La repubblica Weimar, lotta di uomini e ideali, Guida alla lettura

Guida alla lettura del saggio storico “La repubblica di Weimar, lotta di uomini e ideali” di Davide Bernardini, edito da Diarkos.

La Repubblica di Weimar è uno di quei capitoli particolari della storia del mondo, radicato all’interno di un ben preciso e delineato contesto storico e politico, quello della Germania post grande guerra, i cui effetti però, si riversarono sull’intera umanità e, a distanza di oltre un secolo dalla sua “fondazione” la repubblica di Weimar continua a far parlare di se, ed è sempre più presente nel mondo moderno.

Nell’immaginario comune Weimar rappresenta l’anticamera del totalitarismo tedesco ed è utilizzata da anni ormai, come esempio di una civiltà in decadenza che, con le ultime forze, prova a resistere alla barbarie che si sviluppa al proprio interno.

Nel 1993, in un Italia al che si ritrovava ad affrontare parallelamente la fine della prima repubblica e della guerra fredda, immersa in un clima globale di grande incertezza, un clima fatto di tensioni, scontri e incontri. In quel panorama politico e geopolitico dal sapore internazionale, furono in molti a parlare di “fine della storia” e in Italia qualcuno osservò con audacia, di intravedere in quel clima, orizzonti già visti altrove e in altre epoche, raccontando l’Italia all’alba della seconda repubblica come una novella Weimar.

In quel contesto Francesco Guccini, nell’album Parnassius Guccini, pubblica la canzone “Nostra signora dell’ipocrisia“, in cui racconta il dramma politico dell’epoca, citando proprio Weimar nelle primissime strofe della canzone.

Un artigiano di scoop forzati scrisse che Weimar già si scorgeva e fra biscotti sponsorizzati videro un anchorman che piangeva e poi la nebbia discese a banchi ed il barometro segnò tempesta, ci risvegliammo più vecchi e stanchi, amaro in bocca, cerchio alla testa…

F.Guccini, Nostra signora dell’Ipocrisia, Parnassius Guccini, 1993

L’anticamera del totalitarismo

La Repubblica di Weimar fu, per la storia tedesca, e non solo, una complicata e controversa esperienza politica, oltre che storica, fu una parentesi dal profumo democratico che si colloca tra la fine del secondo impero e l’istituzione del terzo reich hitleriano. Weimar fu il luogo storico e politico, in cui vennero gettate le basi del futuro regime nazista, e per certi versi fu l’anticamera di quell’oscuro e devastante regime totalitario fondato su rancore, odio, rabbia, intolleranza e finto patriottismo elitario.

La repubblica di Weimar segna il punto d’arrivo della democrazia tedesca, segna il fallimento della democrazia difronte a certe istanze e definisce il trionfo delle correnti più estreme e radicali sulle correnti più moderate, configurandosi per molti come la concretizzazione di quelle profetiche parole messe per iscritto da Platone nel libro quarto della repubblica, e noto come il brano sulla “sete di Libertà“.

Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.

Platone, La Republica, Libro IV

Il grande laboratorio di Weimar

Weimar non fu solo il luogo in cui germogliarono i semi del nazional socialismo, ma fu anche un grande laboratorio politico, collocato nel cuore dell’Europa, in cui si sperimentò un alternativa alla rivoluzione sovietica.

In questo immenso laboratorio, rimasto in funzione, con non poche difficoltà, per circa 15 anni, dal 1918 al 1933, tanti furono gli esperimenti frutto dell’incontro, scontro, intreccio e rielaborazione delle principali idee e correnti politiche del primo novecento, e tanti furono i fallimenti.

E fu proprio per effetto di quegli esperimenti non riusciti che si consolidò l’idea di una politica più radicale fondata su idee combattenti, su idee che dovevano essere difese non solo con il dialogo, ma anche e soprattutto con la forza e le armi.

Weimar, lotta di uomini e ideali

Il saggio storico di David Bernardini intitolato La Repubblica di Weimar, Lotta di uomini e ideali, edito da Diarkos si pone l’obbiettivo di ripensare, a distanza di un secolo dalla propria nascita, la Repubblica di Weimar. Ripensare non significa revisionare, il saggio va precisato, non ha un carattere revisionista e il suo obbiettivo è quello di scavare a fondo nella storia di Weimar, nel tentativo di comprendere quali sono stati gli errori che hanno portato al tracollo quell’esperienza democratica, permettendo la nascita e l’affermazione del regime nazista.

Il saggio si struttura in due grandi parti, e racconta la storia e le idee che fecero la Repubblica di Weimar, in maniera non lineare, ma seguendo temi e tematiche.

Weimar, lotta di uomini e ideali si sviluppa in un articolata e non troppo semplice rete di punti e concetti, che, nel complesso, forniscono un panorama ampio e completo su tutta l’esperienza di Weimar.

Parte prima

La prima parte del libro ha un carattere fortemente divulgativo, e permette di inquadrare a pieno tutti gli aspetti e gli elementi che andarono a comporre la struttura di Weimar, chi furono i suoi protagonisti, quali furono le idee che definirono l’esperienza politica di Weimar e quali furono i momenti salienti dell’intera esperienza politica iniziata nel 1918 e terminata nel 1933.

