22 Agosto 1485: La Battaglia di Bosworth Field

Il 22 Agosto 1485, nei pressi di Ambion Hill, fu combattuta la battaglia di Bosworth Field che decretò la fine della Guerra delle Due Rose e la salita al trono inglese della Dinastia Tudor.

Le cause del conflitto

La Guerra delle due Rose ebbe inizio nel 1455 in Inghilterra con la contesa del potere fra due casate: York e Lancaster. Il nome riprende gli stemmi delle due dinastie: rosa rossa Lancaster, rosa bianca York. Quest’ultimi, contestavano ai Lancaster il diritto di discendenza dopo che, alla morte di Riccardo II avvenuta nel 1413, il Parlamento diede il potere a Enrico IV di Lancaster. Gli York attesero fino al 1422. In quel periodo in Inghilterra regnava Enrico VI e, approfittarono della poca simpatia che il popolo aveva per il sovrano, un Re assente e afflitto da problemi mentali. In questo periodo Riccardo di York riuscì a farsi eleggere dal Parlamento Lord Protettore ma, quando il Re si riprese, fu allontanato. Successivamente gli York avranno nuovamente la meglio quando il figlio di Riccardo Edoardo di York sconfisse nella Battaglia di Towton il Re d’Inghilterra che fu fatto prigioniero nel 1465.

La battaglia finale

Dopo vari scontri, il 22 Agosto 1485 si giunse alla battaglia di Bosworth Field. Gli York erano capeggiati da Riccardo III di Gloucester, mentre i Lancaster da Enrico Tudor conte di Richmond. Decisivo fu per la sconfitta degli York il cambio di rotta da parte di uno dei loro alleati, appartenente alla famiglia degli Stanley. Questo cambiamento destabilizzò l’esercito di Riccardo III che trovò la morte durante la battaglia. Con la morte di Riccardo, Enrico fu incoronato Re d’Inghilterra e l’anno successivo sposò Elisabetta di York dando vita alla dinastia Tudor.

I Medici di Claudia Tripodi, Guida alla lettura

Dopo tanto tempo, finalmente, ritorno a pubblicare, e lo faccio con una guida alla lettura, in particolare la guida alla lettura del saggio I Medici di Claudia tripodi.

Questa guida sarebbe dovuta uscire ad ottobre, ma, una serie di sfortunati eventi, mi hanno impedito di lavorarci per molto tempo, ho quindi rimandato la scrittura e pubblicazione a dopo le feste, forte di una seconda rilettura del saggio di Claudia Tripodi.

Prima di cominciare con la guida, voglio ringraziare l’editore Diarkos per avermi fornito una copia del libro finalizzata alla produzione di questa guida.

I medici, ascesa e potere di una grande dinastia

Il saggio I medici, ascesa e potere di una grande dinastia, di Claudia Tripodi si presenta come una raccolta di saggi di carattere biografico, riguardanti le principali personalità che hanno fatto la storia della famiglia de Medici, partendo dal capostipite Giovanni di Bicci de Medici, vissuto tra XIV e XV secolo, fino ad arrivare alla principessa palatina Anna Maria Luisa de Medici, vissuta tra XVII e XVIII secolo.

L’arco temporale coperto dal saggio è dunque molto ampio, e coincide con l’ultimo medioevo e gran parte dell’età moderna, epoche di cui è consigliato avere un infarinatura generale al fine di affrontare la lettura del saggio in modo armonioso. Il saggio è comunque di carattere divulgativo, e fornisce, tra le proprie pagine, tutti gli strumenti necessari per poter ricostruire e comprendere a pieno, la dimensione politica e sociale in cui si collocano le vite presentate nell’opera.

In poco più di 300 pagine, il saggio condensa una narrazione enciclopedica delle vite e delle vicende che hanno reso grande la dinastia de Medici, protagonista, non di secondo piano, di gran parte della storia italica ed europea.

La raccolta di saggi può essere letta sia come una “storia familiare” che come una storia europea che parte dalla toscana, giunge Roma, presso la corte papale di Leone X, al secolo Giovanni Lorenzo de Medici, si trasferisce poi a Parigi, presso la corte del re di Francia Enrico II, di cui Caterina de Medici era consorte, per poi tornare in Italia, presso la corte medicea del Granducato di Toscana.

I Medici

La storia della famiglia de Medici è una storia immensa ed estremamente complicata, e non basterebbe una vita intera per studiarla completamente, poiché tante, forse troppe, sono le personalità di alto rilievo appartenute a quella che è stata una delle più importanti dinastia dell’intera storia d’Italia.

Nonostante il saggio si muova in un campo a dir poco sterminato, l’autrice riesce a mantenere ben saldo il timone ed impostare una rotta precisa e puntuale, organizzata in modo schematico attraverso la ricostruzione dei momenti più importanti delle vite degli uomini e delle donne della famiglia de Medici.

Uno degli aspetti che ho apprezzato particolarmente di questo libro è la sua struttura verticale, ogni saggio biografico infatti, può essere letto indipendentemente dagli altri, e può essere visto come punto di partenza per uno studio più approfondito, sulla vita dei singoli protagonisti dell’opera. Fermo restando che, per alcuni membri della famiglia de Medici è più facile reperire informazioni rispetto ad altri.

Uomini e donne come Cosimo il Vecchio, Lorenzo il Magnifico e Caterina de Medici, hanno nomi estremamente celebri e la letteratura storiografica attorno a queste personalità, è a dir poco infinita, altri membri della famiglia invece, come ad esempio Giovanni di Bicci, Cosimo III e Anna Maria Luisa, sono decisamente meno noti, e la letteratura che li riguarda è circoscritta ad un numero estremamente esiguo di opere molto puntuali e, sotto un certo punto di vista, complicate da leggere.

Il saggio I Medici, di Claudia Tripodi, permette, in modo semplice e immediato, di accedere ad informazioni significative, sulla vita di queste personalità, e se per personaggi più noti, può sembrare un qualcosa di non particolarmente significativo, se si sposta la lente sui personaggi minori della dinastia, il saggio diventa estremamente interessante ed utile.

I saggi verticali sui medici

Nell’immaginario collettivo, la dinastia de Medici inizia la propria ascesa al potere, tra Arezzo e Firenze, grazie al genio e l’acume politico di Cosimo de Medici, noto alla storia come Cosimo il Vecchio, tuttavia, Cosimo non è un uomo comune che costruisce un impero dal nulla, Cosimo è in vero figlio di Giovanni di Bicci de Medici, piccolo e ambizioso banchiere fiorentino, la cui eredità avrebbe permesso a Cosimo di gettare le basi dell’Impero della famiglia medicea.

La storia di Giovanni di Bicci è una storia molto sottotono rispetto a quella dell’erede Cosimo, ma non meno significativa o importante, e, nell’ottica di un lavoro ampio e completo sulla famiglia de Medici, è necessario partire da Giovanni per poter comprendere meglio la figura di Cosimo.

Come anticipato nel paragrafo precedente, ho trovato particolarmente utili i saggi sui “medici minori”, di cui, il più delle volte, al di fuori di campi di studio estremamente specifici sulla toscana in età moderna, si conosce forse il nome ed il titolo, ma nulla di più. Questo saggio, grazie allo spazio dedicato a queste personalità, mi ha permesso di conoscere meglio un mondo che mi era lontano, donandomi la chiave di accesso a storie e vite, fino a quel momento collocate in strade quasi completamente sconoscute.

Uno dei miei saggi preferiti del libro è il sesto, intitolato I medici fuori da Firenze, saggio in cui, in modo molto rapido, si raccontano le storie dei pontefici Leone X e Clemente VII oltre che del duca d’Urbino, Lorenzo de Medici, da non confondere con Lorenzo il Magnifico.

Altro saggio che ho apprezzato in modo particolare è il nono, intitolato Caterina dei Medici, la regina Nera, saggio in cui, senza troppi giri di parole, si parla della regina di Francia Caterina de Medici, consorte del re di Francia Enrico II di Valois.

