità e della costante di accelerazione gravitazionale (pur non riuscendo a calcolarla), mettendo così in discussione la teoria geocentrica e per questo fu perseguitato dalla santa inquisizione. Un accademico, un matematico, un ingegnere militare, un uomo che oggi definiremmo un visionario e un luminare, la cui intelligenza, come spesso accade, fu spesso vissuta come un peso, un genio di quelli che nascono raramente.

Galilei vine spesso preso a modello, come esempio da chi sostiene teorie stravaganti che non incontrano il consenso generale, ma ridurre Galilei ed il suo genio a questo, è estremamente riduttivo, oltre che falso.

Galileo Galilei non era un provocatore, non era un uomo che seguiva teorie stravaganti per il proprio gusto, ne era un ricercatore indipendente che lavorava a chissà quale misteriosa invenzione, in penombra nella propria cantina. al contrario, no, Galilei non era nulla di tutto questo. Era invece un rinomato accademico del proprio tempo, un uomo che godeva di grande rispetto e ammirazione nei salotti aristocratici e nei circolo colti, un uomo che lavorò a stretto contatto con importanti realtà politiche dell’epoca.

Lavorò a lungo all’Università di Pisa e all’Università di Padova, occupando la cattedra di matematica, lavorò a lungo e continuativamente (tra il 1592 ed 1610) per il Doge di Venezia, anzi, con i Dogi, Pasquale Cicogna (1585–1595), Marino Grimani (1595–1605) e Leonardo Donà(1536-1612). Il Doge non era un’uomo qualsiasi, era l’uomo più potente di quella che sul finire del XIV secolo e i primissimi anni del XV secolo, era forse la più potente e influente delle repubbliche marinare, e delle più grandi e influenti potenze marittime del mediterraneo, il Doge era un uomo la cui posizione di comando gli permetteva di muovere guerra a realtà potenti come l’Impero Ottomano e Roma, la sede del papato.

Questi uomini, (Cicogna, Grimani, Donà) affidarono a Galilei le sorti, ed il futuro, della propria città, incaricando il matematico pisano di sviluppare cannoni più efficaci, con una maggiore potenza e gittata, rispetto a quelli all’epoca in circolazione, elementi (potenza e gittata) che, in uno scontro navale, avrebbero fatto la differenza tra vittoria e sconfitta, ed essendo la serenissima un’importante realtà marittima, una delle maggiori potenze navali del mediterraneo, questo significava consolidare la posizione di potere di Venezia.

Questo incarico impegnò Galilei per quasi due decenni, nel corso dei quali frequentò assiduamente l’arsenale militare di Venezia, facendo test, esperimenti ed in quel contesto di ricerca applicata rifinì quello sarebbe stato consacrato come metodo scientifico.

Galilei studiò diverse miscele di polvere da pirica, nel tentativo di sviluppare l’esplosione più veloce, quindi più potenti, confrontò cannoni di diverso calibro e lunghezza, nel tentativo di individuare la combinazione più efficace, confrontò le diverse angolazioni dei cannoni, al fine di determinare l’angolo ideale per la migliore gittata.

Contestualmente a questi esperimenti e alla propria posizione accademica, strinse numerose amicizie nei salotti veneziani e padovani, il tutto consentito dal positivo e florido clima di tolleranza che attraversava la Serenissima. Tra queste amicizie vi erano filosofi, astronomi e matematici, ma anche nobili ed uomini di cultura, dediti al sapere e alla ricerca, e nelle lunghe giornate trascorse a confrontare idee e teorie con uomini come Paolo Sarpi, Andrea Morosini, Cesare Cremonini e Giovanfrancesco Sagredo (futuro protagonista del Dialogo sopra i massimi sistemi), Galilei ottenne alcune delle sue più importanti scoperte e conquiste in campo scientifico.

Già prima di raggiungere Venezia Galilei aveva dimostrato il proprio valore, come dimostra la docenza di Matematica, svolta per conto dell’università di Pisa, tra il 1589 ed il 1592, e le ricerche che svolse in quegli anni, ricerche che, secondo la leggenda, lo avrebbero portato a compiere il famoso esperimento di caduta dei gravi dalla Torre di Pisa stabili, esperimento che volto a dimostrare che oggetti di peso differente cadono alla stessa velocità, in obiezione alle teorie Aristoteliche, e proprio grazie a queste dimostrazioni, Galilei venne convocato a Venezia.