I vari capitoli del libro, sia della prima che della seconda parte, come anticipato, sono sviluppati su temi e concetti consequenziali, e, se bene scollegati tra loro, sono strutturati su un percorso cronologico che rende non troppo semplice ed efficace una lettura asincrona, almeno non alla prima lettura.

Nella prima parte infatti ogni capitolo e propedeutico, per ragioni cronologiche, ai capitoli successivi. Inoltre, l’intera prima parte costituisce la base concettuale ed evenemenziale, su cui è costruita la seconda parte.

Questo discorso ovviamente decade per eventuali letture successive alla prima.

Parte seconda

Se i temi ed argomenti trattati che compongono la prima parte del saggio sono trattati in modo netto e puntuale, volti a ricostruire la storia della Repubblica di Weimar, i temi trattati nella seconda parte, hanno un carattere più trasversale ed hanno il fine di favorire l’immersione del lettore in quell’esperienza storica.

Diversamente dai capitoli della prima parte, quelli della seconda parte possono essere letti in maniera asincrona, poiché non consequenziali, di conseguenza le informazioni contenute in un capitolo, non sono propedeutiche per la lettura e comprensione dei capitoli successivi.

Conclusioni

Anche se di carattere generalmente divulgativo, i vari temi trattati, per essere compresi a pieno, soprattutto nella seconda parte, richiedono alcune conoscenze preliminari, senza le quali, purtroppo, non è possibile cogliere completamente tutte le sfumature del saggio.

La divisione del saggio in due parti permette in parte di ovviare ad una preliminare carenza di informazioni di base, la prima parte infatti, ha una struttura più manualistica con cui, l’autore, oltre a fornire una narrazione ampia e completa dell’esperienza storica della repubblica di Weimar, getta le basi per la seconda parte, di carattere più avanzato.

In definitiva, La repubblica di Weimar, Lotta di uomini e ideali, non è un libro adatto a chiunque. Il saggio si rivolge prevalentemente a chi vuole conoscere e approfondire meglio la storia della Germania degli anni venti. Il lettore ideale ha già una conoscenza basilare degli avvenimenti di quel periodo oltre che del contesto e delle idee politiche dell’epoca.

Chi è Davide Bernardini?

Davide Bernardini è un giovane storico italiano, classe 1988, laureato presso l’università di Teramo e attualmente docente a contratto presso l’Università degli studi di Milano, è inoltre socio del SISSCO può vantare numerose recensioni in collaborazione con la Rivista storica del socialismo ed Giornale di storia contemporanea, oltre a diversi articoli di ricerca e alcuni saggi, tra cui Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa edito da ShaKe.

Ecco perché tutti dovrebbero guardare Peaky Blinders | Recensione (Serie TV)

Buongiorno a tutti, ho da poco terminato la terza stagione della serie Peaky Blinders, prodotta dalla BBC e disponibile su Netflix e volevo condividere con voi alcune osservazioni e pensieri di carattere storico riguardante questa fantastica serie tv.

Ci tengo a sottolineare, a scanso di equivoci, che Peaky Blinders non è una docu-serie, non non racconta avvenimenti reali e non prende spunto dalla realtà storica se bene la narrazione sia collocata all’interno di un contesto storico ben preciso (l’Inghilterra dei primi anni 20) e se bene abbia come protagonista un gruppo di banditi, una “banda”, realmente esistiti, va specificato che i protagonisti della serie, che occasionalmente interagiscono con personaggi storici concreti come ad esempio Winston Churchill, in realtà, non sono personaggi storici reali e della loro esistenza non vi è alcuna traccia storica.

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Un sogno che è in bianco e nero presto tornerà a colori – Storia Leggera

Il nome di questa rubrica è Storia Leggera, ma i temi, gli argomenti e soprattutto le canzoni scelte fino a questo momento sono state tutt’altro che leggeri.

Abbiamo parlato di rivoluzioni, di ideali, di sogni e ambizioni, abbiamo parlato di guerre e sacrifici, abbiamo parlato di morte e non abbiamo mai parlato di vita, e soprattutto, non abbiamo mai parlato di vite ordinarie, di vite popolari, non siamo mai entrati nelle stanze della vita quotidiana, e pure, la musica e in particolar modo la musica leggera, vive di attimi quotidiani, vive di ordinati rituali dalla precisione svizzera e sono proprio quei rituali, quei momenti di vita vissuta, a portare la storia, quella reale, nella canzone.

