LINEA GOTICA. L’offensiva finale. Aprile 1945 – Intervista all’Autore Massimo Turchi

Qualche tempo fa, grazie a Diarkos Editore, ho avuto modo di intervistare Massimo Turchi, autore di una trilogia di libri sulla Linea Gotica, la cui ultima fatica si intitola Linea Gotica – L’offensiva Finale, aprile 1945.

Grazie all’editore ho avuto anche la possibilità di sfogliare il libro in anteprima, ma per questioni di tempo, organizzazione e festività, non sono riuscito a realizzare una guida alla lettura in tempo, ma ho avuto il piacere di scambiare comunque qualche email con l’autore e di seguito riporto la nostra intervista integrale.

Introduzione all’intervista a Massimo Turchi

Buongiorno, come anticipato, ecco alcune domande per l’intervista.
Come potrà notare, ho preferito dare più spazio a lei, alla sua attività di ricerca e di divulgazione che non al libro in sé, da storico e divulgatore, ciò che mi interessava capire e raccontare ai miei lettori è cosa l’ha portata a scrivere questo libro, cosa l’ha spinta a scegliere determinate fonti, e cosa l’ha portata a raccontare determinate storie.

Sono tre domande che avrei potuto porre in modo diretto, secco, ma in quel modo, temo si sarebbe persa una parte importantissima che è la sua storia personale in relazione alla linea gotica, che invece è ciò che mi interessa offrire ai miei lettori.

L’Intervista

Di libri che parlano e raccontano le vicende della linea gotica ce ne sono diversi, alcuni, come credo sia anche il suo, portano con sé un’eredità storica, e non ho potuto resistere alla tentazione di cercare di capire quale eredità desidera lasciare ai suoi lettori.

Partiamo dalla domanda più semplice, che quasi certamente le avranno già posto.

Da quel che ho potuto osservare lei ha dedicato una parte significativa della sua vita allo studio della linea gotica, e quindi, banalmente le chiedo, cosa ha acceso in lei questo interesse così profondo?

Nel farle questa domanda ho in mente la prefazione del testo Peccati di Memoria, la mancata Norimberga italiana, di Michele Battini, che fu mio docente di storia politica all’Università di Pisa.

La trilogia della Linea Gotica nasce dai racconti delle persone che hanno vissuto la guerra. Se devo indicare una data, questa è sicuramente il giugno del 2002, quando con l’associazione “Vecchia Filanda” abbiamo organizzato un convegno sulla battaglia della Riva Ridge, combattuta nel febbraio 1945. Per l’occasione abbiamo invitato soldati americani, tedeschi e i partigiani per parlare delle loro esperienze vissute durante la battaglia. Ascoltare i loro ricordi, vedere negli occhi le emozioni che avevano vissuto sulla Riva Ridge mi ha spinto ad approfondire storicamente le vicende belliche. Da quel momento – per me – il luogo dove questa battaglia è stata combattuta, non più stato lo stesso: è diventato catartico. Quindi con l’associazione abbiamo dato vita all’esperienza della metodologia didattica del “diorama vivente” con lo scopo di far “toccare con mano” agli alunni e agli adulti le storie delle persone che su quei monti hanno intrecciato parte delle loro vite e i traumi vissuti.

La seconda domanda è quasi consequenziale alla prima, da quanto ho potuto leggere, il suo interesse e la sua passione per la storia e le vicende che hanno caratterizzato la linea gotica durante la seconda guerra mondiale, l’hanno nel tempo a raccontarla in vari modi e attraverso vari strumenti, uno tra tutti l’associazione “Linea Gotica – Officina della Memoria” di cui ad oggi è presidente.

L’associazione Linea Gotica – Officina della Memoria, nasce proprio da quell’esperienza, con l’obiettivo di proporre una nuova narrazione dei luoghi della memoria: una narrazione a 360 gradi, ovvero dove sono presenti tutti i diversi punti di vista, tenendo però sempre ben presente cosa significava combattere per una parte o per l’altra. È quindi una narrazione che vuole suscitare domande, rompere la dicotomia buono vs. cattivo.

Con la vostra associazione raccontate la linea gotica mantenendo un contatto diretto con i  luoghi della memoria e questo mi porta alla domanda vera e propria.

Quanto è importante, secondo lei, il legame fisico con il territorio per comprendere appieno gli eventi della Linea Gotica e l’esperienza di chi li ha vissuti?

Sì, per noi il luogo è la componente fondamentale della narrazione, è il mezzo dove si riesce a ri-creare il collegamento con l’evento storico. Uno dei nostri obiettivi, se non il principale, è proprio quello di riportare le esperienze vissute dalle persone nei luoghi dove sono accadute.

Da quel che leggevo nel testo, il suo è un approccio narrativo “bottom up“, che per chi non lo sapesse, parte dalle storie locali e dalle esperienze personali per arrivare a temi più generali. In altri termini la sua narrazione è un ibrido tra la metodologia di rilevazione etnografica e la narrazione micro storica. Non mi ha quindi sorpreso trovare nella bibliografia di riferimento un testo di Mario Alberto Banti, anche lui è stato mio docente, di Storia Culturale, all’Università di Pisa.

Leggi la mia “Recensione” di wonderland di Mario Alberto Banti

Volevo quindi chiederle, quali sono le influenze che l’hanno ispirata, se ci sono autori, storici, saggisti, ricercatori, ecc, che hanno ispirato il suo lavoro sia nella metodologia che nella narrazione?

In breve, l’idea di una narrazione di questo tipo è nata spontaneamente, dopodiché ho letto tantissimi libri di molti autori storici, ma anche di psicologi sociali. Il punto è che la guerra, per chi l’ha vissuta, è un trauma che ha avuto delle conseguenze a livello di relazioni familiari più o meno importanti, ovviamente a seconda del tipo di trauma che la persona ha vissuto. Il focus di questa narrazione è però rivolto al pubblico, soprattutto ai ragazzi, in modo da suscitare in essi un interesse e soprattutto un invito a porsi delle domande. Se devo citare un autore cito James Hillman e il suo testo “Un terribile amore per la guerra”, ma ce ne sono moltissimi altri altrettanto importanti.

La maggior parte dei testi legati alla seconda guerra mondiale, o almeno, quelli che generalmente sono più apprezzati da un pubblico generalista, riguardano soprattutto aspetti militari e politici, lei invece, ha preferito le esperienze umane, e in un contesto complesso e delicato come quella parte di mondo tra il 1943 e il 1945, non è facile da gestire, soprattutto a livello personale. Parliamo di traumi, stragi e sofferenze, raccontata sulla base anche di testimonianze dirette. Personalmente quando per alcuni esami e relazioni all’università, mi sono ritrovato a leggere testimonianze di ciò che accadeva quotidianamente lungo la linea gotica, confesso di aver riscontrato non poche difficoltà, soprattutto sul piano emotivo.

Mi viene quindi quasi naturale chiederle, come ha gestito, a livello personale, il carico emotivo derivante dall’immergersi in queste storie così drammatiche per così tanti anni? 

Guardi, ho iniziato a fare le prime interviste nel 1995, poi, in maniera più sistematica a partire dal 2002. Tutte le persone che ho conosciuto o di cui ho letto le testimonianze le porto con me e quando mi reco sui luoghi di memoria, quelle persone, i loro occhi, le loro storie sono lì.

Comunque non è semplice, anche se, a mio avviso, andava fatto.

Il tempo, mi rendo conto, essere un elemento ricorrente in questa intervista, lei ha iniziato a lavorare, in maniera diretta o indiretta, a questo libro, nel lontano 2002, sono passati 23 anni da allora, e in così tanto tempo, immagino che di storie ne abbia sentite tante, di domande ne abbia fatte e ricevute tante, e, prometto che è l’ultima domanda legata al tempo.

Volevo chiederle se e come è cambiato il suo approccio narrativo e storiografico in questo lungo percorso. 

Sì, col tempo l’approccio è cambiato, si è sempre più affinato, per cercare di rendere più efficace la narrazione, dando un risalto maggiore al testimone, senza mai trasfigurare l’umiltà delle persone.

Non so se ha avuto modo di notare, ma i testimoni che ho riportato nella trilogia sono sempre persone semplici: soldati, partigiani, civili, parroci e altro, difficilmente troverà gli alti comandanti, perché quello che mi interessava, e mi interessa tuttora, è la storia delle persone semplici, umili.

Ogni tanto una domanda sul libro forse dovrei farla. Nella prefazione a cura di Mirco Carrattieri, viene evidenzia la presenza di ben trentotto nazionalità sugli Appennini durante quel periodo.

Nel suo lavoro di ricerca e scrittura, come ha cercato di dare voce o rappresentare questa incredibile diversità di esperienze e provenienze che hanno composto il fronte della Linea Gotica?

L’aspetto della multiculturalità della linea Gotica è un aspetto che non viene quasi mai colto e che invece, a mio avviso, rappresenta un enorme interesse. Nella trilogia ho cercato di puntare molto sulla multiculturalità, cercando testimonianze di soldati delle trentotto nazioni (all’epoca, oggi cinquantadue) e delle minoranze all’interno delle stesse nazioni: penso ai maori della Nuova Zelanda, agli irlandesi del Regno Unito e del Canada, ai nativi americani, così come agli afroamericani o ai Nisei, o alle stesse minoranze presenti nell’esercito indiano, ai brasiliani, alle varie confessioni religiose: cattolici, ebrei e molto altro. Persone quindi che provenivano da società molto diverse da quella italiana con la quale hanno interagito e, comunque, lasciato un segno del loro passaggio. Mi permetto di rimandare all’Introduzione al primo volume dove analizzo proprio la complessità e la “ricchezza” della linea Gotica in questo senso. 

Più in generale, un concetto che traspare è che per lei ogni testimonianza e documento rappresentano solo una parte di una storia enormemente più ampia e complessa. Di storie da raccontare lungo la linea gotica ce ne sono infinite, e di fronte a scenari così grandi, densi di elementi, scegliere un punto di partenza, un punto d’arrivo, e una strada da percorrere, può non essere facile.

Come ha affrontato lei la difficile sfida di ricostruire eventi complessi basandosi su fonti spesso parziali, frammentarie o in alcuni casi contraddittorie?

Sì, ha ragione, sicuramente non è stato un lavoro semplice, ho dovuto privilegiare i territori coinvolti nelle direttrici di sfondamento principale delle armate alleate, da quando è iniziata l’operazione di sfondamento della linea Gotica (fine agosto 1944), fino al raggiungimento del fiume Po (fine aprile 1945). Dichiarato così i confini cronologici e geografici, il resto del lavoro è stato quello di ricercare quegli eventi – non solo bellici – funzionali alle azioni di sfondamento della linea Gotica. Con questo lavoro meticoloso di ricerca alcune volte mi è capitato di evidenziare episodi quasi sconosciuti, a scapito di altri sopravvalutati.

Il confronto tra le tante fonti è stato fondamentale, e questo mi ha permesso di arricchire di particolari la narrazione dell’evento, componendo così la complessità che stavo cercando. A volte è capitato – per fortuna in pochissimi casi – di trovare contraddizioni tra le fonti; comunque leggendo a fondo, leggendo anche tra le righe, quelle contraddizioni si sono via via sfumate.

Non ho potuto fare a meno di notare che negli “Aggiornamenti” lei presenta nuove scoperte e, cosa più importante, corregge errori precedenti. Questo ammetto che mi ha colpito, perché dimostra un impegno notevole e costante che ha come fine quello di raccontare gli eventi della linea gotica per ciò che furono, con distacco e professionalità storiografica. Ma mostra anche un evidente desiderio di trasparenza nei confronti del lettore.

La ringrazio per averlo notato. Sì, ho voluto una sezione “Aggiornamenti” per il secondo e per il terzo volume perché dalla pubblicazione dei primi due la ricerca storica è proseguita e mi sembrava doveroso tenerne conto. L’editore poi mi ha concesso di creare una pagina internet gratuita, dove i lettori possono scaricare strumenti utili alla consultazione dei tre volumi e gli ulteriori Aggiornamenti dei libri che verranno pubblicati in futuro.

La domanda che segue a queste osservazioni quindi, non può che essere una. Al di là della ricostruzione storica, qual è il messaggio o l’eredità principale che spera di lasciare ai lettori con questa monumentale opera sulla Linea Gotica? Che per inciso, non mi riferisco al libro, ma all’interezza della sua attività di ricerca e divulgazione della linea gotica.

Cosa vorrebbe che rimanesse, in particolare alle nuove generazioni, di queste “Storie”?

I messaggi sono due. L’invito a visitare i luoghi di memoria e i piccoli musei sparsi che custodiscono le memorie locali degli eventi. Il secondo è di provare a mettersi nei panni delle persone che hanno vissuto – forse sarebbe più appropriato dire subìto – la guerra, per evitare che accada di nuovo.

Considerazioni finali 

L’intervista con Massimo Turchi è stata molto interessante, almeno per me, e spero anche per voi. Parlando e confrontandomi con lui ho potuto notare una reale e autentica passione nel raccontare un angolo di mondo, vicende storiche e storie di persone che di quel mondo e quelle vicende ne sono stati testimoni più o meno diretti.

Si tratta di un sentimento comune che ho riscontrato spesso lungo le vie della linea gotica, il più acceso e caldo fronte della seconda guerra mondiale, un luogo di memoria che fu testimone di massacri indicibili e crimini atroci, dettati dalla più feroce crudeltà umana, camuffata da ideologia politica.

Come saprete ho vissuto per molti anni a La Spezia e i luoghi e memoriali della linea gotica e della guerra civile italiana, ho avuto modo di esplorarli e vederli con i miei occhi, ho avuto modo di conoscere tante persone per le quali quella guerra ufficialmente conclusa 80 anni fa, non è mai finita del tutto. E ancora oggi portano con se le ferite legate alla perdita dei propri cari.

Mussolini tagliò il Debito Pubblico: Verità o Propaganda?

La teoria che Mussolini ridusse il debito pubblico italiano è infondata; in realtà, il debito crebbe e l’Italia pagò un prezzo alto per presunti “tagli”.

Periodicamente torna a circolare su diversi quotidiani e social la storia per cui Benito Mussolini sarebbe stato l’unico uomo ad aver tagliato il debito pubblico italiano. Questa stravagante teoria non è nuova, ed emerge spesso negli ambienti di un certo orientamento politico, vicino agli ideali di Mussolini e del Fascismo, ma corrisponde alla verità o si tratta solo di Propaganda?

Come ogni questione storica, la risposta purtroppo non è semplice, e liquidare il tutto ad una frase non è semplice, ma, al di la della complessità della vicenda, una cosa è certa, dire che Mussolini tagliò il debito italiano è falso, ma andiamo con ordine.

Il contesto economico pre-fascista: L’eredità della Grande Guerra.

Prima dell’ascesa al potere di Mussolini e l’avvento del fascismo, l’italia si trovò ad affrontare diversi e gravi problemi di natura economica, elemento che accompagnò tutti i paesi europei impegnati nella grande guerra.

Per riavviare il paese, riconvertire il sistema produttivo e rilanciare l’economia, l’italia fece ricorso all’emissione di moneta e a molteplici interventi da parte di Banca d’Italia per “salvare” le aziende in difficoltà. La nuova moneta immessa sul mercato era solo in parte coperta dall’emissione di titoli di stato e di conseguenza la moneta italiana andò in contro ad una forte svalutazione.

L’alta inflazione che ne derivò andò a colpire soprattutto le fasce più povere della popolazione, principalmente lavoratori dipendenti che, allo svalutarsi della moneta ed il conseguente incremento dei prezzi, non videro corrispondere un aumento dei salari.

In questo clima economico, fortemente sfavorevole e di grande tensione si verificarono gli avvenimenti del famoso biennio rosso (1919-1920) che causarono gravi disordini in tutto il paese e spinsero molti lavoratori impoveriti a sostenere il Fascismo poiché, neanche Giovanni Giolitti, che in passato era stato protagonista di una stagione splendente per l’economia italiana, riuscì a risolvere la crisi e sanare il debito crescente.

Questa fu la situazione che spianò la strada alla prese di potere da Quando nell’ottobre del 1922 Vittorio Emanuele III affidò il governo a Mussolini, l’italia si trovava in una situazione stagnante, con un enorme debito crescente alimentato da una moneta molto debole ed un enorme spesa statale.