Questi due saggi sono quelli che meglio racchiudono e definiscono il potere temporale della famiglia de Medici, una famiglia così potente da riuscire a partecipare al gioco del trono papale, insediando per ben due volte un membro della propria famiglia al soglio pontificio, e ancora, una famiglia così ricca e potente, da riuscire ad insediarsi, al fianco, e secondo alcuni, riuscendo a controllare, il re di Francia. Caterina non è però stata solo la regina di Francia, ma anche la regina reggente di Francia, per ben due volte, la prima, alla morte di Enrico II, tra il 1560 ed il 1563, per conto del figlio primogenito Carlo IX di Francia e la seconda, nel 1574, alla morte del figlio Carlo, per conto del secondogenito Francesco II di Francia.

Durante la propria presenza alla corte di Francia, Caterina de Medici, fu una donna estremamente presente nella vita politica, sia in veste di regina, che di regina madre, oltre che ovviamente di regina reggente. Ben note sono infatti le rivalità tra Caterina de Medici e Maria Stuart, regina di Scozia e regina consorte di Francia in quanto moglie di Francesco II di Francia.

Il saggio su Caterina de Medici, ci mostra quel mondo controverso e complicato delle relazioni politiche e internazionali del XVI secolo, attraverso la vita di una donna decisamente fuori dal comune che, per un lungo periodo della propria vita, si ritrovo al centro dell’universo politico europeo.

Il saggio sui Medici

Il saggio I medici, di Claudia Tripodi, è nell’insieme, un libro di ampio respiro, in grado di fornire al lettore un infarinatura generale sulla storia politica ed economica dell’Europa moderna, attraverso il racconto delle vite di uomini e donne che, chi più, chi meno, sono stati determinanti nella costruzione di un concetto europeo.

Come già detto altre volte, il saggio ha una struttura verticale, che lo rende particolarmente adatto ad una lettura occasionale o non necessariamente consequenziale. I saggi che compongono l’opera possono essere letti in modo isolato o in ordine sparso, ed è proprio in quest’ultimo medo che ho affrontato la seconda lettura del testo, preferendo soffermarmi su quei saggi che reputavo più interessanti, per quello che era il mio gusto personale e i miei interessi. In soldoni, durante la seconda lettura, ho preferito dare maggiore spazio a saggi che mi incuriosivano e interessavano maggiormente, ovvero saggi su quei personaggi di cui avevo letto e sapevo poco o nulla, e sui quali avevo difficoltà a reperire informazioni.

I Medici, una lettura utile e consapevole

Sfogliando le pagine del libro si noterà immediatamente un enorme varietà di fonti consultate dall’autrice per la realizzazione di quest’opera, i cui contenuti sono tanti quanti i protagonisti della dinastia de medici, e per chi vuole addentrarsi nello studio della famiglia de Medici, o più semplicemente vuole conoscere meglio uno dei suoi protagonisti, questo libro si presenta come uno strumento estremamente utile per due motivi.

Il primo motivo è che questo libro fornisce una porta d’accesso a quelle biografie, attraverso dei saggi monografici, brevi, semplici e di ampio respiro, il saggio su Caterina de Medici, per citarne uno, è un ottimo strumento per acquisire informazioni di base sulla regina di Francia, da cui partire per un lavoro di analisi e ricerca, magari più ampio, inoltre, qualora si fosse intenzionati ad approfondire la figura di Caterina, il saggio, come ogni buon saggio, permette di accedere ad un ampia bibliografia, che, nel caso del saggio su Caterina, si configura come un indice di testi, articoli e documenti, riguardanti questa donna, letture che chiunque può prendere in mano al fine di conoscere meglio e più da vicino la figura di Caterina de Medici.

Qualche parola sull’autrice de I Medici, Claudia Tripodi

Archivista e storica di professione, Claudia Tripodi ha studiato presso l’accademia Paleografica e Università di Firenze, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia Medievale nel 2009, per poi spostare la propria attività di ricerca sulla storia delle famiglie e la mobilità sociale tra Medioevo e Rinascimento, ed è proprio in questo campo che si colloca, perfettamente, il saggio I Medici, un saggio che, come detto più volte in questa guida, è una storia di famiglia, la famiglia de Medici, ma anche una storia politica ed economica europea a cavallo tra medioevo ed età moderna.

Claudia tripodi è attualmente collaboratrice archivista presso l’Archivio di Stato di Firenze, per conto dell’Università Neubauer di Chicago, oltre che redattrice per la rivista “Archivio storico Italiano”.

La maggior parte delle pubblicazioni della dottoressa Tripodi sono di carattere tecnico, in particolare review realizzate per conto di alcune riviste di settore.

Nonostante ciò, è anche autrice di diversi saggi, ultimo dei quali, I Medici, ascesa e potere di una grande dinastia, un saggio che segue lo stile narrativo e strutturale dei precedenti saggi, su Vespucci, edito da Viella Editore e pubblicato nel 2018 con il titolo Prima di Amerigo. I Vespucci da Peretola a Firenze e, prima ancora, del saggio sulla famiglia Spini del 2013, intitolato Gli Spini tra XIV e XV secolo. Il declino di un antico casato fiorentino ed edito da Olschki nella collana Biblioteca storica toscana.

I saggi di Claudia Tripodi sono accomunati, oltre che da un forte carattere divulgativo, che vuole raccontare, in modo chiaro, semplice e diretto, un ampio e complesso percorso di ricerca molto puntuale e specifico. Il saggio sui Medici sintetizza, tra le proprie pagine, anni di studio e ricerca compiuti dall’autrice, sulla nobiltà fiorentina e la società europea tra medioevo e rinascimento.

Conclusioni

Il libro I Medici, ascesa e potere di una grande famiglia di Claudia Tripodi è una raccolta di brevi saggi biografici, realizzati dall’autrice ed aventi come protagonisti, la famiglia de Medici, di cui ci vengono raccontate storie, vite, intrighi, ma anche ambizioni, ostacoli, difficoltà e successi. Il tutto è scritto in modo semplice e chiaro, con uno stile molto lineare e conciso, senza troppi fronzoli e senza dare troppo spazio a concetti e informazioni irrilevanti.

questo libro di Claudia Tripodi si concentra su quelli che sono i momenti più importanti delle vite raccontate, e, se c’è un difetto che è possibile incontrare in questo saggio, forse è proprio la puntualità con cui sono narrate le vicende.

Il saggio ha un carattere divulgativo molto spinto ed acceso, tuttavia, senza una preliminare conoscenza (molto superficiale) delle dinamiche sociali degli ultimi anni del basso medioevo e del rinascimento, alcuni passaggi potrebbero risultare complicati da comprendere e potrebbero richiedere una seconda lettura. Nonostante ciò, il libro non presenta ostacoli insuperabili, le conoscenze e competenze preliminari richieste per poter leggere il libro in modo completo, sono davvero pochissime, e, chiunque sia interessato a leggere un saggio biografico sulla famiglia de Medici, quasi per definizione, dispone già delle conoscenze preliminari richieste.

La struttura verticale del libro, diviso in capitoli monografici riservati ai singoli protagonisti della dinastia medicea, rende il saggio estremamente dinamico, e può essere letto, in vari modi e dimensioni, io stesso, la prima volta che ho letto il libro l’ho letto in un modo “classico” ovvero seguendo l’ordine naturale dei capitoli, mentre, la seconda volta che l’ho letto, mi sono mosso tra i capitoli in ordine sparso, leggendo ad esempio il saggio su Caterina de Medici parallelamente al saggio su Cosimo il Vecchio, ho voluto leggere parallelamente quei due saggi perché da un certo punto di vista, parallele sono le figure di Caterina e Cosimo, entrambi infatti portano la famiglia de Medici su un più alto piano sociale, il primo, Cosimo, introducendo la famiglia all’aristocrazia Italica, la seconda, portando l’aristocratica famiglia italica sul piano delle teste coronate che in quel momento governavano l’Europa, insediandosi sul trono di Francia e dando i natali all’erede di casa Valois.