Stavo riflettendo proprio su questo la scorsa settimana quando non ho pubblicato il solito articolo del lunedì, e l’ho fatto, o meglio, non l’ho fatto, non l’ho pubblicato, con cognizione di causa, volevo porre una separazione tra la grande storia, la storia dei grandi eventi, dei grandi avvenimenti e dei grandi personaggi storici da una parte e la storia quotidiana, la storia vissuta e raccontata, attraverso gli occhi di un ragazzo, figlio di una casalinga e di un impiegato, che negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta scoprì la musica, scoprì il potere comunicativo ed espressivo della canzone e circa trent’anni più tardi avrebbe portato quell’esperienza, quel ricordo, quegli attimi, in una canzone, forse in maniera inconsapevole, ma neanche troppo inconsapevole; Avrebbe permeato quella canzone di storia, rendendola un vivido ricordo di una quotidianità perduta, di una quotidianità dimenticata, di una quotidianità che apparteneva ad un altra epoca, ad un altro tempo, ad un altro mondo.
Quel ragazzo era (ed è) Edoardo Bennato e la canzone a cui mi riferisco è Viva la Mamma.

Quando si pensa ad una canzone che parla di storia non pensiamo di certo a “canzonette come questa”, quando pensiamo a canzoni che parlano di storia la nostra mente corre verso brani come la canzone del bambino nel vento, verso il cuoco di salò o verso le innumerevoli canzoni scritte in ogni lingua e condite in ogni salsa, che parlano di questa o di quell’altra guerra, combattuta chissà dove, chissà quando e chissà per quale ragione o da chi, di certo non pensiamo ad una canzone così travolgente e allegra che per più di un’estate risuonò nelle sale da ballo (c’erano ancora le sale da ballo negli anni novanta?) o sulle spiagge, e che ancora oggi, riecheggiano nei lunghi viaggi in auto in compagnia dei nostri genitori (soprattutto se avete la mia età).

E pure, questa “canzonetta” non è affatto una canzonetta, Viva la mamma è in realtà una testimonianza diretta della vita quotidiana nel secondo dopoguerra, ci racconta la vita, semi urbana, del figlio di un impiegato e di una casalinga, cresciuto in uno dei tanti quartieri periferici, di una qualsiasi città italiana, una vita che apparteneva alla maggior parte degli italiani nati e vissuti in quegli anni e negli anni a venire, ci racconta una vita comune, ordinaria, mediocre, una vita di fantozziana memoria, ma ci racconta la vita dei film con Franchi e Ingrassia, la vita dipinta e raccontata dal Neorealismo di Fellini, De Sica, Rossellini e Visconti. Come dicevo, ci racconta l’Italia del secondo dopoguerra, l’Italia degli anni cinquanta e sessanta, l’Italia che insegue il boom economico appena prima della sua piena manifestazione.

Con questa canzone Bennato riesce a raccontare questo, riesce a raccontare tutto in pochi versi, in poche strofe, in poche parole, senza però dire nulla di ciò che sta raccontando, non ne ha bisogno, non ha bisogno di sofismi e artificiosi giri di parole per impressionare i benpensanti, perché la quotidianità che racconta, la vita che racconta, è una vita, una quotidianità semplice, umile, immediata e bastano poche parole per descriverla, perché fa già parte dell’ascoltatore, dei suoi ricordi, della sua vita, della sua memoria. È una canzone forte, è una canzone d’impatto, è una canzone che parla di storia dando voce ad una memoria storica, ad una memoria collettiva, senza parlare direttamente di storia, non ha bisogno di parlare del boom economico, non ha bisogno di parlare delle influenze culturali che in quegli anni arrivavano da oltreoceano, e pure questa canzone ci parla del boom economico, ci parla dei primi fermenti studenteschi e delle influenze culturali che in quegli arrivavano da Londra e da oltreoceano. Ce ne parla attraverso i rituali ordinari della vita di un ragazzo cresciuto negli anni cinquanta, un ragazzo che alla mattina semplicemente veniva svegliato e mandato a scuola da sua madre, un ragazzo ancora troppo giovane per “21” musica dai jukebox, e si affacciava al mondo canoro di quegli anni attraverso la sua personale spacciatrice di musica, una madre che come tutte le madri cantava per accompagnare la propria quotidianità, cantava in ogni momento, mentre lavava, stirava o cucinava, cantava perché la TV non c’era ancora e quando c’era, nel migliore dei casi aveva un solo canale, nel peggiore, neanche quello, e allora per ingannare il tempo si cantava e quando si cantava si cantava di tutto, dai canti popolari ad Elvis e nel cantare si viveva, e nel vivere si diventava storia e nel diventare storia si plasmava la memoria di un’intera generazione.

Una storia ordinaria dunque, una storia quotidiana, una storia come un’altra che forse non sarebbe servito scrivere, non serviva raccontare, ma il cui racconto ha permesso la sopravvivenza di un ricordo generazionale, di una memoria collettiva, ha permesso la sopravvivenza di un mondo e di un modo di vivere oggi dimenticato ed ha dato a noi, oggi, la possibilità di rivivere per quei tre o quattro minuti che dura la canzone, la vita ordinaria di un figlio del secondo dopoguerra, di un figlio degli anni cinquanta.

Quel giorno d’aprile in cui l’italia aspettava i propri figli, partiti come soldati e non ancora tornati | Storia Leggera

Il 25 Aprile, il giorno della celebrazione della liberazione, l’autentica pasqua laica della tradizione della nuova repubblicana e antifascista.