Questa lunga premessa può sembrare noiosa, ma è fondamentale per capire esattamente se Mussolini riuscì a tagliare realmente il debito, se non lo ridusse ma riuscì comunque a contenerlo o se invece provocò un incremento del debito pubblico italiano.

La politica economica fascista: Ruolo di Mussolini e gestione De’ Stefani (1922-1925).

A questo punto bisogna aprire una breve parentesi sull’orientamento economico del regime, la politica economica fascista, detta della terza via, si colloca in un limbo, una zona grigia intermedia che derivavano dall’orientamento dei vari ministri delle finanze, dall’ideologia fascista e da varie contingenze nazionali e internazionali. E a tal proposito è importante ricordare che, se bene Accentrò nelle proprie mani numerosi ministeri ed esercitò grande influenza e pressioni sui ministeri che non erano di sua competenza, Mussolini non fu mai ministro delle Finanze, del Commercio e del Tesoro.

Mussolini fu ministro dell’Areonautica, degli Esteri dell’Africa italiana, delle Colonie, delle Corporazioni, della Guerra, dei Lavori Publici e della Marina, ma nessuno di questi ministeri era in grado di intervenire direttamente sul debito, e anzi, i suoi ministeri erano quelli che assorbirono maggiori risorse economiche, giocando de facto un ruolo attivo nell’incremento e non nella riduzione della spesa, ma andiamo con ordine.

Sul piano puramente linguistico possiamo dire con assoluta certezza che Mussolini, attraverso i suoi ministeri, non fece nulla per ridurre il debito, resta però da capire se invece il governo fascista, nel suo complesso, riuscì in qualche modo a ridurre il debito o comunque a contenere la spesa limitando l’aumento del debito.

Tra il 1922 ed il 1925, il ministero delle finanze e del tesoro fu affidato ad Alberto De’ Stefani che attuò una politica di grandi tagli alla spesa pubblica, e cercò di incrementare le entrate, con l’intento di rimettere in ordine il bilancio dello stato. Una politica comune in situazioni di questo tipo, da Agostino Magliani (ministro delle finanze agli albori della prima crisi economica del regno d’italia nell’ultimo quarto dell’ottocento) a Mario Monti.

Per quanto riguarda la riconfigurazione delle entrate, De’ Stefani non intervenne aumentando le tasse come spesso avviene, ma al contrario, osservando che una fetta enorme della popolazione era esclusa dalla partecipazione contributiva, fece in modo di allargare la base, tassando quelle fasce sociali fino a quel momento escluse, e allo stesso tempo, ridusse le aliquote per categorie sociali ritenute più inclini all’investimento.

Detto più semplicemente, tassò le fasce più povere della popolazione, fino a quel momento esonerati e ridusse le tasse all’alta e media borghesia, producendo così un incremento delle entrate dovuto al maggior numero di contribuenti.

L’intento di De’ Stefani era quello di rilanciare l’iniziativa privata e ridurre le spese dello stato, spese che, in quel momento, erano rappresentate soprattutto dai salari di dipendenti pubblici, e di conseguenza il taglio della spesa si configurò come un taglio netto nel personale dei settori “improduttivi” dello stato, licenziamento di circa 65.000 impiegati pubblici e circa 27.000 ferrovieri e favorendo l’ingresso dei privati in alcuni settori, fino a quel momento sotto il controllo dello stato, come il settore assicurativo, ferroviario e telefonico.

In termini numerici gli interventi di De’ Stefani furono positivi e il bilancio, almeno quello statale, fu riportato in pari, mentre quello degli enti locali non fu mai parificato durante tutto il ventennio. In ogni caso, questi interventi favorirono una leggera ripresa e innescarono un lieve processo di crescita per il paese che però non risolse il problema monetario, la lira valeva sempre meno e anche se, in termini numerici il debito cresceva più lentamente, il minor valore della lira, rendeva più difficile un suo risanamento.

Fin dai tempi dalla grande guerra la Banca d’Italia si era impegnata nel sostegno delle imprese e banche immobilizzate dalla riconversione e questo impegno continuò durante i primi anni del fascismo, producendo tra il 1922 e il 1925 un incremento di liquidità che portò ad un ulteriore ondata inflazionistica, alimentata da un peggioramento della bilancia dei pagamenti.
Nel 1925 De’ Stefani promosse alcuni provvedimenti che però si rivelarono insufficienti e portarono ad un tracollo della borsa italiana e al fallimento di numerose aziende italiane.

La gestione Volpi (1925-1928) e la ristrutturazione del debito estero.

Gli industriali rappresentavano lo zoccolo duro del fascismo ed avevano molta influenza sulle azioni del governo, così, per non perdere il loro consenso, Mussolini sostituì il ministro delle finanze, assegnando l’incarico a Giuseppe Volpi.

Volpi rimase in carica dal 1925 al 1928 e durante il suo mandato giocò un ruolo decisivo per le sorti economiche e di bilancio dell’Italia.

Sul piano internazionale il 1924, con il piano Dawes aveva visto la fine alla questione delle riparazioni tedesche e si stava valutando un ritorno delle nazioni al gold standard per stabilizzare le monete, idea nata in seno al trattato di Versailles.

Nonostante questo però, la forte svalutazione della lira, il peggioramento della bilancia commerciale e numerosi altri fattori speculativi, non resero semplice il lavoro di Volpi e come se non fosse abbastanza, il fallimento del rinnovo dei BOT venticinquennali nel 1924, dovuto alla grande richiesta di liquidità di banche e privati, impedì all’Italia di emettere nuovi titoli di stato.

Nel 1925 il bilancio interno ufficialmente era in pari, ma nei fatti non lo era, nel bilancio infatti non erano stati conteggiati i titoli di stato da ripagare e l’italia, fortemente indebitata, non era in grado di ripagare i propri debiti.

Volpi decise quindi di agire in sintonia con la Banca d’Italia che sostenne il cambio, riuscendo a raggiungere un accordo con gli in investitori americani più favorevole in termini assoluti, ma va precisato gli investitori americani raggiunsero accordi simili in tutta europa e tra i tanti, l’accordo italiano fu quello “meno morbido“, il merito di Volpi non fu quindi quello di aver trovato un accordo favorevole, come spesso si dice, ma fu quello di aver trovato un accordo.

Sul finire del 1925 gli il governo statunitense accordò all’Italia un prestito, noto come Prestito Morgan, il cui intento era quello di risollevare la lira, di fatto acquistando parte del debito pubblico italiano. Sulla stessa linea nel gennaio del 1926 l’italia trovò un accordo simile con il regno unito. Secondo questo accordo l’italia cedette al regno unito la propria quota di riparazioni tedesche, gestite della Cassa autonoma di ammortamento dei debiti di guerra, costituita il 3 marzo 1926.

Analisi critica del “taglio”: Un pareggio di bilancio pagato a caro prezzo.

Grazie a questo accordo l’italia riuscì a ripagare parte dei propri debiti esteri, rinunciando al flusso costante di ripartizioni di guerra tedesche.

A questo punto, in termini numerici l’italia era ufficialmente in pari con il bilancio, ma questo pareggio come detto, va contestualizzato e il contesto è quello di un paese che ha dovuto ricorrere letteralmente al baratto.

L’italia ha “cancellato” il proprio debito consegnando ai propri creditori tutto quello che aveva, l’italia ripaga i propri creditori cedendo titoli esteri acquistati dal tesoro in precedenza e rinunciando alle proprie riparazioni di guerra, dal valore di diversi milioni di marchi pagati in oro ogni anno, pagamenti che la Germania avrebbe interrotto qualche anno più tardi con una decisione unilaterale in seguito all’avvento del Nazismo e di Hitler, e che avrebbe ricominciato a pagare nel secondo dopoguerra.

Il Trattato di Versailes aveva imposto alla Germania il pagamento di 132 miliardi di marchi oro, e parte di quell’oro sarebbe andato all’Italia, e anche se rateizzato, la quota italiana delle riparazioni di guerra aveva un ammontare complessivo enormemente superiore al proprio debito.

Conclusione: La smentita storica dell’affermazione sul risanamento del debito.

In conclusione, se è vero che sul piano linguistico è falso dire che Mussolini tagliò il debito, ma nei fatti questo taglio è riconducibile a Mussolini, allo stesso tempo, è vero dire che il fascismo tagliò il debito, ma nei fatti, questo taglio è costato all’Italia miliardi in oro, avrebbe contribuito ad alimentare una progressiva e crescente svalutazione monetaria e produsse, parallelamente alla cancellazione del debito, l’impossibilità per l’italia di ottenere nuovi prestiti e finanziamenti, trascinando il paese verso un progressivo impoverimento generale che non sarebbe stato possibile disinnescare se non fosse stato per gli aiuti postbellici, ricevuti dopo la seconda guerra mondiale.

Dire quindi che Mussolini e il fascismo hanno “sanato il debito pubblico italiano” è la cosa più falsa che si possa dire.

Fonti e letture consigliate

V.Zamagni, Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie storica, in “Rivista di storia economica”, Il Mulino, 3/1988, dicembre.
P.Frascani, Finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni trenta.
R. de Felice, Mussolini il fascista, la conquista del potere, 1921-1925.
S. Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza fra Giolitti e Mussolini.
G.Mele, Storia del debito pubblico italiano dall’unità ai giorni nostri, Tesi di laurea presso università Luiss, Dipartimento di Economia e Management Cattedra di Storia dell’economia e dell’impresa, A.A. 2014/2015.

Il Piano Solo

Il Piano Solo rappresenta uno dei capitoli più controversi dell’Italia Repubblicana, che ancora oggi è oggetto di dibattito e discussione sulla sua natura. Contestato e considerato da molti come un tentativo di golpe e giustificato da altri come un piano “anti-golpe”, la sua natura è stata valutata e scrutinata nel dettaglio da una commissione d’inchiesta parlamentare.

Elaborato durante la prima crisi di governo della IV legislatura, a pochi mesi dalla nascita del primo governo di centrosinistra dell’Italia repubblicana, il piano, mai messo in atto, prevedeva il monitoraggio e l’arresto di politici e sindacalisti, soprattutto in area di sinistra, in caso di grave crisi politica e sociale, ad opera dell’Arma dei Carabinieri.

Protagonista di primo piano dell’intera vicenda il generale, medaglia d’argento della resistenza e comandante dell’arma dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo.

A distanza di oltre 60 anni dalla progettazione di quel piano segreto, oggi disponiamo di un gran numero di informazioni e documenti, preclusi a chi se ne occupò e ne parlò tra anni 60 e 70, in particolare noi oggi disponiamo dell’intera documentazione analizzata e prodotta dalla commissione commissione d’inchiesta parlamentare sugli eventi del giugno-luglio 1964 (“SIFAR”), documenti che per molto tempo sono stati classificati e solo di recente sono stati declassificati.

La mole di documenti prodotta dalla commissione d’inchiesta è qualcosa di immensa, solo per il Generale De Lorenzo, comandante nel 1964 dell’arma dei carabinieri, disponiamo di migliaia di pagine, tra cui i verbali integrali delle quattro audizioni tenne di fronte alla commissione, rispettivamente il 23, 27, e 30 maggio 1969. Nel complesso, la documentazione integrale, disponibile e consultabile on-line presso l’archivio della camera, comprende oltre 116 audizioni a funzionari dell’arma dei carabinieri, 131 resoconti sommari, e 201 documenti, per un totale di oltre 45.000 pagine, che ho avuto la malsana idea di recuperare. Inoltre sul portale della camera è disponibile la relazione, in due volumi (circa 2000 pagine compelssive).

Tra i documenti sono presenti anche le liste dei “sorvegliati” del SID, ovvero i soggetti sensibili, potenzialmente sovversivi, che l’intelligence aveva attenzionato ed era pronta a sorvegliare o arrestare in caso di crisi politica o sociale.

Col tempo avrò modo di leggere tutta la documentazione e produrre sempre più materiale a riguardo, per il momento voglio limitarmi ad un articolo che abbia le seguenti finalità, definire il Piano Solo, contestualizzarlo storicamente ed esporre le valutazioni finali della commissione d’inchiesta, poiché questa fu attiva fino al 15 dicembre 1970, un momento storico molto particolare, poiché successivo, di 7 giorni al “Golpe Borghese“.

Il contesto storico in cui venne sviluppato il Piano Solo

Il piano Solo venne pianificato presumibilmente nell’estate del 1964, indicativamente tra Giugno e Luglio, nel pieno di una crisi di governo. Da quel che sappiamo, a sollecitare la pianificazione del generale Giovanni de Lorenzo, fu l’allora capo dello stato Antonio Segni, o almeno questa è la narrazione comune, come vedremo, le cose sono più complesse di così.

Ci troviamo in un momento storico di grande fermento politico e soprattutto grande preoccupazione politica, poiché l’Italia in quegli stessi mesi stava sperimentando il primo governo di centro-sinistra dell’età repubblicana, nonché il primo governo di centro-sinistra dai tempi di Bonomi, risalente agli anni venti, appena prima dell’avvento del Fascismo e l’ascesa di Mussolini.

Fatta eccezione per l’assemblea costituente, erano passati più di 40 anni dall’ultima volta la sinistra in Italia era stata in area di governo e da allora il mondo, e soprattutto l’Italia, erano profondamente cambiati, non solo perché c’era stato il regime fascista e la seconda guerra mondiale di mezzo, ma anche e soprattutto perché ci trovavamo in piena guerra fredda e uno sbilanciamento dell’Italia, troppo a sinistra poteva risultare come un qualche avvicinamento all’Unione Sovietica e questo era considerato una possibile minaccia non solo in Italia e per l’Italia, ma anche per l’Europa e la NATO.

Nel dicembre del 1963 nasce il primo governo Moro, un governo di centro sinistra, sostenuto dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialista Italiano, personalità chiave di questo governo furono Aldo Moro (DC) in quanto presidente del consiglio e Pietro Nenni (PSI) in quanto vicepresidente. Oltre questi due partiti principali, la coalizione di governo contava anche rappresentanti del Partito Socialista Democratico Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Questa coalizione sarebbe rimasta al governo per tutta la legislazione, fino al 1968, con i tre governi Moro.

Tra il governo Moro I e Moro II cambiano pochissimi funzionari, o meglio, diversi funzionari del PSI cambiarono posizione, segno di una tensione interna al PSI e di riflesso nella Coalizione. Più nel dettaglio, Umberto delle Fave (DC) ai rapporti con il parlamento del governo Moro I lasciò il posto a Giovanni Battista Scaglia (DC) del governo Moro II, il ministro al Bilancio Antonio Giolitti (PSI) venne sostituito da Giovanni Pieraccini (PSI), il ministro ai lavori pubblici Giovanni Pieraccini (PSI) venne sostituito da Giacomo Mancini (PSI), il Ministro alla Sanità Giacomo Mancini (PSI) venne sostituito da Luigi Mariotti (PSI) e il ministro del Lavoro e Previdenza sociale Giacinto Bosco (DC) venne sostituito da Umberto delle Fave (DC).

Da quel che sappiamo, nel pieno della crisi di governo, il 15 luglio 1964, il Presidente della Repubblica Antonio Segni convocò al Quirinale il generale dello stato maggiore e comandante dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, si trattò di un incontro ufficiale, non segreto ma a porte chiuse, la notizia della convocazione e dell’incontro venne data anche dai quotidiani e telegiornali dell’epoca.

In quel momento le tensioni all’interno del governo erano palpabili e indubbiamente c’era una forte preoccupazione istituzionale, come normale che sia nel pieno di una crisi di governo (anche se queste, nella prima repubblica erano molto più comuni e in realtà meno gravi di quanto non siano percepite oggi). Non c’è quindi da sorprendersi troppo se il capo dello stato, durante una crisi di governo, ha convocato ed incontrato diversi funzionari.

Uno di quei funzionari come già detto fu proprio il generale De Lorenzo e, in seguito avremmo scoperto, ricevette da Segni un incarico molto delicato, ovvero l’elaborazione di un piano d’emergenza per l’ordine pubblico, tale piano è oggi noto come Piano Solo, e avrebbe fatto dell’arma dei carabinieri l’esecutore e garante dell’ordine sociale in caso di grave crisi politica e sociale in Italia.

