La dinastia dei Tarquini: un secolo di monarchia etrusca a Roma | CM

Cenni cronologici

Una delle fasi più antiche e caratteristiche della Roma dei primordi è certamente caratterizzata dalle storie semi-leggendarie riguardo i sette re delle origini (Romolo, Numa Pompilio, Anco Marzio, Tullio Ostilio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo), dalla fondazione di Roma da parte di Romolo (753 a.C.) fino alla cacciata dall’Urbe di Tarquinio il Superbo (509 a.C.). Il numero sette, che definisce appunto i sovrani della monarchia romana, ricorre quasi simbolicamente anche per quanto riguarda i noti sette colli romani (Aventino, Celio, Quirinale, Campidoglio, Esquilino, Palatino e Viminale), sedi fondamentali del potere politico romano e fulcri di splendore artistico.

Tra questi celebri sette sovrani che regnarono a Roma a cavallo tra il 753 a.C. (anno della fondazione di Roma da parte di Romolo, “ab Urbe condita“, ovvero “dalla fondazione dell’Urbe”) e il 509 a.C., spiccano tre diversi re che si susseguirono reciprocamente e cronologicamente nell’arco dell’ultimo secolo della monarchia romana: Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Essi regnarono infatti per circa un secolo, dal 616 a.C. al 509 a.C., distinguendosi rispetto agli altri monarchi soprattutto per quanto riguarda la loro discendenza, unico tratto insolito e singolare che potesse in qualche modo accomunarli: i tre sovrani erano infatti etruschi.

Considerando l’“etruscità” come un tratto distintivo e originario del popolo romano, è possibile intravedere in questi ultimi tre re etruschi tuttò ciò che sarà il “lascito” della civiltà etrusca per la civiltà romana. Gli etruschi, così come tutti gli altri popoli italici gradualmente conquistati e inglobati dai romani, vedranno la loro autonomia e indipendenza definitivamente cancellata nel 90 a.C., quando otterranno la cittadinanza romana. Il popolo etrusco viene infatti considerato come il principale antenato di quello romano, non solo per la vicinanza geografica con il luogo d’origine, ma anche per molteplici aspetti sociali e culturali che verranno tramandati nei secoli, tra cui:
1. SELLA CURULIS = Uno sgabello simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente soltanto ai sovrani e successivamente anche ai magistrati.
2. TOGA PURPUREA = Simbolo di potere che nella Roma antica veniva indossata dall’imperatore.
3. FASCI LITTORI = Rappresentano un simbolo di giustizia e autorità per i magistrati.

Tarquinio Prisco (616-579 a.C.)

Discendente diretto della famiglia dei Pachidi, che aveva dominato a Corinto tramite vasti commerci e attività artigianali (tra le quali la produzione di molte ceramiche), è noto per essere il figlio maggiore di Demarato, il quale fu costretto a fuggire da Corinto a causa delle incombenti rivalità in atto tra la sua famiglia e quella dei Cipselidi, che ora regnavano sulla città (Cipselo era infatti il nuovo tiranno). Demarato allora, per cercare soprattutto nuovi commerci e mercati, si trasferì a Tarquinia nel 657 a.C., dove sposò una nobile del luogo, da cui avrà due figli: Lucumone (Tarquinio Prisco), il maggiore dei due, e Arunte (morto poco prima del padre).

Tarquinio Prisco è infatti conosciuto con il nome originario etrusco di Lucumone, termine che successivamente verrà utilizzato per indicare un’importante carica politica di principe o capo dell’aristocrazia (ancora più avanti diventerà anche una carica magistratuale). Egli infatti, dopo essersi trasferito a Roma con la moglie, cambierà nome in Lucio Tarquinio Prisco (Lucius Tarquinius Priscus), per segnare l’evidente vicinanza geografica e familiare con la fiorente città etrusca di Tarquinia. Come il padre infatti sposerà anch’egli una ricca aristocratica tarquinese di nome Tanaquilla, esperta indovina che lo convinse a lasciare Tarquinia per sistemarsi definitivamente a Roma.

Noto soprattutto per essere stato il primo re di origine etrusca e il quinto re (stando alle fonti di Tito Livio) nella successione dei sette sovrani che regnarono su Roma a partire da Romolo, possiamo descrivere la sua ascesa al trono come lineare e non troppo travagliata. Egli infatti riuscì a distinguersi sul territorio romano per la sua grande generosità e per le sue svariate doti, tanto che l’attuale monarca in carica, Anco Marzio (678-616 a.C.), volle insistentemente conoscerlo. I due così diventarono presto molto amici, tanto che il sovrano lo nominò come suo principale consigliere, decidendo infine di adottarlo, affidandogli anche il prezioso compito di proteggere e sorvegliare i suoi figli. E’ probabile che ricoprì anche la prestigiosa carica di magister populi. Alla morte di Anco Marzio infatti, Tarquinio Prisco riuscì facilmente a farsi eleggere come sovrano successore per diretta eredità famigliare, sfruttando proprio l’adozione da parte del precedente sovrano e la benevolenza dimostrata dal popolo romano nei suoi confronti. Avrà così inizio proprio con lui la “grande Roma dei Tarquini”.

La sua storia e la sua presa di potere vengono narrate dettagliatamente dallo storico Tito Livio; si tratta di racconti ampiamente tratteggiati da vari caratteri mitistorici e leggendari, che s’intrecciano con la realtà storica, archeologica ed epigrafica degli eventi. Con lui Roma diventerà una delle città più grandi di tutto il Mediterraneo, attraverso una vastissima serie di riforme sociali, politiche ed economiche, oltrechè a un intenso programma di restaurazioni e costruzioni architettoniche sparse per tutta l’Urbe. Operò infatti una radicale ristrutturazione urbanistica di Roma, conferendole così un aspetto più maestoso e monumentale attraverso la costruzione di importanti infrastrutture, tra le quali possiamo citare:
1. CLOACA MASSIMA = Uno dei più antichi e imponenti condotti fognari della storia. Venne costruita inizialmente per assorbire le acque del Tevere all’interno dei suoi collettori quando straripava, poichè si trattava di un fenomeno piuttosto frequente e pericoloso per l’intera città.
2. CIRCO MASSIMO = Destinato come sede permanente per le corse dei cavalli; vennero così istituiti i ludi romani.
3. TEMPIO DI GIOVE OTTIMO MASSIMO = Sempre a Tarquinio Prisco si deve anche l’inizio dei lavori per la costruzione del tempio di Giove Capitolino, collocato sul colle del Campidoglio.
4. MURA SERVIANE = Decise inoltre di dotare Roma di nuove fortificazioni murarie, iniziando anche a far erigere una nuova e imponente cinta muraria difensiva come non si era mai vista prima d’ora.

Per quanto riguarda invece le riforme che operò in campo politico e giudiziario, troviamo svariate testimonianze, soprattutto per quanto riguarda la politica militare e l’ordinamento interno della città. Egli infatti, a livello militare, riuscì abilmente a destreggiarsi in molteplici conflitti, dove i romani ebbero sempre la meglio, e tra i vari popoli che affrontò troviamo:
1. SABINI = In occasione di questo scontro fu aumentato il numero di cavalieri che ognuna delle tre tribù romane doveva obbligatoriamente fornire all’esercito romano.
2. LATINI = Una fitta coalizione di città etrusche (Arezzo, Chiusi, Volterra, Roselle e Vetulonia) corse in soccorso dei latini in due durissimi scontri campali contro la città di Roma.
3. ETRUSCHI = In seguito a una coalizione di etruschi e sabini, dove questi ultimi vennero sconfitti e furono costretti a concordare una pace, gli etruschi invece non si arresero mai, e i conflitti combattuti sulle città di Caere e Veio durarono per ben sette anni di scontri campali.

Operò inoltre una significativa riforma sulla classe degli equites (i “cavalieri”), aumentandone il numero, e decise poi di raddoppiare anche il numero delle centurie e di aumentare i membri dell’assemblea centuriata e dei senatori. Morì assassinato in seguito a una congiura organizzata dal maggiore dei figli di Anco Marzio, desideroso di ottenere il trono che riteneva usurpato da uno straniero. Tuttavia la moglie Tanaquilla, astuta e abile manipolatrice, riuscì a far eleggere dal popolo come sovrano Servio Tullio (suo genero), grazie a uno stratagemma. A Tarquinio Prisco si deve, oltre a essere stato il primo monarca etrusco, l’introduzione di gran parte delle usanze etrusche da parte dei romani.

Servio Tullio (579-535 a.C.)

Si tratta di una figura complessa e centrale per la storia arcaica, sia per quanto riguarda il mondo etrusco/italico, sia per quanto riguarda il mondo romano del VI secolo a.C.. Egli rappresenta infatti un personaggio polimorfo e non facile da inquadrare, noto per essere stato il successore di Tarquinio Prisco, deve la sua fortuna e salita al potere alla moglie di quest’ultimo la quale, colta, ambiziosa ed estremamente abile in “fatti” religiosi come indovina, riuscì a predirne la grandezza e, alla morte del marito, gli diede in sposa la figlia e fece in modo che salisse al trono come sesto re di Roma. Tanaquilla riuscì infatti a nascondere al popolo romano la morte del marito, ordita dai figli di Anco Marzio, affermando che Tarquinio Prisco fosse in realtà solamente rimasto ferito e che avesse designato Servio Tullio come reggente temporaneo. In questo modo, quando si ristabilì la calma a Roma e venne annunciata la morte del precedente sovrano, egli venne accettato come legittimo re senza alcuna opposizione dal popolo romano.

Le fonti su questo personaggio risultano spesso ambigue e discordanti, ed è possibile parlare di una duplice tradizione nei suoi confronti. Da una parte possediamo infatti le testimonianze di Tito Livio e di vari altri storici romani, che si rifanno appunto alla tradizione romana, mentre dall’altra possiamo trovare la tradizione etrusca, legata a storie e leggende di storici etruschi e tramandata soprattutto attraverso l’imperatore Claudio, con la Tabula di Lione, un discorso effettuato dall’imperatore a Lione (in Gallia) nei confronti del senato locale o di uomini politici del posto. Egli era infatti molto appassionato di storia etrusca, di cui scrisse varie altre opere, oggi andate perdute.

Per quanto riguarda la tradizione romana ci viene riportato dagli storici, e soprattutto da Tito Livio, che egli fosse un uomo di umili origini nato da una prigioniera di guerra, probabilmente nobile nella sua città natale (nota come Ocrisia), ridotta in servitù presso il focolare domestico di Tarquinio Prisco. Da questo fatto deriverebbe infatti l’etimologia del suo nome e della sua condizione sociale, ovvero “Servio”, inteso appunto come figlio di una serva. A differenza del suo predecessore e del suo successore sarebbe infatti un homo novus. Le fonti ci riportano inoltre un’intensa attività politica, economica e militare. Egli infatti fu un grandissimo riformatore sia in campo politico che in quello militare, operando alcuni degli interventi più importanti e significativi per la storia di Roma, tra cui:
1. RIFORMA SERVIANA = Si tratta della più importante modifica dell’esercito operata in epoca pre-repubblicana. Divise la popolazione in classi, e da lui in avanti la cittadinanza sarebbe stata basata sul censo. Si trattava infatti di una riforma censitaria secondo cui i cittadini romani sarebbero dovuti essere dei possidenti terrieri per poter intervenire nelle assemblee e per essere reclutati nell’esercito; proprio in questo periodo nacque anche un esercito basato su centurie e gerarchie. Egli comprese per primo che Roma necessitava di un esercito molto più numeroso per mantenere le sue conquiste ed espandersi (prima c’era una sola legione di circa tremila uomini, detto “esercito romuleo”). Iniziarono dunque a essere reclutati anche strati inferiori della società (plebei), fino ad allora severamente esclusi, evento che destò scandalo e disapprovazione tra i patrizi romani, i quali vedevano minacciati i loro privilegi. Modificò inoltre la tradizionale divisione in tribù del popolo romano, non tenendo più conto delle origini, ma considerando come criterio principale il luogo di residenza. Infine fu il primo sovrano a condurre un censimento generale (il primo nella storia).
2. RIORGANIZZAZIONE URBANISTICA = Per quanto riguarda le modifiche cittadine, aggiunse a Roma i tre colli più orientali (Viminale, Quirinale ed Esquilino), ampliò il pomerium (confine sacro della città), fece costruire sull’Aventino il tempio di Diana e ampliò ulteriormente le Mura Serviane già iniziate dal suo predecessore.
3. POLITICA MILITARE = In campo militare proseguì l’ormai inarrestabile politica di espansione territoriale romana a danno dei sabini e delle città etrusche di Veio, Caere e Tarquinia, le quali, considerandolo un usurpatore, si ribellarono non volendo più accettare gli accordi stipulati con Tarquinio Prisco.