Qualche giorno fa, mentre sceglievo la canzone da cui partire per questo articolo, una cara amica ha pubblicato su Instagram la foto di un glicine in fiore e vedendo quella foto mi è venuta in mente una canzone che adoro e che è perfetta per questa rubrica, soprattutto in questo periodo dell’anno e quindi voglio ringraziare questa cara amica per aver involontariamente influenzato la scelta di questa canzone.
La canzone che ho scelto è “quel giorno d’aprile” contenuta nell’album L’ultima Thule di Francesco Guccini e ci racconta proprio quel giorno d’aprile del 1945, quel giorno d’aprile che ha segnato in un certo senso l’inizio della fine della guerra civile italiana, iniziata in seguito all’armistizio del settembre 1943, e che ha rappresenta uno dei passaggi più forti, dolorosi e importanti della recente storia italiana. Quel giorno ci viene raccontato attraverso gli occhi di un bambino e la canzone attinge ai ricordi di infanzia dello stesso autore accompagnandoci in un viaggio lungo tutta la storia italiana, un po come il film Forrest Gump ci ha raccontato quarant’anni di storia americana attraverso gli occhi e la vita del protagonista.

Quel 25 aprile, il futuro presidente della repubblica Sandro Pertini, che nel 1943 insieme a Pietro Nenni e Lelio Basso aveva contribuito a riportare il socialismo in Italia con la costituzione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, partecipò attivamente agli eventi e alle manifestazioni che di li a poco avrebbero portato alla liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista.

«Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.»

Proclama dello sciopero generale, Sandro Pertini, Milano, 25 aprile 1945.

All’epoca Pertini, insieme a Luigi Longo, Emilio Sereni e Leo Valiani, presiedeva il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia(CLNAI) la cui sede si trovava a Milano e proprio a Milano e da Milano, quel 25 aprile, fu organizzata e annunciata l’insurrezione generale che avrebbe portato alla liberazione del paese.

In realtà la liberazione su larga scala era già cominciata da qualche tempo, la ritirata delle forze nazifasciste era già in atto e con essa era in atto la distruzione sistematica di infrastrutture, impianti industriali e campi che avrebbero condannato l’Italia a fame certa e ad una lunga e lenta ricostruzione che fu resa meno insostenibile grazie agli aiuti dell’European Recovery Program. Prima di Milano il CLNAI aveva indetto scioperi e insurrezioni anche in altre città del nord Italia, in particolare a Bologna che si era liberata il 21 aprile e a Genova che si era liberata il 23 aprile, ma Bologna, Genova e le altre città liberate erano solo delle città occupate dalle forze nazifasciste, Milano invece era diversa, Milano era qualcosa di più, Milano era un simbolo dell’occupazione Milano era una delle roccaforti del comando nazifascista e la sua caduta fu molto più significava delle altre, la caduta di Milano significava in qualche modo la sconfitta delle forze nazifasciste, rappresentava la fine dell’occupazione perché Milano era in qualche modo la testa del serpente e una volta tagliata, una volta liberata, il corpo sarebbe morto, si sarebbe arreso.

Dopo la caduta di Milano le insurrezioni in tutta Italia si intensificarono e in meno di una settimana si giunse all’effettiva liberazione del paese il 1 maggio 1945 l’Italia intera era stata liberata. Ma questa liberazione non era stata facile e costrinse uomini, donne e bambini a compiere scelte difficili e dolorose, in particolare la liberazione di Milano si concluse nel sangue e avrebbe portato, tra le altre cose, alla cattura di Benito Mussolini, avvenuta il 27 aprile ad opera della 52° Brigata Garibaldina.
Come sappiamo Mussolini sarebbe stato condannato a morte e giustiziato in meno di ventiquattro ore e tra gli uomini che firmarono e votarono la sentenza, c’era anche anche il sopracitato Sandro Pertini, tuttavia, va detto che il trattamento che la 52° brigata riservò all’ex primo ministro italiano fu tutt’altro che brutale e nell’ultimo scritto di Mussolini redatto a Germasino, sopra Dongo, il 27 aprile 1945, si può leggere:

“La 52a Brigata Garibaldina mi ha catturato oggi venerdì 27 aprile nella Piazza di Dongo. Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto”

Dall’ultimo scritto di Benito Mussolini, Germasino, 27 aprile 1945

La brutalità e la barbarie sarebbero sopraggiunte soltanto dopo l’esecuzione, con l’esposizione del cadavere a modi trofeo.

Il 25 aprile 1945 segnava la vittoria della resistenza sull’occupazione straniera e sarebbe diventata, una delle feste nazionali più importanti, se non addirittura la più importante dopo la festa della repubblica e nella sua celebrazione è stato possibile gettare le basi di una nuova Italia, di una nuova tradizione e di un nuovo folcklore italiano, quello di un Italia che è risorta dalle proprie ceneri come una fenice, un Italia che ha riconquistato la propria dignità perduta ed ha ritrovato un onore quasi dimenticato, è un Italia fatta di paesi finalmente in festa, che può salutare i soldati tornati dalla guerra e lentamente può ritornare alle stanze della propria vita quotidiana, come i fiori nei prati e come il vento di aprile.

