Il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte | Storia Laggera

il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo, fu un sogno, un idea, una visione, ma anche un incubo, una dannazione, una delusione.
Il 5 Maggio moriva un uomo, ma non la leggenda di Napoleone.

Ei fu. Siccome immobile, Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore…

Al Manzoni non serve altro per definire quel momento, non servono nomi, perché la storia, la fama e l’eco della leggenda di Napoleone sono più che sufficienti affinché chiunque legga, sappia e capisca che si parla di lui e della sua inattesa e prematura scomparsa.

Un unico indizio ci viene dato, nel titolo, la data, quella data, il 5 maggio, quel 5 maggio, quel fatidico 5 maggio 1821, in cui Napoleone lasciò per le proprie spoglie mortali.

Prologo

200 anni fa, il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo. Napoleone fu un sogno, un idea, una visione, ma allo stesso tempo Napoleone fu un incubo, una dannazione, una delusione.

Celebrato, osannato, temuto, discusso, deriso.

Napoleone fu tutto e nulla, fu uomo e leggenda e quel 5 maggio la sua morte segnò una ferita profonda nella storia dell’umanità.

Luce polare o macchia indelebile che fosse, il 5 maggio napoleone morì, e il mondo sapeva che con la sua morte qualcosa finiva, ma allo stesso tempo sapeva, perfettamente che quel giorno moriva un uomo, ma non la sua leggenda.

Così, giocando con le parole di Alessandro Manzoni e della sua ode “il 5 maggio” , un componimento che in me ha sempre acceso le stesse sensazioni della “stagioni” di Francesco Guccini (brano che cita la stessa 5 maggio, ma questa è un altra storia, che vi ho già raccontato qualche anno fa), ho voluto scrivere questo mio post, questo mio pensiero su quell’uomo che cavalcò sull’Europa, che conquistò i cuori di milioni di uomini e donne, di milioni di anime in tutta Europa, anime che deluse furono la causa della sua caduta.

La notizia

La notizia giunge in Europa diverse settimane dopo la dipartita dell’ex imperatore, ma è normale, ci troviamo agli inizi del XIX secolo, i tempi dell’informazione dell’epoca sono molto lenti, perché una notizia giunga dalla periferia estrema dell’impero britannico, dall’isola di Sant’Elena, luogo di prigionia dell’ex imperatore, scelta perché lontana dalle principali rotte commerciali, è necessario che una nave parta ed approdi in qualche porto più frequentato, e da lì, può diffondersi verso l’Europa e il mondo.

L’aria che si respira in Europa è in quel momento un’aria tesa, pesante, è aria di tempesta che mina le fondamenta stesse dell’Europa post congresso di Vienna. Italia e Spagna sono attraversate da un’idea di rivoluzione, che però non riesce a concretizzarsi, almeno non in quel momento, e le rivolte che si consumano in quegli anni tra 1820 e 1821, una dopo l’altra vengono sedate nel sangue proprio in quel 1821.

Il tessuto del congresso di Vienna regge, l’Europa delle teste coronata è sopravvissuta a Napoleone, o almeno così sembrava in quel momento.

Gli effetti della morte di Napoleone sulla gente

Napoleone Bonaparte era morto, l’uomo era morto, ma non il suo ricordo, non le leggende né l’eco del suo nome. Un nome che, anche se non particolarmente amato era sinonimo di cambiamento. Napoleone era stato la spina nel fianco delle teste coronate e nonostante tutto, aveva portato in Europa una nuova classe dirigente di astrazione popolare.

Qualcuno gioiva di fronte alla notizia della dipartita del tiranno, altri speravano, o forse sapevano, che un giorno quello spirito ardente, figlio e incarnazione stessa della rivoluzionario, espressione del destino, della volontà di Dio, sarebbe ritornato ad infiammare l’Europa.

I contemporanei di Napoleone non sanno dove o quando, ma non hanno dubbi, da qualche parte, un giorno, un nuovo “Napoleone” sarebbe tornato, da qualche parte, in modo totalmente inaspettato, sarebbe apparso qualcuno che come lui avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia umana. E in quel momento Napoleone era esattamente quello, un segno indelebile, per alcuni una stella polare, per altri una macchia, nella storia umana.