L’intuizione della forza di gravità, questa misteriosa forza d’attrazione che ci tiene incollati al terreno e ci impedisce di librarci nel cielo,
la cui costante di accelerazione venne calcolata non molto tempo dopo da Isaac Newton, aveva importanti applicazioni militari, una su tutte, la possibilità concreta di migliorare la gittata dei cannoni delle navi. Questa possibile applicazione militare fu sufficiente a convincere il Doge Pasquale Cicogna ad invitare Galilei a Venezia, dando inizio ad un sodalizio che sarebbe durato quasi un ventennio.

Studiare la gittata dei cannoni, e soprattutto aumentarne la gittata, significava compiere numerose misurazioni tra un colpo esploso ed il successivo, era infatti necessario sapere esattamente quanta distanza aveva percorso ogni singola palla di cannone esplosa, e questo significava numerosi assistenti ed aiutanti che correvano avanti e in dietro tra il cannone e il punto di impatto delle palla di cannone.

Questo procedimento era molto lento e rallentava tantissimo la raccolta dei dati, che spesso si limitava ad una dozzina di colpi al giorni. Per ovviare a questo problema, Galilei cercò un modo più rapido per avere informazioni, il più possibile accurate, e nel minor tempo possibile, sulla distanza percorsa dalle palle di cannone. Ideò quindi un sistema di griglie che contrassegnavano il campo durante i test balistici, dopo di che, si procurò uno strumento che gli permettesse di guardare più lontano di quanto i suoi occhi non riuscissero a vedere, posizionò delle lenti levigate alle estremità di un cilindro creando la prima versione di quello che sarebbe diventato il suo famoso cannocchiale.

Il cannocchiale, da cui sarebbe poi scaturito il telescopio, strumento con cui Galilei avrebbe scrutato i cieli notturni della sua Pisa, osservando stelle e pianeti e raccolto i primi dati sul moto astrale, dati che avrebbero successivamente portato allo sviluppo della teoria eliocentrica e messo in discussione la teoria geocentrica, portando così Galileo Galilei a scontrarsi, sul piano intellettuale, con i dogmi della chiesa romana e conseguentemente, dovette affrontare i tribunali della santa inquisizione.

Quella che è forse la più grande conquista scientifica di Galileo Galilei non fu ottenuta per la vocazione di un visionario, ma per l’ostinatezza e la determinazione di un uomo a cui era stato affidato un incarico ben preciso. Fu la necessità di migliorare la gittata dei cannoni veneziani che permise a Galilei di creare quello strumento di osservazione che gli avrebbe portato gloria postuma ed enormi problemi in vita.

Va però detto che Galilei fu molto fortunato nella propria sfortuna, perché un qualsiasi altro uomo, con quelle teorie, in quel momento storico, non sarebbe sopravvissuto alle torture dell’inquisizione. Ma Galilei non era un uomo comune, non era un mugnaio friulano come Domenico Scandella, detto Menocchio, che credeva la vita sulla terra fosse scaturita come dei vermi sul formaggio, Galilei aveva frequentato e frequentava salotti importanti, godeva dell’amicizia, della stima e del rispetto di uomini potenti e molto influenti, certo, non così potenti da impedire i processi, ma abbastanza da impedire che Galilei venisse condannato a morte per eresia, permettendogli di continuare a vivere, compiere le proprie proprie ricerche e sviluppare le proprie teorie per molti anni.

Letture consigliate per approfondire

B.Brecht, Vita di Galilei, https://amzn.to/2V1fODv
M.Camerota, Galileo Galilei. Antologia di testi, https://amzn.to/2GuFt4o
A.Zorzi, La repubblica del leone, Storia di Venezia, https://amzn.to/2EeoEIp
G.Minchella, Frontiere aperte. Musulmani, ebrei e cristiani nella Repubblica di Venezia, https://amzn.to/2GuObzI
M.Sangalli, Cultura, politica e religione nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Seicento. Gesuiti e somaschi a Venezia, https://amzn.to/2EdX0LG

L’occhio di Horus nella matematica Egizia

Secondo una legenda Egizia, il dio Seth aveva strappato l’occhio sinistro del dio Horus e lo aveva ridotto in pezzi, ma il dio Thoth riuscì a ricomporlo grazie alla sua magia e proprio la sua magia gli permise di rubare un frammento dell’occhio senza che però la sua assenza minasse l’integrità dell’occhio.