Il motivo per cui Segni si rivolse a De Lorenzo e l’arma dei carabinieri può avere diverse ragioni, sia strategiche che politiche, sul piano strategico, come apprendiamo dalle audizioni di De Lorenzo, è legato al regolamento dell’Arma dei carabinieri, inoltre, l’Arma gode di una diffusione capillare nel territorio italiano che non è seconda a nessun altro apparato militare o di polizia, di conseguenza può operare in situazioni d’emergenza con maggiore efficienza rispetto ad altri come esercito o polizia. Inoltre, pur essendo in quel momento un ramo dell’Esercito Italiano, i carabinieri dipendevano da due ministeri, quello dell’Interno e quello della Difesa, mentre il suo comandante, in questo caso specifico Giovanni de Lorenzo, rispondeva direttamente al Capo dello Stato. L’insieme di questi fattori rappresentava un elemento di primaria importanza nell’ottica in cui si fosse resa necessaria una mobilitazione totale in caso d’emergenza.

Il ruolo “esclusivo” e privilegiato dell’Arma dei carabinieri nel programma di mobilitazione generale, fu emblematico del nome con cui sarebbe diventato noto il Piano ovvero “Piano Solo” nel senso che il piano prevedeva l’intervento dei “soli” carabinieri.

Il 23 luglio 1964, a meno di 10 giorni dalla convocazione di De Lorenzo al Quirinale, Aldo Moro, Pietro Nenni e gli altri membri del secondo governo Moro II prestano, la crisi è rientrata e come abbiamo visto, fatta eccezione per alcuni cambi di posizione, il nuovo governo ha una composizione pressocché identica al precedente.

Appena un giorno prima del giuramento, il 22 luglio 1964, Pietro Nenni, ancora e nuovamente vicepresidente del consiglio, pubblica sull’avanti un proprio commento sulla crisi.

Le destre sapevano ciò che volevano e bisogna dire che sono state a un passo dall’ottenere ciò che volevano. Se il centro-sinistra avesse lanciato la spugna sul ring, il governo della Confindustria e della Confagricoltura era pronto per essere varato. Aveva un suo capo, anche se non è certo se sarebbe arrivato primo al traguardo senza essere sopravanzato da un qualche notabile democristiano. Aveva per sé la più vasta orchestrazione di stampa quotidiana e periodica che mai abbia operato in Italia. Aveva punti solidi di appoggio in ogni parte del Paese. Aveva un suo disegno strategico: la umiliazione del Parlamento dei partiti e delle organizzazioni sindacali a cui dava forza la minaccia, puramente tattica, delle elezioni immediate.

Pietro Nenni, L’Avanti, 22/07/1964

Lo scandalo del Piano Solo

Passata la crisi, nell’estate del 64, la mobilitazione prevista dal piano Solo non fu più necessaria, e l’esistenza stessa del Piano Solo rimase abbastanza segreta. Nota per lo più a funzionari istituzionali e vertici di governo e delle opposizioni. Sarebbe stata però rivelata all’Italia e agli italiani, in maniera estremamente fragorosa, nel maggio del 1967 quando, su L’Espresso, Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi pubblicarono alcuni documenti relativi al Piano Solo, tra cui anche alcune controverse dichiarazioni attribuite al generale De Lorenzo.

Come possiamo vedere, in copertina viene attribuita la seguente frase al generale De Lorenzo «Stiamo per vivere ore decisive. La nazione, tramite la più alta autorità, ha bisogno di noi. Dobbiamo tenerci pronti per gli obiettivi che ci verranno indicati».

Si tratta di parole forti e di impatto che esplosero in uno scandalo politico senza eguali, e il dibattito pubblico che ne conseguì, ebbe come effetto la rimozione quasi immediata di De Lorenzo dalla carica di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, allo stesso tempo, il generale rispose alle accuse querelando per diffamazione i due giornalisti. Ne segue un lungo e tortuoso, molto controverso e complesso poiché, che nel frattempo è cambiato ancora ed ora siamo al governo Moro III, anche questo sostenuto dal PSI e con Pietro Nenni Vicepresidente, negò alla magistratura l’accesso alla documentazione necessaria per accertare e verificare le informazioni riportate da Scalfari e Jannuzzi, e senza possibilità di verificare tali documenti, il processo si concluse con una sentenza di colpevolezza per i due giornalisti.

All’epoca in molti si chiesero, e si chiedono tutt’ora, perché il governo Moro III negò alla magistratura l’accesso alla documentazione di quello che veniva dipinto come un piano di golpe che aveva nel mirino proprio il governo Moro e una parte delle forze politiche che lo sostenevano. La risposta a queste domande forse risiede nelle oltre 45.000 pagine di documenti dalla una commissione d’inchiesta, ma al momento risulta senza una risposta chiara.

Nel 1969, l’ex generale De Lorenzo, ora parlamentare, querelò altri due giornalisti, Gianni Corbi e Carlo Gregoretti, per articoli analoghi a quelli pubblicati da Scalfari e Jannuzzi nel 67, ma, a differenza dei loro predecessori loro vennero assolti con formula piena, pertanto, Scalfari e Jannuzzi fecero ricorso per richiedere la propria assoluzione. A questo punto sembra che il generale De Lorenzo decise di rimettere le querele, e le parti coinvolte accettarono la remissione.

Come dicevamo, nel frattempo De Lorenzo era passato dallo stato maggiore al parlamento, questo passaggio avviene nel 1968 con l’inizio della V legislatura, durante la quale De Lorenzo entrò in Parlamento tra le fila del Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica. De Lorenzo non rimane a lungo nel PDIUM e nel 1971 aderisce al Movimento Sociale Italiano, che in quel momento è presieduto da Augusto De Marsanich, politico attivo, quasi senza interruzioni fin dal 1929. Tra gli “ex fascisti” attivi nell’Italia repubblicana, fu uno dei promotori della linea moderata del MSI che portarono all’allontanamento di individui più radicali come Juno Valerio Borghese.

La commissione di inchiesta sul piano solo

La commissione d’inchiesta sul Piano Solo fu istituita il 15 aprile 1969 e rimase in attività fino al 15 dicembre 1970, ci troviamo agli inizi della V legislatura e in questo periodo l’Italia vide il susseguirsi di quattro governi, Rumor I, II, III e Colombo.

Come anticipato, la commissione acquisì un quantitativo enorme di documenti, testimonianze, e produsse una mole di documenti altrettanto imponente. Tra i primi ad essere ascoltati, ci fu il deputato Giovanni De Lorenzo, considerato l’attore principale del Piano Solo, a lui vengono dedicate 4 audizioni tenutesi il 23, 27 e 40 maggio 1969.

La prima audizione ebbe luogo il 23 maggio alle ore 09:20, fu presieduta dal deputato (ex senatore) e presidente della commissione Giuseppe Alessi, ed fu strutturata in sette gruppi di domande.

  • Il primo gruppo, come si legge nel verbale della seduta riguarda l’attività svolta dal generale dell’arma in materia di ordine pubblico, nel giugno-luglio 1964.
  • Il secondo gruppo di domande fu in riferimento al tema specifico della costituzione, dell’origine, della struttura e dell’impiego della Brigata meccanizzata dell’Arma dei carabinieri.
  • Il terzo gruppo fu in riferimento a quello che venne definito “piano solo”.
  • Il quarto gruppo fu in riferimento alle liste del SIFAR, alla loro trasmissione e alle misure prese o predisposte per l’eventuale esecuzione di provvedimenti in ordine a tali liste.
  • Il quinto gruppo di domande fu invece in riferimento alle situazioni dell’ordine pubblico nel giugno-luglio 1964.
  • Il sesto gruppo di domande fu in riferimento ad eventuali visite con il presidente della Repubblica.
  • Il settimo ed ultimo gruppo di domande invece, interessava i rapporti tra il generale e la loro natura, in quel periodo (estate 1964) con personalità politiche o partiti. Fu inoltre posta una domanda conclusiva circa l’installazione di dispositivi tecnologici al quirinale.

Dopo quasi 20 mesi di audizioni, dibattiti e valutazioni, la commissione d’inchiesta parlamentare, ha prodotto delle valutazioni finali che accertavano e testimoniavano l’esistenza del piano Solo e ne definivano la natura.

Per la commissione il Piano Solo esiste, o meglio, esisteva un piano segreto predisposto dal generale De Lorenzo, che prevedeva l’impiego esclusivo dell’arma dei carabinieri in situazioni di emergenza politica o sociale. Tale piano era nato in risposta all’eventualità di scioperi generali, manifestazioni di massa o altre forme di agitazione ritenute “destabilizzanti” per l’ordine pubblico.

Il piano, una volta esposto nella sua interezza, emerse agli occhi della commissione d’inchiesta come uno strumento preventivo, per garantire il mantenimento dell’ordine pubblico in scenari di grave tensione sociale o politica e non sembra esserci alcun fine eversivo o sovversivo, né sembra esserci l’intenzione nel rovesciare il governo o di instaurare un regime autoritario.

Quanto al ruolo del generale De Lorenzo, la commissione ha individuato nel generale Giovanni De Lorenzo il principale artefice del Piano Solo. Inoltre, il piano venne elaborato nel merito delle funzioni istituzionali del comandante dei Carabinieri, pertanto, non emersero responsabilità penali direttamente imputabili al generale.

Stando a ciò che emerge dalla commissione, oltre al capo dello stato e i vertici militari coinvolti, sembra che anche diverse figure politiche, membri del governo e delle opposizioni, nell’estate del 64, furono messe a conoscenza del Piano

Durante le indagini sembrerebbe essere emerso anche un forte coinvolgimento del SID (Servizio Informazioni Difesa) di cui lo stesso De Lorenzo è stato direttore tra il 55 ed il 62. Il coinvolgimento dei servizi segreti militari sembra sia stato determinante nella raccolta di informazioni e nella redazione di elenchi contenenti persone considerate potenzialmente pericolose per l’ordine pubblico. Questi individui sarebbero stati posti sotto controllo o fermate in caso di attuazione del piano.

Sebbene il Piano Solo non avesse ufficialmente un “colore politico”, i documenti esaminati dalla commissione, in particolare gli elenchi redatti dal SID, sembrano contenere principalmente cittadini legati alle sinistre, ai sindacati e ad altre organizzazioni politiche o sociali, che, in caso di attuazione, sarebbero stati oggetto di misure restrittive.

Gli elenchi oggi sono stati declassificati, pertanto sono pubblici e consultabili presso l’archivio della camera e molti di essi sono disponibili in forma digitale, per scaricarli è sufficiente fare richiesta con lo SPID.

Conclusioni

Nell’estate del 64, durante la crisi del primo governo Moro, il generale Giovanni De Lorenzo, su sollecitazione del presidente Segni, produsse un piano teorico da attuare in caso di gravi disordini sociali e politici, una sorta di piano d’emergenza anti-golpe, che prevedeva monitoraggio ed arresto di diverse centinaia di soggetti attenzionati dal servizio di sicurezza militare. L’intera operazione sarebbe stata gestita, se necessario, in maniera esclusiva dall’Arma dei Carabinieri. Di questo piano segreto furono messi al corrente vertici politici, militari ed esponenti di governo ed opposizioni.

Anni dopo, una commissione d’inchiesta ha analizzato e valutato il piano segreto, ritenendo che non fosse un piano di matrice sovversiva, e che anzi, si trattava di un piano d’emergenza, per far fronte ad un ipotetica crisi politica, sociale o golpe.

Situazione che in realtà si sarebbe verificata, qualche anno più tardi, nella notte tra il 7 e 8 dicembre del 1970, appena una settimana prima che la commissione terminasse i propri lavori, quando l’ex comandante della X Mas, e criminale di guerra Juno Valerio Borghese, tentò un vero e proprio colpo di stato, occupando RAI, Ministeri e diversi obbiettivi strategici, per poi ritirarsi poche ore dopo, quasi senza un apparente ragione, creando un casuale intreccio tra due eventi molto particolari e controversi.

Bettino Craxi, i suoi ultimi vent’anni, di Umberto Cicconi | Guida alla lettura

Bettino Craxi, i suoi ultimi vent’anni. Una biografia molto intima di Craxi curata da Umberto Cicconi, fotoreporter e caro amico Craxi

Qualche settimana fa, l’editore Diarkos mi ha contattato per la pubblicazione del nuovo libro di Umberto Cicconi, “Bettino Craxi, i suoi ultimi vent’anni“. Si tratta di una biografia di Craxi, scritta da una persona che, al di la delle vicissitudini politiche e storiche, è stato, per lungo tempo “un ombra discreta” dello stesso Craxi, almeno secondo le parole di Vittorio Michele Craxi, meglio noto come Bobo Craxi, figlio secondogenito dell’ex presidente del consiglio, a cui è affidata la prefazione del libro.

Come anticipato su Instagram, quando ho ricevuto il libro, la mia guida non sarà esente da critiche all’opera e anzi, punterò soprattutto la lente sulle problematiche del libro, il cui racconto, senza nulla togliere alle competenze dell’autore, è molto personale e vivido.

Umberto Cicconi non è solo un reporter e fotografo che ha seguito da vicino l’ultimo ventennio di Craxi, ma è anche un amico di famiglia dei Craxi, legato a Bettino di cui è stato fotografo personale e, per ammissione dello stesso Bobo, un caro amico anche dei figli.

Oltre alla prefazione di Bobo Craxi, il libro contiene anche una postfazione a cura di Ananda Craxi, figlia di antonio Craxi, fratello minore di Bettino.

Come Bobo anche Ananda sottolinea la vicinanza di Cicconi a Craxi, e, nella sua postfazione scrive “Cicconi, come lo chiamava lo zio (Bettino) è l’unica persona che io conosca rimasta fedele alla storia della vita di Bettino Crazi. Lui è letteralmente accanto a zio per tutti i sette anni trascorsi ad Hammamet, quando lo Zio era solo ed il mondo gli aveva voltato le spalle”. aggiungendo poi che Cicconi, “si è dimostrato più di un figlio per Bettino, fino alla fine della sua vita.”

Prefazione e postfazione ci mostrano in maniera evidente e inopinabile che vi è un profondo legame umano tra l’autore dell’opera e il soggetto della stessa, tuttavia, la presenza di questi tasselli in apertura e chiusura della biografia, contribuiscono a mettere in guardia il lettore da quell’opera che, come l’ha definita Bobo, non è propriamente un racconto storico di Craxi, quanto più un “lungo omaggio affettuoso” all’uomo e all’amico.

Vi è dunque una profonda onestà intellettuale da parte dell’autore che non nasconde e anzi, tende a sottolineare il proprio affetto all’uomo e la vicinanza alla famiglia Craxi, di cui in un modo o nell’altro è entrato a far parte.

Prima di cominciare con la guida alla lettura voglio segnalarvi un interessante intervista al professor Luigi Musella in cui il nostro collaboratore Sunil Sbalchiero, in cui hanno parlato proprio di Craxi e del PSI.

Chi è Umberto Cicconi

Come anticipato nell’introduzione, Umberto Cicconi è un fotoreporter che ha seguito da vicino le vicende e la storia personale politica di Craxi in qualità di suo fotografo personale e, a partire dalla fine degli anni novanta e primi anni duemila, ha pubblicato diversi libri di carattere biografico e aneddotico legati alla figura di Craxi, e, a ridosso della scomparsa dell’ex leader socialista, nel 2001 pubblica, in collaborazione con la fondazione Craxi, un album fotografico intitolato “Craxi. Una Storia“, ricco di fotografie che raccontano non solo il politico e lo statista, ma anche e soprattutto l’uomo Craxi.

Sulla stessa linea nel 2005, insieme all’editore Sapere 2000 pubblica un libro intitolato “Segreti e Misfatti – Gli ultimi vent’anni con Craxi“, un opera che dal sapore biografico, con prefazione del giornalista Antonio Ghirelli, ricca di aneddoti personali che la critica all’epoca definì come un racconto contenente giudizi, pensieri e ricordi di Craxi.

Al di la del legame personale con Craxi, Cicconi si è occupato anche di altro nella propria carriera, pubblicando numerose fotografie su riviste di attualità e politica come L’Espresso, Panorama, Oggi, e Chi.