Manzoni e Napoleone

Manzoni nel proprio componimento, nella sua ode “il 5 maggio” ripensa a se e al proprio rapporto con la figura di Napoleone, al quale, per scelta, prima di quel momento, mai aveva dedicato alcunché, né un ode, né una poesia, nulla.

La scelta del Manzoni è dettata dal rammarico e dalla delusione da quell’uomo, la cui vita è stata degna di un poema epico, ma al contempo, pur essendosi presentato al mondo come paladino di certi ideali rivoluzionari, rimaneva un uomo, un uomo che alla fine antepose il proprio potere e i propri interessi ai popoli d’Europa, popoli che in origine erano il muscolo più forte delle armate napoleoniche ma che alla fine gli si voltarono contro, scegliendo le antiche aristocrazie contro quello stesso Napoleone conosciuto come salvatore e liberatore.

Come era percepito Napoleone dai contemporanei?

Napoleone è stato un uomo che dal nulla creò un impero universale su suolo europeo, degno di Roma, un uomo il cui genio fu sconfitto solo dalle proprie ambizioni e dal proprio orgoglio, dal tradimento dei popoli e la riluttanza a stringere alleanze.

Napoleone è stato un uomo che si scagliò contro il mondo, andando in contro ad una certa sconfitta e, anche se sconfitto, anche quando fu “mutilato” del proprio impero, non si arrese, tornò in campo, marciò su Parigi, riconquistò il potere e solo sfidò nuovamente il mondo. Ma era tardi, e in quella lotta con il mondo, il mondo gli oppose i popoli in armi che lui per primo aveva concepito, quei popoli che lui aveva tradito, e fu proprio la collera di quei popoli abbandonati che infuriò contro l’uomo, ma non contro ciò che l’uomo rappresentava, segnando definitivamente il declino del suo potere temporale, pur lasciando accesa la fiamma di una nuova speranza.

Una speranza fondata sul ricordo nostalgico di quelle imprese raccontate nell’allegria amara di boccali di vino e calici di birra. Rigorosamente invertiti, a rappresentanza figurata di quell’ordinamento sociale già una volta stravolto. 

Napoleone è morto, viva Napoleone!!!

Il 5 maggio 1821, moriva Napoleone bonaparte, e la notizia della sua dipartita si diffuse a macchia d’olio in tutto il mondo, tra i suoi sostenitori e i suoi avversari, tra chi ancora credeva in lui, chi ne era rimasto deluso e chi lo temeva. 

Ma indipendentemente dalle proprie posizioni, tutti, senza eccezione, apprendendo la notizia rimasero senza parole, perché tutti sapevano, senza eccezione, che la morte dell’uomo non ne segnava la fine. Che il suo paradiso, o inferno, era terreno che lì sulla terra, tra gli uomini, quel nome non sarebbe stato mai più dimenticato, e in quel momento, di fronte alla notizia uno degli uomini più influenti del proprio tempo, forse il più influente di quello e dei secoli immediatamente precedenti e successivi, non era più, il mondo trattenne il fiato.

Manzoni chiude il proprio componimento richiamando la divina provvidenza, la mano di Dio che interviene per sottrarre ad una vita di sofferenze un uomo immenso, che la satira britannica dipingeva come minuto. E l’intervento divino è sufficiente a passare una mano di spugna sulla salma di Napoleone, allontanando da essa ogni parola malevola.

Napoleone come idea

Nella morte Napoleone ritrova la propria grandezza perduta, la propria essenza ascetica, dismettendo i panni del tiranno, dismettendo i panni dell’uomo e indossando ancora una volta e per sempre, la splendente veste degli ideali rivoluzionari.

Ecco che la morte passa la propria mano sulle ceneri dell’uomo, consacrando la sua leggenda e restituendo, alle generazioni future il nodo materiale del giudizio.