In definitiva, il libro I Medici di Claudia Tripodi un libro che consiglio a chiunque, sia a chi è incuriosito dalla storia della famiglia de Medici e vuole iniziare un percorso di studio e letture, sia a chi è già addentrato nel mondo della letteratura storiografica e vuole andare ad approfondire determinati aspetti della società europea, in particolare la mobilità sociale tra medioevo e rinascimento, che, in questo libro, la fa da padrona.

Altre guide alla Lettura

Se questa guida alla lettura ti è stata utile e vuoi leggerne altre, ti consiglio la lettura di:

I Lobgobardi, di Elena Percivaldi.
Il Formaggio e i Vermi, di Carlo Ginzburg.
La Fine della cultura di Erich Hobsbaem
Wonderland, di Alberto Mario Banti.

Marco Polo e la vera storia della pasta

secondo la leggenda, Marco Polo, di ritorno dalla Cina, avrebbe portato la in Italia, ma è davvero andata così?

La pasta, vanto e orgoglio di noi italiani. La pasta è il simbolo dell’Italia nell’immaginario comune, è la nostra più grande ricchezza, e secondo la leggenda, siamo stati proprio noi italiani ad esportarla in tutto il mondo, dopo averla importata, grazie a Marco Polo, dall’oriente.

La verità però è leggermente diversa, e se è vero che l’Italia ha diffuso la pasta in tutto il mondo, non è invece vero, che questa sia arrivata dall’oriente.

Su Marco Polo tornerò in altri post, qui mi limito a riportare alcuni riferimenti alla pasta.
Come sappiamo, secondo la leggenda, Marco Polo, intorno alla fine del XIII secolo, sarebbe tornato dalla Cina, dove era stato, tra il 1271 e il 1295, consigliere dell’imperatore. Al suo ritorno, ci racconta il mito, Marco avrebbe portato con sé polvere lirica, pasta e tante altre cose sconosciute agli occidentali.

Tuttavia, negli anni ottanta del XIII secolo, un ormai anziano Salinbene da Parma, monaco francescano, nella sua Cronica, ci parla di quando, da giovane, molti anni prima della nascita da giovane, era solito mangiare pasta ripiena, un piatto tipico della tradizione medievale, la cronica di Salinbene ci dice in modo inequivocabile che la pasta era nota in Italia almeno 50 anni prima del viaggio di Marco Polo, e di conseguenza che non sia stato lui a portarla.

Ma allora, come e quando è arrivata la pasta in Italia?

Purtroppo non lo sappiamo ancora con certezza, ma sappiamo che intorno al 1154, il geografo arabo Al-Idrin, menziona nei propri scritti un cibo di farina, a forma di fili, che lui chiama triyah e che veniva confezionato a Palermo.

Il testo di Al-Idrin è oggi il più antico documento noto, in cui si fa riferimento alla pasta, ma purtroppo, ci dice solo che alla metà dell XII secolo, questa era già diffusa, almeno nell’Italia meridionale, ma non ci dice da quanto.

Secondo alcuni storici, alcuni tipi di pasta, potrebbero essere stati prodotti già al tempo della Megale Ellas (Magna Grecia) anche se con qualche leggera variazione dalla “Pasta” così come la intendiamo oggi. Questi storici si riferiscono in particolare al cibo dei morti, “makar” da cui potrebbe essere derivata la parola maccheroni.

Bianca Maria Visconti, la Signora di Milano

Biancamaria Visconti, unica erede di Filippo Maria visconti, duca di Milano, sposa del signore della guerra Francesco Sforza e madre del duca e signore della guerra, Galeazzo Maria Sforza. Chi era davvero Biancamaria Visconti? Questa è la sua storia.

L’8 Agosto 1452 Bianca Maria Visconte, scrive al marito, Francesco Sforza, in quel momento impegnato in battaglia nel bresciano, mentre lei è impegnata a Milano, a reggere il governo della città e nel mentre, partoriva il suo quartogenito.

Nella lettera scrive queste parole

“Ho aparturito uno bello fiolo”, ho scelto per lui “certi nomi de santi che ho in devotione”, ma lascio a voi l’ultima parola e vi raccomando di scegliere un bel nome, perché il neonato è proprio bruttino: “pur prego la vostra illustre signoria che se degni de pensare de metergli uno bello nome acciò che’l suplisca in parte ala figura del puto che è il più sozo de tuti li altri. De fronte et dela bocha el someglia mi et dela parucca el somiglia la signoria vostra, siché podeti pensare come el debe essere bello!”, aggiunge poi, quando lo vedrete, però, vi piacerà lo stesso e “non vi parrà troppo deforme”.

Ne segue uno scambio epistolare sulla scelta del nome del nascituro, per Francesco Sforza il nome del pargolo dovrebbe essere Carlo, anche perché in quel momento, nel Bresciano, al campo di Francesco Sforza, c’era Carlo VII, da poco asceso al rango di Re di Francia, ma, per Bianca Maria, Carlo non era un nome adeguato, anche perché in quanto Visconte, aveva una tradizione familiare ghibellina e non pochi antichi rancori con la casa d’Angiò, di cui Carlo VII era un esponente, e così, dopo non poche lettere, la signora di Milano, riuscì a convince il marito a scegliere un nome diverso per il figlio quartogenito, con tutto ciò che ne sarebbe conseguito, dal perdere l’importante alleanza con la Francia, ma di contro, nel 1464, all’età di dodici anni, il giovane Sforza Maria Sforza, ricevette in dono il ducato di Bari da Ferdinando I di Napoli .
Di fronte a tale ironia, di fronte a tale genio, di fronte a tale determinazione e fermezza, ma anche tanta tenerezza, ho deciso di parlarvi di lei, di Biancamaria Visconti, duchessa di Milano dal 1450 al 1468, anno della sua morte per malattia.

La lettera è oggi conservata presso l’ASMi, Sforzesco, PS, 1452, edita in

G.Lopez, Una signora fra due epoche, in Gli Sforza a Milano, Milano, 1978, pp 7-10, https://amzn.to/2PrtUhQ
G.Lopez, I Signori di Milano. Dai Visconti agli Sforza. Storia e segreti, https://amzn.to/32MtQNC

Leggi anche,
D.Pizzagalli, La signora di Milano, https://amzn.to/2onONzC

ARTURO GRAF e la Leggenda del Pontefice Mago

Alla fine del IX secolo l’edificio costruito da Carlo Magno si era ormai sfaldato. La monarchia dei franchi si era separata dall’impero che, sotto la dinastia degli Ottoni, diventa quello che passerà alla storia come Impero Romano Germanico. Nel frattempo, i normanni si sono mossi alla conquista di una parte della Francia settentrionale e dell’Inghilterra.

Anche la scuola palatina scompare: siamo alla fine del IX secolo. In qualche centro, come ad Auxerre, proprio nella seconda metà del IX secolo, la filosofia sembrava non demordere. Gli studi dialettici continuavano ed erano numerosi i commenti agli scritti logici e teologici di Boezio (soprattutto sull’annoso problema degli universali).

Il X secolo sarà un’epoca di povertà culturale con la sola eccezione della vita e cultura monastica, ma Gerberto, monaco di Aurillac, è un’eccezione. Gerberto era vissuto come monaco nel monastero di Ripoll in Catalogna, ai confini di un territorio controllato dai musulmani. Era poi passato a Reims dove la sua fama legata all’insegnamento delle arti del trivio e del quadrivio gli aveva procurato numerosi allievi. Infine, lo troviamo a Bobbio dove aveva ricoperto la carica di abate su nomina dell’imperatore Ottone II.

Gerberto d’Aurillac maestro del futuro san Fulberto e Roberto il Pio a Reims, dal Codice Manesse del XIV secolo, (CC BY-SA 3.0).

Quella di Gerberto di Aurillac è una figura sfaccettata, affascinante, al confine tra storia, filosofia, mito e folklore. Vediamo cosa possiamo dire con “certezza”. Ottone III si ricordò di lui quando si trattò di ricoprire la cattedra arcivescovile di Ravenna, nel 998, poi il soglio pontificio nel 999. Come papa, Silvestro II fu molto più che un “semplice” cappellano di corte. Fu il primo ad intuire l’importanza delle società cristiane che si stavano formando ad est del mondo tedesco; promosse infatti l’evangelizzazione delle genti slave e, solo per fare un esempio, riconobbe Stefano I come re di una nuova nazione cristiana, quella ungherese. Morì nel 1003, dopo essere stato cacciato insieme all’imperatore due anni prima, e dopo aver subito una forte umiliazione da parte della nobile famiglia dei Crescenzi.