Ma è anche un Italia speranzosa e dolorante che in quei giorni di aprile e di inizio maggio si affacciava insistentemente alle proprie finestre e passa ore intere sull’uscio delle case e nei cortili, nell’amara speranza di rivedere i propri cari, in attesa di vedere apparire all’orizzonte i propri padri, figli e mariti partiti volontari per la guerra, partiti come soldati non ancora tornati, partiti come partigiani per la resistenza, partiti per essere uomini liberi e senza pretesa di diventare eroi, e in quei giorni non si aspettavano eroi, perché non c’erano eroi, c’erano solo ma padri, mariti e figli che tardavano a ritornare.

Per molti quella speranza sarebbe sfumata, perdendosi nel tempo avvolta dal fuoco e dal fumo di un camino, offuscata dai litri di vino versato per festeggiare e anche un po’ per dimenticare, versato per non pensare, per non capire, per non accettare la realtà e restare aggrappati all’amaro pensiero che un giorno i propri cari sarebbero tornati, ed averebbero raccontato di fronte a quel camino le mille avventure vissute. Ma quel giorno, per migliaia di italiani, non sarebbe mai arrivato, furono a migliaia le famiglie che non rividero mai più i propri cari, perché caduti prigionieri o giustizia sul posto chissà dove, chissà quando e chissà da chi, solo perché avevano scelto di essere uomini liberi, solo perché avevano scelto di combattere per la libertà di tutti, per la propria terra e senza pretesa di essere ricordati come eroi quella libertà l’avrebbero pagata con la propria vita.

Morir per niente, però tra i fiori, di Waterloo

Storia Leggera

Sono passati quasi sei mesi da quando ho iniziato a cercare e selezionare canzoni da utilizzare come pretesto per parlare di storia e l’idea era quella di restringere il campo in modo da avere meno difficoltà al momento della scelta di una specifica canzone di cui parlare. In questi mesi però di canzoni ne ho ascoltate e selezionate così tante da essere tornato quasi al punto di partenza, le canzoni che ho scelto sono diventate così numerose da rendermi difficile sceglierne soltanto una alla volta, anche perché sono canzoni a cui in qualche modo voglio bene, mi ci sono affezionato perché le ho ascoltate e riascoltate centinaia di volte, soprattutto in questi mesi, e allora, riflettendo sulla mia indecisione e la difficoltà nello scegliere una canzone per questa settimana, alla fine sono riuscito a trovarne una.

La canzone che ho scelto è una canzone “rara”, nel senso che non è stata mai pubblicata dall’autore in un vero e proprio disco, ma figura soltanto in una raccolta di canzoni inedite e cantate al Club Tenco che è stata pubblicata nel 1999 con il titolo “Roba di Amilcare” in onore ad Amilcare Rambaldi, storico fondatore del club della canzone d’autore italiana, in onore e memoria di Luigi Tenco.La canzone che ho scelto si intitola Waterloo, è stata scritta ed interpretata Roberto Vecchioni che, a modo suo e con il suo stile unico è riuscito ad intrecciare la realtà musicale, il sogno di Amilcare e la storia di una delle più grandi e importanti battaglie del secolo XIX.

Il brano si dipana nel lontano 1815, all’indomani della storica battaglia che avrebbe segnato la definitiva disfatta di Napoleone, raccontando lo sguardo affranto di un soldato che in qualche modo è sopravvissuto alla battaglia ed ha assistito alla fine di un sogno, perché in fondo Waterloo non è altro che questo, l’ultimo grido di un piccolo gigante che inseguiva il proprio sogno.

La battaglia di Waterloo in un certo senso rappresenta l’atto conclusivo del grande spettacolo bonapartista che nel piccolo teatro europeo aveva chiamato in scena nuovi attori e aveva messo all’angolo i vecchi burattini e burattinai. Waterloo rappresenta il punto di contatto con la realtà di migliaia per4 sognatori che, come quelli venuti prima di loro, avevano scelto di seguire Napoleone in un’ultima marcia, questi soldati erano stati allettati dai racconti fantastici dei veterani, erano stati tentati dalla promessa di gloria, fama e libertà, marciavano al seguito di napoleone in nome di un ideale di libertà e uguaglianza e assetati di avventure straordinarie, sognavano di diventare eroi e di camminare un giorno, con indosso l’uniforme imperiale, fieri tra le strade di una Parigi in festa che celebrava il loro trionfo.