Napoleone per i compagni è stato, ed ora non è più, e se la sua vita sia quella di un tiranno, di un conquistatore, di un giusto tra gli uomini o di un visionario, la decisione ultima sarebbe spettata alla storia.

Manzoni lascia ai posteri l’arduo compito di esprimere un giudizio morale su napoleone, e nel proprio componimento immortale, lo racconta tra luci e ombre, attraverso l’occhio di un uomo, un poeta, un intellettuale ottocentesco che Napoleone lo ha visto e vissuto, da lontano, da uomo comune che rimane deluso per le scelte politiche del grande imperatore.

Manzoni, e come lui una fetta importante di uomini e donne europei avevano visto in Napoleone un qualcosa, una speranza, una visione mai completamente realizzata, un sogno troppo a lungo rimandato, l’uomo era stato idealizzato e in quella umana elevazione si tradusse presto in una amara delusione vissuta con sofferto rammarico, almeno fino a quel 5 maggio.

Il formaggio e i Vermi di Carlo Ginzburg | Recensione

Recensione e guida alla lettura del saggio “il formaggio e i vermi” di Carl Ginzburg, capolavoro dello storico italiano che ha reinventato la microstoria.

E se la terra fosse in realtà un enorme forma di formaggio, se la vita animale non fosse altro che vermi schiusi nutrendosi dei succhi del formaggio, come accade sul Casu Marzu e se tutti i vegetali del pianeta non fossero altro che muffa, come nel più pregiato formaggio gorgonzola e se in fine le cavità della terra non fossero altro che bolle d’aria come quelle presenti nel groviera svizzero?

Queste osservazioni possono far sorridere, ma nel 500 c’era ben poco da sorridere e l’inquisizione era pronta ad intervenire, soprattutto se qualcuno, sostenendo un parallelismo tra la vita sulla terra ed i vermi del formaggio, avesse involontariamente negato l’esistenza di Dio passando per eretico. E se proprio vogliamo dirla tutta, qualcuno lo fece davvero, qualcuno nel cinquecento sostenne realmente, razionalmente e in maniera consapevole, un possibile parallelismo tra una forma di formaggio e la vita sulla terra, ma questo qualcuno non era un filosofo, un fisico, uno studioso, questa teoria non venne da uomini come Newton o Galilei, ma da un umile mugnaio friulano che la storia ricorda con il nome di Menocchio.

Menocchio era un mugnaio friulano, nato Domenico Scandella dalle parti di Montereale Valcellina, presumibilmente nel 1532, e passò la sua vita a fare il formaggio e sfuggire al tribunale dell’inquisizione che voleva condannarlo per eresia e che alla fine, intorno al 1600 lo mise a morte condannandolo al rogo per le sue stravaganti teorie eretiche secondo cui, la vita sulla terra non sarebbe stata opera di Dio, ma proprio come accade al formaggio con i vermi, sarebbe nata in maniera spontanea.

Nel grande pentolone della storia dei grandi eventi, tra i grandi uomini, generali, principi e imperatori, vescovi, cardinali e papi, non c’è posto per un uomo come Menocchio ma il suo ricordo è sopravvissuto per secoli e in un modo o nell’altro, il suo nome sarebbe diventato un tassello importantissimo per definire il fenomeno inquisitorio nel cinquecento.

Tra i primi che ricostruì e raccontò la storia di Menocchio, va certamente annoverato Carlo Ghinzburg, storico italiano di fama mondiale che, durante gli anni settanta, si mise al lavoro sul curioso caso di Domenico Scandella, e del suo scontro con l’inquisizione, dando vita ad un opera di straordinaria bellezza quale il saggio storico “il formaggio e i vermi”.

Al di la del racconto quasi aneddotico e biografico della vita di Menocchio e delle vicende che lo avrebbero portato alla morte, Carlo Ghinzburg ricostruisce in maniera estremamente precisa e particolare la questione dell’inquisizione in italia agli inizi dell’età moderna. Il Formaggio e i vermi è un saggio di “microstoria” che non si limita però all’analisi del singolo caso particolare, ma al contrario, proprio partendo da questo caso particolare, e diversamente dal classico modo di fare storiografia, in cui si tende a partire dal generale scendendo sempre più nel particolare, qui accade l’esatto contrario, si parte dal particolare, si parte da Menocchio, si parte da Montereale Valcellina, si parte dall’inquisizione friulana, per poi andare a sviscerare l’intera struttura inquisitoria italiana tra sedicesimo e diciassettesimo secolo.