Questa leggenda, o se preferite questo mito, è considerato da molti come il “punto d’origine dell’aritmetica egizia” e del calcolo infinitesimale, infatti, le parti dell’occhio di Horus (successivamente identificato come occhio di Ra) erano utilizzate per per descrivere le frazioni e insieme rappresentavano l’unità, tuttavia si trattava di un unità approssimativa, data l’assenza di un frammento sparito grazie alla magia del dio  Thoth.

Nel suo insieme l’occhi rappresenta la somma dei primi 6 valori della serie numerica 1/2^n, la cui somma, nella matematica moderna equivale al numero decimale 0.984375, esprimibile anche come 63/64, ma nella matematica egizia, la somma di questi elementi dava come risultato 1, o meglio, dava come risultato 63/64 tuttavia, grazie alla magia di Thoth questa “unità” parziale poteva assumere i tratti di un’intero, diventando 64/64, insomma, la magia del dio Thoth aggiungeva il 1/64 mancante.

Oggi sappiamo che rimuovendo il vincolo dei primi cinque elementi e procedendo sommando tutte le infinite frazioni ottenute dimezzando il numero intero, ci avvicineremmo sempre di più all’unità 1 senza però mai raggiungerla effettivamente, di fatto ci ritroveremo di fronte ad una funzione espressa come la sommatoria 1/n^2 (∑ 1/2^n) dove n va da 1 ad e il cui risultato, dato appunto dalla somma di tutti gli elementi che compongono la serie numerica (quindi (1/2)+(1/4)+(1/8)+(1/16)+(1/32)+(1/64)+…) sarà un numero che converge (in matematica, la convergenza è la proprietà di una certa funzione o successione di possedere un limite finito di qualche tipo, o, il cui risultato al tendere della variabile o dell’indice eventualmente verso certi valori in un determinato punto o all’infinito) verso l’1.

mi scuso per la pessima spiegazione matematica, spero comunque di aver reso l’idea.

Il fatto che per gli egizi (1/2)+(1/4)+(1/8)+(1/16)+(1/32)+(1/64) non desse effettivamente 1 ma ci si avvicinava tantissimo e che la differenza tra 1 e 0.984375 (ovvero 0.015625) fosse un numero talmente piccolo da poter essere trascurato, ma non per questo ignorato, ci da un informazione ben precisa sul livello di accuratezza decimale posseduta dagli egizi, un accuratezza che si spingeva almeno fino ai 63/64 e quell’1/64 che restava fuori, rappresentato da un decimale con sei cifre dopo la virgola, che era considerato “trascurabile”, ed era trascurabile perché, per quelli che erano gli strumenti di osservazione dell’epoca, rappresentava un valore estremamente piccolo, la cui presenza o assenza non avrebbe avuto effetti visibili, tuttavia, in presenza di strumenti di osservazioni più accurati o per necessità particolari, era possibile avanzare con il frazionamento, raggiungendo così un livello di accuratezza sempre maggiore.

Detto più semplicemente, la magia di Thoth era soddisfacente per chi si accontentava dell’approssimazione, ma non chiudeva le porte a chi voleva scavare più affondo ed avere un’accuratezza maggiore.

Fingendo di usare un linguaggio matematico, potremmo dire che le parti osservate dell’occhio di Horus facciano parte di un certo insieme, ma per trovare la parte mancante bisogna estendere la ricerca ad un insieme “più ampio” e invisibile all’occhio umano, definito dalla magia di Thoth. Applicando un ragionamento di questo tipo alla matematica moderna il rischio di ricorrere in pericolosi paradossi non è trascurabile, tuttavia, mantenendo un minor livello di accuratezza e riempiendo i vuoti con la “magia di Thoth”, la logica matematica degli egizi riuscì ad eludere quei paradossi.

Questa osservazione fa supporre che gli egizi fossero in grado di eseguire calcoli molto più accurati, con un errore inferiore al sessantaquattresimo e se bene il valore minimo presente nell’occhio di Horus fosse rappresentato proprio da 1/64, questo non significava automaticamente che 1/64 fosse il valore minimo conosciuto dagli egizi, anzi, applicando lo stesso procedimento logico che ha portato al valore di 1/64 era potenzialmente possibile procedere all’infinito. Ma andiamo con ordine.