Volendo esprimere un giudizio critico su Cicconi, possiamo dire che le sue fotografie, le sue raccolte e le sue mostre fotografiche, hanno raccontato parte della storia quotidiana, politica e non solo, del novecento italiano. E proprio su questo tema si è concentrata una delle sue mostre più importanti, realizzata collaborazione con la Casa del Cinema di Roma, in cui sono state esposte, nel 2010, decine di fotografie dell’Italia dal secondo dopoguerra al boom economico.

Per quanto riguarda la vicinanza di Cicconi alla famiglia Craxi, come anticipato nell’apertura, questa è evidente, la stessa Ananda Craxi, nipote di Bettino, precisa, nella postfazione all’opera che Cicconi, durante gli anni dell’esilio tunisino di Craxi, è rimasto al fianco di Bettino.

La struttura del libro

Chiusa la parentesi sull’autore che, utile per capire meglio quali possono essere i limiti dell’opera, guardiamo ora alla struttura del libro.

Copertina del libro Bettino Craxi, i suoi ultimi vent’anni, di Umberto Cicconi, edito da Diarkos editore

La biografia si apre con tre prefazioni, la prima a cura di Bobo Craxi, figlio di Bettino, la seconda, a cura di Giancarlo Governi e la terza a cura di Antonio Ghirelli, già curatore della prefazione di Segreti e Misfatti.

Alle prefazioni, che raccontano il legame dell’autore con il soggetto della biografia, fa seguito il vero corpus narrativo dell’opera, in cui Craxi viene raccontato da diverse angolazioni, con una narrazione trasversale che, attraverso l’uso massiccio di aneddoti, racconta gli ultimi 20 anni della vita di Craxi, dall’esperienza politica degli anni ottanta, fino alla fine dei suoi giorni ad Hammamet.

Seguono poi la postfazione di Ananda Craxi , nipote di Bettino e in fine, ma non meno importante, un capitolo intitolato “Profilo biografico di Bettino Craxi” curato da Angelo Ruggieri, già curatore della biografia di Craxi presente nel primo libro di Cicconi “Segreti e misfatti”.

Quest’ultimo tassello dell’opera si configura come una breve biografia che, in forma cronistica, traccia in modo estremamente puntuale i momenti salienti della vita di Benedetto Craxi, dalla sua nascita a Milano, presso la Clinica di via Macedonio Melloni il 24 febbraio 1934, alle 5 del mattino, passando per le tappe fondamentali della sua carriera politica, fino all’esilio e poi alla morte, avvenuta il 19 gennaio del 2000, alle 16:30.

Ruggiero ci fornisce un autentica crono storia di Craxi, puntuale e fattuale in cui gli avvenimenti che hanno segnato la vita dell’uomo e del politico, vengono esposti in maniera pura, senza alcun tipo di giudizio personale e vizi di forma.

La biografia

Prefazioni, postfazione e biografia finale sono ornamenti fondamentali per comprendere a meglio l’opera, ma la sua vera essenza si riversa nei 21 capitoli curati da Cicconi.

Questi, come anticipato, raccontano circa vent’anni di vita e storia Craxi, in modo trasversale, attraverso un massiccio utilizzo di aneddoti e considerazioni dell’autore.

Ognuno di questi capitoli, proprio per la loro natura trasversale, può essere letto in maniera scollegata da tutti gli altri, il lettore ha quindi la possibilità di soffermarsi su uno o più temi, senza dover necessariamente leggere l’intera opera, io stesso, durante la seconda lettura del libro, ho preferito soffermarmi solo su alcuni capitoli.

Particolarmente toccanti e vividi sono quei capitoli che forniscono una narrazione umana e personale, molto intima per certi versi, come ad esempio il capitolo dedicato alla famiglia Craxi che, da pagina 145 a 152 ci racconta una dimensione di Craxi esterna alle cronache e vicissitudini politiche.

Vi è un passaggio a pagina 149 in cui Cicconi racconta un aneddoto che ha come protagonisti se stesso, Bettino e Anna Maria Moncini, moglie di Craxi.

L’autore racconta di una festa alla quale, tra gli altri era presente l’allora segretario del PSDI Pietro Longo. Terminata la festa, mentre tutti rincasavano Craxi chiese a Cicconi se avesse trovato posto in albergo, Cicconi racconta che durante tutta la serata aveva detto di non aver trovato posto in albergo, allora Craxi, dopo una risata, lo invitò a passare la notte in casa sua e Anna aggiunse che bisognava procurargli anche un pigiama e una camicia per l’indomani, poiché Cicconi non aveva portato con se nulla.

L’aneddoto continua raccontando che, all’indomani mattina, Anna gli portò il caffè in camera.

Questo aneddoto è uno dei tanti che compongono il libro, e tra i tanti mi ha colpito particolarmente per la sua genuinità, è un ricordo personale, molto intimo e in un certo senso dolce che rimarca la già menzionata vicinanza dell’autore alla famiglia Craxi e che, allo stesso tempo, ci racconta l’uomo Craxi e non il politico o lo statista.

Ed è proprio in questo tipo di aneddoti che la biografia acquisisce il proprio valore, unico e inestimabile, poiché ci fornisce un racconto umano, ci racconta le sensazioni e le emozioni di Craxi attraverso la sua vita quotidiana.

In queste pagine non troviamo molto spazio per i grandi momenti politici, troviamo invece l’armonia familiare di un Craxi che si risveglia da una pennichella pomeridiana in una giornata di riposo, di una passeggiata domenicale, di una cena in famiglia, di una colazione veloce, ancora in vestaglia e pigiama.

Troviamo l’intimità e la normalità di uno dei grandi e controversi protagonisti della recente storia italiana.

Se da un lato capitoli come quello sulla famiglia Craxi sono in grado di strappare un sorriso al lettore che immagina il grande statista sporcarsi la camicia con del caffè durante la colazione, altri, come il capitolo dedicato alla parentesi tangentopoli, proiettano l’uomo nel contesto politico dell’Italia dei primi anni novanta, un Italia attraversata da scandali e inchieste giudiziarie che, nella narrazione dell’autore, Craxi visse con grande preoccupazione e solitudine.

Questi capitoli sono a mio avviso i più problematici, proprio per effetto della vicinanza dell’autore al protagonista della biografia, che in un momento storico di grande tensione e incertezza, viene raccontato in modo parziale. L’opera purtroppo, manca di distacco storico e i ricordi personali dell’autore, mettono in secondo piano le problematiche giudiziarie dello statista.

Considerazioni personali sul libro

L’opera in se è molto interessante e fornisce un racconto diverso, un immagine di Craxi che difficilmente troviamo in altre opere e in altre narrazioni. Quello di Cicconi è un racconto molto appassionato e vivido, sicuramente di parte per effetto del suo legame personale con Craxi, ma allo stesso tempo interessante.

Se si tiene a mente questo legame durante la lettura, e l’autore non mancherà di ricordarlo in tutto il corpus narrativo dell’opera, l’esperienza della lettura è sicuramente interessante e appagante.

Il libro è scritto in modo eccellente, la lettura è fluida e il lettore, grazie agli innumerevoli aneddoti è incentivato dalla curiosità ad andare avanti. In altri termini è un libro ben scritto, che si legge bene, in modo fluido, ma, bisogna stare attenti a non cadere nell’illusione.

Cicconi è un amico, quasi un figlio per Craxi, vede se stesso come parte della famiglia Craxi e la stessa famiglia Craxi lo vede e tratta come parte della famiglia e questo conduce al problema dell’imparzialità, che manca in modo assoluto nel libro.

La narrazione non è imparziale e non vuole esserlo, ma questo, per assurdo, non è un problema, non lo è perché l’autore è perfettamente consapevole del suo essere di parte e non lo nasconde ma al contrario lo ribadisce più e più volte nell’opera.

Come scritto da Bobo Craxi nella prima prefazione al libro, “Bettino Craxi, i suoi ultimi vent’anni” è un lungo omaggio affettuoso alla figura di Craxi, ed è esattamente così che deve essere trattato il libro. Come un racconto familiare, come un ricordo dell’uomo al di la della politica e delle vicende giudiziarie e, anche in quei più momenti cupi, l’autore rimane vincolato e fedele all’uomo, all’amico, senza alcuna pretesa di voler fornire una narrazione oggettiva e superpartes.

Se devo esprimere un giudizio complessivo sul libro, direi che alcuni capitoli sono più validi di altri e avrei preferito un libro con qualche capitolo in meno.

Non me ne voglia Cicconi, ma se avesse omesso i capitoli su Tangentopoli, sul primo governo socialista dell’Italia repubblicana e i capitoli sulle vicissitudini giudiziarie, lo avrei apprezzato molto di più.

A tal proposito, consiglio particolarmente la lettura dei capitoli sulla Famiglia Craxi e il capitolo intitolato “padri e figli” e sconsiglio il capitolo “Le Regole ci sono, ma gli arbitri sono di parte”.

Quest’ultimo è forse il capitolo nero del libro, un capitolo a mio avviso totalmente sbagliato, e per certi versi fuori luogo, che non dovrebbe essere presente nel libro, perché racconta un Craxi vittima, puntando il dito, proponendo giudizi, quasi puntando il dito contro la magistratura per aver svelato i misfatti dell’ex presidente del consiglio.

Un capitolo in altri termini vittimista e fazioso, di carattere politico, oltre che polemico, che, a mio avviso stona con i temi e i toni, del resto dell’opera.

Conclusioni

Bettino Craxi, i suoi ultimi vent’anni, è un libro da prendere con le pinze, per una buona lettura dell’opera, il lettore deve essere costantemente attento, per distinguere fatti e considerazioni personali. L’autore non manca di sottolineare la propria vicinanza a Craxi, e, se questa vicinanza nella maggior parte del libro, quando si parla dell’uomo Craxi rappresenta un valore aggiunto, in altre parti del libro, quando si parla del politico e dello statista Craxi, soprattutto in rapporto alle vicende giudiziarie dell’ex primo ministro, rappresentano un forte elemento di criticità che porta l’autore a commentare e raccontare da un punto di vista molto personale, alcuni eventi e avvenimenti storici che invece andrebbero affrontati con un forte distacco emotivo che nell’intera opera manca totalmente.

Paolo Thaon di Revel, il Duca del Mare della marina militare Italiana

Paolo Thaon di Revel fu un militare e politico italiano. Primo ed unico Grande Ammiraglio nella storia della marina militare italiana

Paolo Thaon di Revel (1859-1948) al secolo Paolo Camillo Margherita Giuseppe Maria Thaon di Revel, è stato uno dei grandi protagonisti della storia militare del regno d’Italia, fu infatti il primo, ed unico, uomo a ricevere, nel maggio del 1924 il titolo di Duca del mare ed è stato anche l’unico ammiraglio, in tutta la storia della marina italiana, monarchica e repubblicana, ad essere promosso al titolo onorifico di Grande Ammiraglio nel novembre del 1924.

Il motivo per cui Paolo Thaon di Revel nel 1924 ottenne queste onorificenze è principalmente politico, l’Italia, più precisamente l’Italia fascista, stava cercando di costruire una propria “mitologia” legata alla prima guerra mondiale, concedendo onorificenze e riconoscimenti a coloro che, durante e dopo il conflitto, si erano distinti in modo particolare, e Paolo Thaon di Revel era, agli occhi dei fascisti, l’eroe che a Parigi si era battuto per il rispetto del patto di Londra, de facto un precursore della teoria della vittoria mutilata, ma a parte questo.

La grande guerra di Thaon di Revel

Quando inizia la grande guerra, nel 1915 Thaon di Revel era capo di stato maggiore, tuttavia, in seguito a diverse controversie con l’allora comandante in capo dell’armata, il vice ammiraglio Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, Duca degli Abruzzi, Thaon di Revel rassegnò le proprie dimissioni al re Vittorio Emanele III al quale sembra si presentò con le seguenti parole

«Maestà devo combattere e guardarmi dagli austriaci, dagli Alleati e dagli ammiragli italiani. Le assicuro che i primi mi danno meno da fare degli altri due».

Non più capo di stato maggiore, Revel ottenne la nomina di comandante in capo del dipartimento militare marittimo di Venezia, dove, con grande lungimiranza, promosse l’utilizzo massiccio di nuove tecnologie belliche, come treni armati e motoscafi armati siluranti, più noti come MAS, praticamente dei mezzi d’incursione marittima, molto agili e veloci. Fu inoltre un grande sostenitore della teoria della supremazia dell’aria, promuovendo il potenziamento dell’aviazione nautica, precursore dell’aereonautica militare italiana.

Questo è un treno armato

Finita la guerra Revel partecipa, insieme al ministro degli esteri Sonnino, in qualità di delegato navale, alla conferenza di Parigi, dove difese i “diritti italiani sulla Dalmazia” e chiese il rispetto del Patto di Londra. La sua battaglia politica a Parigi fu molto apprezzata dai futuri sostenitori della teoria della vittoria mutilata.

Dal ministero della guerra alle controversie con Mussolini

Nel 1922 entrò a far parte del primo governo Mussolini, come Ministro della regia Marina e, insieme al generale Pietro Armando Diaz (Ministro della guerra) e di Giovanni Gronchi, futuro presidente della repubblica, in quel momento, Sottosegretario al Ministero dell’Industria e del Commercio, rappresentava uno degli uomini di fiducia del Re nel “primo governo nazionale”.

Durante il proprio mandato da ministro, Revel promosse la costruzione di due velieri da utilizzare come nave scuola, la Cristoforo Colombo e la Amerigo Vespucci, la prima venne ceduta, dopo la fine della seconda guerra mondiale, all’Unione Sovietica come parte dei pagamenti bellici, la seconda invece è ancora in servizio come nave scuola per la Marina militare italiana.

Revel era uomo di mistica fede monarchica, discendente di un’antica famiglia nobiliare molto vicina alla casa sabauda, e, sul piano politico, la propria fede nella monarchia non cessò mai di esistere, neanche di fronte ai tentativi di persuasione di Mussolini, con il quale, durante il proprio mandato di Ministro della Marina, si scontrò in diverse occasioni, al punto che, nel maggio del 1925, di fronte all’ennesima controversia, non condividendo la riforma dell’ordinamento militare che istituiva un comando supremo di tutte le forze armate, de facto subordinava la Marina all’esercito, Revel, che da tempo chiedeva un sistema di coordinamento delle forze armate, rassegnò nuovamente le proprie dimissioni dal ruolo di capo di stato maggiore.

Revel, un eroe “antifascista” del fascismo.

Durante la seconda guerra mondiale Revel partecipò come uomo di fiducia del Re agli incontri settimanali che si tenevano ogni giovedì al Quirinale, tuttavia sembra che non venne coinvolto direttamente nei negoziati per l’Armistizio probabilmente perché ormai già molto anziano.

Anche se per la propaganda mussoliniana Revel era un “eroe del fascismo” , quando Mussolini, tradì il re e promosse una secessione italiana fondando la RSI, Thaon di Revel rimase fedele alla casa reale rifiutando di aderire alla RSI. La sua inesauribile fede nella monarchia venne “premiata” con la nomina, a presidente del senato e successivamente entrò, in seguito all’abdicazione di Vittorio Emanuele III, entrò a far parte della cerchia ristretta di consiglieri di re Umberto II.

In vista del referendum del giugno del 46, Revel si schierò, per ovvie ragioni, a favore del blocco monarchico, successivamente, con l’avvento della repubblica, Paolo Thaon di Revel si ritirò a vita privata, per poi morire nel 1948 alla veneranda età di 89 anni.

Qualche informazione sulla famiglia Thaon di Revel

La storia di Paolo Thaon di Revel rappresenta solo l’ultimo capitolo della storia di una delle antiche famiglie nobiliari italiane, una famiglia che ha giocato un ruolo importantissimo nella storia italiana, nella storia del regno d’Italia e soprattutto, nella storia della dinastia Sabauda.

Fin dal loro arrivo in Piemonte, avvenuto nel XV secolo, i Thaon, poi Thaon di Revel al seguito della nomina sabauda a signori di Revel, hanno sempre guardato le spalle ai Savoia, furono proprio loro ad elevare i Thaon, da signori della guerra a capo di una compagnia di ventura, al rango nobiliare, prima come signori di Revel e poi come Marchesi, Conti e Duchi.