Napoleone non era solo un uomo, Napoleone era un sogno, l’incarnazione stessa del sogno rivoluzionario, Napoleone era una promessa, una visione, ma nei lunghi anni del suo impero, in suo nome era stato versato tanto sangue, forse troppo sangue e quel sogno che un tempo aveva rinvigorito le cariche della cavalleria napoleonica, permettendogli di scagliarsi impavida contro i colpi di cannone, di mortaio e di moschetto del nemico, quella furia cieca che era stata alimentata dal senso rivalsa nei confronti dell’aristocrazia europea, col tempo si era affievolita perché il nemico era mutato e con esso anche le masse popolari che un tempo rinfoltivano le fila dell’esercito napoleonico. La coalizione antifrancese o forse è meglio dire anti-napoleonica aveva imparato dalle proprie sconfitte, dai propri insuccessi e dai propri errori e ne aveva fatto tesoro, Inglesi, Prussiani e Tedeschi avevano capito che il solo, vero punto di forza di Napoleone e delle sue armate affondava le proprie radici negli ideali rivoluzionari, era la forza delle masse popolari che combattevano e morivano per la propria rivalsa e che vivendo in nome di un sogno di pace e libertà universale. E pure, quel sogno che un tempo riempiva i cuori dell’intera popolazione europea, all’alba della caduta di Napoleone appariva nitido soltanto a tratti, soltanto nel fuoco dei falò che si accendevano dopo le battaglie, quando il vino scorreva a fiumi, quando il battere incessante di tamburi e tamburelli sostituivano le raffiche di artiglieria e la musica a festa quasi copriva il ricordo dei caduti, quando l’aria già pesante per i respiri affannosi dei soldati e satura dell’aspro aroma odore della cordite, si diradava, quando all’alba i i raggi primi raggi di sole illuminavano i corpi gelidi dei caduti ed i soldati riuscivano per un istante a rivedere la miseria della vita quotidiana del mondo contadino, un mondo dal quale proveniva la maggior parte dei soldati che combattevano tra le fila di napoleone, quando la festa era ormai lontana, ciò che restava della era soltanto un forte mal di testa, puzza di piscio e l’amaro in bocca per la perdita di cari amici, fratelli e commilitoni.

C’era stato un tempo in cui l’arrivo dei bonapartisti era percepito dalle popolazioni europee come un momento di festa, un momento di gioia, c’era stato un tempo in cui il loro arrivo era percepito come il preludio all’inizio della rivoluzione che avrebbe ribaltato gli equilibri europei, il preludio alla fine dell’oppressione delle masse popolari da parte dell’aristocrazia e le uniformi imperiali erano più che delle semplici uniformi, erano un simbolo di libertà, di grandezza, di opportunità, i bonapartisti erano delle vere e proprie rockstar, vivevano una vita da sogno, densa di avventure vissute in giro per il mondo, in giro per l’europa e quelle uniformi, le loro uniformi profumavano di libertà, di sogni, ambizioni e speranza, ma quei tempi erano ormai lontani e in alcune realtà erano stati persino già dimenticati.
Già prima della battaglia di Lipsia del 1813 l’arrivo dei bonapartisti aveva smesso di essere percepito con gioia, orgoglio e speranza ed era diventato sinonimo di guai, la presenza nei villaggi e nelle città di soldati bonapartisti significava soldati da sfamare, dissetare e soddisfare, significava nascondere i maiali e le riserve di grano, di alcolici e le donne, soprattutto quelle più giovani e carine, significava tenere lontano dagli occhi dell’esercito il proprio futuro perché di quei maiali, di quel grano e di quel vino le forze imperiali aveva bisogno, ne avevano bisogno per il proprio sostentamento, per difendere la libertà di tutti, o almeno così dicevano, ne avevano bisogno per difendere i privilegi che la borghesia europea era riuscita a conquistare, riempendo il vuoto di potere lasciato dalla caduta delle vecchie teste coronate, ed era una libertà il cui prezzo era pagato non da quella stessa borghesia che dalle campagne napoleoniche aveva tutto da guadagnare e da perdere, ma dai piccoli contadini, mercanti ed allevatori, che non possedevano ricchezze ed i cui figli si erano arruolati per seguire quel sogno di libertà ed avventura, i cui raccolti erano stati requisiti per sfamare le forze imperiali e le cui figlie avevano giaciuto con quei soldati, figli di chissà chi, venuti da chissà dove, per difendere un ideale a cui non le masse popolari, già da tempo, non sentiva più di appartenere.

A Waterloo le uniformi dei soldati non profumavano più di libertà e di avventura, non erano la rappresentazione di sogni, ambizioni e speranze, quei temi erano già lontani, a Waterloo quelle uniformi puzzavano di sudore, piscio e sterco di cavallo.

Waterloo ci racconta tutto questo in poche strofe e lo fa attraverso gli occhi di un soldato sopravvissuto alla battaglia finale del grande imperatore, una battaglia alla quale il soldato era sopravvissuto perché fuggito, ed era fuggito non per codardia, per vigliaccheria o paura della morte, perché la morte l’aveva vista da vicino in mille occasioni e lì a Waterloo la morte l’aveva guardata negli occhi, l’aveva già vista cavalcare sull’Europa e falciare soldati così come suo padre falciava l’erba vecchia prima di una nuova miserevole semina di cui forse non avrebbe visto il raccolto.