Ma perché è una figura così importante? Non è l’unico filosofo, politico e scienziato del suo tempo! Il punto è proprio questo. Non è l’unico, certamente, ma è l’unico a non essere allineato con la cultura dominante. Non mi riferisco tanto alla sua attività di filosofo che trovate, se vi interessa, soprattutto in un saggio, Sul razionale e sull’uso della ragione, pensato come disputa alla corte di Ottone III. Mi riferisco invece alla sua attività di “scienziato”.

Gerberto d’Aurillac, De geometria, fol 12v, Baviera, copia manoscritta del XII secolo.

Dai viaggi in Spagna aveva ereditato una forte passione per la matematica e l’astronomia; spesso andava alla ricerca di libri e di strumenti – come l’abaco e la sfera armillare – per osservare e studiare le stelle. Aveva indubbiamente una visione nuova della cultura e dell’insegnamento, se paragonata a quella diffusa intorno all’anno Mille, cultura intesa primariamente come lettura ed esegesi dei testi sacri (successivamente dei filosofi antichi).

Fu proprio questa caratteristica a creare attorno a lui un alone leggendario che lo dipingeva come un mago, uno stregone che era sceso a patti con il diavolo per apprendere le vie che conducevano ai tesori sepolti nel sottosuolo di Roma. O per il desiderio di sapere o, ancora, per ottenere fama e riconoscimenti. Queste istanze si trovano proprio nell’opera di Arturo Graf, intitolata Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo. 

Chi è Arturo Graf? Nato ad Atene nel 1848 da padre tedesco e da madre italiana, Graf trascorre l’infanzia a Trieste e in Romania; compie gli studi liceali e universitari a Napoli dove entra in contatto con De Sanctis. Nel 1876 inizia la sua carriera universitaria a Roma e nel 1882 diventa professore presso l’Università di Torino dove nel 1883 è nominato rettore. Nel 1883 è tra i fondatori del Giornale Storico della Letteratura Italiana.

Arturo Graf

Nel 1907 lascia l’insegnamento (si è spento nel 1913). Tra il 1892 e il 1893 pubblico in due volumi una raccolta di saggi intitolata Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo che non ha avuto successo per il giudizio negativo dato da Benedetto Croce, secondo cui Graf sarebbe stato incapace di una autentica operosità scientifica (per fortuna la scuola francese delle Annales ne ha finalmente riconosciuto i meriti).

Graf non ha dato solo contributi alla demonologia dantesca. Nel saggio La leggenda di un pontefice (Silvestro II) ripercorre la vicenda del dotto di Aurillac dipingendolo come un mago nell’ambito dello studio dei sospetti e delle diffidenze che l’opinione popolare nutriva verso le attrattive del potere. In questo quadro, Silvestro II diventa emblema dell’uso della magia di derivazione demoniaca proprio a causa della sua familiarità con la scienza. Qual è il punto? Il mito in Graf non è solo espressione del pensiero fantastico, ma ha una radice storica in quanto è inteso come proiezione di una credenza (o fantasia interiore) nel tempo e nello spazio.

E qui la credenza popolare che origina il mito del “mago scellerato” trae origine dalla diffidenza nei confronti della scienza. Il ricorso al mantello della magia è certamente un buon artificio letterario. Se, però, astraiamo da questo aspetto e ci facciamo qualche domanda sul significato di una storia di questo tipo, scopriamo che l’argomento è attuale. Consiglio il libro di Graf non solo perché è ben scritto ed è una miniera di curiosità per l’appassionato di storia, ma soprattutto perché ci può far riflettere sulla potenza che finiscono per avere le false credenze, se pervicacemente condivise da molti, nella ricostruzione della storia della scienza (di cui il Nostro fa certamente parte).

Bibliografia:

ARTURO GRAF, Miti, leggende e superstizioni nel medioevo, Mondadori.

Quanto conosciamo i Vikinghi ? secondo un sondaggio di History Channel UK, molto poco

Per celebrare il lancio di una nuova stagione del dramma epico Vikings , The History Channel UK ha condotto un sondaggio su 2.000 persone, facendo domande di carattere generale sulla storia e la civiltà dei vichinghi ed i risultati sono stati “affascinanti” ma anche inquietanti. Mediavalist.net ha riportato la percentuale delle risposte date, rivelando qual è l’effettiva percezione che le persone hanno dei vichinghi e del loro lascito a questo mondo.

Secondo il 10% degli intervistati, i Vikinghi non sono mai esistiti, al contrario, soltanto il 56% degli intervistati si è detto sicuro, al di la di ogni ragionevole dubbio, dell’esistenza dei vichinghi, dicendosi interessati all’ammontare del “patrimonio” conquistato da questo popolo durante le proprie scorribande nel europa del nord. Ma siamo sicuri che i Vikinghi appartenessero ai cosiddetti “popoli del nord” ?

Noi sappiamo che la terra d’origine della civiltà vikinga fosse la scandinavia, tuttavia, il 20% degli intervistati non sembra essere d’accordo con questa informazione ed ipotizza un diverso luogo di origine di questa civiltà, tra le più quotate figurano la Grecia, per via di un ipotetico collegamento tra la mitologia norrena e la leggenda di Ulisse, che in questa data chiave di lettura, diventerebbe il padre mitico dei popoli del Nord, l’altra ipotesi emersa da questo sondaggio è che la terra d’origine dei vikinghi fosse la steppa siberiana o la Mongolia.

 

Uno degli elementi più iconici della civiltà vikinga è la loro teatralità in battaglia, oggi sappiamo che ogni elemento del vestiario, dell’armamentario, e dei mezzi di trasporto vikinghi erano studiati per incutere terrore all’avversario, dalla Drakkar alle particolari rasature della testa, agli incendi appiccati dopo un incursione e le asce da battaglia.

Questi elementi appartengono ormai all’immaginario comune legato ai vikinghi, tuttavia, soltanto il 5% degli intervistati sapeva che i Vikinghi rasavano la propria testa per apparire più minacciosi in battaglia e solo il 25% degli intervistati sapeva che i Vikinghi hanno scritto i propri poemi, permettendo a noi, di conoscere parte della loro storia, e soprattutto la loro mitologia, il 75% degli intervistati infatti si è detto convinto che le opere “poetiche” dei Vikinghi fossero opera di “terze parti” .

 

Una delle domande riguardava l’area delle incursioni, e visto che il sondaggio è stato fatto nel Regno unito, History ha chiesto agli intervistati se, i Vikinghi avessero mai compiuto raid lungo le isole britanniche ed il 75% degli intervistati ha risposto correttamente, mentre il restante 25% si è detto certo che i Vikinghi non avessero mai saccheggiato le coste britanniche.

 

 

 

In fine, il 10% degli intervistati si è detto convinto che, l’epoca dei Vikinghi, ovvero l’epoca delle grandi incursioni vikinghe lungo le coste dell’europa del nord, (che noi sappiamo coincidere con i secoli che vanno dall’ottavo all’undicesimo) ha indicato i secoli tra il quindicesimo e il diciassettesimo, e gli anni che separano Enrico VIII da Elisabetta I, come gli anni dei Vikinghi, sfasando così la storia Vikinga di oltre otto secoli, e solo il 60% degli intervistati ha indicato l’esatto arco temporale.

Fonte : http://www.medievalists.net/2017/05/vikings-survey-quiz/

 

 

Sciapodi, Blemmi e Creature Fantastiche all’ombra di Genghis Khan

Nel XIII secolo i contatti commerciali tra Europa e Asia erano ormai consolidati. L’oro e l’argento di Sumatra, della Corea e della Malesia. Il sandalo, il bambù e l’albero della canfora da cui estrarre una fragrante essenza. Aromi come incenso e muschio, poi pietre preziose come rubini e zaffiri provenienti da Ceylon e dall’India. E le spezie! Noce moscata, pepe, cinnamomo, chiodi di garofano.