Per secoli i Revel sono stati dei fedeli servitori e protettori della dinastia sabauda, una piccola ma tenace casa nobiliare italo francese e la loro vicinanza alla casa di Savoia proiettò i Thaon di Revel nel vivo del risorgimento italiano.
Ottavio Thaon di Revel, padre di Paolo Thaon di Revel, fu uno dei più stretti collaboratori e consiglieri di Carlo Alberto di Savoia, fu deputato del regno di sardegna ininterrottamente tra la prima e la sesta legislatura e fu senatore del regno d’Italia, inoltre, nel 1848 fu Ministro delle finanze del regno di Sardegna, sotto i tre governi Bolbo, Alfieri di Sostegno e San Martino che si susseguirono in quell’anno, ma non solo. Sempre nel 1848, Ottavio Thaon di Revel, fu cofirmatario dello Statuto Albertino, la prima “costituzione” italiana, rimasta in vigore fino all’entrata in vigore della costituzione repubblicana.

Bibliografia

Scheda senatore Paolo Thaon di Revel
Grandammiraglio Paolo Thaon di Revel
Patto di Londra su JSTOR

Gli eroi di Mussolini – Guida alla Lettura

Guida alla lettura del saggio Gli eroi di mussolini, Niccolò Giani e la scuola di mistica fascista, di Aldo Grandi edito da Diarkos

Niccolò Giani, padre e ispiratore della scuola di mistica fascista, fondata nel 1930 insieme ad Arnaldo Mussolini, è protagonista di un interessante saggio semi biografico di Aldo Grandi. Il saggio sviscera il tema della scuola di mistica, in modo puntuale e critico, utilizzando come fonte primaria numerose lettere e scritti dello stesso Niccolò Giani. Nel complesso, il saggio risulta appassionato e interessante, anche se, non adatto a chiunque, è infatti necessaria una discreta conoscenza storiografica del ventennio. Conoscenza storiografica che non vuol dire conoscenza di miti propagandistici sul ventennio.

Circa un mese fa, era il 26 febbraio, mi è arrivato da Diarkos Editore una copia del libro “Gli eroi di Mussolini, Niccolò Giani e la Scuola di Mistica fascista” di Aldo Grandi, e, come da tradizione, dopo averlo letto, procedo con una breve, ma spero utile, guida alla lettura.

Faccio una premessa, riprendendo ciò che avevo originariamente scritto sul profilo instagram di Historicaleye quando ho ricevuto il libro, si tratta di una nuova edizione del libro Gli Eroi di Mussolini di Aldo Grandi, pubblicato inizialmente Rizzoli BUR Editore nel 2004.

Sono passati più di quindici anni dalla prima edizione e ancora, purtroppo, il saggio di Grandi continua ad essere uno dei pochissimi studi sulla scuola di mistica fascista. Come già osservava Giulia Beltrametti nella propria recensione alla prima edizione, pubblicata sul portale del SISSCO, la società Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, l’ultima opera monografica sul tema, prima di questo saggio di Grandi, è a firma Daniele Marchesini e risale al 1976.

Premesso quindi che Aldo Grandi è un giornalista che si è affacciato, da diverso tempo e in numerose occasioni al panorama storico e, citando ancora una volta Giulia Beltrametti nella sua recensione, in cui osserva che Grandi ci ha fornito un racconto biografico appassionato su Niccolò Giani e i membri della Scuola di mistica fascista, va fatto presente che, il tema affrontato è molto delicato e poco studiato, ciò implica un immenso, per non dire colossale, lavoro preliminare di ricerca e studio del fenomeno da parte dell’Autore.

Detto ciò, possiamo cominciare con la guida e direi di iniziare proprio inquadrando meglio l’Autore (di cui a breve dovrei pubblicare un intervista).

Chi è Aldo Grandi?

Aldo Grandi nasce a Livorno nel 1961 e si laurea in Scienze Politiche a Roma nel 1987. L’anno seguente, stando alla sua breve biografia pubblicata sul proprio portale, vince una borda di studio della “Poligrafici Editoriale Spa” che gli permette di avviarsi alla professione giornalistica. Grandi aveva già collaborato, durante gli anni dell’università, con le pagine culturali di Paese Sera e l’Avanti oltre che al periodico Lavoro e Società della UIL, all’epoca diretto da Aldo Forbice. Nell’aprile del 1990 diventa giornalista professionista nella redazione lucchese del quotidiano La Nazione e, dall’anno seguente collaboratore del Corriere della Sera.

Chi era Niccolò Giani?

Il saggio di Grandi ha come sottotitolo “Niccolò Giani e la scuola di mistica fascista”, credo sia quindi doveroso aprire un ulteriore parentesi preliminare per inquadrare al meglio Niccolò Giani, così da poter comprendere meglio l’intero saggio dal carattere semi biografico che ruota attorno a questo personaggio.

Niccolò Giani è stato il padre della corrente denominata “Mistica fascista” nonché fondatore della Scuola di Mistica fascista al centro del saggio di Grandi. Giani ha avuto un ruolo estremamente importante nella definizione del pensiero fascista, pur non essendo un fascista della prima ora, esso infatti aveva poco più di 10 anni quando Mussolini salì al potere, Giani nasce a Muggia, in Friuli, nel 1909, e la sua storia nel contesto fascista inizia nel 1930, anno in cui fondò, insieme ad Arnaldo Mussolini, fratello minore di Benito Mussolini, la sopracitata scuola di mistica fascista.

Padre e iniziatore della scuola, ma direttore solo per un breve periodo, Giani infatti lasciò la direzione della scuola, assunta nel 1931, sul finire del 1932, al seguito della XXI riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze (SIPS) che quell’anno coincise con il decennale della marcia su Roma. Durante il proprio intervento alla riunione Giani espose i principi della scuola di mistica e diede l’impulso alla produzione e pubblicazione dei Quaderni della scuola di mistica.

La storia personale di Giani si intreccia profondamente con la scuola di mistica ed è ampiamente esposta nel libro di Grandi, in questa sede ci interessava comprendere meglio chi fosse e quale fosse il suo legame con la scuola e il fascismo.

Concludiamo quindi la parentesi biografica su Giani segnalando che, nel 1940 partì volontario per il fronte Greco-Albanese, e che, proprio in quel contesto bellico, perse la vita, cadendo in combattimento nel marzo del 1941.

Le fonti dei Aldo Grandi

Come anticipato nell’introduzione, il tema della scuola di mistica fascista, tema estremamente importante per definire la cultura fascista durante il ventennio, è uno dei temi meno studiati e noti, sul quale sono stati condotti relativamente pochi studi e prodotte pochissime opere. Quando Aldo Grandi si è approcciato allo studio della scuola di mistica, ha dovuto inevitabilmente scontrarsi con il problema della scarsità di fonti e studi, dovendo quindi compiere un importante lavoro di ricerca in archivio, nell’intento di recuperare fonti di prima mano da poter scandagliare.

Se ci rechiamo tra le fonti bibliografiche consultate da Giani, indicate nel saggio, ciò che incontriamo è un enorme quantità di lettere e cartoline personali di Niccolò Giani, oltre ai suoi scritti pubblici e qualche raro saggio monografico. La scarsità di saggi ed altri studi nella bibliografia, va precisato ulteriormente, è stata una scelta obbligata dettata dalla scarsità di opere in merito e, a distanza di oltre 15 anni, la situazione non è molto cambiata, chiunque oggi voglia approcciarsi allo studio della scuola di mistica fascista, deve inevitabilmente passare per i registri della scuola e le lettere di Giani, affiancandole eventualmente alla lettura dei saggi di Grandi e Marchesini.

Il saggio Gli eroi di Mussolini di Aldo Grandi

Il saggio risulta appassionato e interessante, ma non adatto a tutti. Il tema affrontato è estremamente di nicchia, e non si rivolge ad un pubblico generalista. Per poter affrontare al meglio la lettura di questo saggio è opportuna una buona, se non ottima, conoscenza del ventennio. Il saggio ci pone di fronte alla storia di una vera e propria scuola di pensiero fascista, una scuola tra le tante, che si fa espressione di una delle numerose correnti interne al partito, partito che ricordiamo, era unico sulla carta ma non nella conformazione. Il PnF, se bene all’apice vedesse la figura di Mussolini, all’interno era molto frammentario, e, utilizzando classificazioni moderne, si configurava come una sorta di mega coalizione che, a seconda del dove e quando, andava dall’una o dall’altra parte.

Il libro solleva il velo del partito unico e mette a nudo i dibattiti interni del PnF, e, particolarmente interessante risulta il dibattito/polemica sulla chiesa cattolica che impegno per diverso tempo la scuola di mistica. Il saggio di Grandi ci racconta questa vicenda, a mio avviso molto interessante, in cui si discuteva della posizione della mistica fascista in relazione alla mistica religiosa, ci si chiedeva se poteva esserci una “mistica fascista indipendente da quella religiosa” e se quest’ultima poteva essere ignorata dalla mistica fascista. E questo avveniva agli inizi degli anni 30, all’indomani dei patti lateranensi che, a quanto si evince dai dibattiti interni, molto probabilmente erano contestati già all’epoca da una parte del PnF.

Ciò che emerge da questo libro sulla scuola di mistica è un PnF diverso da quello che siamo soliti immaginare, un PnF al cui interno, per quanto limitata, esisteva una pluralità di pensiero, pluralità che trova compimento nel 1943 quando il gran consiglio decise di rimuovere Benito Mussolini dalla guida del partito e dello stato italiano.

Conclusioni

Concludendo, il saggio è molto interessante, molto avvincente anche se non adatto a tutti. Pur non essendo l’opera di uno storico, il saggio si configura come un opera storiografica dal carattere biografico, ben definita. Come abbiamo visto vi è una buona pluralità di fonti, anche se principalmente fonti prodotte dalla stessa mano, quella di Niccolò Giani, ma, trattandosi di un opera “parzialmente biografica”, avere come fonti molte lettere di Giani, non risulta un grande problema. Alla fine, possiamo dire che il saggio racconta la scuola di mistica fascista di Giani, usando come lente lo stesso Giani. L’esperienza che ne consegue è una lettura sicuramente soggettiva (da parte di Giani) della scuola di Mistica e degli eroi del fascismo, condita con un analisi critica e raffinata, prodotta dall’autore che quindi, con abilità e intelletto, riesce a bilanciare la narrazione.

Orso Mario Corbino, il liberale che ha “introdotto le pensioni” in italia

Lui è Orso Mario Corbino e probabilmente non avete mai sentito parlare di lui. O, se ne avete sentito parlare, è in merito ad uno scandalo di tangenti che coinvolge la Standard Oil nel 1924.

Orso Corbino è stato un senatore del regno d’Italia durante il regime Fascista, eletto in parlamento per la prima volta nel 1921 e rimasto in carica fino al 1937, anno della sua morte.

Oltre ad essere un Senatore, Corbino, tra il 1921 ed il 1924, fu anche Ministro, prima dell’Istruzione e poi dell’economia nazionale, tuttavia, nonostante fu ministro durante il governo Mussolini I, Corbino non era un fascista, e non lo sarebbe mai stato.

La storia delle pensioni, in italia, è ovviamente molto più ampia di così, e inizia nel 1898 con la fondazione di un istituto che oggi conosciamo con il nome di INPS e che, tra il 1895 e il 1919, consentì ai dipendenti pubblici, su base volontaria, di avere accesso ad un indennità, una somma di denaro mensile versato dallo stato, una volta raggiunta una certa età e l’impossibilità di continuare a lavorare, associabile a quella che oggi chiamiamo pensione.

Posizione politica di Orso Mario Corbino

Orso Corbino era un liberale, un liberale convinto, eletto al senato del regno d’italia nel 1921 tra le fila del Partito Liberale Italiano, il partito della Destra storica, che in quel momento rappresentava tutto ciò che rimaneva dell’eredità di Cavour.

Nel 1921 Ivanoe Bonomi invitò Corbino nella propria squadra di governo, affidandogli il ministero dell’Istruzione, carica che avrebbe ricoperto fino al Febbraio del 22. Come sappiamo, nell’ottobre del 22 ci fu la marcia su Roma, che portò alla nascita del governo Mussolini I e proprio durante questo governo, nel luglio del 1923, in seguito ad un rimpasto di governo Orso Mario Corbino venne invitato, da Mussolini, a ricoprire l’incarico di Ministro dell’Economia Nazionale, andando così a rimpiazzare Teofilo Rossi, liberale Giolittiano che dopo la marcia su roma si era schierato a favore del fascismo.

I motivi per cui Mussolini sostituì Rossi con Corbino sono diversi, tra questi, la grande popolarità di Corbino sia tra i Liberali che i Socialisti, popolarità che quindi permetteva al PNF che governava con appena il 19% dei consensi, di poter legiferare.

Appena insediato al ministero Corbino si fece immediatamente promotore di una proposta di legge, poi diventata legge effettiva con il decreto legge 3184 del 30 dicembre 1923, con cui si rendeva obbligatoria la pensione.

La famosa legge con cui, da anni, i fascisti alimentano il mito di Mussolini e le pensioni. Ecco, quella legge lì, proprio la legge con cui “mussolini” introdusse le pensioni civili. Quella legge è stata proposta da un Liberale, oltre che accademico, che, in vita sua, non avrebbe mai aderito al fascismo e anzi, sarebbe stato uno dei primi senatori ad aderire al movimento antifascista.

La legge sulle pensioni

Questa legge in realtà non fu una creazione originale di Corbino, la legge era stata infatti proposta per la prima volta nel 1919, ma, in seguito al cambio di governo e degli equilibri politici successivi alle elezioni del novembre 1919, la legge aveva subito una brusca interruzione.

Nel febbraio del 1920 Dante Ferraris aveva provato a rilanciare il disegno, e lo stesso fece, nel giugno dello stesso anno il socialista Arturo Labriola, purtroppo però, Liberali e Socialisti avevano visioni diverse e il quadro politico dell’epoca, molto instabile, soprattutto per via dei turbamenti legati al biennio rosso, misero la legge in stasi.

Con le nuove elezioni del 1921 la situazione, almeno all’inizio, non migliorò, i liberali, con Bonomi, sostenuti inizialmente dai popolari ed altri partiti minori, ottennero la guida del governo, ma l’alta instabilità non permise di realizzare granché.

Nell’ottobre del 22, con la marcia su roma e la guida del governo affidata a Mussolini, la situazione migliorò solo di facciata, de facto le commissioni parlamentari produssero pochissimi testi che divennero effettivamente leggi, e i pochi che ci riuscirono, furono realizzati grazie al grande carisma dei promotori e la mobilitazione di tutte le forze politiche.

Orso Mario Corbino, certamente non mancava di carisma, come anticipato, fu invitato al ministero dell’economia nazionale, per la sua grande capacità, dimostrata durante l’esperienza da ministro dell’istruzione, di mettere d’accordo le diverse forze politiche, e trovare un punto di incontro su un terreno comune.

Corbino accettò l’incarico dal luglio del 23 al settembre del 24 fu Ministro dell’economia nazionale.

Corbino e la legge sulle pensioni

L’invito di Mussolini a Corbino non era disinteressato, l’abilità politica del fisico ed il suo carisma erano uno strumento importante e la popolarità di Crobino iniziava a crescere molto rapidamente, anche fuori dagli ambienti politici. Mussolini pensò quindi di legare il nome di Corbino al Fascismo, facendo di lui uno degli uomini chiave della propaganda.

Questo si tradusse in una totale autonomia di Corbino, che poté quindi operare liberamente, sostenuto dal fascismo, dai liberali, dai popolari e dai socialisti.

Grazie a questa libertà Corbino propose un disegno di legge che rendeva obbligatorie le pensioni, il disegno di legge fu il frutto di un compromesso tra le posizioni liberali e quelle dei socialisti sul tema, e ricevette l’approvazione di Mussolini e del fascismo, che vedevano in quella legge una doppia opportunità.

Se la legge fosse stata accolta in modo positivo dagli elettori, sarebbe stata rivendicata, come è stato, come un grande successo del fascismo, se invece sarebbe stata un flop, la responsabilità sarebbe stata scaricata sul promotore, che, non era fascista, rendendola quindi un fallimento di liberali, popolari e socialisti.

La legge venne accolta positivamente, e, anche se promossa da Corbino, la legge non venne mai chiamata con il suo nome, venne invece legata alla propaganda fascista, mentre Corbino, cadde nel dimenticatoio e, dopo le elezioni del 24, pur venendo riconfermato come senatore, il suo nome non figurò più nel roast dei ministri di mussolini.