L’occhio di Horus è un elemento molto ricorrente nei reperti archeologici egizi, questo elemento ha un enorme valore, non soltanto sul piano matematico, ma anche e soprattutto sul piano religioso, ed è proprio nel mito dell’occhio di Horus che si può individuare un elemento matematico aggiuntivo.

Come sappiamo, secondo la mitologia egizia il dio Seth distrusse l’occhio sinistro di Horus che poi fu ricomposto dalla magia di Thoth. Il fatto che il mito specifichi che si tratti dell’occhio sinistro e che non ci venga fornita alcuna informazione sull’occhio destro di Horus  unito al fatto che in nessun mito ci viene detto che il dio Horus era un dio guercio, significa che da qualche parte doveva esserci anche un occhio destro di Horus e in effetti, reperti raffiguranti anche l’occhio destro di Horus non mancano, e tra i tanti, un reperto in particolare ha catturato l’attenzione degli studiosi della matematica degli egizi, si tratta della stele di Nebipusesostri, risalenti al regno di Amenemhet III, nella cui colonna centrale sono raffigurati i due occhi di Horus e non solo quelli.


L’elemento realmente interessante dal punto di vista matematico, non sono i due occhi, ma l’unione dei due occhi e in particolare l’elemento che si frappone tra i due occhi, si tratta di tre simboli paralleli, spesso indicati come “lacrime di Horus” situati al di sotto degli occhi e collocati esattamente tra i due simboli speculari che indicano il valore di 1/64.

Se procediamo assegniamo al simbolo centrale dei tre il valore 1/64 e ai due simboli esterni il valore 1/128 e poi sommiamo questi numeri otterremo 2/64, ovvero 1/64 per ognuno dei due occhi di Horus,  esattamente il valore mancante all’uno e all’altro occhio per raggiungere l’unità matematica e di conseguenza quei simboli potrebbero essere letti come una raffigurazione l’insieme esterno indicato dalla “magia di Thoth”.

Questa interpretazione matematica per quanto interessante e affascinante soffre di un profondo difetto logico che consiste nell’aver assegnato a tre simboli identici dei valori differenti, questa operazione matematica appare come troppo artificiale e forzata. Più probabilmente i tre simboli identificati come le tre lacrime di Horus avessero un valore un valore univoco ed il loro frazionamento produceva tre elementi di eguale valore. Procedendo con questa osservazione si può dedurre che le lacrime di Horus nel loro insieme avevano un valore di 3/128 e separate, ognuna delle tre lacrime assumeva un valore di 1/128. Ragionando in questi termini tuttavia emerge un ulteriore problema, o meglio, ritorna il problema dell’occhio di Horus, poiché non è possibile raggiungere l’unità, in quanto assegnando il simbolo dal valore 1/128 posto a destra all’occhio destro e quello posto a sinistra all’occhio sinistro, ci ritroveremmo nella situazione precedente, ovvero con un valore del singolo occhio pari a 127/128 e di conseguenza, ad ognuno degli occhi mancherebbe 1/128, e se è vero che nel geroglifico è presente ancora un simbolo dal valore di 1/128, è anche vero che per completare i due occhi servono 2/128, di conseguenza è possibile completare l’unità per un singolo occhio, presumibilmente quello destro, mentre l’altro occhio sinistro continuerà ad essere mantenuto insieme dalla sola magia di Thoth.

Vi è però un’apparente via d’uscita matematica, si può procedere con la divisione dell’ultima lacrima in due parti, entrambe dal valore di 1/256 che andranno ad unirsi, una all’occhio destro ed una all’occhio sinistro. In questo modo il problema non verrebbe realmente risolto, in quanto la somma di tutti gli elementi di un singolo occhio avrebbe come risultato 255/256 e quindi ad entrambi gli occhi mancherebbe ancora una volta un frammento, se bene estremamente più piccolo. Questa situazione, o meglio, la presenza della terza lacrima, ci suggerisce che è possibile dimezzare all’infinito un intero, ma allo stesso tempo ci dice anche che questa operazione è trascurabile poiché è “inutile” dimezzare per più di 7 volte un intero, e  1/128 è proprio la settima frazione dell’intero, questa frazione può essere espressa anche come 1/2^7.