Nonostante i ripetuti scambi commerciali che, attraverso il Mediterraneo, connettevano da tempo l’Oriente con l’Occidente, se ci chiediamo quale fosse per un occidentale l’immagine dell’Asia non possiamo rispondere senza chiamare in causa una serie di miti, leggende, racconti magici e geografie fantastiche.

All’ombra di Genghis Khan (il condottiero mongolo spesso paragonato ad Alessandro Magno per il fatto di aver unificato gran parte dell’Asia) troviamo vere e proprie gallerie di mostri: sciapodi (esseri con un solo piede), blemmi (creature con la faccia sul ventre), cinocefali, panozi (esseri dalle orecchie giganti) ed altre creature fantastiche che abbiamo imparato a conoscere anche grazie ai romanzi di Umberto Eco (Il nome della rosa e Baudolino, ad esempio).

Homo Fanesius Auritus nella Monstrorum historia di Jean-Baptiste Coriolan, 1642.

Coma mai questa commistione tra mito e realtà? L’idea dell’Oriente e dell’India che avevano i Greci dipendeva dalle conquiste di Alessandro Magno. Dopo la battaglia di Gaugamela e il crollo dell’impero Persiano, Alessandro volse alla conquista delle regioni orientali. Dopo essere penetrato nell’altopiano dell’Iran, che solo in parte era stato soggetto alla Persia, occupò varie regioni fondandovi una seconda, una terza e un’ultima Alessandria. Alexandrèscata (Alessandria Ultima) in Sogdiana (una regione dell’Asia centrale, nell’attuale Uzbekistan meridionale) è il luogo in cui sposò Rossane, figlia di un valoroso principe battriano.

Ma non è tutto. Alessandro arrivò in India, precisamente fino al bacino dell’Indo (327 a. C.), e le sue conquiste hanno lasciato una traccia indelebile nella cultura e nella letteratura (non solo greca). Pare dunque probabile che la grandezza di Alessandro abbia giocoforza contribuito alla commistione dei due piani (mitologico e “storico”).

Se passiamo al mondo romano non possiamo stupirci delle difficoltà nell’isolare i dati storici e geografici dai miti e dalle leggende. I romani erano consapevoli dell’esistenza della via dell’incenso, che dall’estremità della penisola arabica conduceva fino al Mediterraneo le spezie provenienti dalla Cina e dall’India; tuttavia, non avevano alcuna informazione certa sull’entroterra asiatico e sui suoi abitanti. Avevano soltanto l’eco delle imprese alessandriste.

Uno sciapode dalle Cronache di Norimberga (1493).

Molte conferme arrivano anche solo da una rapida rassegna tra i viaggiatori ed enciclopedisti romani. Pur in presenza di nuove informazioni è per noi molto difficile isolarle dalle leggende che ammantavano l’Asia. Possiamo ricordare Pomponio Mela (I secolo d.C.), cui dobbiamo la più antica geografia conservataci nella letteratura latina, un’opera pervenutaci in vari codici e che intendeva presentarsi come una descrizione esaustiva del mondo conosciuto: De Chorographia (Descrizione dei luoghi), Cosmographia (Descrizione del mondo) e De situ orbis (La posizione della terra).

Plinio il Vecchio (23 d.C.-79d.C.) di cui abbiamo solo la Naturalis historia, una vera e propria enciclopedia in cui l’autore è influenzato da alcune istanze dello stoicismo medio e che avrà molta fortuna nel Medioevo. Per non parlare di Gaio Giulio Solino (III secolo d.C.) autore di una Collectanea rerum memorabilium, in cui attinge a piene mani da Pomponio e da Plinio che proprio nella Naturalis Historia descrive gli abitanti dell’India come monocoli, appartenenti a una razza che possiede una sola gamba e che è molto abile nel salto (singulis cruribus, mirae pernicitatis ad saltum).

L’incontro con i mongoli è l’entrata in un mondo fantastico destinato a disgregarsi inevitabilmente. Gli occidentali erano certamente molto interessati ai luoghi di provenienza di quelle spezie che erano parte importante della loro vita, o alle gemme e alle stoffe preziose di cui i principi e la liturgia cristiana facevano grande uso. Al punto che, verso la fine del XIII secolo, si narra di una lettera pervenuta alla corte di papa Alessandro III e di Federico I, forse per il tramite bizantino, che descriveva le meraviglie dell’Asia: di un grande regno cristiano a capo del quale ci sarebbe stato un sacerdote-re detto Prete Gianni. Lo scritto, certamente propagandistico secondo la tradizione storiografica in cui si inserisce Franco Cardini, mostrava allusioni a fatti storici reali: alla presenza di regni turco-mongoli nel centro dell’Asia, all’esistenza di comunità cristiano-nestoriane disseminate lungo ala via della seta, dall’Iran fino alla Cina.

Ma sulle origini di tutte queste merci, come sulla storia e natura stessa di quei luoghi lontani, gli occidentali erano disposti ad accettare pure e semplici fiabe: la barriera di fuoco che circondava la parte più estrema del Paradiso Terrestre, che ovviamente si trovava a Oriente, o il Monte della Calamita che si trovava nell’Oceano Indiano, capace di attirare tutti gli oggetti di metallo che si trovavano sulle navi. E molti cominciarono a costruirle senza chiodi, per evitare che … affondassero. Ancora una volta, il mito si intreccia alla realtà.

Fonti e Bibliografia:

Grousset, R., L’empire des steppes. Attila, Gengis Khan, Tamerlan, Paris, 2001

Phillips, E.D., Genghiz Khan e l’impero dei Mongoli, Newton Compton, 2008

Stahl, W. H., La Scienza dei Romani, Bari, Laterza, 1962

Bodo e Alcuino: contadini e intellettuali all’ombra di Carlo Magno

Vicende politiche, costituzionali, economiche. Per non parlare delle imprese (e delle rivoluzioni) di Attila, Giustiniano, Carlo Magno, Federico II, Gregorio VIII. Accanto alla tradizione alta da tempo la storiografia specialistica ha riconosciuto l’importanza delle faccende quotidiane di una massa di ignoti.

Poveri, servi, schiavi, contadini, artigiani, commercianti, esuli, mendicanti, apolidi. E non si tratta di atteggiamenti esegetici o di “preferenze”; è fin troppo ovvio ricordare che il problema concerne la documentazione di cui disponiamo. Spesso esigua e poco attendibile o, peggio, inesistente se cerchiamo di ricostruire la storia degli ignoti. 

Nonostante queste difficoltà oggettive, il rapporto tra cultura (e storia) alta e cultura (e storia) popolare non è un campo inesplorato. Oggi vorrei spendere qualche parola sul contesto sociale ed economico in cui si sviluppano, in epoca carolingia, l’immagine del contadino e l’immagine dell’intellettuale.

L’argomento che ho scelto è anche un’occasione per segnalarti due libri (molto diversi tra loro) che ho trovato ricchi di spunti per comprendere questa “fase” del Medioevo: Eileen Power, Vita nel Medioevo, Einaudi, e Alcuino di York, Giochi matematici alla corte di Carlo magno, a cura di Raffaella Franci, edito da ETS.

L’immagine del contadino. Come accennavo prima, la cultura orale delle classi subalterne dell’Europa preindustriale tende a non lasciare tracce. O, peggio, a lasciarne di deformate. Ciò posto, è fin troppo evidente che l’immagine del contadino non sia solo quella tramandataci da Andrea Cappellano (nel De amore) o dal Boccaccio. Non credi?

Il libro di Eileen Power, oltre ad essere un piacevole “romanzo”, ha il pregio di dare un nome e un volto ad uno dei tanti stereotipi medievali. Un contadino, un viaggiatore, una badessa, una donna di casa, un mercante ed un fabbricante di panno. La Power ce li presenta immersi nella loro vita quotidiana catapultandoci nelle case e nelle strade dell’Europa medievale. Al di là del discorso che si potrebbe fare sulle figure femminili, sul piano della storia sociale ed economica mi hanno appassionata le giornate di Bodo il contadino e della moglie Ermetrude, sempre di corsa in giro per il manso, tra tributi ed esazioni, fiere e incontri con i Missi Dominici.