Corbino e la massoneria

Sull’uscita di scena di Corbino vi sono varie teorie, da un lato alcuni sostenono che l’uomo, durante il proprio mandato ministeriale, abbia intascato una tangente dalla Standard Oil insieme al ministro Gabriele Carnazza, entrambi massoni della Serenissima Gran Loggia d’Italia.

Secondo questa ipotesi, i massoni di Piazza del Gesù sarebbero dietro al delitto Matteotti, il quale sarebbe stato assassinato per coprire le tangenti riscosse dai propri adepti.

Questa ipotesi è tuttavia altamente improbabile, si fonda esclusivamente su incartamenti privati di Mussolini, scagiona Mussolini dal delitto Matteotti, ed incrimina gli unici due ministri, del primo governo Mussolini, non fascisti.

Questa storia presenta molte irregolarità, ed è fin troppo conveniente per Mussolini, autore delle uniche prove a sostegno di questa teoria, prove che sono emerse durante le indagini sul delitto Matteotti.

In ogni caso, uno dei principali sostenitori di questa teoria è il saggista statunitense, ex agente dell’OSS, Peter Tompkins, autore di libri molto popolari come “Dalle carte segrete del Duce”, 2001, la cui autorevolezza storiografica è prossima allo zero, si tratta di libri più inclini alla narrativa che non alla narrazione storica, in cui si elaborano teorie cospirative, estremamente affascinanti, ma non basate sul metodo comparativo.

Se volete leggere qualcosa sul tema della massoneria, vi consiglio il libro La Massoneria, la storia, gli uomini, le idee, a cura di Zeffiro Ciuffoletti e Sergio Moravia

Conclusioni

Orso Mario Corbino è stato un accademico e politico italiano, due volte ministro tra il 1921 ed il 1924, prima come ministro dell’Istruzione, sotto il governo Bonomi e poi ministro dell’economia nazionale sotto il governo Mussolini.

Nonostante Corbino fu ministro nel primo governo di mussolini, il fisico non aderì mai al fascismo e mai ne condivise i valori o gli ideali. Nel 1925 Corbino si unì al movimento antifascista e fu uno dei pochi politici italiani che non si iscrissero mai al Partito.

Corbino fu un uomo molto riservato ed un politico molto carismatico, capace di mettere d’accordo socialisti e liberali, una dote rara che gli permise di portare a compimento un progetto legislativo iniziato nel 1919, creando le pensioni civili.

Un merito incredibile che il fascismo riuscì a strappargli facendolo proprio.

Corbino fu anche al centro di uno scandalo che emerse durante le indagini sul delitto Matteotti, uno scandalo probabilmente costruito ad Hoc da Mussolini per allontanare le indagini dal reale mandante e liberarsi allo stesso tempo di un possibile rivale ed oppositore politico.

La legge Corbino, mai chiamata con questo nome, è stata una delle pochissime leggi, insieme alla Legge Acerbo, ad essere prodotte in italia durante il primo governo Mussolini.

In ogni caso, le pensioni in italia sono un invenzione dei Liberali, rese possibili dal compromesso tra liberali e socialisti e nell’iter legislativo che portò alla creazione della legge 3184 del 30 dicembre 1923, il ruolo di Mussolini e del Fascismo fu assolutamente marginale. La legge venne proposta da un Liberale, venne votata da tutte le forze politiche, e il solo contributo dato dal fascismo alla legge, in fase di scrittura, fu il voto favorevole alle camere, un voto obbligato dal fatto che la legge era stata proposta da un ministro del governo Mussolini I, anche se, quel ministro, non solo non era un Fascista, ma mai lo sarebbe stato.

Il ricordo storico delle Foibe

Oggi è la giornata delle memoria per le vittime delle Foibe, parliamo allora delle vittime delle foibe. Ma parliamone in termini storici e senza fare propaganda.

Quando si parla delle Foibe, la prima cosa che si dice è che furono uccisi perché “colpevoli di essere italiani”.
La verità, è leggermente più complicata di così e la storia che le vittime delle foibe furono vittime di un qualche odio verso gli italiani/italiofoni, è in realtà, frutto della propaganda.

La vera “colpa” delle vittime delle foibe (e con questo non voglio assolutamente giustificare i foibisti, anzi, condanno i loro crimini, non meno disgustosi di quelli del fascismo e del terzo reich) non era quella di “essere italiani o italiofoni” perché tra i foibisti, in realtà, c’erano moltissime persone che parlavano italiano, e che erano molto più vicini alla cultura e alle tradizioni italiche che a quelle dell’area balcanica.

La loro colpa era quella di essersi rifiutati di lasciare le terre che pochissimi anni prima avevano occupato, la loro colpa era quella di essere andati lì come fascisti e di aver stuprato donne e assassinato brutalmente chiunque si fosse opposto a loro, erano colpevoli di aver cacciato i locali dalle proprie terre e dalle proprie case e di essersi impossessati di quelle terre e di quelle case.
Va però altresì detto che non tutti gli “italiani” o per essere più precisi, tutti i non slavi nella regione rientravano in questo profilo, vi erano anche moltissime persone che erano andate lì come lavoratori stagionali e che erano rimaste lì, pacificamente, e che avevano vissuto pacificamente con i locali, ma purtroppo, durante le ondate “nazionaliste” quando si va a tracciare una linea di confine tra “noi e loro” chiunque non sia “noi” diventa automaticamente portatore di tutti i crimini commessi dagli altri, e di conseguenza moltissimi italiani innocenti, vennero trattati come dei criminali e vennero messi al bando, vennero cacciati e costretti ad andare via, a lasciare per sempre quelle terre, in un modo o nell’altro.
Alcuni capendo la situazione fuggirono, e i primi a fuggire furono proprio quelli con la coscienza sporca, quelli che si sentivano direttamente minacciati, molti altri invece, non avendo fatto nulla di male, decisero di rimanere, e nel rimanere, andarono in contro alla rappresaglia disumana e sproporzionata dei foibisti e vennero trattati, come gli italiani avevano trattato chi si era rifiutato di giurare fedeltà al Fascismo.
Vennero arrestati, portati sui monti, assassinati e gettati nelle Foibe.

Ciò che è successo è stato schifoso e disumano, e lo è stato sia prima che durante che dopo la guerra, è stato disgustoso e disumano il comportamento degli italiani prima e durante la guerra, nei confronti dei locali, così come lo è stato quello dei locali, dopo la guerra, nei confronti degli italiani, e personalmente trovo altrettanto schifoso far finta che la colpa sia solo dell’una o dell’altra parte, senza invece considerare il contesto storico e tutto ciò che vi era dietro e che tra il 1919 (dall’occupazione di fiume) e il 1945 aveva contribuito ad alimentare tensione e intolleranza nella regione.

Le vittime delle foibe sono anzitutto vittime del Nazionalismo cieco e brutale, sono vittime della generalizzazione, dell’incapacità di distinguere il vero colpevole, da un qualcuno che si trovava lì per caso, ed è abbastanza surreale, che oggi, siano proprio i nazionalisti e sovranisti a puntare il dito contro i crimini del nazionalismo e il sovranismo della jugoslavia di Tito.

Va detta anche un altra cosa, nel 1948 il governo italiano, in accordo con il governo jugoslavo, ha scelto di mettere una pietra su questa vicenda, di passare oltre.
L’italia nel dopoguerra aveva tanti problemi, e rischiava di perdere il controllo di alcune città e regioni di “frontiera” a causa di una disputa sulla liberazione, con la Jugoslavia, inoltre vi erano accuse reciproche, tra Italia e Jugoslavia, di aver commesso atroci crimini durante il periodo bellico.

Settant’anni dopo, quello che è successo va assolutamente ricordato, ma va ricordato in modo Storico, come fatti ormai conclusi da oltre settant’anni. Delle stragi, gli eccidi, la pulizia etnica, sia in età fascista che nel regime di Tito, va preservata la memoria storica, non va invece proseguita la narrazione politica, politicizzata e propagandistica.

Anche perché, a volerla dire tutta, fu la corrente di destra della DC e successivamente il MSI a spingere per l’archiviazione dei fascicoli per crimini di guerra, mentre il PCI si configurò nella scena politica degli anni cinquanta, come l’unico partito italiano condannò apertamente i crimini di guerra della Jugoslavia e che a più riprese, in modo costante fino al 1954 e in modo saltuario fino ai primi anni sessanta, chiese pubblicamente la riapertura dei fascicoli, ma la sua voce rimase inascoltata fino a quando non svanì del tutto.

Bibliografia e Fonti

Michele Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza. 
Jon Elster, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche, Il Mulino.
Jacques Sémelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Einaudi.
Joanna Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, Carocci.
Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia, Einaudi.
Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori, Feltrinelli.
Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Storia dell’emigrazione italiana, Donzelli.
Corrado Barberis, Le campagne italiane dall’ottocento ad oggi, La Terza

Il primo bombardamento aereo della Storia

1 novembre 1911, l’italia era nel vivo della guerra italo turca, e Giulio Gavotti, un aviatore italiano, in questa data alle prime luci dell’alba partì a bordo del proprio monoplano Etrich Taube, un monoplano di fattura tedesca, ufficialmente per un operazione di ricognizione che, per iniziativa individuale dell’aviatore, si trasformò nel primo bombardamento aereo della storia.

Va detto che, prima del 1911 i dirigibili erano già stati utilizzati per operazioni offensive, e quindi c’erano già stati dei “bombardamenti aerei” tuttavia, nel 1911 , per la prima volta, l’offensiva fu portata a termine da un aereo-plano e non da un dirigibile, ed è proprio l’uso dell’aereo-plano l’elemento di novità che avrebbe cambiato per sempre il volto della guerra, segnando un punto di non ritorno nelle operazioni belliche.

Del bombardamento aereo del 1911 durante la guerra italo turca abbiamo molte informazioni e numerose fonti, una in particolare ci permette di ricostruire quei momenti, attraverso la testimonianza diretta di Giulio Gavotti, all’epoca un semplice aviere che da poco aveva terminato il corso di allievo ufficiale a Torino con il 5º reggimento “Genio Minatori” , dopo questa operazione, la carriera di Gavotti sarebbe decollata portandolo fino al grado di Tenente Colonnello, ma questa è un altra storia.

Il resoconto dettagliato degli avvenimenti del 1 novembre ci viene fornito da Gavotti, oltre che dal rapporto missione ufficiale, anche da una più interessante lettera, indirizzata al padre e che, vista la ricchezza di informazioni sul volo, si presume essere stata scritta nella stessa giornata del 1 novembre 1911. In questa lettera Gavotti scrive.

"Ho deciso di tentare oggi di lanciare delle bombe dall'aeroplano. È la prima volta che si tenta una cosa di questo genere e se riesco sarò contento di essere il primo."

Da queste prime parole possiamo osservare che Gavotti è perfettamente conscio di ciò che sta per fare, il suo obbiettivo è quello di mettersi in mostra con i propri superiori, lui è perfettamente consapevole di ciò che sta per compiere e, a discapito di quello che molti pensano, la sua azione non è stata improvvisata, ma anzi, è stata pianificata, se bene non sia chiarissimo quanti i superiori di Gavotti sapessero effettivamente delle sue intenzioni. Dal rapporto missione emerge una certa ambiguità lessicale, e probabilmente la sua era un operazione clandestina o comunque.

Il testo della lettera comunque continua dicendo che sarebbe quella mattina del 1 novembre era partito alle prime luci dell’alba “Appena è chiaro sono nel campo. Faccio uscire il mio apparecchio.” Aggiunge poi che, nell’abitacolo, se così lo si può chiamare, ha inchiodato un contenitore in cuoio “Vicino al seggiolino ho inchiodato una cassettina di cuoio; la fascio internamente di ovatta e vi adagio sopra le bombe con precauzione.”

Capiamo, da queste parole che è tutto molto amatoriale, forse troppo amatoriale, tuttavia, risulta strano e poco chiaro, come abbia fatto l’aviere Gavotti ad entrare in possesso di quattro bombe Cipelli. “Queste bombette sono sferiche e pesano circa un chilo e mezzo. Nella cassetta ne ho tre; l’altra la metto nella tasca della giubba di cuoio.” in questo passaggio ci viene data un informazione molto significativa sul tipo di ordigni di cui dispone, si tratta, come anticipato, di tre bombe “Cipelli”, uniche bombe in dotazione al regio esercito nel 1911, di forma sferica ad avere il peso di circa 1,5Kg e, il passaggio successivo ci conferma ulteriormente essere bombe Cipelli, poiché ci dice “In un’altra tasca ho una piccola scatoletta di cartone con entro quattro detonatori al fulminato di mercurio” e, le bombe Cipelli, erano attivate da detonatori esterni che andavano combinati alla bomba perché questa potesse essere innescata, diversamente da altre bombe che invece avevano un detonatore integrato.

Gavotti ci fornisce poi una serie di informazioni più o meno dettagliate sulla propria posizione e sul proprio itinerario “…Arrivo fin sopra la “Sicilia” ancorata a ovest di Tripoli dirimpetto all’oasi di Gurgi poi torno indietro passo sopra la “Brin”, la “Saint Bon” la “Filiberto” sui piroscafi ancorati in rada.”, ma l’informazione più interessante riguarda l’altitudine a cui avrebbe volato, “Quando ho raggiunto 700 metri mi dirigo verso l’interno”

Gavotti ci dice di volare ad un altitudine di circa 700 metri, e che prende quota sul mare per poi seguire il proprio itinerario nell’entroterra, oltre le linee nemiche, questi dati sono molto interessanti perché ci dicono molto sul volo e quello che è in qualche modo lo stato d’animo dell’aviatore, ci comunicano infatti eccitazione ma anche determinazione e tensione, oltre che voglia di riuscire nell’impresa e questo desiderio di successo si traduce nella decisione di volare a bassa quota ovvero a circa 700 metri, probabilmente per riuscire a colpire con maggiore precisione i bersagli.

Un monoplano Etrich Taube dell’epoca, stando alle informazioni tecniche della Igo Etrich, poteva volare fino a 2000 metri di altitudine, ma poteva spingersi anche più in alto e per le operazioni di ricognizione, generalmente era previsto un volo a circa 1500 metri, quasi al limite delle possibilità del Taube.

La lettera continua e da qui in avanti, sembra più un rapporto missione che una lettera informale al padre, Gavotti scrive “Oltrepasso la linea dei nostri avamposti situata sul limitare dell’oasi e mi inoltro sul deserto in direzione di Ain Zara altra piccola oasi dove avevo visto nei giorni precedenti gli accampamenti nemici (circa 2000 uomini).”

Arrivati all’altezza dell’oasi Gavotti si prepara all’azione offensiva “Con una mano tengo il volante, coll’altra sciolgo il corregile che tien chiuso il coperchio della scatola; estraggo una bomba la poso sulle ginocchia.” poi “Cambio mano al volante e con quella libera estraggo un detonatore dalla scatoletta e lo metto in bocca. Richiudo la scatoletta;”

L’azione che ci viene descritta è estremamente cinematografica, è una scena che abbiamo visto in centinaia di film, c’è questo giovane aviatore, solo nei cieli sopra i campi del nemico che con una mano pilota il proprio mezzo aereo e con l’altra, estrae il primo ordigno, lo innesca e guardando fuori dall’aereo-plano cerca di individuare un possibile bersaglio “metto il detonatore nella bomba e guardo abbasso. Sono pronto.”

Gavotti è vicinissimo al nemico, ci dice nella lettera, di trovarsi a circa un chilometro dall’oasi e già riesce ad identificare le sagome delle tende tende arabe, “Vedo due accampamenti vicino a una casa quadrata bianca uno di circa 200 uomini e, l’altro di circa 50.”

Queste informazioni sono per alcuni troppo accurate per la distanza che, secondo la lettera, in quel momento lo separava dal campo, non sappiamo se si tratti di una stima e dunque Gavotti abbia visto gli accampamenti e ipotizzato il numero di uomini che, sulla base della propria esperienza, potevano trovarsi nel campo, o se invece si tratti di un espediente narrativo, volta ad enfatizzare il momento, in fondo, si tratta pur sempre di una lettera al padre e non di un vero e proprio rapporto missione. Nel rapporto missione non vi è alcun riferimento a questo passaggio quasi acrobatico.