Di fronte a quell’immagine proveniente dal mondo contadino, il soldato, figlio probabilmente di allevatori o contadini, si era interrogato sul senso di quel massacro, sul senso di quella guerra, di quelle innumerevoli battaglie e si era interrogato sul perché lui stesse lì a combattere e morire, si era chiesto se quelle idee in cui credeva fossero realmente le sue o se le aveva accettate, ascoltate da chissà chi, chissà quando e dove e mentre tutte queste domande attraversavano la sua mente sotto una pioggia di frecce e palle di cannone si era reso conto che quella rivoluzione che tanto aspettava e in cui credeva di credere, non era realmente la sua, che gli ideali per cui si batteva con tanto ardore non erano i suoi, che quella guerra non era la sua guerra e con la lungimiranza di chi conosce già il susseguirsi degli eventi futuri, si era reso conto che lui era un contadino e indipendentemente dall’esito della battaglia, per lui non sarebbe cambiato nulla, non sarebbe diventato un generale, non avrebbe marciato per le strade di Parigi come un eroe, o forse si, magari sarebbe stato celebrato come un eroe, uno dei tanti che aveva combattuto con onore per il grande imperatore ma poi, a guerra finita, sarebbe dovuto tornare ad una terra che forse non possedeva, per completare una semina che qualcuno forse aveva incominciato e allora il soldato, stringendo la propria vita forte al petto, decidere di combattere per se, decide di combattere la propria battaglia e non quella di qualcun’altro.
Il soldato scappa, comincia a correre il più forte possibile, il più lontano possibile e continua a correre finché ha fiato in gola e forza nelle gambe, corre come nemmeno Forrest Gump ha mai corso in vita sua, corre per l’unica cosa che gli appartiene veramente, corre per se, per la propria vita e per il proprio futuro, e nel correre ci mostra forse un anticipazione del fallimento dei moti rivoluzionari del 20/21, quei moti troppo borghesi per coinvolgere realmente le masse popolari, troppo elitari per i contadini che da quella rivoluzione non avrebbero ottenuto nulla se non, come a Waterloo, un vano sacrificio ed una morte onorevole. E allora il soldato preferisce vivere piuttosto che morire per niente tra i fiori di Waterloo.

La seconda Weimar Italiana – Storia Leggera

Nostra signora dell’ipocrisia di Francesco Guccini è una canzone che pesa come un macigno, soprattutto in questo periodo, è una canzone vecchia di un quarto di secolo ma sembra scritta l’altro ieri, non so se per via dell’ambientazione pasquale o per il fortissimo parallelismo tra la politica italiana odierna e quella dei primi anni novanta e diventa un brano agghiacciante, quasi un campanello d’allarme se si considera il preesistente parallelismo tra la politica italiana dei primi anni novanta e la politica tedesca della repubblica di Weimar.

Forse pubblicare il primo articolo di una nuova rubrica il lunedì di pasquetta non è stata la mia idea migliore, ma alle conseguenze di questa sconsiderata scelta penserò in un altro momento, per ora, voglio approfittare della particolarità di questa giornata, dell’atmosfera pasquale che permea l’aria, per iniziare col botto, per iniziare con una canzone che è un colpo di cannone sparato nello, sparato nell’addome quasi come se fossimo degli artisti circensi, ma l’addome che questa palla di cannone va a colpire non è un addome forte è tonico, quasi scultoreo, è invece un addome rigonfio dalla quantità abnorme di cibo consumato nel pranzo di pasqua e che indomito non teme i fiumi di vino e le montagne di carne che come in un rito di passaggio si appresta a consumare in questa giornata di festa, preludio al quasi religioso digiuno serale, un digiuno che quasi come da tradizione è avvolto da uno strano silenzio occasionalmente interrotto dal lento e inesorabile grugnito di qualcuno che forse ha mangiato e bevuto troppo.

Le immagini proposte da nostra signora dell’ipocrisie, queste immagini pittoresche e al limite del grottesco, fortemente contrastanti tra loro, ad un primo sguardo possono far sorridere o impallidire, soprattutto se non si va a rompere l’illusoria bolla che le avvolge e nasconde ogni cosa. Ma se la bolla esplode, se la maschera di un ormai lontano carnevale viene sollevata, allora possiamo riuscire ad intravedere la realtà, possiamo dare uno sguardo al vero volto di questa canzone, del mondo e del tempo che va a raccontare. Ciò che vediamo sollevando la maschera è una matassa caotica e indistricabile, metafora del temibile caos politico che nei primi anni novanta, come un boa constrictor stava schiacciando l’Italia tra le sue spire letali e riportava nell’aria lo spettro di un altro mondo e di un altro tempo, riportando nell’aria i pensieri, le angosce, le ansie e le paure di un passato oscuro e dimenticato forse troppo in fretta. Tra le spire del serpente lo spettro di Weimar cavalcava sull’Italia.