Per quanto riguarda invece la tradizione tramandata dalle fonti etrusche, la situazione diventa più complessa, dal momento che si tratta principalmente di miti e leggende. Come precedentemente citato, la Tabula di Lione riporterebbe le vicende di un certo Mastarna (nome etrusco che identifica Servio Tullio), il quale sarebbe stato aiutato a prendere il potere con la forza da due fratelli e condottieri etruschi, Celio e Aulo Vibenna (scena rappresentata sulle pareti della tomba etrusca Francois). Tale tradizione potrebbe anche risultare parzialmente veritiera, dal momento che il nome Mastarna non presenta prenome e gentilizio (tipica formula binominale), e dunque non apparterrebbe a una figura nobile. Inoltre tale nominativo sarebbe posto in relazione al termine magister, carica che più avanti identificherà un capo militare romano del periodo più recente.

Servio Tullio sarebbe stato poi ucciso da Lucio Tarquinio, detto poi “il Superbo” una volta salito al trono. Egli infatti, complice con la figlia di Servio Tullio, Tullia Minore, sposa di Arunte (nobile, fratello di Tarquinio il Superbo), avrebbe spinto il sovrano dalle scale della curia in seguito a una sua provocazione. Quest’ultimo, ferito ma non ancora deceduto, mentre tentava di scappare dal foro, sarebbe stato ucciso da un cocchio trainato da cavalli, guidato dalla figlia Tullia. La plebe, da lui per molto tempo estremamente protetta e aiutata nella conquista di una maggiore autonomia e indipendenza, lo pianse molto e a lungo.

Tarquinio il Superbo (535-509 a.C.)

Conosciuto con il nome di Lucio Tarquinio (come il padre) e successivamente appellato come “il Superbo” per i suoi comportamenti efferati, fu il settimo e ultimo sovrano di Roma, oltrechè l’ultimo monarca della dinastia etrusca di sovrani che regnarono su Roma prima dell’imposizione politica della repubblica nel 509 a.C.. Fu il figlio maggiore di Lucio Tarquinio Prisco e fratello di Arunte Tarquinio, nobile a cui sarebbe successivamente spettata l’ascesa al trono. Inizialmente sposato con Tullia Maggiore, figlia di Servio Tullio, la fece poi uccidere per sposare Tullia Minore, l’altra figlia di Servio Tullio e sposa del fratello Arunte, da cui ebbe tre figli: Arrunte, Tito e Sesto.

Anche per questo sovrano, le maggiori fonti a disposizione dipendono dallo storico Tito Livio, il quale ci riporta soprattutto i dettagli della congiura ordita nei confronti del suocero, Servio Tullio. Tarquinio infatti, come precedentemente citato, si sarebbe fatto aiutare nell’organizzazione dell’omicidio dai tre figli e dalla seconda moglie Tullia Minore, autoproclamandosi sovrano rivendicando il trono tutto per sè, dopo esservisi seduto di fronte al senato. Questo fatto scandaloso avrebbe infatti attirato Servio Tullio in fretta e furia nella curia dove, in seguito a un’accesa disputa verbale, i due sarebbero poi passati a uno scontro fisico che vide Servio Tullio spinto dalla scalinata della curia e travolto dal carro trainato da cavalli e guidato dalla figlia Tullia, come precedentemente citato.

Intorno all’anno 535-534 a.C. circa, assunse dunque il legittimo titolo di monarca, in quanto maggiore tra i figli di Tarquinio Prisco e marito della figlia del precedente sovrano. Inoltre il luogo in cui era stato brutalmente assassinato Servio Tullio ricevette il titolo di vicus sceleratus, in ricordo dell’efferato gesto. Tuttavia Lucio Tarquinio riuscì a inimicarsi ben presto l’intero popolo romano, a partire dalla netta negazione nei confronti della sepoltura di Servio Tullio. In breve tempo gli venne infatti attribuito l’epiteto di “il Superbo”, non solo per la violenza con cui eliminò il precedente sovrano, ma anche per l’arroganza e la tirannia con cui prese il potere a Roma come monarca, senza rispettare una legittima elezione da parte del popolo né l’approvazione del senato romano. L’uso sistematico della violenza rimase infatti una costante per tutta la durata del suo regno. Egli per di più istituì anche un personale gruppo di guardie armate, mantenendo il controllo su tutto il territorio in maniera tirannica ed estremamente autoritaria. La società romana era infatti riuscita a costruire e rinsaldare in un brevissimo tempo una struttura fortemente fondata su una solida base democratica, la quale venne altrettanto rapidamente annientata dall’aggressività e dagli efferati costumi di Tarquinio il Superbo. Un’ulteriore novità nel regno di questo sovrano sta nel fatto che egli per la prima volta unì contro di sè l’odio comune non solo dei plebei che si vedevano oppressi e schiacciati dalla sua figura, ma anche dei patrizi, che temevano per una drastica riduzione dei loro privilegi.

Per quanto riguarda il regno di Tarquinio il Superbo, egli viene principalmente ricordato per quanto tirannico ed efferato fu il controllo che operò sul territorio romano, e soprattutto per come la violenza, a cui spesso e volentieri ricorreva, fosse una delle principali cause che lo portarono a inimicarsi l’intero popolo romano. Tuttavia, se si mettono da parte questi eventi che contribuirono maggiormente a rendere famoso il suo personaggio, egli operò anche numerose attività in ambito politico, economico e urbanistico, tra le quali:
1. POLITICA = Nonostante l’estrema arroganza politica riportata dalle fonti per quanto riguarda la presa di potere e il controllo del regno, egli poteva tuttavia vantare di grandi abilità strategiche e militari. A lui si deve infatti l’inizio della centenaria lotta tra romani e volsci. Inoltre, venne conquistata la città di Gabii tramite un astuto stratagemma elaborato insieme al figlio Sesto Tarquinio, il quale finse di volersi far accogliere e proteggere da tale cittadina per scampare alla tirannia del padre; tuttavia, una volta accolto all’interno delle mura, il suo unico compito fu quello di recare discordia e inimicizia all’interno della città, e vi riuscì così bene che a Roma non si combattè neanche una singola battaglia. Infine, sempre in questo periodo, Tarquinio il Superbo proseguì una spietata campagna espansionistica del territorio romano ai danni di numerosi territori circostanti, anche tramite la fondazione di varie colonie romane.
2. ECONOMIA = Sebbene Tarquinio il Superbo non sia quasi mai ricordato per le sue doti da economo, la Roma (“etrusca”) dei Tarquini deve proprio a lui la trasformazione in una delle massime sedi commerciali di tutto il Mediterraneo. Ella infatti aveva contatti e scambi commerciali con numerose altre potenze provenienti da tutto il mondo allora conosciuto.
3. URBANISTICA = Tarquinio il Superbo, pur non partecipando attivamente alla costruzione urbanistica di Roma come fecero i suoi predecessori, Tarquinio Prisco soprattutto e Servio Tullio, contribuì nell’ultimare ufficialmente la costruzione di importanti edifici pubblici come il tempio di Giove Ottimo Massimo e la Cloaca Massima.

Tuttavia, a decretare la fine di questo regno dispotico, contribuì un atto scandaloso direttamente commesso dal figlio Sesto Tarquinio, il quale, invaghitosi della giovane Lucrezia, sposa di Tarquinio Collatino (pronipote di Tarquinio il Superbo), abbandonò l’assedio di Ardea, nel quale era stato mandato dal padre, per far ritorno a Roma e violentare Lucrezia. La ragazza, sconvolta per l’accaduto, raggiunse rapidamente il marito ad Ardea e, in preda al dolore, si suicidò. Mosso da una rabbia furente il marito Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto (politico romano inviato da Tarquinio il Superbo in una spedizione al seguito di un oracolo del re, dove apprese che sarebbe stato lui a governare dopo il monarca) giurarono solennemente di non arrendersi fino a quanto i Tarquini non sarebbero stati tutti cacciati dalla città, per vendicare la morte di Lucrezia. I due riuscirono nell’intento, portando il cadavere della giovane nel foro di Roma e pronunciando un solenne elogio funebre che spinse il popolo romano a deporre e cacciare il sovrano dall’Urbe. Una volta esiliato però Tarquinio il Superbo si appoggiò a Porsenna, il tiranno della città di Chiusi, detentore di un forte potere militare; tuttavia l’assedio ordito dai due su Roma fallì, e Tarquinio morì in esilio nel 495 a.C. circa a Cuma, in Campania.

La fine della monarchia su Roma rappresenta un evento fondamentale per la politica dell’Urbe poichè nel 509 a.C., anno della cacciata di Tarquinio il Superbo, venne istituita la repubblica, un sistema di governo compreso nel periodo tra il 509 a.C. e il 27 a.C.. Il cambiamento fu radicale poichè a governare non era più un sovrano assoluto, bensì un’oligarchia aristocratica repubblicana, fondata sul governo di due consoli assistiti nelle decisioni politiche dai senatori. I primi consoli furono proprio Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto; essi avevano grandi poteri politici, economici, amministrativi e militari, ma la vera rivoluzione fu la totale estirpazione di un potere regio e tirannico.

Nell’antica Roma c’erano persone dalla pelle scura ed i contadini erano perennemente “abbronzati”.

Gli abitanti dell’impero romano avevano la pelle scura, in alcuni casi per ragioni etniche, in altri perché trascorrevano molte ore dell’anno, lavorando sotto il sole.

Qualche anno fa, su un libro di storia per bambini è apparsa un immagine in cui era raffigurato un soldato romano con la pelle scura, e questo ha fato scaturire la rabbia e indignazione di molti, soprattutto “puristi della razza”.

Quell’immagine è sbagliata perché i romani erano bianchi? Quell’immagine è giusta?

Per rispondere a queste domande in modo storico, e non di pancia, bisogna soffermarci su due elementi, ovvero distribuzione demografica della popolazione dell’Impero e condizioni di vita degli abitanti dell’Impero.

Prima di inoltrarci nell’analisi del fenomeno e cercare di fare luce sulla questione, vi anticipo che, voglio mostrarvi questa immagine precedente il primo secolo dopo Cristo, identificata come “Medicina dello Stivale e dell’Età Romana: Enea curato da Japige” che è stata ritrovata negli scavi di Pompei.

Notate qualcosa di strano nel colore della pelle di Enea e del medico che lo sta curando?