Chi è Bodo? E tu, come lo immagini? Posso dirti che, nonostante la durezza dei tempi, è estremamente umano, non certo il contadino meschino e gretto dei racconti cortesi. Ama la sua famiglia, ha un animo vivace e giocoso – balla e canta durante le feste popolari, notoriamente odiate dai monaci – e avvia i figli, soprattutto il più grande Wido, verso la sua futura vita da contadino. Contadino, marito, padre, maestro.

Bodo è un contadino del IX secolo. La fonte principale usata dall’autrice è un libro catastale probabilmente compilato da un abate per sapere con quali terre appartenessero all’abbazia e a chi fossero date in gestione. Ti ricordo che tra il VI e il IX secolo si assiste al fenomeno dell’economia curtense che caratterizza in modo specifico la vita economica dell’Alto Medioevo. La villa o curtis era un vero e proprio centro di residenza e produzione: fattoria, azienda agraria, laboratori. I terreni appartenenti all’abbazia erano divisi in fiscs che erano dei  fondi tanto grandi da poter essere amministrati da un fattore.

Ognuno di questi era diviso in terre tributarie e terre signorili: le prime erano divise in quantità più piccole chiamate mansi ed abitate da coloni, mentre le seconde erano amministrate direttamente dai monaci tramite i fattori. L’elemento caratteristico dell’economia curtense è la presenza di una serie di prestazioni d’opera che i tenutari o mansi erano tenuti ad offrire al dominus sotto forma di corvées lavorative. Bodo è inserito in questo contesto sociale ed economico.

L’immagine dell’intellettuale. La vita di questi secoli appare conservativa, popolata da contadini, liberi o servi, che insieme alle loro famiglie coltivavano i campi. Un’economia che mirava all’autosufficienza alimentare, integrata con la caccia e la pesca, in cui lo scambio era minimo in quanto riservato solo alle (spesso misere) eccedenze produttive.

Pur non essendo tecnicamente incompatibile con i commerci, il sistema curtense appare caratterizzato da una vocazione centripeta alla sussistenza, senza alcuna visione d’insieme o di lungo periodo che, forse, avrebbe potuto favorire maggiormente gli scambi.

Rabano Mauro accompagnato da Alcuino (al centro), nell’atto di presentare un libro all’Arcivescovo di Magonza Otgar, (Vienna, Biblioteca Nazionale Austriaca, cod. 625 f. 1v.).

Questa relativa stagnazione economica sembra essere l’immagine in negativo della rinascita culturale. Tutti gli storici sono concordi nel dire che il regno di Carlo Magno coincise con un generale risveglio della cultura in tutto l’Occidente. Non credere alla storiella della cultura in balìa alle biblioteche monastiche, eh! Certo, una iniziale spinta si ha proprio grazie alla formazione delle prime scuole cristiane (si pensi al caso di Clemente Alessandrino di cui ho parlato in questo video).

Ma non va dimenticato che si stavano organizzando le prime scuole che, pur essendo gestite dal clero, erano aperte ai giovani appartenenti alle famiglie aristocratiche. Carlo Magno pensava che la cultura fosse un elemento essenziale per migliorare lo stato del pubblico servizio; pur essendo quasi analfabeta, non esitava ad intervenire in questioni di scienza, filosofia e teologia (basti ricordare il caso dei Libri Carolini). Attorno al sovrano, proprio ad Acquisgrana si riuniva la Schola Palatina, un circolo di dotti coordinato da un monaco benedettino, Alcuino di York.

Nel 781 Carlo Magno e Alcuino si incontrano a Pavia. Come rifiutare l’offerta di lavorare al suo servizio? Alcuino ha il compito di organizzare le scuole e formulare il programma da seguire, rispettando la divisione canonica tra trivio e quadrivio. Si fa inviare libri dai monasteri inglesi, istituisce scriptoria per copiare i manoscritti, contribuisce alla creazione di veri e propri manuali di insegnamento.

Nel libro Alcuino di York, Giochi matematici alla corte di Carlo magno, a cura di Raffaella Franci, trovate una serie di giochi matematici tratta dalle Propositiones, la più antica collezione di problemi matematici in latino attualmente conosciuta. Il libro è prezioso non solo sul piano della storia della matematica ma anche per rendersi conto delle analogie/differenze tra le soluzioni di Alcuino e quelle moderne. L’immagine dell’intellettuale non è dunque quella del monaco rinchiuso nello scriptorium. Allo stereotipo si sostituisce una figura attiva, dedita alla ricerca e all’insegnamento. 

Bibliografia:

Eileen Power, Vita nel Medioevo, Einaudi.

Alcuino di York, Giochi matematici alla corte di Carlo magno, a cura di Raffaella Franci, ETS.

Lo Sterco del Demonio: esiste un Capitalismo nel Medioevo?

La peculiarità del capitalismo consiste nel calcolo razionale del profitto e la sua genesi è legata al diffondersi di una nuova etica nata grazie al diffondersi del protestantesimo. Così concludeva Max Weber in uno dei suoi libri più famosi, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905). Oggi vorrei invitarvi a riflettere proprio sulla genesi del capitalismo per problematizzare (ed eventualmente approfondire) la tesi di fondo di Weber.

Quando nasce il capitalismo? Quando assistiamo alle prime forme embrionali di questo modo di produzione che ha così profondamente segnato la nostra stessa idea di lavoro, di economia, di modi e mezzi di produzione? Per rispondere a queste domande dobbiamo ripercorrere alcuni aspetti della storia economica e sociale del medioevo poiché le prime esperienze capitalistiche si incontrano proprio tra il Trecento e il Quattrocento.

Cominciamo con due premesse. (i) Con il termine capitalismo si intende un sistema economico in cui il capitale è di proprietà privata e, in questa accezione comune, diventa sinonimo di economia di libero mercato e di iniziativa privata. L’uso del termine in senso tecnico compare per la prima volta nel XVIII secolo e si basa sullo sviluppo della grande industria, del lavoro salariato, dell’uso in larga scala delle macchine. Abbiamo dunque a che fare con un sistema che ha come obiettivo il massimo profitto da reinvestire – in parte, nei mezzi di produzione – ossia un sistema in cui sono attestate operazioni economiche destinate ad ottenere ingenti guadagni a fronte di altrettanto ingenti rischi. In questa lettura il capitalismo risulterebbe vincolato alle dinamiche di rischio/rendimento cui va incontro un’attività economica.

(ii) A differenza di capitale, che nella pratica mercantile del basso medioevo indicava una somma di denaro in grado di produrre interessi, il termine capitalismo è come abbiamo visto abbastanza recente e risulta ovvio che non si possa parlare di capitalismo medievale nello stesso modo in cui si parla di capitalismo moderno. O, almeno, che non sia così scontato farlo.

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Esistono certamente delle differenze, ma molti storici ritengono non sia così anacronistico parlare di capitalismo medievale poiché danno una definizione di capitalismo che coincide con quella che abbiamo esposto al punto (i), svincolandola naturalmente dalle riflessioni di Marx. E in questo senso è abbastanza plausibile che le origini del capitalismo vadano proprio ricercate nel Medioevo, in particolare nei cambiamenti del tessuto sociale, culturale ed economico tra il Trecento e il Quattrocento (quella che secondo le categorie storiografiche sarebbe la fioritura commerciale del XIII secolo).

Capitalismo commerciale e capitalismo industriale. Bene, abbiamo risolto il problema delle origini ma ancora non abbiamo dati sufficienti per comprendere la specificità della vita economica di quell’epoca. Dobbiamo quindi introdurre due termini o, meglio, due aggettivi che ci permettono di distinguere i tipi di capitalismo in gioco nelle diverse epoche: da un lato abbiamo un capitalismo commerciale, dall’altro un capitalismo industriale. “Il capitalismo commerciale è un sistema economico in cui i mercanti-imprenditori controllano la produzione artigianale attraverso il controllo del lavoro a domicilio, disciplinandola fino ad adeguarla alle esigenze dei mercati più lontani. Per capitalismo industriale intendiamo invece un sistema in cui gli imprenditori non si limitano più a controllare la produzione, ma si preoccupano di riorganizzarla”, (Rinaldo Comba, Storia Medievale, Raffaello Cortina Editore, p. 279).