All’inizio degli anni novanta, l’Italia e più in generale l’intera umanità, stava entrando in una nuova epoca globale che succedeva ad un lungo conflitto psicologico, una guerra combattuta indirettamente e che per oltre quarant’anni aveva contrapposto due mondi, due modi di vivere e di pensare, delineando un preciso ordine internazionale in cui i confini tra l’uno e l’altro mondo erano netti e ben visibili, in alcuni casi, come a Berlino erano materiali, tangibili, erano veri e propri muri invalicabili. Ma la fine della guerra fredda aveva cambiato ogni cosa, aveva abbattuto quei muri e il mondo intero doveva affrettarsi a riorganizzarsi per trovare e definire un nuovo ordine internazionale che potesse sostituire il precedente. Per queste ed innumerevoli altre ragioni, tantissimi altri storici dell’epoca indicato il 1991 come un punto di rottura tra due diverse epoche storiche, Eric Hobsbawm in particolare contribuì forse più di tutti a creare l’immagine di un secolo breve che iniziava con la prima guerra mondiale e terminava con la dissoluzione dell’unione sovietica, e ciò che c’era dopo, era soltanto un futuro misterioso e incerto. Un futuro che ad un primo e superficiale sguardo mostrava la fine della guerra fredda e la dissoluzione dell’Unione Sovietica come il punto di partenza di un mondo libero da guerre e conflitti, qualcuno addirittura osava ipotizzare la fine della storia e della geografia mentre sognava la nascita di un governo mondiale, qualcun altro, forse più realista, forse con i piedi troppo saldi in una storia umana fatta di incontri e scontri di civiltà, prestava più attenzione ai nuovi e più delicati equilibri internazionali che si stavano formando, osservando che quel positivismo epocale sarebbe presto sfumato lasciandosi alle spalle molti delusi a causa della natura precaria ed incerta di quegli stessi equilibri.

L’Italia di quegli anni, l’Italia dei primi anni novanta, non è ovviamente estranea a questi cambiamenti epocali, soprattutto perché per ragioni geografiche e politiche aveva giocato un ruolo quasi centrale nelle dinamiche della guerra fredda e tra i tanti, era forse il paese che più di chiunque altro era riuscito a trarre un vantaggio reale e dalla rivalità che contrapponeva USA ed URSS. L’economia italiana per oltre 40 anni era si aveva approfittato, in larghissima misura, delle dinamiche dalla guerra fredda e la sua fine comportava la perdita di enormi introiti economici e finanziari per il paese. Introiti e finanziamenti non sempre totalmente cristallini o leciti, ma la cui presenza aveva giocato un ruolo certamente importante nel definire l’assetto economico del paese.
Va da se che la situazione del bel paese all’indomani dello scioglimento dell’Unione Sovietica è molto cupa ed incerta inoltre i forti scossoni che la politica interna aveva subito negli ultimi anni, tra stragi di mafia e scandali legati al finanziamento illecito dei partiti, si erano abbattuti sulla vecchia politica italiana come una tempesta e la vecchia classe dirigente del paese si era ritrovava in una posizione non ottimale, l’atmosfera politica dell’Italia era confusa, era cupa e le folle chiedevano un rinnovamento della stessa classe, così, giorno dopo giorno, domenica dopo domenica, tra le elezioni del 1992 e quelle del 1994 l’Italia visse una lunga quaresima, fatta di digiuni, confessioni, esili volontari, stelle cadenti e nuove stelle nascenti che in quegli anni costruirono la propria carriera politica in maniera minacciosa, puntando il dito ed attribuendo alla vecchia politica la responsabilità di qualsiasi cosa, guerra puniche comprese. Così, quando furono chiamati a scegliere tra Gesù e Barabba, chi per un motivo, chi per un altro, gli italiani scelsero Barabba.

In questo biblico caos istituzionale qualche artigiano di notizie riusciva ad intravedere i tasselli di un drammatico passato che non apparteneva al nostro paese, ma che presentava numerose assonanze alla realtà politica che si stava vivendo in quegli anni. Il caos e l’instabilità politica dell’Italia nei primi anni novanta ricordava forse troppo sfacciatamente il caos e l’instabilità politica vissute dalla Germania all’indomani della prima guerra mondiale, nel periodo compreso tra il 1919 ed il 1933 e col senno di poi, qualcuno sbarrava gli occhi scorgendo, temendo e ricordando il drammatico epilogo della repubblica di Weimar.

Tra il 1992 ed il 1994, nasceva una versione tutta italiana della repubblica di Weimar e questa esperienza avrebbe traghettato il paese per un quarto di secolo, verso una nuova e analoga situazione di caos istituzionale e politico, in cui la “nuova classe dirigente” del 1994 era diventata l’immagine della vecchia politica, i vecchi nuovi astri nascenti erano le nuove stelle cadenti e nuove stelle nascenti iniziavano a costruire la propria carriera politica, in maniera minacciosa e puntando il dito attribuendo alla vecchia politica la responsabilità di qualsiasi cosa, guerra puniche comprese, facendo proprio il vecchio slogan per cui il responsabile era sempre e soltanto di qualcun’altro.

Il futuro di questa nuova ondata di caos e instabilità politica, tutt’ora in evoluzione non è stato ancora dipanato, speriamo soltanto che nostra signora dell’ipocrisia non ci conduca ad una nuova “domenica delle salme”.

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