La pelle di Enea e del medico è molto scura, questo e non è un effetto dovuto all’invecchiamento del pigmento, anche perché nella stessa immagine ci sono altre persone con una tonalità della pelle molto più chiara, e dunque, anche se l’immagine con il tempo si è scurita, ciò non toglie che, chi ha realizzato questo affresco, aveva bene in mente che, la pelle di Enea dovesse essere più scura rispetto a quella di altri soggetti della stessa immagine.

Distribuzione demografica in età romana

Per quanto riguarda la distribuzione demografica, va detto che l’Impero romano si estendeva dalla spagna al medio oriente, dalle isole britanniche al deserto del Sahara, controllava l’intero bacino del mediterraneo, e, entro i suoi confini, nei secoli, sono confluite centinaia di popolazioni diverse e lontane tra loro, sia sul piano culturale che etnico.

Entro i confini dell’impero c’era anche il nord africa, un’area che andava dall’Egitto al Marocco, e che costituiva il “granaio” dell’impero, ovvero una regione prevalentemente agricola e molto fertile, in cui venivano prodotte gran parte delle scorte di grano per tutto l’impero.

Fatta eccezione per le “grandi” città come Roma, l’area del nord africa, era tra le più popolose dell’impero, perché abitata da tanti contadini che lavoravano negli immensi e sterminati campi che producevano e fornivano grano a tutto l’impero.

Gli abitanti di quella regione, per ragioni etniche e per condizioni di vita, avevano la pelle molto scura.

Ora, se la parte più popolosa dell’impero è abitata da persone dalla pelle scura, va da se che… già questo è sufficiente a dire che, non solo, nell’impero c’erano persone con la pelle scura, ma anche che questi era una fetta importante dell’intera popolazione romana.
A questo bisogna aggiungere che, la maggior parte degli abitanti dell’impero e dell’Europa nelle epoche successive, dalle isole britanniche all’Egitto, erano contadini e pescatori.

Cosa c’entra il lavoro con la colorazione della pelle?

Parliamo di un epoca preindustriale in cui il lavoro nei campi era svolto prevalentemente sotto la luce diretta del sole, si lavorava la terra tutto l’anno, giorno dopo giorno, sotto il sole, un epoca in cui ci si sposta a piedi o al massimo al cavallo, e anche l’, si è esposti alla luce del sole, di conseguenza, queste lunghissime ore di esposizione alla luce solare, ai raggi ultravioletti che innescano il processo di abbronzatura, rende la pelle di quelle persone molto scura, mediamente molto più scura di quella di un impiegato odierno che prende il sole 2/3 settimane all’anno, durante weekend estivi e vacanze di ferragosto.

Possiamo dire che gli antichi, e per antichi intendiamo gli abitanti dell’Europa e dai tempi di Roma, fino almeno alla seconda metà del XX secolo, erano perennemente abbronzati.

Beati loro, se non fosse che la loro pelle era letteralmente cotta e rovinata, usurata dal sole e da ogni sorta di malattia della pelle.
Per secoli il colore della pelle ha costituito un elemento di distinzione tra ceti sociali, perché, mentre i contadini, ma anche soldati, pescatori e lavoratori in generale, trascorrevano gran parte della propria esistenza sotto il sole, i nobili, gli aristocratici ed i ceti più agiati, erano molto meno esposti al sole, di conseguenza , fatte rare eccezioni, la loro pelle era mediamente più chiara e liscia, rispetto a quella dei contadini.

Nobili ed aristocratici, per aspetto, erano molto più simili a noi, ma, non dimentichiamoci che nobili ed aristocratici erano una frazione ridotta della popolazione europea.

Questo distinguo basato su colore e stato della pelle è venuto a mancare, parzialmente, con la rivoluzione industriale, al seguito della diffusione di illuminazione elettrica, fabbriche e treni, elementi che hanno spostato gran parte del processo produttivo in Europa al chiuso, limitando quindi l’esposizione al sole e cambiando le abitudini di lavoro.

Si lavora al chiuso, ci si abbronza di meno, quindi l’abbronzatura fa il giro e passa dall’essere indicativa di lavori poveri e manuali, ad essere indicativa dell’appartenenza ad una cerchia sociale più elevata che, nella seconda metà del XX secolo, conduce una vita più agiata… può andare in vacanza.

Questo tipo di abbronzatura limitata nel tempo, si traduce in pelle leggermente più scura, ma comunque liscia, diversa da quella dei contadini, molto più scura e increspata e rovinata, non curata.

Va anche detto che, nel secondo dopoguerra, negli anni 50 del novecento, quando Ernesto de Martino e prima di lui Carlo Levi, durante i propri viaggi e studi, si sono recati nell’Italia meridionale, e sono entrati in contatto con le popolazioni rurali del mezzogiorno, si sono imbattuti in uomini e donne che ancora portavano sul proprio volto il segno del lavoro nei campi, parliamo di uomini e donne con la pelle scura, cotta dal sole in lunghe ore di lavoro nei campi.

Rispondere quindi con un “no secco” quando si chiede se nel mondo antico, in Europa, ci fossero persone con la pelle scura, oltre ad essere stupido è anche anti-storco, perché si guarda a quel mondo, a quell’epoca, non analizzandolo nella propria interezza, ignorando le condizioni di vita della popolazione del tempo e proiettando i nostri ritmi e le nostre abitudini, in un mondo che seguiva ritmi diversi, un mondo il cui tempo era scandito dalla luce del sole e non dalle lancette di un orologio moderno. Un mondo, in cui la pelle delle persone era mediamente più scura, perché, a differenza di noi, viveva e lavorava tutto l’anno sotto il sole, senza crema solare e senza alcun tipo di protezione contro i raggi UV.

Gladiatori e schiavi nell’antica roma

Gladiatori e schiavi nell’antica Roma. Anche se i gladiatori erano Schiavi, le loro condizioni di vita e il loro status sociale e giuridico era diverso da quello degli schiavi comuni.

I gladiatori erano uno schiavi? Si, No, forse, più o meno?

La risposta a questa domanda sta non solo nel diritto romano ma anche nel concetto romano di schiavo e nel suo inquadramento giuridico. A darci una prima bozza di risposta è Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis, in cui, tra le altre cose, ci parla ampiamente delle condizioni di vita e di lavoro di schiavi e gladiatori, distinguendo nettamente le due categorie, ma non solo, Plinio ci dice anche quali erano gli obblighi legali dei possidenti e proprietari di schiavi e gladiatori, distinguendo le due categorie.

Senza troppi giri di parole, lo schiavo in età romana, non è una proprietà, nel senso “moderno” del termine, lo schiavo romano è infatti profondamente diverso dallo schiavo “americano”, il proprietario ha degli obblighi e doveri nei confronti dello schiavo e soprattutto, non ha l’autorità o il potere di ucciderlo, causarne la morte o mettere la sua vita in pericolo. Questi stessi doveri che il padrone aveva nei confronti dello schiavo, non sempre erano previsti per i gladiatori, la cui vita, banalmente, era messa in pericolo quotidianamente.

Lo schiavo romano secondo Plinio e Catone

La condizione dello schiavo romano era molto particolare e, a tal proposito, Guido Bonelli, in un articolo pubblicato nel 1994 sulla rivista Quaderni Urbinati di Cultura Classica, New Series, Vol. 48, No. 3 (1994), pp. 141-148 ci dice osserva che Plinio il Giovane e la schiavitù: Considerazioni e precisazioni, ci dice che per certi versi, secondo Plinio (e anche Vitruvio), in termini prettamente economici, per un padrone/proprietario terriero, era più “conveniente” avere dei lavoratori dipendenti, uomini liberi, che non degli schiavi perché se lo schiavo rimaneva ferito, menomato, mutilato o si ammalava, il proprietario aveva il dovere , forse legale, di curarlo, in pratica, per un periodo lo schiavo non poteva lavorare, ma doveva comunque essere mantenuto ed aveva diritto a cure mediche, vitto e alloggio, che legalmente non potevano essergli negate.

A tal proposito nella sua de agri cultura, Catone sostiene la necessità per il padrone di dover vendere uno schiavo malato, poiché, durante la malattia esso rappresentava una spesa non produttiva per il padrone.

Su questo tema Plinio e Catone assumono posizioni politiche divergenti, Catone sostiene la vendita dello schiavo, Plinio invece ne sostiene la tutela anche sul piano “morale” e, la sua posizione, è in una lettera che il cronista romano scrive ad un amico di nome Valerio chiedendogli di ospitare nelle proprie terre, in Gallia Nerborense, un suo liberto.

Tornando alla convenienza economica del lavoro dipendente, diversamente dallo schiavo, che, al di la delle posizioni politiche, sia Plinio che Catone, ci dicono godere di certe tutele legali, l’uomo libero che rimaneva ferito sul lavoro, poteva essere sostituito durante la “convalescenza” da un altro lavoratore libero o schiavo, senza che il proprietario della villa o del cantiere o altro, avesse alcun obbligo legale nei confronti dell’ex dipendente, ciò implicava un notevole “risparmio” in termini di denaro. Questa “convenienza” si traduce, all’atto pratico, nell’utilizzo di schiavi e uomini liberi per mansioni differenti, affidando, molto spesso, le mansioni più pericolose ad uomini liberi.

Il padrone, detto molto semplicemente, per il diritto romano, non poteva volontariamente mettere in pericolo di vita lo schiavo, né tantomeno ucciderlo, il padrone dello schiavo romano non aveva quindi autorità sulla vita e la morte dello schiavo, ed è qui che risiede l’enorme differenza tra gladiatore e schiavo.

La vita del gladiatore infatti, sebbene esso fosse uno schiavo a tutti gli effetti, il gladiatore poteva essere acquistato, venduto, affrancato, ecc, e, a differenza dello schiavo comune, poteva rischiare la propria vita. La vita del gladiatore, a quanto ne sappiamo, non era tutelata dal diritto romano come quella di uno schiavo comune, poiché per il ruolo di atleta in competizioni cruente, la sua vita e la sua sicurezza erano messe costantemente in pericolo.

Potremmo dire che lo schiavo comune, quello che lavorava nelle campagne, era “assicurato” per eventuali infortuni sul lavoro, mentre lo schiavo combattente o gladiatore, no.

Il gladiatore non era un manovalante, era invece un atleta, un attore e un combattente e la sua condizione sociale è a metà tra quella di uno schiavo e di un soldato, il cui ruolo prevedeva la possibilità di infortuni e morte.

Le uccisioni di schiavi erano “rare”

Sappiamo che l’uccisione di schiavi in epoca romana è molto rara, salvo rarissime eccezioni, quasi mai i padroni uccidevano o mettevano in pericolo di vita i propri schiavi e lo storico britannico William Smith sosteneva che, le uccisioni di schiavi in epoca romana erano rare perché uccidere uno schiavo implicava una riduzione della manodopera.

In altri termini, le uccisioni erano rare perché economicamente non convenienti, poiché l’uccisione privava di una risorsa che altrimenti poteva essere utilizzata o venduta.

Questa tesi è ancora oggi molto diffusa, tuttavia, gli fa eco, una sempre più accreditata tesi alternativa che, partendo dai sopracitati Plinio e Catone, asserisce che, molto probabilmente le uccisioni erano “rare” perché uccidere uno schiavo non era diverso dall’uccidere un uomo libero, in altri termini, l’assassinio di uno schiavo, al pari dell’assassinio di un uomo libero, era considerato comunque omicidio.

Sappiamo però che i gladiatori morivano, non in numero elevatissimo, ma comunque morivano senza che ci fossero conseguenze per i padroni.