Non c’entra molto, ma è interessante osservare che 7 è il numero massimo di volte in cui è possibile piegare a metà, dimezzando ogni volta la sua superficie, un foglio di carta. Indipendentemente dalle sue dimensioni infatti, non sarà possibile piegarle un foglio per più di 7 volte.
Se non ci credete provate pure, ma ricordatevi di dimezzare sempre la superficie del foglio, altrimenti non vale.

Tornando alle lacrime di Horus, come abbiamo visto, la loro presenza ci suggerisce ancora una volta che gli egizi avevano una conoscenza della matematica infinitesimale molto più avanzata di quanto si potrebbe immaginare. Come sappiamo, questo concetto che si sarebbe successivamente evoluto e diffuso fino ad arrivare ai giorni nostri e credo sia opportuno citare quello che molto probabilmente è il più celebre esempio di questo tipo di matematica nel mondo “occidentale.

Per quanto riguarda l’Egitto non sappiamo esattamente fino a che punto si spinse la loro matematica, l’occhio di Horus ci dice che conoscevano valori numerici estremamente piccoli e questo significa che erano in grado di eseguire calcoli estremamente complessi ed accurati. Purtroppo però, la loro conoscenze della matematica infinitesimale ha contribuito a gettare le basi della “matematica avanzata” del mondo occidentale (in particolare del mondo greco e romano) le cui origini, almeno per quanto riguarda il “calcolo infinitesimale” affondano soltanto nella Grecia del V secolo a.c. dove il filosofo Zenone di Elea, per difendere le tesi del proprio maestro Parmenide, il quale sosteneva che il movimento fosse un’illusione, elaborò il famoso paradosso di Achille e la tartaruga, noto anche come paradosso di Zenone, in cui Achille, inseguendo la tartaruga non riuscirà mai a raggiungerla.

La spiegazione matematica del paradosso di Zenone sta proprio nel fatto che gli infiniti intervalli percorsi ogni volta da Achille per raggiungere la tartaruga diventano sempre più piccoli ed il limite della loro somma converge per le proprietà delle serie geometriche. In questo caso Zenone osserva che una somma di infiniti elementi, o meglio, il limite di una somma di infiniti elementi non è necessariamente infinito e un esempio concreto di questa teoria è dato dalla somma delle frazioni ottenute dimezzando ogni volta un intero (analogamente a quanto accadrebbe prolungando la successione dell’occhio di Horus), quindi ∑1/n^2.

Se bene Achille in realtà fosse assolutamente in grado di raggiungere la tartaruga, dal punto di vista matematico non sarebbe mai riuscito a raggiungerla e quando una funzione matematica si trova in una situazione di questo tipo, si dice che tende ad un dato valore, in questo caso 1, ovvero si avvicina sempre di più ad 1 senza mai raggiungerlo. Possedere questo livello di conoscenza matematica implica la conoscenza del concetto di infinitesimo, ovvero di un valore numerico che tende allo zero senza però mai raggiungerlo.

 

 

 

ARTURO GRAF e la Leggenda del Pontefice Mago

Alla fine del IX secolo l’edificio costruito da Carlo Magno si era ormai sfaldato. La monarchia dei franchi si era separata dall’impero che, sotto la dinastia degli Ottoni, diventa quello che passerà alla storia come Impero Romano Germanico. Nel frattempo, i normanni si sono mossi alla conquista di una parte della Francia settentrionale e dell’Inghilterra.

Anche la scuola palatina scompare: siamo alla fine del IX secolo. In qualche centro, come ad Auxerre, proprio nella seconda metà del IX secolo, la filosofia sembrava non demordere. Gli studi dialettici continuavano ed erano numerosi i commenti agli scritti logici e teologici di Boezio (soprattutto sull’annoso problema degli universali).

Il X secolo sarà un’epoca di povertà culturale con la sola eccezione della vita e cultura monastica, ma Gerberto, monaco di Aurillac, è un’eccezione. Gerberto era vissuto come monaco nel monastero di Ripoll in Catalogna, ai confini di un territorio controllato dai musulmani. Era poi passato a Reims dove la sua fama legata all’insegnamento delle arti del trivio e del quadrivio gli aveva procurato numerosi allievi. Infine, lo troviamo a Bobbio dove aveva ricoperto la carica di abate su nomina dell’imperatore Ottone II.