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Questa distinzione è essenziale per rispondere alla domanda che ci siamo posti. Per quanto riguarda l’economia del medioevo (XIII-XV secolo) nella maggior parte dei casi possiamo parlare di capitalismo commerciale evitando, in questo modo, di cedere alla tentazione di assolutizzare quelle isolate attestazioni di sviluppo industriale che caratterizzano la fine dell’età medievale. Ma ciò non significa che queste esperienze pur isolate non abbiano un significato. Sono infatti le prime sporadiche attestazioni di quel meccanismo di produzione che noi conosciamo molto bene; questa tesi è corroborabile analizzando le caratteristiche del capitalismo nel XV secolo. Sono essenzialmente quattro (le riporto come compaiono negli studi di Comba):

(1) la divisione del lavoro ha specializzato la produzione di molte regioni europee e ha portato le aree più deboli a gravitare attorno al cuore dell’economia europea: Italia Settentrionale, Fiandre e Germania meridionale. (2) Gli scambi internazionali si intensificano e sono controllati da cerchie strette di mercanti-imprenditori (e finanzieri) che operano nelle città situate nell’area centrale. (3) Il capitale commerciale ha esteso il suo controllo anche sul lavoro a domicilio che era rimasto per secoli un’attività di famiglia e autonoma, al massimo un mercato locale ristretto. (4) Il rapporto del capitale con l’artigianato ne rivela un limite non trascurabile: la produzione non ne viene trasformata ma solo dominata.

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I minatori europei e il lavoro salariato. Nell’Europa centrale degli ultimi decenni del Quattrocento avviene una trasformazione che può essere considerata l’alba del capitalismo industriale: i minatori diventano a tutti gli effetti lavoratori salariati. Come mai nelle miniere i mercanti-produttori iniziano a riorganizzare la produzione? Tra il XIII e il XIV secolo l’attività mineraria era stata organizzata da collettività di minatori che sfruttavano miniere non troppo profonde; quando si cominciò a scavare in profondità la collettività di minatori non era più in grado di sostenere le spese (la proprietà di queste miniere infatti era suddivisa in un certo numero di quote tra i minatori). Per farle funzionare occorreva una gran quantità di manodopera e una vera e propria divisione tra capitale e lavoro.

E questo è innegabilmente un tratto caratteristico del capitalismo moderno. La proprietà delle miniere venne divisa in quote o azioni (kuxe) i cui proprietari vivevano in città; queste trasformazioni si associarono a un vero e proprio boom economico che tra il 1460 e il 1530 portò la produzione delle miniere d’argento in Europa centrale a una crescita del 500% e quella delle miniere di ferro del 400%.

Ecco il primo esempio di quel capitalismo industriale tanto stigmatizzato dagli ambienti del socialismo utopistico intorno alla metà del Diciannovesimo Secolo, appunto per l’evidente esclusione dei lavoratori dalla proprietà del capitale. Ma se vogliamo una definizione abbastanza esaustiva di capitalismo dobbiamo attendere le critiche dei primi pensatori socialisti e Karl Marx: il capitalismo è un sistema economico caratterizzato da un’ampia accumulazione di capitale. Ma ciò non basta; abbiamo infatti una scissione tra proprietà privata e mezzi di produzione in modo che il lavoro venga ridotto a lavoro-salariato (poi sfruttato per ricavarne il massimo profitto). Ed è su questo aspetto che Marx insiste: è nota l’espressione modo di produzione capitalistico per indicare quel particolare sistema di relazioni sociali, insieme all’organizzazione del processo produttivo, che si basano proprio sullo sfruttamento della forza-lavoro salariata.

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Ciò posto, torniamo a noi. Abbiamo un’altra testimonianza del fatto che quello medievale fu un vero e proprio capitalismo industriale, benché sperimentato solo in alcune aree geografiche. Qual è? L’analisi degli effetti che si generarono sul piano sociale. Tra Trecento e Quattrocento vediamo crescere a dismisura le distanze tra ricchi e poveri. Un intero settore di attività produttive – come il setificio e le industrie del lusso – può prosperare grazie alla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi agiati. Gli esempi di questo processo di polarizzazione sono numerosi, ma uno su tutti può rendere l’idea: nel 1427 a Firenze cento famiglie corrispondenti all’1% della popolazione urbana posseggono più di un quarto delle ricchezze della città. Le loro ricchezze erano oltre l’87% di quelle della cittadinanza intera insieme alle città di Pisa, Pistoia, Arezzo, Volterra, Prato e Cortona.

Per comprendere le ricadute sociali di questo fenomeno gli storici hanno mutuato dalla stria romana il termine patriziato (che non compare mai nelle fonti e nei testi medievali). Nobiltà e borghesia finanziaria e mercantile convergono dando vita al nuovo ceto egemonico del patriziato cittadino. Nasce una nuova classe politica oltre che sociale, che vive nei palazzi, dedita al lusso e alla vita dispendiosa.

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Arme della Famiglia Crociani, patrizi fiorentini (1350-1409), crediti: Raccolta Ceramelli Papiani.

Alla luce di quanto abbiamo detto fin qui, sarebbe interessante rileggere ciò che Max Weber (che non era un marxista) diceva a proposito del capitalismo, nel senso che se è vero che una delle sue peculiarità riposa nel calcolo razionale del profitto, la sua genesi non sembra solo legata all’affermazione al diffondersi di una nuova etica nata da correnti religiose protestanti. I meccanismi economici che si innescarono in Italia Settentrionale, Fiandre e Germania Meridionale sembrano dunque confermare che il Medioevo ha vissuto, in modo diverso quanto a importanza e intensità del fenomeno, almeno due forme di capitalismo distinte.

Esiste dunque una nuova etica connessa con la nascita della nuova classe dei minatori-salariati? Che rapporto c’è tra capitalismo ed economia, visto che Karl Polanyi sostiene con convinzione che nella società occidentale l’economia non possiede una specificità autonoma fino al XVIII secolo? Sulla base della documentazione storica in nostro possesso sembra che le esperienze capitalistiche siano nate a monte, prima della domanda sullo statuto dell’economia, ben prima della domanda sul nesso etica-capitalismo industriale.

Bibliografia:

Karl Marx, Il Capitale, UTET.

Karl Marx, Lavoro salariato e capitale, Rusconi.

Jacques Le Goff, Lo sterco del Diavolo. Il denaro nel Medioevo, Laterza.

Jacques Le Goff, Il Medioevo. Alle origini dell’identità europea, Laterza.

Max Weber, L’ etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR.

Geoffrey Ingham, Capitalismo, Einaudi.

Chi era Girolamo Savonarola ?

Il 7 aprile del 1498, il popolo fiorentino si rivolta contro il predicatore Girolamo Maria Francesco Matteo Savonarola, rivolta che avrebbe portato alla sua morte per impiccagione e successivamente fu messo al rogo, il 23 Maggio di quello stesso anno. Ma chi era Savonarola e perché i fiorentini arrivarono ad odiarlo così tanto ?

Per rispondere a questa domanda occorre fare un asso in dietro di oltre un decennio e tornare al 1487, anno in cui lasciò, all’età di 35 anni, il convento di San Marco che lo aveva accolto fin dal suo arrivo nella firenze medicea nel 1482. Prima di giungere a Firenze Savonarola aveva vissuto in un altra illustri città, roccaforte di una delle grandi famiglie mecenate dell’epoca, la natale Ferrara, dove la sua famiglia si era trasferita fin dal 1440, ma non fu l’unica, e prima di stabilirsi definitivamente a Firenze nel 1490, Savonarola viaggiò in molte città dell’italia centrosettentrionale.