Il discorso della convenienza economica persiste, la morte massiva di gladiatori implicava una spesa continua, eccessiva, per i padroni, e dunque, rimanendo nella teoria di Smith, morivano pochi gladiatori perché la loro morte implicava una perdita di risorse, tuttavia, prendendo in prestito il racconto che Appiano, Sallustio e Plutarco fanno delle tre guerre servili, sappiamo per certo che, anche se rara, la morte dei gladiatori in combattimento ea possibile, sappiamo inoltre che il ferimento dei gladiatori, durante i giochi, durante il combattimento o durante l’addestramento, era molto frequente e non avevano alcuna conseguenza di tipo legale per i proprietari, diversamente da quanto accadeva per gli schiavi rurali che lavoravano nelle campagne.

Questo ci porta a pensare che, sul piano giuridico gladiatore e schiavi non fossero proprio la stessa cosa, ma più probabilmente, che i gladiatori erano una tipologia “speciale” di schiavi, per i quali erano previste tutele e regole differenti e che, anche sul piano sociale, gladiatori e schiavi, fossero due entità distinte, non a caso, sempre nel racconto delle guerre servili, Plinio, Plutarco e Appiano, parlano distintamente di Gladiatori e Schiavi insorti, un distinguo importante perché se sul piano sociale, giuridico e culturale i gladiatori erano schiavi comuni, nei loro racconti i tre autori avrebbero parlato solo di schiavi insorti.

Conclusioni

Purtroppo non sappiamo esattamente in che modo Roma distinguesse gli schiavi comuni dai gladiatori, ne sappiamo se il distinguo fosse culturale o giuridico, quel che è certo è che, per Plinio, Appiano, Plutarco, Catone e Sallustio, per citare gli autori romani alla base di questo articolo, tra gladiatori e schiavi c’erano delle differenze. Banalmente potremmo dire, al di la delle condizioni fisiche e della preparazione atletica, che se è vero che tutti i gladiatori erano schiavi, non tutti gli schiavi erano o potevano essere gladiatori.

Bibliografia

E. Lo Cascio, Antologia delle fonti
G.Bonelli, Plinio il Giovane e la schiavitù: Considerazioni e precisazioni
Plinio il Giovane, Epistola V19
Catone, De agri cultura

L’ascesa politica di Cesare: da miles a dictator | CM

L’Impero romano nel I secolo a.C.

Durante il corso del I secolo a.C. l’Impero romano era sulla via di un successo senza precedenti, in quanto reduce dagli immensi trionfi ottenuti grazie alle vittorie conseguite durante le tre guerre puniche, le quali Roma poterono garantire a Roma un’ingente quantità di oro e ricchezze. Tuttavia l’Urbs, nonostante l’evidente condizione di splendore e ricchezza in cui si trovava, era all’epoca teatro di innumerevoli giochi di potere per il controllo del quadro politico della Repubblica e, sempre in questi anni, assisteva tacita alla lotta intestina tra due importanti ceti sociali: gli optimates, fazione più conservatrice e favorevole all’aristocrazia, e i populares, sostenitori delle istanze popolari nonchè “base” dell’autorità dei Tribuni della Plebe. Pertanto continue tensioni sociali e violenti scontri armati erano all’ordine del giorno, come il celebre conflitto tra Clodio (fazione dei populares) e Milone (fazione degli optimates).

In questo clima estremo di avversità, rivolte e scandali, a Roma spicca un uomo che avrà un ruolo tutt’altro che indifferente negli equilibri politici e sociali dell’Urbe. Tale personaggio era, come il padre, un accanito sostenitore del celebre condottiero Gaio Mario (157-86 a.C.), militare e politico romano, eletto per sette volte consecutive console della Repubblica, nonchè abile riformatore per quanto riguarda la leva militare e l’esercito, oltrechè Tribuno della Plebe. Apparteneva infatti anch’egli alla fazione dei populares e rappresenterà uno dei massimi esempi da seguire per il protagonista di questa vicenda, destinato a ribaltare per sempre la scena storica e politica di quello che sarà il più glorioso impero che il mondo antico abbia mai conosciuto. Quest’uomo compie una delle sue prime apparizioni in una piccola casa popolare nella Suburra romana, uno dei quartieri più malfamati di tutta Roma.

L’entrata cesariana in politica

Gaio Giulio Cesare nasce il 12 Luglio del 100 a.C., figlio del pretore e senatore Gaio Giulio Cesare e della nota matrona appartenente alla gens Aurelii, Aurelia Cotta. Egli pertanto apparteneva per discendenza all’illustrissima gens Julia, così chiamata perchè direttamente originata da Julo, il figlio di Enea e, stando a quanto viene riportato da miti e leggende, della dea Venere. Apparteneva dunque a una genealogia che potremmo definire “divina”. Cesare divenne fin da subito un personaggio molto popolare a Roma, schierandosi come lo zio Gaio Mario al fianco della factiones dei populares, nonostante provenisse da una nobile famiglia, e crebbe in una situazione di tensioni e fazioni contrapposte. Tutti questi elementi contribuirono con ottime probabilità a sviluppare il suo carisma e la sua marcata intraprendenza non solo in campo politico, ma anche militare.

Cesare infatti trascorse la sua gioventù sotto la spietata dittatura esercitata da Silla (colui che aveva precedentemente sconfitto Gaio Mario), il quale non perdeva occasioni per lanciare “frecciatine” al ragazzo sulla sua eccessiva effeminatezza. Per queste ragioni egli non si sentiva al sicuro nel rimanere a Roma, e decise pertanto di partire volontario verso l’Asia dove, sotto al comando del propretore Marco Minucio Termo, partecipò direttamente nella guerra contro Mitridate VI del Ponto, insorto ancora una volta contro Roma. Questa fu probabilmente una delle prime vicende che permisero a Cesare si distinguersi militarmente. Egli infatti nell’assedio di Mitilene ottenne anche la corona civica, una delle ricompense militari più importanti, concessa come premio solamente a chi salvava cittadini romani in battaglia.

Tuttavia, ciò che maggiormente gravava sullo status di Cesare, erano gli ingenti debiti nei quali si ritrovava da tempo. Infatti, sebbene la sua famiglia avesse origini aristocratiche di un certo livello, non era affatto ricca per gli standard della nobiltà romana, e questo certamente lo motivò ad avvicinarsi rapidamente a illustri e abbienti personaggi che potessero aiutarlo, come Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso (entrambi consoli nel 70 a.C.). Egli riuscì infatti ad avviare la sua celebre carriera politica grazie al sostegno di questi due rinomati cittadini e uomini politici. Schierato appunto con i populares e dotato di un eccelso carisma, riuscì rapidamente a convincere la Repubblica riguardo l’urgente bisogno di riforme radicali, che per essere realizzate necessitavano di un forte potere pubblico al comando, capace di superare le ricchezze e il grande potere degli ottimati.

Il suo percorso politico-militare inizia, come precedentemente citato, in Asia, dove prese parte alla guerra contro Mitridate VI del Ponto, combattendo nella provincia orientale e arruolando navi e milizie ausiliarie. Nel 73 a.C., mentre si trovava ancora a Oriente, venne eletto nel collegio dei pontefici. Una volta tornato a Roma, nel 72 a.C., Cesare fu anche eletto tribuno militare, risultando persino il primo degli eletti. I suoi rapporti erano particolarmente stretti con Crasso, il quale lo aiutò più volte a finanziare le sue campagne elettorali e a estinguere i suoi numerosi debiti, fino a quando venne non eletto questore nel 69 a.C., un anno dopo il consolato di Pompeo e Crasso. Un ulteriore evento particolarmente significativo fu la sua elezione, nel 65 a.C., a edile curule, carica che lo portò a diventare in modo più che definitivo come il nuovo e massimo leader del movimento popolare.

Tuttavia l’apice della sua carriera politica è da ricollegarsi a un celebre evento che toccò profondamente la storia di Roma del I secolo a.C., ovvero il primo triumvirato. Nel 60 a.C. Cesare infatti stipulò, di comune accordo insieme a Crasso e Pompeo (i maggiori capi politici del tempo), un accordo privato e segreto che, pur non trattandosi di una vera e propria magistratura ma per la notevole influenza dei firmatari, ebbe poi grandissime ripercussioni sulla vita politica e sociale dell’epoca, dettandone gli sviluppi per quasi dieci anni. Gli accordi nati da tale alleanza, fissati a Lucca, prevedevano il proconsolato di Cesare in Gallia e nell’Illirico con il relativo comando di quattro legioni, l’affidamento di Africa e Spagna a Pompeo e infine la provincia di Siria e l’ambita campagna contro i Parti per Crasso che, non avendo ancora conseguito glorie militari, mirava a eguagliare il successo dei compagni. Spartiti i territori e affidati i relativi comandi, Cesare era pronto a lasciare la Repubblica.

Cesare in Gallia: l’ascesa militare

Nel 59 a.C., a un anno dalla stipulazione del triumvirato, Cesare avrebbe dovuto ottenere il consolato, una delle più alte cariche del cursus honorum romano, carica che riuscì a raggiungere grazie all’appoggio di Pompeo e al cospicuo finanziamento di Crasso. Per consolidare ulteriormente questa triplice alleanza, nello stesso anno Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare. Pertanto, grazie alla lex Vatinia, nel 58 a.C. Cesare era finalmente partito, dopo aver ottenuto il proconsolato dell’Illirico (si trattava di una regione dislocata, in cui Cesare si sarebbe voluto recare per accrescere il suo successo militare direttamente sul campo di battaglia) e della Gallia Narbonense (a seguito della morte del precedente proconsole morto all’improvviso, Quinto Cecilio Metello Celere) e Cisalpina per ben cinque anni. Sebbene si trattasse di province nettamente inferiori rispetto alle eccelse conquiste orientali dell’Impero, riuscì ugualmente a operare una serie interminabile di sconfitte tra le popolazioni celtiche, compresi Elvezi, Aquitani, Veneti, Belgi e Svevi.

Tuttavia, più aumentava il potere di Cesare e più cresceva l’inevitabile timore di Pompeo a Roma, per il fatidico momento in cui il suo ormai temuto avversario delle Gallie sarebbe dovuto rientrare in patria. Cesare sarebbe infatti stato certamente acclamato dai numerosi populares di cui era a capo per i suoi molteplici successi militari e per aver inoltre portato il numero delle sue legioni a dieci, un dato non indifferente, simbolo del nuovo potere e prestigio che stava acquisendo. Nel frattempo il triumvirato si stava lentamente sgretolando e, intorno al 53 a.C. Crasso, privo di adeguate esperienze militari, era stato sconfitto nella battaglia di Carre, aveva perso le insegne romane (immane disonore per un comandante romano) ed era stato ucciso dai Parti. Cesare e Pompeo erano ora dunque i padroni indiscussi della scena politica romana.

Intorno all’anno 50-49 a.C., il carismatico condottiero Gaio Giulio Cesare aveva infatti ormai conquistato quasi tutta la Gallia (territorio comprendente oggi Francia e particolari zone di confine tra Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e nord Italia. Compì inoltre numerose incursioni in Britannia e in Germania) ed era di ritorno da una campagna militare durata quasi dieci anni che lo aveva visto coinvolto in numerose vittorie, come la battaglia di Alesia, e indiscutibili successi, tra cui la sconfitta del grande condottiero Vercingetorige. Tuttavia, le imprese svoltesi in Gallia non furono affatto una passeggiata per Cesare e le sue truppe, poiché i galli opposero una strenua resistenza, sconfiggendo anche i romani in molteplici occasioni; si trattava di popolazioni fiere e bellicose, che difficilmente accettarono una resa pacifica. La lotta contro i galli rappresentò infatti un’enorme sfida militare, che rese evidente il motivo per cui l’esercito romano fu il più potente ed efficace dell’antichità.