Con il suo saggio Ghinzburg ha ribaltato il modello storiografico, sottolineando l’importanza e della “storia dal basso”, della microstoria, dedicando proprio alla definizione di questo modello storiografico un importante fetta della prefazione e va detto che il modello analitico proposto da Ghinzburg negli anni settanta avrebbe avuto molta fortuna, soprattutto negli Stati Uniti e nel mondo divulgativo. Altro elemento caratterizzante e distintivo di questo testo di Ghinzburg è la sua capacità di analizzare e comparare il rapporto reale, esistente e troppo spesso dimenticato tra la cultura ufficiale, la cultura delle classi dominanti, e cultura popolare.

Il caso di Menocchio è stato dimenticato, è stato ignorato per secoli dalla cultura ufficiale, Menocchio era solo un mugnaio, la sua storia era una storia comune, una storia banale, una storia che non valeva la pena ricordare, almeno per le classi dominanti, ma a livello popolare il suo ricordo divenne leggenda e sopravvisse negli anni, nei racconti e nei ricordi fiabeschi di un passato ormai dimenticato.

Questo testo di Ghinzburg ha un triplice valore, perché si impone su tre diversi piani, con tre diverse chiavi interpretative che riguardano il mondo storico e storiografico ed è per queste ragioni che ho deciso di consigliarlo.

Il testo è anzitutto un saggio storico molto complesso, che affronta tematiche importanti, ma è anche un buon manuale di tecnica storiografica, oltre che un saggio critico ed un ottima fonte aneddotica, ma andiamo con ordine.

Dal punto di vista puramente divulgativo, la storia di Menocchio, le sue teorie ed il suo scontro con la chiesa e l’inquisizione è sicuramente, dal punto di vista narrativo, molto avvincente e interessante, ci viene raccontata la storia di un uomo comune catapultato in situazioni più grandi di lui, chiamato a rispondere di accuse che non riesce a comprendere, chiamato a giustificarsi per un semplice pensiero genuino e “ignorante” che, agli occhi di chi aveva la pretesa di custodire la sola verità valida, era un qualcosa di abominevole e ripugnante, i pensieri, le idee, le osservazioni di Menocchio erano eretiche, anche se Menocchio non si reputava un eretico, era semplicemente un uomo pieno di dubbi con troppe domande a cui il suo tempo non era ancora in grado di rispondere. Del resto, le sue teorie avrebbero preceduto di diversi secoli teorie, ipotesi analoghe, formulate da uomini di scienza e non da mugnai, in un epoca e in un clima molto più positivo e tollerante nei confronti dell’innovazione.

Dal punto di vista critico e analitico, come abbiamo già osservato, soprattutto nella prefazione, Ghinzburg definisce un nuovo modello analitico, stabilisce nuovi canoni di ricerca, nuove linee di costruzione per le opere storiografiche, ribalta la storia portando gli uomini comuni nella storia, screditando in qualche modo l’idea che le masse popolari fecero la propria irruzione nella storia soltanto nell’ottocento, Menocchio è testimone di ben altra storia, Menocchio è un uomo del popolo ed è al centro di una vicenda storica realtà, completa, valida, Menocchio rappresenta la quotidianità del proprio tempo ed è attraverso quella quotidianità che Ghinzburg riesce a ricostruire magistralmente la società friulana del cinquecento e le dinamiche dell’inquisizione. Inoltre, il fatto che il testo ribalti quello che, fino a quel momento era il canonico ordine stilistico dei testi storiografici, passando quindi dal particolare al generale invece che dal generale al particolare, come si era soliti fare all’epoca (e ancora oggi) è estremamente importante perché avrebbe spianato la strada ad un nuovo modello globale di pubblicazione storica, inaugurando in un certo senso la letteratura storiografica “divulgativa”.