Gerberto d’Aurillac maestro del futuro san Fulberto e Roberto il Pio a Reims, dal Codice Manesse del XIV secolo, (CC BY-SA 3.0).

Quella di Gerberto di Aurillac è una figura sfaccettata, affascinante, al confine tra storia, filosofia, mito e folklore. Vediamo cosa possiamo dire con “certezza”. Ottone III si ricordò di lui quando si trattò di ricoprire la cattedra arcivescovile di Ravenna, nel 998, poi il soglio pontificio nel 999. Come papa, Silvestro II fu molto più che un “semplice” cappellano di corte. Fu il primo ad intuire l’importanza delle società cristiane che si stavano formando ad est del mondo tedesco; promosse infatti l’evangelizzazione delle genti slave e, solo per fare un esempio, riconobbe Stefano I come re di una nuova nazione cristiana, quella ungherese. Morì nel 1003, dopo essere stato cacciato insieme all’imperatore due anni prima, e dopo aver subito una forte umiliazione da parte della nobile famiglia dei Crescenzi.

Ma perché è una figura così importante? Non è l’unico filosofo, politico e scienziato del suo tempo! Il punto è proprio questo. Non è l’unico, certamente, ma è l’unico a non essere allineato con la cultura dominante. Non mi riferisco tanto alla sua attività di filosofo che trovate, se vi interessa, soprattutto in un saggio, Sul razionale e sull’uso della ragione, pensato come disputa alla corte di Ottone III. Mi riferisco invece alla sua attività di “scienziato”.

Gerberto d’Aurillac, De geometria, fol 12v, Baviera, copia manoscritta del XII secolo.

Dai viaggi in Spagna aveva ereditato una forte passione per la matematica e l’astronomia; spesso andava alla ricerca di libri e di strumenti – come l’abaco e la sfera armillare – per osservare e studiare le stelle. Aveva indubbiamente una visione nuova della cultura e dell’insegnamento, se paragonata a quella diffusa intorno all’anno Mille, cultura intesa primariamente come lettura ed esegesi dei testi sacri (successivamente dei filosofi antichi).

Fu proprio questa caratteristica a creare attorno a lui un alone leggendario che lo dipingeva come un mago, uno stregone che era sceso a patti con il diavolo per apprendere le vie che conducevano ai tesori sepolti nel sottosuolo di Roma. O per il desiderio di sapere o, ancora, per ottenere fama e riconoscimenti. Queste istanze si trovano proprio nell’opera di Arturo Graf, intitolata Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo. 

Chi è Arturo Graf? Nato ad Atene nel 1848 da padre tedesco e da madre italiana, Graf trascorre l’infanzia a Trieste e in Romania; compie gli studi liceali e universitari a Napoli dove entra in contatto con De Sanctis. Nel 1876 inizia la sua carriera universitaria a Roma e nel 1882 diventa professore presso l’Università di Torino dove nel 1883 è nominato rettore. Nel 1883 è tra i fondatori del Giornale Storico della Letteratura Italiana.

Arturo Graf

Nel 1907 lascia l’insegnamento (si è spento nel 1913). Tra il 1892 e il 1893 pubblico in due volumi una raccolta di saggi intitolata Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo che non ha avuto successo per il giudizio negativo dato da Benedetto Croce, secondo cui Graf sarebbe stato incapace di una autentica operosità scientifica (per fortuna la scuola francese delle Annales ne ha finalmente riconosciuto i meriti).

Graf non ha dato solo contributi alla demonologia dantesca. Nel saggio La leggenda di un pontefice (Silvestro II) ripercorre la vicenda del dotto di Aurillac dipingendolo come un mago nell’ambito dello studio dei sospetti e delle diffidenze che l’opinione popolare nutriva verso le attrattive del potere. In questo quadro, Silvestro II diventa emblema dell’uso della magia di derivazione demoniaca proprio a causa della sua familiarità con la scienza. Qual è il punto? Il mito in Graf non è solo espressione del pensiero fantastico, ma ha una radice storica in quanto è inteso come proiezione di una credenza (o fantasia interiore) nel tempo e nello spazio.