Le ricchezze, la gloria e la fiducia di un esercito che lo ammirava e rispettava per il suo grande carisma, erano solo alcuni dei principali obbiettivi che Cesare si era prefissato per poter contrastare a Roma il crescente potere politico di Pompeo. La sua inimitabile leadership fu certamente una delle chiavi del trionfo romano in Gallia, poichè lo stesso Cesare riuscì a spingere più volte il suo esercito a compiere imprese che per altri generali sarebbero state inaccettabili, come le due spedizioni dirette verso l’Isola della Britannia. Inoltre Cesare sapeva che il risultato finale delle sue campagne dipendeva in primo luogo dalle sue truppe, per questo motivo questo s’impose come un eccellente motivatore, capace di far sì che i suoi uomini si dedicassero interamente a qualsiasi impegno. A contribuire ad accrescere il suo enorme successo militare furono anche l’aggressività e la velocità con cui condusse le sue numerose campagne.

La “tensione” politica a Roma: Pompeo e il senato

Tuttavia Crasso era ormai uscito dalla scena politica, determinando così il definitivo scioglimento del triumvirato, e Pompeo, nettamente più avanti con gli anni rispetto al giovane conquistatore delle Gallie, aveva ottime ragioni per temere il crescente successo e carisma di Cesare a Roma. Pompeo infatti, sebbene avesse da poco ottenuto la carica di proconsole in Spagna, si trovava ancora a Roma e, nel 52 a.C., venne eletto dal senato consule sine collega (ovvero “console senza collega”). Tuttavia Cesare possedeva un grande numero di legioni a lui ciecamente fedeli, le quali a loro volta non facevano altro che accrescere la sua già elevatissima ambizione bellica e politica. La situazione a Roma era pertanto molto tesa e la guerra civile quasi inevitabile; il casus belli infatti non tardò molto ad arrivare.

Il senato infatti era estremamente preoccupato per gli innumerevoli successi conseguiti da Cesare, il cui mandato in Gallia stava ormai per giungere al termine. Pompeo e il senato infatti, da tempo alleati contro l’imminente pericolo, stavano dunque disperatamente tentando di tenere le redini di un contesto politico in pieno fermento, quando giunse la notizia che Cesare avrebbe voluto, una volta rientrato in patria, candidarsi per il consolato. Tale carica era infatti tra le più ambite del cursus honorum romano, poiché garantiva l’immunità e, dato il crescente numero di sostenitori cesariani, sarebbe quasi certamente riuscito a ottenerla. Tuttavia Pompeo, per colpirlo nel vivo, in piena alleanza con il senato che temeva anch’esso la sua ascesa, promulgò una legge che non gli avrebbe permesso di candidarsi, se non da privato cittadino. Questo avrebbe significato per lui entrare a Roma senza l’esercito al seguito, in balia di un uomo che aveva il pieno potere sulla Repubblica e il completo appoggio dei senatori romani.

La trappola escogitata con l’aiuto dei senatori si sarebbe dunque inevitabilmente conclusa con l’arresto di Cesare e la sua definitiva eliminazione dalla scena politica, garantendo così l’esclusivo consolato a Pompeo, che si sarebbe poi tradotto in una dittatura. Cesare accettò dunque di tornare nell’Urbe senza le sue truppe, a patto che Pompeo accettasse di sciogliere il suo di esercito e tutte le sue truppe. Data la precarietà e la pericolosità della situazione, poichè Cesare pur senza l’appoggio delle sue truppe avrebbe comunque avuto un enorme sostegno popolare (l’opinione pubblica era molto importante, poichè costituiva la stragrande maggioranza della popolazione, e le rivolte erano all’ordine del giorno), Pompeo e il senato non accettarono in nessuna maniera possibile l’ultimatum del generale.

Tuttavia il senato, con la scusa di dover proteggere la Siria dai continui attacchi dei Parti, richiese che fossero aggiunte due legioni alla provincia orientale; Pompeo a questo punto non esitò a richiedere a Cesare le due legioni che, nel 53 a.C., gli aveva concesso in prestito per la sua impresa in Gallia. Cesare pertanto fu costretto a piegarsi a tali richieste, rinunciando così a due delle sue legioni. Fu solo a questo punto che il generale delle Gallie si rese conto che il conflitto era inevitabile e si recò allora con la XIII legione a Ravenna dove fu da quest’ultima acclamato imperator. A questo punto Cesare era completamente esposto e sul punto di diventare ufficialmente un nemico della res publica.

L’attraversamento del Rubicone e la guerra civile romana

La situazione, già gravemente incerta prima, si trovava ora a un bivio: Cesare avrebbe infatti potuto congedare l’esercito, scelta di per sè estremamente pericolosa essendo lui pienamente consapevole delle forze politiche e militari che possedevano Pompeo e il senato, o ribellarsi completamente alle imposizioni di Pompeo e senatori, preparando così le legioni in modo da poter oltrepassare il più importante confine politico della penisola italica, il fiume Rubicone. Tale fiume, pur non vantando notevoli dimensioni, rappresentava un limite inviolabile e attraversarlo in armi significava per i generali romani una vera e propria violazione delle leggi, oltrechè una sfacciata sfida posta nei confronti l’Urbe. Il Rubicone infatti segnò per un breve periodo (tra il 59 a.C. e il 42 a.C.) il “sacro” confine tra l’Italia, considerata come una parte integrante del territorio di Roma, e la provincia non da molto annessa della Gallia Cisalpina. Risultava pertanto severamente vietato a tutti i generali romani attraversarlo con l’esercito in armi.

Ma l’ambizione e la salda tenacia di Cesare non si sarebbero arrestate, infatti l’ultimo disperato tentativo del senato (il 7 Gennaio) di arrestare la sua avanzata, si tradusse in un estremo ultimatum che gli intimava severamente di restituire l’intero comando militare, ultimatum a cui Cesare non cedette mai. Pochi giorni dopo infatti, il 10 Gennaio del 49 a.C., prese una decisione che avrebbe cambiato per sempre il corso degli eventi storici, politici e sociali di Roma e, armate le truppe, scelse di attraversare il fiume presentandosi nella città armato e prossimo a sfidare Pompeo in una guerra civile che si sarebbe inevitabilmente scatenata da tale gesto. Cesare riuscì a entrare a Roma senza incontrare alcun tipo di resistenza, e tale guerra (49-45 a.C.) non tardò ad arrivare. Pompeo venne colto totalmente alla sprovvista, e si ritrovò costretto a fuggire il più rapidamente possibile da Roma, rifugiandosi in Macedonia, dove sperava di radunare un vasto esercito da contrapporre a Cesare.

La guerra civile romana vede Cesare come protagonista indiscusso accrescere senza fine il suo potere politico e militare in pochissimo tempo. Lo stesso anno infatti, sempre nel 49 a.C., Cesare riuscì a conquistare interamente la penisola italiana e a sbaragliare in Spagna tutte le legioni ancora fedeli a Pompeo. Un anno dopo poi, nel 48 a.C., ottenne la nomina di console e partì verso la Grecia, dove, in Tessaglia, precisamente a Farsalo, sconfisse clamorosamente l’esercito di Pompeo, che si rifugiò in Egitto presso il faraone Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra, il quale lo fece assassinare a tradimento. Figli e seguaci di Pompero proseguirono ancora per qualche anno il conflitto contro Cesare fino a quando, nel 45 a.C., i pompeiani supersiti guidati da Sesto Pompeo (comandante militare e figlio di Pompeo) vennero sbaragliati definitivamente a Munda, in territorio spagnolo.

Pertanto, il termine della guerra civile romana rappresenta un momento fondamentale sia per la storia romana che per la carriera politica e militare di Cesare. Egli a questo punto potè infatti ritornare a Roma indisturbato e praticamente privo di nemici che tentassero di ostacolare le sue ambizioni, ottenendo così la carica di dictator vitae (ovvero “dittatore a vita”). Tale carica rappresentava una figura caratteristica dell’assetto della costituzione della Repubblica romana, poichè garantiva un potere assoluto e non poteva essere controllato da nessuna istituzione o magistratura. Poteva inoltre sospendere tutti gli altri magistrati forniti di imperium o conservarli nel loro ufficio, ma essi sarebbero stati sempre e comunque subordinati a lui. In origine veniva scelto unicamente dai patrizi e, solo a partire dal 356 a.C., la dittatura fu accessibile anche ai plebei. In conclusione, quella di Cesare potrebbe essere riassunta come una vera e propria ascesa politica, poichè egli, partito come semplice miles (il miles nell’antica Roma era il soldato semplice, colui che non possedendo un cavallo doveva spostarsi unicamente a piedi), riuscì in poco tempo a raggiungere la più alta e riconosciuta carica di tutta la Repubblica, quella appunto di dictator.

La Caduta di Cartagine secondo Polibio, Diodoro e Appiano

La Caduta di Cartagine durante la terza guerra punica, raccontata da Polibio Diodoro e Appiano

La Caduta di Cartagine è l’atto finale delle guerre puniche uno scontro tra civiltà che per portata potremmo associare alle guerre mondiali del XX secolo, e sul piano simbolico potremmo considerare al pari della guerra fredda. In questo parallelo, la caduta di Cartagine è paragonabile alla fine dell’Unione Sovietica, un passaggio che, negli anni novanta, alcuni audaci ipotizzarono essere il segnale della fine della storia. Anche al tempo della caduta di Cartagine (e nei decenni successivi) qualcuno pensò alla fine della storia.

Caduta Cartagine al mondo rimaneva solo Roma, un unica potenza mondiale, circondata da tribù barbariche, per gli uomini dell’epoca Roma era consacrata all’eternità, e avrebbe dominato il mondo per l’eternità, ma nei suoi scritti Polibio racconta di una visione di Scipione Emiliano, il condottiero che aveva sconfitto Cartagine.Scipione, nel racconto di Polibio, viene mostrato in lacrime di fronte alle macerie di Cartagine, queste lacrime sono dettate dall’idea che come Cartagine, non troppo tempo prima la più grande potenza mondiale nell’antichità, anche Roma, prima o poi, avrebbe conosciuto il proprio Declino.

L’idea che Roma, la padrona indiscussa del mondo potesse capitolare nel II secolo a.c. appare anacronistica, e autori come Diodoro (I secolo a.c.) e Appiano (II secolo d.c.) pensano di non riportare questi dubbi che, dopo la battaglia, assalirono la mente di Scipione Emiliano, ma noi oggi sappiamo, che nessuna civiltà dura per sempre, che persino l’ineluttabile Roma, può cader, come già era successo a Cartagine, alla civiltà Greca, quella Persiana, e quella Fenicia, Sumera, Egizia, ecc ecc prima di Roma, e come sarebbe successo all’impero bizantino, gli imperi islamici, quello Ottomano, il regno di spagna, di francia, l’impero britannico, il sacro romano impero germanico, ecc ecc ecc…

Polibio a modo suo lo aveva intuito, forse perché da uomo greco ostaggio a roma che assiste alla caduta di Cartagine, aveva un punto di vista differente da quello dei propri contemporanei, o forse è stato solo un caso.In questo post parliamo di Polibio, Diodoro e Appiano e del loro racconto della capitolazione di Cartagine.

Quando Cartagine capitola il suo declino era in vero iniziato ormai da molto tempo, in parte alimentato dalle numerose sconfitte subite nel corso della prima e seconda guerra punica, ma è solo nella terza guerra punica che, nel 146 a.c si sarebbe conclusa per sempre e in maniera definitiva, quella guerra combattuta a più riprese fin dal 264 a.c.