In ogni caso, la lettera continua “Poco prima di esservi sopra afferro la bomba colla mano destra; coi denti strappo la chiavetta di sicurezza e butto la bomba fuori dall’ala. Riesco a seguirla coll’occhio per pochi secondi poi scompare. Dopo un momento vedo proprio in mezzo al piccolo attendamento una nuvoletta scura.”

L’azione continua ad essere estremamente cinematografica, vediamo questo pilota che strappa la chiavetta di sicurezza dell’ordigno e lancia fuori dall’abitacolo per poi vederlo svanire, a causa delle piccole dimensioni dell’ordigno e della distanza crescente tra l’ordigno e l’aereoplano, ma poi, ecco che si giunge al momento decisivo, l’ordigno tocca il suolo ed esplode, il pilota vede una nuvola di fumo nero alzarsi dal campo, l’esplosione esalta l’aviatore e allo stesso tempo turba l’equilibrio del campo, che certo non immaginava cosa stava accadendo. Prima d’allora non era mai successo nulla di simile, prima d’allora nessun’aereo da ricognizione aveva mai sganciato bombe.

Il racconto di Gavotti continua e ci dà un altre informazioni, ci dice che nonostante il successo in realtà l’obiettivo a cui aveva mirato è stato mancato, ma ciò nonostante è soddisfatto del risultato e decide quindi di ripetere l’esperimento, lanciando altre bombe “Io veramente avevo mirato il grande ma sono stato fortunato lo stesso; ho colpito giusto. Ripasso parecchie volte e lancio altre due bombe di cui però non riesco a constatare l’effetto. Me ne rimane una ancora che lancio più tardi sull’oasi stessa di Tripoli.”

In questo passaggio Gavotti ci ha ha detto qualcosa che in realtà già conoscevamo, questo tipo di azioni si porta dietro molta imprecisione, Gavotti è stato fortunato, molto fortunato, probabilmente la sua conoscenza delle leggi della fisica gli hanno permesso di stimare e calcolare ad occhio il momento esatto in cui lanciare l’ordigno affinché questo potesse avvicinarsi il più possibile al bersaglio.

Conoscendo infatti l’altezza, la velocità e la direzione dell’aereo, per un ingegnere con una formazione da aviatore non doveva essere troppo difficile calcolare la traiettoria del lancio, e il caso volle che Gavotti fosse proprio un ingegnere con una formazione da aviatore e probabilmente questa stessa azione, portata avanti da un qualsiasi altro aviere, non avrebbe avuto lo stesso risultato.

Queste fortuite coincidenze non sappiamo quanto siano fortuite e quanto siano coincidenze, per quanto ne sappiamo, l’intera operazione fu un azione individuale, ma possiamo immaginare che forse, Gavotti fu scelto, proprio per l’insieme delle proprie esperienze, come campione ideale per questo test.

Dalla lettera al padre Gavotti appare molto soddisfatto del successo ottenuto e ansioso di riferire l’esito dell’operazione ai propri superiori “Scendo molto contento del risultato ottenuto. Vado subito alla divisione a riferire e poi dal Governatore gen. Caneva. Tutti si dimostrano assai soddisfatti”

Le ultime parole della lettera sono molto particolare ed interessante, se si trattasse di un iniziativa individuale Gavotti sarebbe colpevole di aver rubato degli ordigni, di aver portato avanti un azione offensiva senza autorizzazione e di aver messo a rischio un aereo del regio esercito, tutti fattori che lo avrebbero portato di fronte alla corte marziale, ma noi sappiamo che Gavotti venne celebrato come eroe di quella guerra e che ricevette, per le proprie azioni, una medaglia d’argento per il valore militare, e questo ci fa supporre che, nonostante non esistano ordini scritti, questa operazione fu autorizzata dall’alto.Album dei Pionieri della Aviazione italiana, Roma 1982 Stampato presso Tipolitografia della Scuola di Applicazione A.M. – FI 1982.

Gli sports meccanici, Roma, 15 maggio 1933;
G. Dicorato, G. Bignozzi, B. Catalanotto, C. Falessi, Storia dell’Aviazione, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1973.
R.G. Grant, (ed. italiana a cura di R. Niccoli), Il volo – 100 anni di aviazione, Novara, DeAgostini, 2003,

Bianca Maria Visconti, la Signora di Milano

Biancamaria Visconti, unica erede di Filippo Maria visconti, duca di Milano, sposa del signore della guerra Francesco Sforza e madre del duca e signore della guerra, Galeazzo Maria Sforza. Chi era davvero Biancamaria Visconti? Questa è la sua storia.

L’8 Agosto 1452 Bianca Maria Visconte, scrive al marito, Francesco Sforza, in quel momento impegnato in battaglia nel bresciano, mentre lei è impegnata a Milano, a reggere il governo della città e nel mentre, partoriva il suo quartogenito.

Nella lettera scrive queste parole

“Ho aparturito uno bello fiolo”, ho scelto per lui “certi nomi de santi che ho in devotione”, ma lascio a voi l’ultima parola e vi raccomando di scegliere un bel nome, perché il neonato è proprio bruttino: “pur prego la vostra illustre signoria che se degni de pensare de metergli uno bello nome acciò che’l suplisca in parte ala figura del puto che è il più sozo de tuti li altri. De fronte et dela bocha el someglia mi et dela parucca el somiglia la signoria vostra, siché podeti pensare come el debe essere bello!”, aggiunge poi, quando lo vedrete, però, vi piacerà lo stesso e “non vi parrà troppo deforme”.

Ne segue uno scambio epistolare sulla scelta del nome del nascituro, per Francesco Sforza il nome del pargolo dovrebbe essere Carlo, anche perché in quel momento, nel Bresciano, al campo di Francesco Sforza, c’era Carlo VII, da poco asceso al rango di Re di Francia, ma, per Bianca Maria, Carlo non era un nome adeguato, anche perché in quanto Visconte, aveva una tradizione familiare ghibellina e non pochi antichi rancori con la casa d’Angiò, di cui Carlo VII era un esponente, e così, dopo non poche lettere, la signora di Milano, riuscì a convince il marito a scegliere un nome diverso per il figlio quartogenito, con tutto ciò che ne sarebbe conseguito, dal perdere l’importante alleanza con la Francia, ma di contro, nel 1464, all’età di dodici anni, il giovane Sforza Maria Sforza, ricevette in dono il ducato di Bari da Ferdinando I di Napoli .
Di fronte a tale ironia, di fronte a tale genio, di fronte a tale determinazione e fermezza, ma anche tanta tenerezza, ho deciso di parlarvi di lei, di Biancamaria Visconti, duchessa di Milano dal 1450 al 1468, anno della sua morte per malattia.

La lettera è oggi conservata presso l’ASMi, Sforzesco, PS, 1452, edita in

G.Lopez, Una signora fra due epoche, in Gli Sforza a Milano, Milano, 1978, pp 7-10, https://amzn.to/2PrtUhQ
G.Lopez, I Signori di Milano. Dai Visconti agli Sforza. Storia e segreti, https://amzn.to/32MtQNC

Leggi anche,
D.Pizzagalli, La signora di Milano, https://amzn.to/2onONzC

La Breccia di Porta Pia, cosa è successo il 20 settembre 1870 ?

Con la breccia di porta Pia, Roma capitola, lo stato pontificio smette di esistere e l’Italia completa la propria unificazione, ma cosa è successo esattamente il 20 settembre 1870?

La presa di Roma del 20 settembre 1870 nota anche come capitolazione di Roma o Breccia di porta Pia, è uno degli episodi più iconici del risorgimento italiano, oltre ad essere passato alla storia come l'atto finale dell'unificazione italiana ed uno dei passaggi conclusivi dell'Ancient Regime, ma cosa è successo esattamente in questa data storica che, per oltre 70 anni è stata una delle più importanti ricorrenze e festività del regno d'Italia? 

Come sempre andiamo con ordine, e cerchiamo di fare chiarezza.

La prima cosa da sapere a proposito del 20 settembre 1870 è che questa data rappresenta soltanto l’atto finale dell’intera “guerra” Italo-Pontificia, ovvero della guerra tra il Regno d’Italia e lo Stato Pontificio, la prima, una monarchia parlamentare estremamente giovane, la seconda, una monarchia assoluta, di stampo tradizionale, anchessa politicamente molto giovane, in quanto lo stato pontificio esisteva ufficialmente come entità politica, soltanto dal 1815.

Lo scontro militare tra i due regni italici inizia ufficialmente sul finire di Agosto e i primi di Settembre del 1870, quando, il regno d’Italia, dichiara guerra allo Stato pontificio, con l’intenzione di annettere i suoi territori a quelli del regno italico.

La prima mobilitazione vede l’invio di circa 50 mila uomini ai confini, settentrionale e meridionale, dello stato pontificio, in attesa di una mossa dell’esercito papale, in quel momento, sotto il comando dello stato maggiore pontificio, incarnato dai generali Hermann Kanzler, di origini tedesche e Fortunato Rivalta, di origini italiane.

I due Generali, all’avvicinarsi delle truppe italiche, si mobilitano per difendere i territori papali, e concentrano le proprie risorse e uomini nella capitale dello stato, Roma, la cui capitolazione avrebbe significato la fine dello stato pontificio.

Il 10 Settembre 1870, il luogotenente Generale del Regno d’Italia, Raffale Cadorna (padre di Luigi Cadorna e fratello minore di Carlo Cadorna) al comando spremo dell’operazione, cui facevano capo i Generali sul campo Nino Bixio, Enrico Cosenz, Gustavo Mazè de la Roche, Emilio Ferrero e Diego Angioletti, ricevette l’ordine di oltrepassare il confine con lo stato Pontificio ed iniziare l’occupazione.

Nei cinque giorni che seguono il 10 settembre, i vari generali riescono ad occupare diverse aree e città, senza incontrare troppa resistenza, lungo la via che li avrebbe condotti a Roma.

Il primo battaglione a valicare il confine era sotto il comando diretto di Nino Bixio, che diresse su Viterbo, per poi raggiungere Roma.

Il 15 Settembre l’esercito del regno d’italia, composto principalmente da Carabinieri e Bersaglieri, era giunto alle porte di Roma, che, in previsione dell’arrivo delle truppe italiche erano state chiuse e le mura erano state armate per ordine diretto del generale Kanzler. Sempre il 15 settembre, Cadorna inviò un emissario presso il comando romano, con una lettera destinata al comandante Kanzler in cui gli veniva richiesto di aprire le porte della città e permettere un occupazione pacifica di Roma. Kanzler, il cui compito primario era difendere l’integrità dello stato pontificio e Roma, per “ovvie ragioni” declinò l’invito, informando Cadorna che i suoi uomini, coadiuvati da numerose milizie cittadine, avrebbero difeso la città con ogni mezzo a loro disposizione.

Inizia così un breve assedio di Roma, nell’attesa di più precisi ordini sul da farsi. Nel mentre, Papa Pio IX minaccia la scomunica per chiunque avesse dato ordine di attaccare Roma. Una minaccia che in altri tempi avrebbe avuto come effetto la fine quasi immediata del conflitto e il ritiro delle forze italiche, ma quella minaccia, nel tardo XIX secolo, in uno stato relativamente moderno, una monarchia parlamentare, il cui Re era Re per volontà del popolo italiano e non per un qualche mandato divino, risuonavano come aria fritta, e non ebbero quasi alcun effetto.

Alla fine, l’ordine di attaccare Roma, arrivò, come dicevo, le minacce del pontefice non ebbero quasi alcun effetto, dico quasi perché qualche effetto in realtà ci fu, dato che, l’ordine esecutivo di attaccare Roma, e iniziare il cannonamento delle mura, non arrivò da Cadorna, bensì dal Capitano di artiglieria Giacomo Segre, che, essendo di origini ebraiche, non poteva essere scomunicato.

Giacomo Segre all’alba del 20 Settembre ca così l’ordine di attaccare le mura romane e il cannoneggiamento inizia alle ore 5:00 del mattino, ed ha come primo bersaglio Porta San Giovanni, cui seguono in rapida successione Porta San Lorenzo e Porta Maggiore e, alle ore 5:10, inizia l’attacco anche su Porta Pia.

Il cannoneggiamento prosegue incessantemente per oltre 4 ore, e si interrompe brevemente verso le ore 9:00 circa, quando, alcuni osservatori notano una breccia a circa 50 metri a sud da Porta Pia, per verificare l’effettiva presenza della breccia, vengono inviati alcuni bersaglieri e alle ore 9:30 circa, verificato il cedimento delle mura, Cadorna ordina di concentrare il fuoco sulla breccia, al fine di allargarla abbastanza da permettere ai propri uomini di poter passare e fare irruzione nella città, senza che questi corressero il rischio di fare da bersagli per il tiro a segno, passando in uno spazio estremamente ristretto e sotto il fuoco nemico.

Alle ore 9:35 i cannoni di Cadorna ricominciano a fare fuoco sulla breccia e dopo circa dieci minuti di fuoco concentrato, alle 9:45 la breccia era larga circa 30 metri, abbastanza da permettere agli uomini di passare in tutta sicurezza.

A questo punto i generali Mazè e Cosenz vengono incaricati di formare delle unità d’assalto, e prepararsi all’irruzione nella capitale pontificia, tuttavia alle ore 10:00 dalle mura capitoline viene issata la bandiera bianca, segno universale di resa da parte dello stato pontificio e dunque un invito al cessate il fuoco.

Roma ormai è Caduta, gli uomini di Kalzner e Rivalta si sono arresi, le milizie cittadine hanno ricevuto l’ordine di non proseguire gli scontri, ma, il Generale Nino Bixio non è dello stesso avviso ed i suoi uomini continuano a far fuoco per altri trenta minuti abbondanti, con l’intento di disincentivare ogni possibile resistenza, ma de facto ottenendo l’effetto opposto, le milizie cittadine, vedendo la resa non rispettata, decidono a loro volta di continuare la resistenza, con conseguenti scontri dentro le mura che avrebbero portato a numerose vittime “civili” e arresti. Le operazioni di guerriglia entro le mura continuano fino alle 12/13, per poi ridursi progressivamente fino a cessare completamente.

Alle ore 17:30, i generali dello stato maggiore dello stato pontificio, Kalzner e Rivalta, firma la capitolazione di Roma, che dal 21 settembre passò ufficialmente sotto il controllo delle milizie del regno d’Italia.

La capitolazione di Roma però non segna automaticamente la fine degli scontri, infatti Roma era Caduta, ma lo stato pontificio continuava ad esistere politicamente, le milizie locali e cittadine continuavano ad essere fedeli al papa.

L’esperienza dello Stato Pontificio termina ufficialmente il 27 settembre 1870, quando il regio esercito italiano, riesce ad occupare anche Castel Sant’Angelo, riducendo così al solo “stato Vaticano”.

L’annessione dello stato pontificio al regno d’italia, viene consacrata e riconosciuta ufficialmente in seguito ad un plebiscito di annessione tenutosi il 2 ottobre.

Tra le conseguenze dell’a guerra Italo Pontificia, vi sono la celebre disposizione papale del Non Expedit, con cui il pontefice invitava i cattolici italiani a non esercitare il voto nello stato italiano, e il non riconoscimento della sovranità italiana su territori dell’ex stato pontificio, da parte del pontefice.

Dall’altra parte, per riallacciare i rapporti tra stato e chiesa, il regno d’Italia produsse la, meno nota, legge delle guarentigie, votata in parlamento il 13 maggio 1871, legge n.214, avente titolo ufficiale “Legge sulle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede, e sulle relazioni dello Stato con la Chiesa.” , questa legge, che verrà poi sostituita dai patti lateranensi del 1929.

La legge delle Guarentigie si componeva di 20 articoli suddivisi in due sezioni, nella prima sezione si faceva riferimento alla figura papale, garantendone l’inviolabilità della persona, gli onori sovrani, il diritto di avere al proprio servizio guardie armate a difesa dei palazzi vaticani, Laterano, cancelleria e Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo. Questi palazzi erano riconosciuti dalla stessa legge come extraterritorialità e di conseguenza erano esenti dalle ordinarie leggi italiane. Inoltre, veniva garantita allo stato vaticano la piena libertà di comunicazione postale e telegrafica, oltre al diritto di rappresentanza diplomatica. Infine, ma non meno importante, si garantiva allo stato vaticano, un versamento annuo di lire 3.225.000 (pari a circa 14,5 milioni di euro) per il mantenimento del pontefice, del Sacro Collegio e dei palazzi apostolici.