Il testo “il formaggio e i vermi” edito da Einaudi per la prima volta nel 1976 è a tutti gli effetti un testo divulgativo, diventa letteratura scientifica, letteratura tecnica grazie alla sua lunga prefazione, ma se si ignora la prefazione, ciò che ci troviamo sotto gli occhi è un testo relativamente semplice, scritto in maniera estremamente elegante da un autore brillante che ci racconta la vita di un mugnaio friulano e attraverso ad essa ci racconta la società in cui quel mugnaio viveva e le difficoltà che un uomo come lui era chiamato ad affrontare, dal formaggio che va a male perché fa i vermi o ammuffisce, alle pesanti accuse di eresia dinanzi al tribunale dell’inquisizione.

CHE COS’È IL CICISBEISMO ?

Il cicisbeismo è un fenomeno esclusivo del VIII secolo e diffuso quasi esclusivamente in Italia. Il cicisbeo è una figura che in questo periodo è presente in gran parte delle corti e nei ceti nobiliari in genere. La sua funzione principale è quella di accompagnatore delle nobildonne, inizialmente nato come guardiano per proteggere le donne da malintenzionati diviene nel corso del 1700 un compagno per le uscite con le amiche mentre il marito era assente o occupato a corteggiare altre donne, si sviluppa come un ruolo esclusivamente a scopo ludico. Il dizionario della Crusca del 600 definisce cicisbeare come sinonimo di “galanteare”, probabile anche l’origine onomatopeica, dal suono del “cincischiare”, l’etimologia è stata anche accostata al Chicchibio del Boccaccio. Il compito del cicisbeo era pubblico, è un triangolo amoroso ufficializzato che non viene mai visto come adulterio., anche se non erano rari rapporti intimi tra il cicisbeo e la moglie. L’origine del fenomeno è da collocare probabilmente alla fine del 1600 in una società dei Lumi molto più aperta a comportamenti libertini e con solo scopo ludico. Il cicisbeo diventa un ruolo diffusissimo con il grande sviluppo della vita mondana femminile. Dall’altro lato è un’istituzione che nasce inizialmente a causa del matrimonio combinato tradizionale, come detto sopra la sua funzione originaria era quella di guardiano della donna quando il marito non era presente. Il rapporto tra il cicisbeo e il marito è assolutamente pacifico, accompagna spesso la coppia di nobili a cene, eventi, a teatro, è parte integrante del rapporto. In “Cicisbei: morale privata e identità nazionale in Italia” di Roberto Bazzocchi si trova la storia di Costantino de Nobili, un aristocratico di Lucca, cicisbeo della dama Luisa Palma e il marito Lelio Mansi di cui conosciamo gran parte delle attività sociali grazie alle testimonianze scritte della dama. Addirittura il triangolo è cosi solido che spesso ricevono inviti per tutti e tre e quindi la presenza del cicisbeo non è rara ad eventi in cui è presente anche il marito.

I nobili celibi nell’Italia dell’epoca erano circa il 50-60%, c’era quindi un gran numero di giovani pronti ad avventure galanti. Il cicisbeo era spesso più giovane del marito di una decina di anni, era vissuto come un avviamento alla vita amorosa, non erano rari però cicisbei sposati.
Alcune storie di cicisbei ci arrivano dalla letteratura, nel opera satirica il Giorno di Giuseppe Parini il nobile protagonista è il cavaliere di una nobildonna sposata. Anche Vittorio Alfieri racconta come a 24 anni diventò il cicisbeo di Gabriella Faletti, in un diario scritto in francese racconta delle mattine che passa sempre con lei e delle loro passeggiate pomeridiane. Giovanni Verri era il cicisbeo di Giulia Beccaria, elemento che rende più probabile l’ipotesi che Verri fosse il padre di Alessandro Manzoni.