Se vuoi approfondire la storia cartaginese ti rimando a questo articolo riassuntivo della storia di Cartagine

Ma le guerre puniche non sono solo uno scontro di civiltà, dettato dalla rivalità e dalle ambizioni politiche delle due più grandi potenze del mediterraneo dell’epoca, sono anche espressione di una più intima rivalità tra due famiglie di alto lignaggio, la famiglia Barca, una delle due case reali cartaginesi, di cui facevano parte Annibale Barca e suo fratello maggiore Asdrubale Barca, entrambi figli di Amilcare Barca, e dall’altra parte, per Roma, la gens Cornelia, antica famiglia romana cui apparteneva Publio Cornelio Scipione Africano, detto Scipione l’Africano, padre adottivo di Publio Cornelio Scipione Emiliano, detto Africano Minore, figlio naturale di Lucio Emilio Paolo Macedonico.

Noi oggi conosciamo le vicende della terza guerra punica, e della conseguente caduta di Cartagine, grazie soprattutto al racconto di tre autori greco romani, questi sono Polibio, Diodoro e Appiano.

Il racconto che questi tre autori fanno presenta alcune differenze, dovute prevalentemente alle posizioni politiche degli stessi, e al momento in cui scrissero, è molto probabile tuttavia che oltre questi tre autori ve ne siano molti altri, che per ragioni differenti non sono giunti fino a noi.

Voglio quindi parlare in questo post degli autori, che ci hanno raccontato la caduta di Cartagine, e la prima cosa che voglio portare all’attenzione è il momento storico in cui Polibio, Diodoro e Appiano scrissero della caduta di Cartagine.

Polibio

Polibio era uno storico greco, ostaggio a durante la terza guerra punica, cui era stata affidata, da Scipione l’Africano, l’educazione del suo figlio adottivo l’Africano Minore, colui che avrebbe condotto Roma alla vittoria finale su cartagine.

Polibio è nato in Grecia presumibilmente nel 206 a.c. e nel 166 a.c. fu uno dei 1000 nobili greci inviati come ostaggio a Roma. Polibio, tra i tanti nobili greci, aveva attirato l’attenzione dei romani già prima della vittoria romana, conseguita dal console Lucio Emilio Paolo nella battaglia di Pidna del 168, per le posizioni neutrali del proprio Partito.

Inviato a Roma come ostaggio rimase nella futura capitale imperiale per circa 17 anni, e immediatamente si legò alla gens Cornelia, diventando precettore di Publio Cornelio Scipione Emiliano, con cui, lo storico strinse un legame di amicizia che sarebbe perdurato per molti anni.

L’amicizia tra Polibio e Scipione Emiliano, lo coinvolse direttamente nelle vicende della terza guerra punica, poiché il comando dell’esercito romano era affidato al suo allievo, e sembra che lo stesso Polibio fosse al fianco di Scipione durante l’assedio finale e i due camminarono insieme tra i resti della città dopo la sua capitolazione.

Diodoro

Diodoro, come anche Polibio, non è propriamente uno storico romano, e nelle sue opere autobiografico si riferisce a se stesso come ad uno storico greco, anche se nato in Sicilia, ad Agyrion, odierna Agiria in provincia di Enna, una città fortemente influenzata e per lungo tempo direttamente controllata, dalle polis greche e successivamente sotto l’influenza cartaginese.

Diodoro è nato presumibilmente nel 90 a.c. molti anni dopo la caduta finale di Cartagine e più di un secolo dopo la fine della prima guerra punica, durante la quale, l’intera Sicilia era passata sotto il controllo Romano.

Anche se cresciuto in Sicilia e sotto il controllo di Roma, Diodoro considera se stesso un uomo Greco, ed è oggi considerato da molti storici come uno dei maggiori annalisti e storici romani, oltre che un fine e meticoloso filologo ante litteram.

Le sue posizioni politiche sembrano essere di estrema neutralità, non particolarmente accomodante o critico nei confronti di Roma e dell’imperialismo romano, e, nel proemio della propria opera magna, la colossale Bibliotheca Historica, composta originariamente da circa 40 libri, di cui a noi sono pervenuti integralmente soltanto i primi cinque, Diodoro presenta quest’ultima come un storia universale, dalle origini del mondo alle campagne di cesare, raccontando quindi tutto ciò che è stato prima di lui e terminando il racconto, per ragioni pratiche, agli anni della propria vita.

Nel suo racconto Diodoro si avvale di innumerevoli fonti, tra cui numerosi altri autori, cronisti e annalisti, da Ecateo di Mileto a Polibio, da Eforo a Posidonio, ecc.

È molto probabile che, gran parte del racconto fatto da Diodoro in merito alla terza guerra punica, parta in larga parte dagli scritti di Polibio, ma, essendoci delle divergenze, è quasi certo che abbia consultato anche altri autori di cui noi oggi non abbiamo traccia, probabilmente abrasi e sovrascritti dai copisti medievali

Appiano

Appiano, come Diodoro non è testimone diretto della terza guerra punica, egli infatti visse nel secondo secolo dopo cristo, in piena età imperiale sotto il regno di Traiano, Adriano e Antonino Pio.

Appiano è nato ad Alessandria d’Egitto, presumibilmente nel 95 dopo cristo, e si ipotizza che abbia trascorso i primi venticinque anni della propria vita nella città che ospitava una delle più grandi biblioteche del mondo antico, la biblioteca di Alessandria, luogo in cui Appiano compì la propria formazione, almeno fino al 120 d.c anno in cui sembra si sia trasferito a Roma, dove intraprese la carriera giuridica diventando e, tra il 147 e il 161, nel periodo di co-reggenza tra Marco Aurelio e Antonino Pio, grazie ad una lettera di Cornelio Frontone scritta per conto di Appiano, e della conseguente risposta fornita da Antonino Pio, sappiamo che Appiano ottenne il titolo di Procuratore romano, anche se molti storici oggi ipotizzano che la sua nomina fu più un onorificenza che un incarico.

Comparazione degli autori

Il racconto generale che i tre autori fanno della caduta di Cartagine è generalmente coerente e costante, la maggior parte dei fatti riportati da Polibio vengono ripresi e riportati, in modo leggermente differente dai successivi scritti di Diodoro, circa cinquant’anni dopo, e di Appiano, circa due secoli dopo, anche se, alcune informazioni ed aneddoti non vengono riportati da tutti, specie il racconto del pianto di Scipione Emiliano che appare esclusivamente nel racconto di Polibio.

Il pianto di Scipione

Il perché Polibio abbia scelto di raccontare la dramma del pianto di Scipione Emiliano che, dopo aver sconfitto Cartagine in quell’ultimo assedio, in quell’ultima battaglia decisiva, ricevendo l’ordine di distruggere la città, e nel vedere Cartagine in fiamme, un tempo la più grande potenza commerciale, navale e militare del mediterraneo (che all’epoca era il mondo), è dovuto al forte legame che univa lo storico al generale romano.

Polibio era stato il precettore ed era un fidato consigliere e confidente di Scipione Emiliano, quel racconto appare estremamente intimo e personale, mette a nudo la sensibilità, l’intelligenza e le preoccupazioni di Scipione, ed è facile intuire perché non solo Polibio abbia scelto di riportare quei passaggi, ma anche perché Diodoro e Appiano abbiano scelto di non riportarli.

Nel racconto del pianto di Scipione, Polibio ci dice che questi, nel vedere Cartagine bruciare, abbia avuto una visione del futuro e del destino che prima o poi avrebbe colpito anche Roma.

Polibio, come già detto era un uomo Greco trapiantato a Roma, e nella sua memoria, nella sua cultura, vi è quella che un tempo era stata la più grande civiltà del mondo Antico, la civiltà ellenica, madre delle Polis Greche e dell’impero alessandrino, e pure, la Macedonia di Alessandro Magno, così come le Polis Greche, al tempo della caduta di Cartagine, erano ormai decadute e ridotte a province romane. Una sorte analoga aveva scosso Cartagine, un tempo la più fiorente e potente città del mediterraneo, ma dopo la terza guerra punica, di Cartagine non rimaneva altro che un cumulo di macerie.

Dopo la vittoria nella terza guerra punica la volontà romana fu quella di distruggere per sempre la capitale dell’ex impero punico, e per farlo, oltre alla distruzione materiale della città, vi fu anche la volontà di impedire che per cinque lustri il suolo su cui sorgeva Cartagine non venisse occupato.

Assistendo alla distruzione di Cartagine e la ferocia con cui Roma aveva deciso di porre fine alla storia cartaginese, Polibio, attraverso il racconto del pianto di Scipione, nel ricordo di ciò che era già successo altrove, arriva alla conclusione che ogni civiltà nella storia, compresa quella romana è destinata, prima o poi, ad un processo di declino, un processo che più essere rallentato grazie ad una serie di trasformazioni politiche, ma che rimane comunque inevitabile. Ed è proprio quello che sarebbe successo a Roma di lì a poco, che, con le varie guerre sociali e civili e riforme ad opera di uomini come Gaio Mario e i Gracchi e personaggi come Silla, Giulio Cesare e Ottaviano, subì un processo di trasformazione, appena un secolo più tardi, che trasformò la Repubblica nell’Impero Romano, e lo stesso impero subì a sua volta numerose trasformazioni politiche e sociali, che ad occidente culminarono con la deposizione di Romolo Augustolo, e ad oriente con la caduta di Costantinopoli per mano ottomana.

Diodoro ed Appiano, diversamente da Polibio, almeno dai testi giunti fino a noi, in parte perché più distanti e distaccati dalla vicenda e dai suoi protagonisti, in parte perché vivono e scrivono in un contesto storico differente, non ritengono rilevane il pianto di Scipione e preferiscono soffermarsi sul significato epocale della caduta di Cartagine, che tuttavia, i due autori interpretano in modo e con segno differente.

Diodoro in particolare, scrivendo in anni di grande espansione territoriale per Roma ormai prossima a diventare un Impero e non solo una potenza imperialista, ha difficoltà ad immaginare il declino di Roma, un declino ipotizzato da Polibio, ma che per Diodoro è un qualcosa di impossibile poiché la Roma in cui vive è ormai padrona del mondo, e tutto ciò che si trova all’esterno dei confini romani sono terre e popolazioni selvagge.

Come Diodoro, anche Appiano vive le guerre puniche con distacco e lontananza determinati dal tempo e dal mondo in cui scrive, oltre che dagli ambienti politici e sociali che frequenta, ambienti che, anche se simili a quelli frequentati da Polibio, sono profondamente diversi a causa del contesto storico.

Polibio è un nobile greco che vive a stretto contatto con la nobiltà romana, diversamente, Appiano non è un nobile ma, come Polibio vive a stretto contatto con la nobiltà romana, una nobiltà che nella prima metà del II secolo dopo cristo è profondamente mutata rispetto alla nobiltà del II secolo avanti cristo, poiché la stessa Roma è mutata.

Dei tre autori, Appiano è l’unico che vive in età imperiale, diversamente Diodoro e Polibio vivono in età repubblicana, più precisamente Diodoro vive al tramonto della repubblica, mentre Polibio vive nel momento di massimo splendore dell’età repubblicana.