E qui la credenza popolare che origina il mito del “mago scellerato” trae origine dalla diffidenza nei confronti della scienza. Il ricorso al mantello della magia è certamente un buon artificio letterario. Se, però, astraiamo da questo aspetto e ci facciamo qualche domanda sul significato di una storia di questo tipo, scopriamo che l’argomento è attuale. Consiglio il libro di Graf non solo perché è ben scritto ed è una miniera di curiosità per l’appassionato di storia, ma soprattutto perché ci può far riflettere sulla potenza che finiscono per avere le false credenze, se pervicacemente condivise da molti, nella ricostruzione della storia della scienza (di cui il Nostro fa certamente parte).

Bibliografia:

ARTURO GRAF, Miti, leggende e superstizioni nel medioevo, Mondadori.

Perché i greci non inventarono la macchina a vapore ?

Non appena una civiltà raggiunge un dato livello di controllo e manipolazione del proprio ambiente si trova d’avanti un bivio, che la porterà a scegliere se continuare sulla strada del progresso e dell’innovazione, progredendo quindi verso una sempre maggiore capacità tecnica o continuare sulla strada della gerarchia, mantenere attiva l’istituzione della schiavitù rendendo così, la propria civiltà statica e limitando la propria capacità di produrre “profitto e ricchezza”.

Alla civiltà che si trova a dover compiere questa scelta, le due strade presentano sia vantaggi che svantaggi, e se da un lato i profitti legati all’istituzione dello schiavismo possono essere ridotti rispetto ai profitti legati alla produzione industriale, è anche vero che la produzione industriale necessita di macchinari costosi e difficili da implementare, e la promessa di un profitto maggiore deriva prevalentemente dalla disponibilità di una società di rischiare tutto.

L’innovazione tecnologica da questo punto di vista può spaventare, perché rappresenta un incognita, e gli esseri umani sono naturalmente spaventati da ciò che non conoscono, tuttavia, tecnica e tecnologia sono elementi fondamentali di una civiltà, senza di essi una vera civiltà è impossibile e impensabile, e non mi dilungherò sul tradizionale esempio dell’invenzione dell’aratro che permette ad un popolo di passare dal nomadismo alla vita sedentaria, iniziando così a costruire i propri villaggi e le proprie città.

Gli effetti della tecnica e della tecnologia sulla nostra civiltà sarebbero diventati particolarmente evidenti nel diciannovesimo secolo, in seguito alla rivoluzione industriale, portando con essi un crescente interesse per lo studio della storia della scienza e delle tecnologie, in questo senso gli scritti di Samuel Smiles sono un esempio più che eloquente, successivamente questo interesse sarebbe progressivamente venne meno, fino a sparire quasi del tutto agli inizi del secolo successivo.
Questa parentesi aurea nel diciannovesimo secolo ci ha permesso di comprendere meglio le dinamiche del pensiero scientifico, e soprattutto, ci ha permesso di capire perché, alcune civiltà del mondo antico, scelsero la via della gerarchia e della schiavitù, con tutti i loro vantaggi e vantaggi, frenando così la propria capacità di sviluppo tecnologico.

Nel mondo antico, più precisamente nel mondo greco e greco-romano, la tecnica era associata all’attività delle classi inferiori, più precisamente degli schiavi, ed era vista come un “arte minore”, e questo avrebbe reso la “scienza greca” particolarmente infeconda. Di fatto non ci furono “scienziati” nel mondo antico, anche perché questa istituzione sociale non sarebbe apparsa prima del diciassettesimo secolo, ma questo non significa che il mondo antico fosse totalmente alieno alla scienza e al pensiero scientifico, anzi, i greci erano convinti che tutti i fenomeni naturali fossero determinati da leggi e principi (e non dai capricci di qualche divinità, spiriti o demoni). Questa convinzione avrebbe permesso alla civiltà greca di sviluppare in modo notevole la matematica e avrebbe inventarono l’idea che, una data ipotesi per essere considerata vera, dovesse necessariamente essere certificata da una prova. Grazie alla sperimentazione, soprattutto degli intellettuali di Alessandria d’Egitto in eta tolemaica, gli intellettuali greci avrebbero dato un importante contributo alla cartografia, alla meccanica teorica e pratica, all’astronomia, alla chimica, alla medicina e all’anatomia. Ed è probabile che questi risultati fossero frutto dell’incrocio della cultura greca e quella egiziana.
Nonostante una prima promettente fase scientifica, e se bene il livello di conoscenza tecnico e tecnologico del mondo antico avrebbe permesso alla civiltà Greco-Romana di compiere un epocale balzo in avanti sul piano tecnologico, costruendo la macchina a vapore, emblema della rivoluzione industriale, la civiltà greca, giunta al bivio, non avrebbe dimostrato un interesse per la scienza maggiore rispetto a quello dimostrato da altre civiltà quali le civiltà Islamica, Indiana e Cinese, prediligendo invece le garanzie del tradizionale sistema schiavistico.
Non è un caso se il più grande lascito della civiltà greco-romana è legato all’ordinamento amministrativo e giuridico e non al mondo scientifico, e in questo senso è importante ricordare che, nessuna delle “meraviglie del mondo antico” fu opera dei romani.