Il cicisbeo non era una figura esclusivamente italiana, in Spagna era noto come cortejo e in Inghilterra c’era il gallant, ma nell’immaginario comune del settecento diventa un luogo comune che il resto d’Europa vede negli italiani. È l’epoca del Grand Tour, intellettuali e non intraprendono viaggi da tutta Europa per visitare l’Italia, e sono proprio questi viaggiatori che riportano questa singolare figura presente nelle corti italiane. Per il Settecento la figura del cicisbeo ha fatto parte di quell’immaginario collettivo europeo che vedeva l’Italia come un paese estremamente libertino. Sono numerosi gli sguardi critici come quello di Jacques di Campredon, un diplomatico francese che nel 1737 scrive che il cicisbeismo è il motore principale degli intrighi politici delle città italiane, è una tesi assai probabile visto la rilevanza politica dei nobili del tempo.


Con la Rivoluzione francese i cicisbei iniziarono a diminuire fino alla scomparsa definitiva nel corso dell’Ottocento. Anche se è un fenomeno esclusivo della nobiltà è interessante per capire il rapporto tra i sessi dell’epoca. L’istituzione del cicisbeo viene creata principalmente per il divertimento delle nobildonne, che si affacciava per la prima volta alla vita mondana. Le donne sono ancora fortemente legate alla volontà del padre prima e del marito poi, ma l’istituzione del cicisbeismo è un esempio di come il Settecento sia stato un secolo in cui le differenze tra i sessi si siano limate rispetto al passato.

 

Bibliografia:

Roberto Bazzocchi, “Cicisbei: morale privata e identità nazionale in Italia” , la terza editore, 2008

Carlo Capra, “Storia Moderna”, le monnier editore, 2004

Schiavi del Cioccolato

La tratta tratta atlantica degli schiavi è uno dei capitoli più oscuri della storia del mondo occidentale, il cui funzionamento e la cui esistenza si basavano sul commercio di esseri umani e lo sfruttamento di manodopera a bassissimo costo. Va detto che la schiavitù, in quanto istituzione non è un’invenzione dell’era moderna, essa era già conosciuta e adoperata da tutte le popolazioni coinvolte nella tratta atlantica, che fossero essi produttori, proprietari di piantagioni, mercanti, commercianti o schiavi.

Per quel che riguarda la schiavitù ci limiteremo a dire che essa figura nei primi codici scritti della Mesopotamia, dell’Egitto e nelle leggi Greche e Romane, su cui si sarebbero basati i vari codici dell’Europa medievale e moderna. L’istituzione della schiavitù aveva un carattere educativo e correttivo, l’adattamento forzato ad un determinato codice di comportamento come strumento di istruzione necessario per l’inserimento dello straniero all’interno della società, ed una volta corretto la differenza culturale, almeno fino al XV secolo era possibile che uno schiavo diventasse un libero cittadino.

In epoca romana lo schiavo era considerato una preziosa risorsa per i proprietari la cui vita e salute andavano tutelate in quanto, a differenza dei lavoratori salariati, che se malati o feriti non avrebbero ricevuto alcun compenso, il padrone era costretto a provvedere alla sussistenza di uno schiavo anche quando questo non fosse stato propriamente in grado di lavorare.

Quando in età moderna i coloni europei giunsero nelle Americhe ed entrarono in contatto con le popolazioni autoctone, presso le quali, se bene con alcune differenze, esisteva ed era praticata l’istituzione della schiavitù, gli europei adottarono quei sistemi per un inserimento forzato delle popolazioni precolombiane nelle ottiche europee.

Il nuovo mondo però non era solo un enorme distesa di terra in cui esportare i propri modelli sociali e culturali, ma essa rappresentava anche un nuovo continente ricco di piante, frutti e creature molto rare o addirittura sconosciute in Europa. Una di queste piante era quella del cacao, dalle cui bacche era possibile, produrre delle polveri che unite ad altri ingredienti quali zucchero e diluite nel latte, permettevano la realizzazione di una bevanda estremamente aromatica e gustosa, nota oggi come Cioccolato, dall’unione di cacao e latte.