La vita a Roma in età imperiale, influenza il modo in cui Appiano vede il mondo e si rapporta al mondo antico. Appiano è testimone indiretto della conquista traianea della Dacia, ultimo grande slancio espansionista dell’impero romano, ma è anche consapevole che non tutte le battaglie possono essere vinte e che la superiorità tecnologica e organizzativa dell’elefantesco esercito romano, non assicura la vittoria in battaglia, ne garantisce una facile difesa del territorio se questi, come la Dacia, è sprovvisto di difese naturali. Appiano guarda alla Dacia e vede il suo enorme costo non bilanciato dal flusso di argento che arriva a Roma, ma si guarda anche alle spalle e vede la sconfitta di Adriano, appena pochi decenni prima, che lo costrinsero a frenare la conquista ed innalzare l’emblematico vallo di Adriano. Guardando ancora più in dietro vede la sconfitta di Varo, al tempo di augusto, contro primitive tribù germaniche.

Appiano vive in quegli anni in cui molti storici pongono l’inizio del declino di Roma, e nel vivere in una civiltà prossima al declino, come Cartagine appena prima dell’inizio delle guerre puniche, ma allo stesso tempo così vicino alle elite e alle istituzioni romane, pone appiano in una posizione ambigua e criptica.

Oggi non sappiamo se Appiano intuì cosa stava accadendo a Roma in quegli anni, e scelse di omettere dal proprio racconto della caduta di Cartagine l’episodio del pianto di Scipione per ragioni politiche, o perché non totalmente consapevole dei cambiamenti che stavano avvenendo in quegli anni, mentre continuava a guardare a Roma con lo sguardo di chi crede invincibile la civiltà che in quel momento dominava il mondo.

La caduta di Cartagine

La caduta di Cartagine negli scritti di Polibio, Diodoro e Appiano rappresenta un evento centrale nella storia romana, tutti e tre gli autori sono perfettamente consapevoli della portata epocale di quell’avvenimento che segnò la fine definitiva di una delle più grandi e imponenti civiltà del mondo antico.

La conquista romana di Cartagine descritta da Polibio è certamente influenzata dall’amicizia tra Polibio e Scipione Emiliano, il racconto di Diodoro è alienato dalla condizione di una Roma, in quel momento apparentemente invincibile, e la caduta di Cartagine viene presentata come un passaggio inevitabile per il compimento della storia, una storia che appare forse già scritta e sembra puntare in un unica direzione, quello di una roma universale, concetto che sarebbe stato ripreso circa 1200 anni più tardi dagli storici medievali, il racconto di Appiano invece è forse il più ambiguo e criptico, che guarda alla caduta di Cartagine da lontano, senza riuscire ad andare troppo oltre l’immagine quasi statica di una serie di eventi determinati dalla risolutezza di una Roma ineluttabile e imperialista.

Tutti e tre gli autori, per ragioni differenti, concordano nel dire che Cartagine durante la terza guerra punica non aveva alcuna possibilità di successo nello scontro con Roma e probabilmente l’unica speranza di sopravvivenza dell’antica colonia fenicia, era quella di sottomettersi a Roma, fondendo la propria civiltà con quella romana.

Se così fosse stato, se Annibale ed Asdrubale non fossero stati così ostinati da sfidare Roma, forse oggi Cartagine esisterebbe ancora e forse, l’intera storia mondiale sarebbe differente, ma la storia non si scrive con i se e con i ma, e nella realtà storica, alla fine Scipione Emiliano ebbe ragione dei fratelli Barca, assediò Cartagine e la rase al suolo e per 25 anni fu impedita l’occupazione del suolo su cui un tempo sorgeva Cartagine.

Bibliografia

E. Lo Cascio, Storia romana. Antologia delle fonti 
G.Geraci,A.Marcone, Fonti per la stoira romana

L’ostaggio nel mondo antico

L’ostaggio nel mondo antico, è un prigioniero politico, ma anche una garanzia per il rispetto di trattati e un mediatore

Il termine Ostaggio, oggi, ha un significato ben preciso, che a grandi linee possiamo definire come, una persona fisica tenuta prigioniera, per ragioni economiche o politiche, o per altri motivi, ma nel mondo antico, il termine ostaggio o meglio, quello che noi oggi traduciamo con il termine ostaggio, aveva un significato leggermente differente dal moderno concetto di ostaggio, diciamo che l’ostaggio nel mondo antico, soprattutto nel mondo greco romano, era in parte un prigioniero, in parte un ospite, in parte un mediatore, ma ovviamente, non era così sempre e dappertutto.

Per la Treccani l'ostaggio è "cittadino di uno stato nemico che un belligerante tiene in proprio potere e contro il quale minaccia di prendere determinate misure..."

Molto dipendeva dall’ostaggio, dalle sue doti politiche e dalla sua dote, ed i rapporti di forza e le relazioni che riguardavano la civiltà di appartenenza dell’ostaggio e quella di cui era ostaggio avevano un peso considerevole nel determinare le condizioni dell’ostaggio, ma, andiamo con ordine e partiamo dal termine ostaggio e dalla sua etimologia.

L’etimologia della parola Ostaggio

Noi oggi sappiamo che l’etimologia della parola ostaggio deriva dal francese antico hostage, le cui radici affondano nel latino del tardo antico, un arco temporale che va dal finire del IV al IX secolo dopo cristo, l’hostage del francese antico è un evoluzione del più antico termine hospitatĭcum, che, a sua volta è derivato dal più antico hospes -pĭtis, che letteralmente letteralmente, ospite politico.

La parola ostaggio, nel mondo antico ha una forte connessione con la politica, concetto che viene legato al concetto di ospitalità, ed è proprio in questo connubio di ospitalità e politica che risiede il cuore del concetto dell’ostaggio.

Il termine ci indica un ospitalità politica, più precisamente un ospitalità interessata e motivata da interessi politici, ma ci dice anche altro, poiché ci troviamo in un epoca in politica, guerra e diplomazia, sono concetti interconnessi e molto vicini tra loro, molto più di quanto non lo siano oggi.

Ostaggi dall’Egitto a Roma

Il concetto di ostaggio nel mondo antico non ha un valore universale, popoli diversi hanno idee e concezioni diverse di ostaggio e prigioniero, e se in alcune civiltà antiche questi due concetti coincidevano, in altre, erano molto distanti tra loro, e non di rado, in momenti diversi, nella stessa civiltà, il concetto di ostaggio viene applicato e interpretato diversamente.

L’ostaggio nell’antico Egitto

Nel antico Egitto, almeno fino alla conquista alessandrina della civiltà del delta del Nilo, l’ostaggio era considerato prettamente un prigioniero politico il cui ruolo nella società era profondamente diverso dal prigioniero di guerra. Il compito del prigioniero politico egiziano, dell’ostaggio nell’antico Egitto, era quello di garantire al faraone la fedeltà e la lealtà dei regni vassalli, e a tale scopo, dei membri delle nobili famiglie feudatarie del faraone erano inviati periodicamente alla corte del faraone, dove vivevano da ospiti, e spesso ricoprivano incarichi pubblici, in cambio della garanzia di fedeltà e lealtà delle proprie famiglie al faraone. Diversa e meno fortunata sorte invece toccava ai prigionieri di guerra.

Un esempio di ostaggio nel mondo egizio, molto noto, ci arriva dal libro della Genesi nell’Antico Testamento attraverso la storia del patriarca Giuseppe, de facto un capo tribù che giura fedeltà e lealtà al faraone d’Egitto in cambio di protezione politica per il proprio popolo, in un epoca in cui la regione Cananea, e l’intero vicino oriente, era controllata da diversi popoli guerrieri in lotta tra loro e allo stesso tempo in guerra con l’Egitto.

L’ostaggio nella Grecia antica

Analogamente al concetto egizio, anche nella Grecia pre-romana l’ostaggio assolveva ad una funzione prettamente politica, non sappiamo però se i greci acquisirono il concetto di ostaggio dagli egizi o se lo svilupparono autonomamente. Noi oggi sappiamo che nelle civiltà primitive il concetto di ostaggio, così come quello di schiavitù, sono molto frequenti, anche in popoli che non avevano alcun contatto tra loro, e questo perché il concetto di ostaggio e l’istituzione della schiavitù, sono stati incontrati anche in popolazioni che non hanno avuto alcun contatto con le antiche civiltà mediterranee, come ad esempio le civiltà mesoamericane.

Nella Grecia antica, almeno in età arcaica, l’ostaggio assolveva ad una funzione analoga a quella dell’ostaggio egizio, questo lo sappiamo attraverso alcuni miti legati alla civiltà Minoica, come ad esempio il mito del Minotauro il cui racconto ci parla, ovviamente tra le righe, di ostaggi politici il cui sacrificio è necessario al mantenimento della pace probabilmente tra un popolo dominante e i suoi feudatari. In età classica invece, il concetto di ostaggio cambia, assumendo tratti leggermente differenti a seconda delle varie polis, ma il concetto di fondo rimane invariato, l’ostaggio continua ad essere un prigioniero politico il cui compito è garantire la pace tra due popoli, sancire una tregua o suggellare alleanze. L’ostaggio diventa quindi non più il tramite di un alleanza, ma anche il garante di tregue, accordi e negoziati, inoltre è il garante del rispetto delle regole della guerra, elemento quest’ultimo sarebbe stato successivamente ereditato dalla civiltà romana.

L’ostaggio concepito dalla civiltà greca è un uomo, o una donna, di alto rango, un nobile, un politico, un filosofo o un dotto, la cui presenza viene utilizzata anche per imporre precise decisioni politiche. In tale senso il caso di Filippo II di Macedonia, condotto a Tebe come ostaggio, è particolarmente interessante. Filippo II era un nobile, la cui presenza a Tebe assicurava alla polis greca il rispetto di una pace tra Macedonia e Tebe ed impediva ai macedoni di assumere posizioni ostili nei confronti di Tebe o sancire alleanze con i suoi nemici. Filippo II viene inviato a Tebe come ostaggio e trascorre nella polis greca più di 30 anni della propria, un periodo di tempo in cui il nobile macedone avrebbe appreso la lingua, i costumi, la politica e, soprattutto, le tattiche militari in uso a Tebe, conoscenze che avrebbe portato con se, una volta tornato in macedonia.

La storia di Filippo II di Macedonia è molto interessante se analizzata in rapporto alle idee di Aristotele sulla prigionia, gli ostaggi e la schiavitù, e non è un caso se Filippo avrebbe scelto proprio l’allievo di Platone come precettore per il proprio erede Alessandro III, meglio noto come Alessandro Magno.

La schiavitù per Aristotele

La schiavitù, per Aristotele è un istituzione educativa e civilizzante, che viene utilizzata per facilitare il processo di conversione e acquisizione, da parte dei prigionieri, degli usi e dei costumi, oltre che della lingua, della civiltà dominante. Lo schiavo per Aristotele è un barbaro che va rieducato e istruito affinché possa acquisite le conoscenze per vivere da uomo greco. Questo concetto di schiavitù, ha molti tratti in comune con l’esperienza da ostaggio di Filippo II, i cui lunghi anni in Grecia gli hanno permesso di acquisire tutto ciò di cui aveva bisogno per sembrare un uomo greco, e una volta tornato in Macedonia, volle per i propri figli la migliore istruzione e formazione possibili, in modo che questi, venissero accolti in Grecia da uomini greci e non da re barbari.

L’ostaggio nella civiltà romana

Diversamente dalla civiltà greca, che considerava se stessa all’apice della civiltà nel mondo antica, e tendeva dunque ad imporre il proprio modello culturale, elemento questo che spesso sfociò in guerre, scontri e rivalità secolari tra le polis, nel mondo romano, almeno nei primi secoli, c’è stato un forte desiderio di auto-miglioramento, che il più delle volte si è tradotto nell’acquisizione di modelli e schemi sociali e culturali, oltre che tecnologici, dalle numerose civiltà con cui roma entrava in contato, che hanno portato Roma ad assorbire, imitare e migliorare, di tutto, dalla mitologia all’architettura alla tecnologia militare.