La discrepanza tecnologica tra il mondo antico e quello moderno è enorme ed è facilmente spiegabile se si accetta la verità che i romani non fossero degli ingegneri di prim’ordine, ma che semplicemente si limitarono ad imitare e “copiare” le innovazioni tecnologiche dei popoli con cui entravano in contatto e che invece l’età medievale fu un epoca particolarmente prolifera a livello tecnico, e non fu solo un periodo in cui su “abbandonò” e si trascurarono gli acquedotti e le strade romane.
Sorvolando sulle grandi città, sulle cattedrali, sulle fortezze ed i castelli che nulla avevano da invidiare, a livello tecnico e ingegneristico, alle ville romane e ali acquedotti. Durante il medioevo si sarebbero prodotte una serie di innovazioni tecniche che ancora oggi sono alla base della nostra civiltà.
Un confronto tra il sapere tecnico del medioevo e il mondo antico, la superiorità del sapere medievale appare immensamente superiore. I grandi motori della tecnica medievale non risiedono in Europa, ma nel mondo cinese, indiano e arabico, i quali furono i mediatori privilegiati in grado di condurre in Europa e nel mediterraneo il sapere scientifico proveniente dall’Asia.
Il mondo arabo aveva ereditato le basi del proprio sapere matematico, filosofico e astronomico dal mondo greco, e a questi avrebbe aggiunto un nuovo sapere proveniente dall’Asia e grazie ad esso avrebbero dato un ulteriore importante contributo alla medicina, soprattutto ottica ed olfattica, avrebbero sviluppato lo studio della chimica e prodotto una serie di innovazioni tecniche ad essa connesse.

Lo sviluppo tecnico dell’Europa medievale, se bene fosse una reazione e un imitazione dello sviluppo tecnico della prima civiltà islamica, denota comunque un importante livello di apertura culturale che avrebbe gettato le basi per uno sviluppo proprio europeo nei secoli successivi.
Un esempio più recente di una dinamica analoga possiamo incontrarlo nell’estremo oriente contemporaneo, in particolare in Cina, Korea e Giappone. Questi popoli sono spesso etichettati, sul piano tecnologico, come dei copiatori, degli imitatori della tecnologia Europea o Americana, ma la loro imitazione (a differenza di quella romana) non è statica, ed ha prodotto una propria identità tecnologica.

Un elemento indispensabile per lo sviluppo tecnologico di una civiltà è senza ombra di dubbio la sua capacità e disponibilità di imparare. Introdurre tecnologie di popoli stranieri per certi versi è anche piu’ importante dello sviluppo di tecnologie proprie, un esempio in questo senso ci arriva dalla Cina che ha alle proprie spalle una lunga storia di invenzioni e scoperte interne, ma che, difficilmente, negli secoli scorsi, ha permesso l’ingresso di tecniche e tecnologie straniere nel proprio paese, andando incontro ad un inevitabile inaridimento della propria tecnologia.
Nell’Europa medievale invece, la dinamica è totalmente invertita, le scoperte e le invenzioni interne sono relativamente poche, ma c’è una grande disponibilità ad imparare e introdurre nuove tecniche, così gli artigiani medievali avrebbero potuto sviluppare ed aggiornare continuamente le proprie tecniche finché non sarebbero stati in grado di sviluppare nuove e originali tecniche e tecnologie.

Fonti:
D.S.L. Cardwell, Tecnologia, scienze, storia, Il Mulino, Bologna 1976

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