Questo tipo di bacca era estremamente difficile da coltivare in altre aree del pianeta, e questa sua particolarità la rendeva una risorsa estremamente rara e di conseguenza preziosa, ed intuendone il potenziale economico e commerciale, i coloni spagnoli e portoghesi importarono questa risorsa in Europa. L’arrivo in Europa del cacao spalancò le porte ai mercati paralleli di caffè e di tè, che proprio come il cacao era possibile produrre solo in alcune aree specifiche del pianeta. Parallelamente ai mercati del cacao, del caffè e del tè si svilupperanno altri mercati altamente redditizi, come il mercato delle ceramiche dall’oriente e dello zucchero dalle Americhe e dall’Africa, dando origine ad un sistema economico di portata globale che collegava insieme prodotti provenienti dai più remoti angoli del pianeta. Bere del cioccolato, del tè o del caffè in Europa di fatto significa miscelare polveri provenienti dalle Americhe, dall’Africa o dall’oriente, utilizzando magari porcellane e ceramiche orientali, simbolo di ricchezza e raffinatezza.

Questo colossale sistema economico poteva funzionare grazie all’integrazione di risorse dal valore differente, e che costituivano fette di mercato complementari. Da una parte le preziose e rare bacche di cacao, le foglie del tè ed i semi di caffè, rappresentavano risorse rare e necessarie alla preparazione di gustose e ricercate bevande, tuttavia a rendere particolarmente saporite queste bevande era l’aggiunta di zucchero , una risorsa relativamente facile da produrre in grande quantità, il cui costo doveva necessariamente restare basso.

Grazie all’arrivo in Europa del cacao dunque si gettano le basi per il primo grande sistema economico di portata globale, capace di produrre profitti “milionari” che avrebbero determinato l’evolversi delle economie e delle politiche mondiali nei secoli successivi. L’insediamento coloniale delle aree in cui era possibile produrre determinate risorse strategiche o preziose è il primo passo, a cui si aggiungeranno con l’aumentare della domanda, la necessità di forza lavoro a bassissimo costo.

Come abbiamo visto ad inizio articolo, la schiavitù rappresentava un istituzione universalmente riconosciuta se pure con alcune differenze, che ben si sposava con la richiesta di un elevato numero di braccianti e quindi di manodopera a bassissimo costo. La crescente domanda di zucchero genera una crescente richiesta di manodopera che non può essere più soddisfatta solo dalle popolazioni indigene, si rende quindi necessaria l’importazione, a partire dalla metà del XVI secolo, di manodopera proveniente dall’Africa. L’Africa aveva un passato ed una storia che se pur indirettamente si legavano alla storia europea e mediterranea, questo rendeva gli schiavi africani più resistenti alle malattie europee, e il fatto che le popolazioni africane fossero considerate prive di un’anima, unito all’esistenza di un oceano di distanza tra la loro terra natale ed il luogo di prigionia, li rendeva soggetti ideali per il lavoro forzato nelle piantagioni.

I primi ad importare schiavi dall’Africa furono gli Olandesi, grandi produttori di canna da zucchero, cui si uniranno spagnoli, portoghesi, francesi e britannici, i quali ricorreranno all’utilizzo di schiavi nelle piantagioni di cacao, zucchero, frutta, cotone, grano ecc ecc ecc.

L’arrivo del cacao in Europa ha quindi innescato un processo economico sempre più ampio, dando origine ad una mastodontica rete commerciale che legava insieme le Americhe, l’Africa, l’Europa, e l’oriente Asiatico. Elemento centrale di questo mercato era l’aumento di domanda di determinati prodotti dalla borghesia e delle aristocrazie europee, che illuminati da un profondo senso di superiorità nei confronti delle più primitive popolazioni esotiche, proponendosi loro come portatori di civiltà iniziarono ad inserirsi in maniera sempre più consistente nei sistemi di amministrazione, produzione e commercio di tutto il mondo, dando il via ad una massiccia espansione coloniale che avrebbe reso il mondo schiavo del cioccolato.

Tasting Empire: Chocolate and the European Internalization of Mesoamerican AestheticsThe American Historical Review (2006) 111 (3): 660-691. doi: 10.1086/ahr.111.3.660

Il commercio degli schiavi, Lisa A. Lindsay, il mulino, 2011

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