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Suo nonno Giovanni Michele Savonarola, uno dei più illustri luminari della medicina quattrocentesca, docente nell’università dell’originaria Padova e successivamente all’università di Ferrara, incarico che gli avrebbe permesso di legarsi alla famiglia d’Este, diventando Archiatra (una sorta di protomedico) personale di Niccolò III d’Este.
Alla scomparsa di suo nonno avvenuta nel 1468, Girolamo Savonarola fu introdotto allo studio delle arti liberali da suo padre Niccolò Savonarola. Tra le sue letture più appassionate vi furono i dialoghi di Platone, a cui dedico un appassionato commento purtroppo distrutto dallo stesso Savonarola, probabilmente perché non reputava se stesso nella posizione di poter commentare un classico del calibro di Platone. Col progredire dei suoi studi il giovane studente ferrarese si avvicinò ai testi aristotelici e al tomismo.

Nell’aprile del 1475 Girolamo Savonarola lascia la casa paterna e la natale Ferrara per entrare nel convento di San Domenico Bologna. Qui viene introdotto al noviziato dall’abate Giorgio da Vercelli e l’anno successivo sarà ordinato Suddiacono e per volontà dei suoi superiori indirizzato allo studio della teologia per diventare predicatore domenicano, nel 1482 sarebbe tornato a Ferrara giusto il tempo di ricevere la nomina che avrebbe segnato la sua vita, il 28 aprile 1482 fu nominato lettore del convento fiorentino di San Marco.
Qui, nella Firenze Medicea del 1482 inizia la storia nota di Girolamo Savonarola, il predicatore domenicano che si scagliò contro la decadenza e la corruzione della chiesa, i cui “cattivi pastori” si erano macchiati di crimini e peccati imperdonabili, omicidi, lussuria, sodomia, idolatria, credenze astrologiche, simonia, eccetera eccetera eccetera.

Ma procediamo con ordine, come dicevamo, Girolamo Savonarola giunge a Firenze con l’incarico di lettore del convento di San Marco, la cui parte monumentale fu progettata e realizzata dall’architetto Michelozzo, l’edificio sarebbe stato modello e della biblioteca laurenziana di firenze, mentre oggi è sede del museo nazionale di San Marco. Tornando a Savonarola, il suo accento romagnolo appariva barbaro alle forbite orecchie dei ricchi mecenati fiorentini, tra cui Lorenzo di Piero de’ Medici, meglio noto come Lorenzo il Magnifico, e come avrebbe scritto lo stesso Savonarola :

“io non aveva né voce, né petto, né modo di predicare, anzi era in fastidio a ogni uomo il mio predicare” aggiungendo poi che “ad ascoltare venivano solo certi uomini semplici e qualche donnicciola”.

Nonostante ciò, seguono anni di predicazioni itineranti, tra Firenze e San Gimignano in terra senese, poi, nel 1487 un importante evoluzione nella sua carriera “ecclesiastica”, Girolamo Savonarola viene nominato maestro nello Studium generale presso il convento di Domenico a Bologna, luogo in cui aveva conseguito i propri studi, nel quale sarebbe rimasto soltanto per un anno, poi, nel 1488 una nuovo incarico, questa volta nella natia Ferrara, dove fu assegnato al monastero di Santa Maria degli Angeli.
Il lavoro in monastero permise al Savonarola di muoversi e spostarsi più frequentemente che mai, non a caso, tra il 1488 ed il 1490 anno del suo ritorno a firenze, su richiesta esplicita di Lorenzo, Girolamo Savonarola predicò in numerose città tra cui Brescia, Modena, Piacenza e Mantova.

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Come preannunciato, nel 1490 Lorenzo de Medici richiede esplicitamente al generale della compagnia dei frati predicatori l’assegnazione di “Hieronymo da Ferrara“.
Questa nuova esperienza in terra fiorentina sarà, almeno inizialmente, molto più fortunata e longeva, rimarrà infatti nella città medicea fino al momento della sua morte, condannato da quella stessa città che aveva invocato il suo ritorno, ma a questo arriveremo più avanti.

Fin dal suo ritorno Savonarola ottenne molto successo con le sue prediche, ascoltato e apprezzato soprattutto da poveri, scontenti, e soprattutto dagli oppositori della famiglia de Medici. Questo perché nelle sue prediche Savonarola non temette di denunciare la decadenza e la corruzione della chiesa, e non mancò di chiamare in causa, lanciando numerose accuse a governanti e prelati.

Il Magnifico più volte ammonì il frate domenicano affinché non continuasse su quella linea, ma il rinnovato spirito del predicatore era infiammato dai suoi più fedeli ascoltatori e seguaci, e ciò lo spinse a continuare imperterrito su quella strada che lo avrebbe condotto al priorato nel convento di San Marco nel 1492, quello stesso anno, il 5 aprile, un fulmine colpì la lanterna del duomo, l’avvenimento fu letto come un cattivo presagio dal superstizioso popolo fiorentino, presagio sembrò confermato dalla morte del signore della città Lorenzo de Medici avvenuta appena tre giorni più tardi. Qualche mese dopo, il 25 luglio morì anche Papa Innocenzio VIII, succeduto da Rodrigo Borgia che assunse il nome di Alessandro VI.

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Rodrigo Borgia sembrava incarnare tutto ciò contro cui Girolamo Savonarola aveva sempre predicato, eppure quest’uomo dalla dubbia moralità era il nuovo pontefice, vicario di Dio in terra, capo e alla guida della chiesa cattolica romana.
Quasi contemporaneamente, a partire dal 1494, il re di Francia, Carlo VIII di Valois inaugurò una serie di campagne militari in Italia, campagne che Niccolò Machiavelli avrebbe definito, le “horrende guerre d’italia“. In questa sede non indagheremo ulteriormente le campagne d’Italia e la discesa dello stesso Carlo di Valois in Italia, ci basti sapere che nel 1495 Savonarola incontrò Carlo VIII di ritorno in Francia, questo incontro, avvenuto su iniziativa di Savonarola e destinato a ricevere parole di rassicurazione per il destino di Firenze, pare abbia suggerito a Ludovico Sforza detto Il Moro, signore di Bari, un’elaborata congiura per mettere fine ai legami tra Firenze e la Francia e strumento inconsapevole della congiura fu proprio Girolamo Savonarola.

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La congiura ordita da Ludovico avrebbe al crescente rancore della popolazione fiorentina nei confronti del frate domenicano, e secondo alcuni, sarebbe alle origini della sua caduta. Senza disperderci troppo, cerchiamo di capire cosa accadde.

Ludovico il Moro denunciò di aver intercettato due lettere di Savonarola, probabilmente per screditarlo, una delle quali era indirizzata a Carlo VIII. La congiura pare abbia avuto successo e Girolamo Savonarola fu scomunicato nel 1497.
Per quanto riguarda la scomunica alcune teorie ipotizzano un intromissione nella vicenda di Cesare Borgia, figlio del papa Alessandro VI che, grazie all’aiuto di alcuni alti prelati a lui molto vicini, riuscì a produrre una falsa Scomunica, tuttavia questa teoria non è stata ancora dimostrata e di fatto si tratta di solo di una teoria, molto discussa e certamente molto affascinante, ma per il momento priva di basi documentarie, la cito in questo articolo soltanto perché considerata da molti come una nuova verità, e rappresenta sicuramente un interessante campo di indagine che coinvolge numerosi studi, filologici oltre che storici.

Tornando a Girolamo Savonarola, una volta perso l’appoggio francese e ufficialmente scomunicato, le antiche accuse politiche lanciate contro la famiglia de Medici, gli si rivoltarono contro. Al termine delle guerre d’Italia il partito dei Medici erano tornato al potere, mentre i Medici erano ancora in esilio e e non avrebbero messo piede a firenze prima del 1512. Savonarola, ormai in rovina sul piano politico, godeva soltanto dell’appoggio di qualche frate e dei “disperati” di Firenze, e una volta scomunicato, fu processato e condannato per eresia.

Stando alle cronache del tempo Savonarola ed alcuni frati si barricarono nel convento di San Marco, tentando in vano di resistere all’arresto avvenuto il 7 aprile del 1498 e meno di due mesi più tardi, il 23 maggio 1498, fu condannato a morte per impiccagione e successivamente messo al rogo.

Fonte :