Nella seconda parte della legge invece si regolavano i rapporti effettivi tra lo stato Italiano e la Chiesa cattolica, garantendo a entrambi la massima pacifica indipendenza, inoltre al clero veniva riconosciuta illimitata libertà di riunione e si esoneravano i vescovi dal giuramento al Re, in quanto, considerati dallo stato italiano come dei rappresentanti/ambasciatori di uno stato estero, e, sulla stessa linea, le chiese erano assimilate allo status di “ambasciata”.

Bibliografia
M.Borgogni, La gloria effimera. Forze armate e volontari dalla prima guerra d'indipendenza alla breccia di Porta Pia (1848-1870)
G.Darby, The Unification of Italy by Mr Graham Darby
A.M.Banti, Il risorgimento Italiano
G.Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell'Italia contemporanea
G.Calchi Novati, Il canale della discordia. Suez e la politica estera italiana
E.Hobsbawm, Il trionfo della Borghesia
A.M.Banti, L'età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all'imperialismo

La Presa di Roma e la sua importanza epocale, che va oltre l’Unità d’Italia

L’importanza storica della Presa di Roma (20 Settembre 1870) va ben oltre l’effimera e regionale Unificazione Italiana, la presa di roma segna un passaggio epocale ed è un avvenimento, che per importanza, è assimilabile alla presa della bastiglia e la presa del palazzo di inverno

L’importanza storica della Presa di Roma (20 Settembre 1870) va ben oltre l’effimera e regionale Unificazione Italiana. La presa di roma segna un passaggio epocale ed è un avvenimento, che per importanza, è assimilabile alla presa della bastiglia e la presa del palazzo di inverno.

Il 20 Settembre 1870, i manuali di storia contemporanea italiani, ci insegnano essere la data finale dell’unificazione italiana, la presa di roma è, e rappresenta, l’ultimo atto ufficiale del processo unitario, iniziato in sordina, tra moti rivoluzionari e ambizioni politiche di regni italici, nella prima metà del XIX secolo.

Ma il 20 settembre è anche altro, e la sua importanza storica viaggia ben oltre i confini nazionali, ponendosi, sul piano internazionale, alla stregua di avvenimenti come la presa della Bastiglia e la presa del palazzo d’Inverno di Pietrogrado (poi San Pietroburgo) in Russia.

Questi tre avvenimenti, insiema al congresso di vienna e i moti del 40, rappresentano a pieno, l’intero excursus del cambiamento epocale che porta l’età Moderna, caratterizzata dal sistema politico noto come Ancient Regime, ad un nuovo sistema politico, sociale e culturale, proprio dell’età contemporanea, ma andiamo con ordine.

La presa della Bastiglia, come è noto, è uno degli avvenimenti simbolici più importanti della Rivoluzione Francese, rivoluzione che segna il punto di inizio di un lungo e lento processo evolutivo che avrebbe attraversato tutta l’europa. Per quanto riguarda la bastiglia, l’assalto a questa struttura è stato spesso associato a due ragioni, la prima, più importante, di carattere politico, la seconda, meno incisiva, ma comunque importante, di carattere strategico militare.

La Bastiglia era percepito nella Francia del tempo, come uno dei simboli tangibili del dispotismo monarchico, una prigione politica, in cui erano rinchiusi per lo più oppositori del Re, oppositori della monarchia. La Bastiglia era una struttura militare fortificata, protetta da uomini armati e che ospitava, nel proprio arsenale, un discreto quantitativo di armi, munizioni e polvere da sparo, e la possibilità di mettere mano su queste risorse delinea il carattere dtrategico/militare dell’assalto alla bastiglia.

Come anticipavo, in realtà la ragione è per lo più politica, visto che era era “protetta” da circa 32 guardie svizzere, 82 soldati francesi invalidi di guerra, ed ospitava circa 30 cannoni, e il grande bottino di guerra che poteva offrire si cortituiva di circa 250 barili di polvere da sparo (contenenti circa 20.000 kg di polvere pirica) e circa 28.000 fucili che, possono sembrare tanti, ma non lo sono affatto, visto che le armi dell’epoca erano a colpo singolo e richiedevano diversi minuti per essere ricaricate prima di poter riaprire il fuoco, e questo significa che, durante un assalto, mentre un soldato sparava, un altro soldato ricaricava i fucili, ma nel frattempo, il soldato che sparava, utilizzava altri fucili, in caso di mobilità, un unità di questo tipo contava su circa 3 fucili, mentre in situazioni meno concitate e più stazionarie, ogni soldato disponeva in media di circa 10 fucili.

Tornando ai numeri della bastiglia, 28.000 fucili, potevano armare in maniera efficace, circa 3.000 uomini, o al massimo 10.000 o addirittura 28.000, dando loro, in questo caso, un’irrisoria capacità di fuoco.

Certo, va detto che la Bastiglia fu assaltata da circa 600 uomini, e quella quantità di polvere da sparo e fucili, per 600 uomini è più che sufficiente, tuttavia, 600 uomini, senza alcun addestramento militare possono avere a disposizione anche 1000 fucili cadauno, e risultare comunque poco efficaci in combattimento, ma questa è un altra storia.

Come dicevo, la presa della Bastiglia, è un evento più che altro simbolico, segna lo scontro con l’autorità monarchica, segna l’apertura del conflitto reale tra popolo e aristocrazia, segna l’inizio della fine di quello che è noto come Ancient Regime.

Ad ogni modo, dalla rivoluzione francese si passa al terrore, poi all’età Napoleonica, e per oltre 30 anni, l’antico ordine politico europeo e nella fattispecie Francese, sembra sgretolarsi, almeno fino al congresso di Vienna, in cui viene passata una mano di spugna sulle trasformazioni post rivoluzionarie e napoleoniche e l’europa torna, almeno sulla carta, ad avere lo stesso aspetto che aveva nel 1789, ovvero prima dell’inizio della Rivoluzione, le antiche case reali vengono riportate sui rispettivi troni e, si introduce un concetto tanto antico quanto nuovo, si introducono il principio di legittimità e concetto di “mandato divino” ovvero, il potere monarchico, l’autorità reale e imperiale, deriva direttamente da Dio, i Re, le Regine e gli Imperatori d’europa, sono tali perché è Dio che ha voluto così, e in quanto vicario di dio sulla terra, il ponetefice è interprete della sua volontà.

Con il congresso di Vienna il papato, diventa una monarchia assoluta che estende il proprio controllo diretto su di un ampio territorio nell’italia centro settentrionale, questa monarchia prende il nome di Stato Pontificio ed esiste ufficialmente, e soprattutto politicamente, dal 1815 al 1870, più precisamente, fino al 20 settembre 1870, interrotto brevemente dall’esperienza della Repubblica Romana del 1848.

Nel 1848, le assi portanti dell’europa costruita nel congresso di vienna, vengono a mancare, in particolare il mandato divino, l’autorità monarchica concessa direttamente da Dio, non ha più alcun valore, e il principio di legittimità, che legittima le monarchie europee si trasforma, affondando le proprie radici nella volontà popolare, i re non sono più sovrani, ma semplici regnanti, governatori che possono esercitare il proprio potere solo e se, è il popolo a delegare loro quella autorità. Max Weber nel suo saggio sul potere definisce diversi metodi di legittimazione del potere, tra cui rienrano la legittimazione popolare, propria delle monarchie parlamentari e delle repubbliche, e la legittimazione tradizionale, in cui rientrano le monarchie assolute.

Questi due sistemi di legittimazione, sono in aperto contrasto tra loro, il re o è legittimato da dio o dal Popolo, e con la primavera dei popoli che si conclude nel 1848, il secondo sistema di legittimazione si sostituisce, in più o meno tutta europa, alla legittimazione tradizionale.

Restano però, ancora vincolati all’Ancient Regime, l’impero Zarista, la cui casa regnante però, non è di fede cattolica e dunque non è consacrata dal pontefice e dalla chiesa romana, e l’impero ottomano, di fede islamica e la cui casa regnante, a sua volta non è consacrata dal papa e dalla chiesa romana e in fine, ma non meno importante, lo stato pontificio, questa volta di fede romana, unica teocrazia europea, il cui Re Imperatore è il Papa. Apro una piccola parentesi a proposito del Regno unito, che, se bene sia ufficialmente di fede Anglicana e la Regina/Re (in quest ocaso la regina Vittoria) è ufficialmente a capo della chiesa anglicana, Vittoria è in un certo senso di fede cattolica, come anche suo marito il principe Alberto e la casa regnante Britannica, per quanto autonoma rispetto alla chiesa romana, tende in questo periodo storico, ad essere molto vicina alla chiesa romana e tiene in grande considerazione l’opinione papale.

Con il 1848 la storia assiste al tramonto dell’antico regime, ma come è noto, tra il tramonto e l’inizo della notte vera e propria, passa qualche ora, e in queste ore l’Ancient Regime continua ad esistere in europa attraverso le monarchie assolute dello stato pontificio, dell’impero zarista e di quello ottomano.

Mettendo da parte Russia e Impero Ottomano, lo stato Pontificio rappresenta, in europa, l’ultimo vero baluardo dell’Ancient Regime, e questo ci porta direttamente al 1870.

Nel 1870 lo stato pontificio cade, viene completamente cancellato e i suoi territori vengono annessi al Regno d’Italia. Questo avvenimento è sì, l’atto finale dell’unificazione italiana, come ci è stato insegnato a scuola, ma come dicevo, è molto di più, prché è anche l’atto finale del potere politico del Papa in Europa (e fuori dall’europa), è il vero atto conclusivo dell’Ancient Regime.

Nel 1870 l’Italia, perché nel 1870 l’italia esisteva ormai politicamente da circa un decennio, può permettersi di dichiarare guerra allo stato Pontificio, può permettersi di attaccare Roma, fare breccia tra le sue mura e persino mettere in fuga il Papa, senza alcuna ripercussione.

Già in passato il Papa e la curia romana erano stati attaccati e messi in fuga ma, diversamente dal 1848 e dall’esperienza della repubblica romana durata meno di un anno perché Luigi Napoleone Bonaparte, meglio noto come Napoleone III, presidente della repubblica francese e fondatore del secondo impero, era intervenuto al fianco del Papa per liberare la città e, andando ancora più all’indietro e spingendoci fino al medioevo, quando un papa era sotto attacco, era minacciato da forze e correnti politiche sempre interne alla chiesa cattolica che vedevano in altri uomini la “vera” leadership papale. Insomma, in passato il papa era stato attaccato da alti prelati che ambivano a sostituirlo con altri pontefici, in questo caso invece, con la presa di roma del 1870, il papa viene semplicemente messo all’angolo, gli viene chiesto gentilmente di accomodarsi fuori dalla città degli imperatori, da quella città che un tempo era stata la capitale del mondo intero.

Qualcuno a questo punto potrebbe chiedersi:

Perché prendere roma nel 1870 e non prima, perché non attaccare Roma nel 1860 e far proseguire l’armata garibaldina ben oltre Teano?

Il motivo è politico, ma anche militare ed economico, insomma, è complicato.

Nel 1860, il papa, anche se molto depotenziato rispetto al passato, (depotenziamento iniziato in seguito al 1848 e conclusosi sul finire degli anni 60 del diciannovesimo secolo) era ancora molto influente e soprattutto, aveva molti alleati ed erano alleati del papa, sia alleati che i nemici di casa Savoia. Roma nel 1860 era alleata dell’Austria, con cui i Savoia erano in guerra, ma era anche alleata con la Spagna, con la Francia di Napoleone III e con l’Impero Britannico, e se da un lato il conflitto tra i Savoia e l’Austria-Ungheria era percepito all’estero come qualcosa di poco più grande di una banale disputa territoriale e, sulla base di quanto emerso dalla Guerra di Crimea, in cui ricordiamo che il Regno di Piemonte aveva partecipato al fianco di Francia e Regno Unito, Il Regno di Piemonte era legittimato a reclamare quei territori “occupati” dall’Austria, e dunque Francia e Regno Unito, non sarebbero intervenuti, o almeno non al fianco dell’Austria, va inoltre detto che, per quello che stava avvenendo in europa e nel mediterraneo, Francia e Regno Unito in primis, erano in un certo senso favorevoli all’idea di depotenziare ulteriormente l’impero Asburgico.

Diversamente però, fare guerra allo stato pontificio, era molto più complicato, non era più una disputa territoriale in cui il Regno di Piemonte era legittimato a rivendicare dei territori occupati da una potenza straniera, e questo perché, diversamente dall’Austria, lo stato pontificio godeva della stessa legittimità storica, culturale, politica e tradizionale del regno di Piemonte, nell’esercitare il proprio controllo sulla penisola italica e sull’Italia, dunque, i principi emersi dalla guerra di Crimea, che impedivano a Francia e Regno Unito di intromettersi nella guerra tra Italia e Austria, non erano validi in un ipotetico scontro tra Italia e Stato Pontificio. Va inoltre detto che la regina Vittoria a Londra e Napoleone III a Parigi, erano in ottimi rapporti con il pontefice e senza troppe licenze, avevano avvertito casa Savoia di un loro possibile intervento al fianco del pontefice, se l’Italia, nel suo processo unitario avesse inglobato militarmente lo stato pontificio. Specifico Militarmente perché un annessione politica e pacifica, che avrebbe portato ad un Italia Federale composta da due o tre stati, era invece ben vista sia dalla Francia che dal Regno Unito.

Cosa è cambiato nel 1870?

Nel 1870 è cambiato tutto, sono cambiati gli equilibri, sono cambiate le alleanze, è cambiata la percezione della chiesa, è cambiato il peso di Roma fuori dalla penisola italica ma soprattutto, è cambiato il ruolo dell’Italia nell’asset globale.

L’Italia durante l’età moderna ha visto un suo progressivo decentramento, in conseguenza dello slittamento delle vie commerciali dal mediterraneo al nord atlantico, l’Italia era bloccata nel mediterraneo, un mare chiuso, isolato dal resto del mondo.

Nel 1870 non era più così perché nell’anno precedente, nel 1869 era stati completati i lavori di costruzione del Canale di Suez, finanziato da Francia e Regno Unito, e la sua innaugurazione era la cosa migliore che potesse capitare all’Italia, perché regalava dava all’Italia una nuova e rinnovata centralità nel commercio internazionale e se da un lato Suez e Gibilterra erano diventati improvvisamente , da un giorno all’altro dei passaggi obbligati per chiunque volesse attraversare il Mediterraneo, e andare dall’Europa all’Asia, senza circumnavigare dell’Africa ed evitando il passaggio terrestre del medio e vicino oriente, dall’altro lato, l’Italia, con la sua centralità nel mediterraneo, rappresentava un importante snodo commerciale che avrebbe semplificato l’afflusso di merci in Europa, risparmiando giorni e settimane di navigazione, ma perché questo accadesse era necessario che l’Italia non fosse più divisa in due stati e che, lo stato pontificio che spaccava in due il Regno d’Italia, poteva essere inglobato nel regno d’Italia.

In questo contesto storico, ormai privo di coperture politiche e militari, il papa si trova da solo contro il regno d’Italia, che può quindi attaccarlo su due fronti e in poco, pochissimo tempo, riescire a fare breccia tra le mura capitoline e prendere Roma, completando ufficialmente quel processo unitario iniziato più di 20 anni prima, per assurdo, proprio a Roma, in quella città in cui si erano manifestate le prime istanze unitarie e dove per la prima volta, durante la fallimentare esperienza repubblicana del 48, si era parlato, per la prima volta nell’età contemporanea, di Italia come nazione.

Bibliografia
M.Borgogni, La gloria effimera. Forze armate e volontari dalla prima guerra d'indipendenza alla breccia di Porta Pia (1848-1870)
G.Darby, The Unification of Italy by Mr Graham Darby
A.M.Banti, Il risorgimento Italiano
G.Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell'Italia contemporanea
G.Calchi Novati, Il canale della discordia. Suez e la politica estera italiana
E.Hobsbawm, Il trionfo della Borghesia
A.M.Banti, L'età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all'imperialismo
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