Il mito di Clelia e Porsenna

La prima e più antica istanza di ostaggio nella civiltà romana la incontriamo nella mitologia arcaica, e tra i tanti miti in cui si fa riferimento al concetto di ostaggio, il mito di Clelia e di Porsenna è forse uno dei più noti e importanti.

Di questo mito esistono due versioni, probabilmente legate al fatto che, nel corso del tempo, il concetto di ostaggio nel mondo romano, ha subito delle variazioni, e il mito di Clelia ci aiuta, con le sue due varianti, a ricostruire queste differenti idee di ostaggio.

Nella più antica delle versioni del mito, Clelia, insieme ad altre nove ragazze, venne consegnata a Porsenna, il lucumone etrusco di Chiusi (il lucumone era la più alta carica politica per una polis etrusca) dai Romani, in seguito ad una pace tra le due città. In questa versione del mito, Clelia incoraggiò le altre nove ragazze a fuggire dall’accampamento di Porsenna e mentre le ragazze guadavano il tevere, lei rimase di guardia sulla sponda, dove venne rintracciata da una guardia di Porsenna o lo stesso Porsenna, e questi, impressionato dal coraggio della donna, decise di premiarla concedendole la libertà.

In questa versione del mito, se bene sia un signore straniero, Porsenna è raccontato come un uomo buono e saggio, che libera Clelia riconoscendone il coraggio ed il valore e poi si ritira, non fa inseguire le altre ragazze oltre il fiume, e continua ad onorare il patto stipulato con Roma, mentre Clelia viene è raccontata come una donna forte, valorosa e coraggiosa, che per la propria intraprendenza e coraggio viene liberata.

Un messaggio di questo tipo potrebbe apparire come un invito agli ostaggi di tentare la fuga, imitando Clelia, e se questo racconto fa parte della tradizione, ciò può significare solo una cosa, ovvero che gli ostaggi nella roma arcaica, non erano prigionieri, ma ospiti.

Nell’altra e più recente versione del mito di Clelia, raccontataci da Tito Livio e da Aurelio Vittore, inizialmente Clelia viene consegnata da sola al lucumone di chiusi, ma riesce a fuggire e tornare a Roma, una volta scoperta venne riconsegnata a Porsenna insieme ad altri ostaggi che i romani fecero scegliere a Porsenna e Porsenna, lasciò che fosse Clelia a scegliere gli altri ostaggi, ed una volta terminata la tregua e tornati a Roma, la città fece erigere una statua equestre in onore di Clelia.

In questa seconda versione, di cui abbiamo traccia già nel IV secolo a.c. con Aurelio Vittore, la figura dell’ostaggio l’ostaggio è mutata e a differenza del passato, la sua fuga può causare la rottura di un patto, dunque l’ostaggio è obbligato a rimanere ostaggio per tutto il tempo necessario, anche se questo non significa necessariamente prigionia. Come vediamo nel mito, Clelia viene riconsegnata a Porsenna, ma questi non punisce la ragazza per la sua fuga, ma al contrario si fa carico della sua protezione, e le consente di scegliere la propria compagnia. Porsenna, in questa versione del mito, consente a Clelia continuare a vivere da donna romana, a differenza di quello che accade a Filippo II di Macedonia.

Il caso di Polibio

Quello di Celia e Porsenna però è un mito, vi sono però altre storie di ostaggi romani, nel mondo antico, che possono aiutarci a comprendere meglio la dimensione dell’ostaggio in età romana ed uno di questi è il caso di Polibio, lo storico greco ostaggio di Roma.

Plibio, durante la propria permanenza a Roma, come ostaggio, nel secondo secolo, nel vivo della terza guerra punica, godette di grande stima, apprezzamento e libertà, nella futura capitale imperiale. La storia di Polibio ci è arrivata direttamente dalla penna di Polibio, il cui racconto ci fornisce uno sguardo unico dell’istituzione dell’ostaggio nel II secolo a.c. poiché ci arriva direttamente da un ostaggio.

Ciò che colpisce in modo particolare nel caso di Polibio, è il grande legame di amicizia che Polibio costruì con gli Scipioni, un amicizia che lo avrebbe reso una delle fonti antiche più autorevoli e apprezzate, per quanto concerne il raccontato della terza guerra punica, guerra che impegnò Roma e contro Cartagine, gli Scipioni contro i Barca, contro Annibale e portò, alla fine, all’inevitabile distruzione di Cartagine, il cui rogo, secondo quanto riportato proprio da Polibio, avrebbe causato lacrime e sofferenza in Scipione l’Africano che, tra le fiamme che divoravano la città, intravedette il declino che prima o poi raggiunge ogni grande civiltà, compresa la sua Roma.

Se vuoi approfondire la storia di Cartagine, leggi anche questo articolo.

La presenza di Polibio come ostaggio a Roma è di natura prettamente politica, lo storico greco è stato condotto a Roma in un epoca in cui Roma stava estendendo propria protezione ben oltre la penisola italica, spingendosi sempre più ad oriente, e guardava con interesse ai territori delle polis greche, polis che non sempre vedevano di buon occhio la presenza imperialista di Roma, e che anzi, proprio durante la terza guerra punica, in diverse occasioni offrirono asilo e aiuto ad Annibale, acerrimo nemico degli Scipioni e di Roma.

La presenza di Polibio a Roma serviva principalmente per evitare che troppe polis passassero dalla parte di Annibale. L’ostaggio greco a roma era quindi un ospite politico, trattenuto formalmente con la forza, ma senza troppe limitazioni e costrizioni, a cui era garantita piena libertà e la cui funzione era quella di fare da garante della pace tra i due popoli, in particolare, il suo compito serviva a garantire che non vi fossero atti di ostilità, ne minacce alla sicurezza di Roma e dei suoi soldati in Grecia, da parte della popolazione ellenica. Vi era una sorta di impegno reciproco tra Roma e Polibio, per cui l’ospite si impegnava a garantire all’ostaggio tutto ciò di cui aveva bisogno e l’ostaggio si impegnava a garantire la pace e far si che nella propria terra d’origine, non vi fossero insurrezioni o rivolte, e che anzi, se possibile, vi fosse collaborazione con Roma.

L’evoluzione del concetto di Ostaggio

Con la caduta di roma, il concetto di ostaggio cambia nel tempo, senza allontanarsi troppo dal concetto di ostaggio greco romano. In età Medievale l’ostaggio diventa il cardine delle alleanze e dei rapporti d’amicizia, e in età moderna, si riscopre il concetto rieducativo dell’istituzione schiavistica, soprattutto in rapporto agli scontri con l’impero ottomano.

Nel mondo antico quello che era il ruolo dell’ostaggio non era codificato, e probabilmente è proprio l’assenza di una codifica formale e universale del concetto di ostaggio nel mondo antico, ad aver portato a diverse evoluzioni. Tuttavia, quello dell’ostaggio era un concetto noto, un istituzione riconosciuta in quell’insieme di leggi e norme non scritte che costituivano lo Jus ad bellum, il diritto alla guerra, e lo Jus in bellorum il diritto in guerra, ed è proprio dal retaggio lasciato da quel mondo e da quell’insieme di teorie, concetti e nozioni giuridiche che il concetto di ostaggio sarebbe arrivato fino a noi, passando attraverso il corpus iuris civilis dell’imperatore Giustiniano e gli scritti sul diritto alla guerra e il diritto in guerra di numerosi giuristi e filosofi dell’età medievale e moderna, da Sant’Agostino d’Ippona a Francisco de Vitoria, da Tommaso d’Aquino a Ugo Grozio, fino a raggiungere uomini gli scritti filosofi come Thomas Hobbes e Immanuel Kant, e giuristi come Emmeric de Vattel le cui idee avrebbero ispirato Franz Lieber nella stesura del Codice Lieber, commissionato da Abraham Lincoln durante la guerra civile americana e la quasi contemporanea prima convenzione di Ginevra del 1864 voluta da Henri Dunant.

Quello che nel mondo antico era l’ostaggio oggi è convenzionalmente riconosciuto come “prigioniero di guerra” i cui diritti vennero formalizzati per la prima volta proprio con la convenzione di Ginevra del 1864 e con il codice Lieber.

Bibliografia

Tito Livio, Ab Urbe condita libri.
M.Liverani,Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele.
E. Lo Cascio, Storia romana. Antologia delle fonti
G.Geraci,A.Marcone, Fonti per la stoira romana
C.Mossé, Dizionario della civiltà greca

Cesaricidio, l’assassinio di Cesare alle Idi di Marzo

Il 15 Marzo del 44 a.c. nel giorno delle Idi di Marzo, alcuni cospiratori romani, assassinarono Giulio Cesare, nel tentativo di ripristinare la Repubblica a Roma. Tuttavia, l’episodio, noto come Cesaricidio, innescò una serie di nuove guerre e conflitti interni che portarono all’ascesa di Ottaviano Augusto, il quale cancellò per sempre la repubblica, dando vita all’Impero Romano

Il 15 Marzo del 44 a.c. nel giorno delle Idi di Marzo, alcuni cospiratori romani, assassinarono Giulio Cesare, nel tentativo di ripristinare la Repubblica a Roma. Tuttavia, l’episodio, noto come Cesaricidio, innescò una serie di nuove guerre e conflitti interni che portarono all’ascesa di Ottaviano Augusto, il quale cancellò per sempre la repubblica, dando vita all’Impero Romano

Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: "Anche tu, figlio?". Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.

Con queste parole Svetonio descrive la morte di Giulio Cesare, avvenuta in seguito ad una congiura alle Idi di Marzo.

Le Idi di Marzo

Secondo il calendario Giuliano, introdotto appena un anno prima dell’omicidio di Cesare, le “idi” corrispondevano, al tredicesimo o quindicesimo giorno del mese, e di conseguenza le idi di Marzo corrispondevano al 15 Marzo, data che tutt’ora utilizziamo per ricordare l’anniversario del cesaricidio, tuttavia, il 15 Marzo nel calendario Giuliano non corrisponde al 15 Marzo del calendario Gregoriano, vi è infatti uno sfasamento tra i due calendari di circa 12/13 giorni, e il giorno “solare” che corrisponde al 15 marzo nel calendario giuliano, cade tra il nostro 26 e il 28 Marzo, tuttavia, per convenzione, avendo una data storica ben precisa, “le idi di marzo” si tende a far corrispondere quella data con il nostro 15 marzo.

Il Cesaricidio

Col senno del poi, un uomo con l’acume e la lungimiranza di Cesare, forse avrebbe potuto prevedere quegli avvenimenti.

Vi era a Roma, soprattutto nel senato, una forte insoddisfazione e ampi dubbi riguardanti la figura di Cesare. Cesare era asceso ai più alti ranghi della repubblica, grazie ad oculate alleanze politiche, ma anche grazie alla fama di grande generale e lo status di “homo novus”.

Cesare non discendeva da antiche famiglie romane e non era membro dell’elite romana per diritto di nascita.
Giulio Cesare era in un certo senso un uomo comune prestato alla politica romana, e la sua fulminea carriera, iniziò ben presto a preoccupare, non solo i suoi rivali e oppositori, ma anche i suoi alleati.

La dittatura

Ormai al culmine della propria carriera politica, alla fine della prima campagna di Spagna, nel 49 a.c. ricevette la carica di dictator.

La dittatura in età romana era una magistratura straordinaria, dalla durata massima di sei mesi, e sostitutiva dei due consolati. Il dittatore romano, deteneva infatti il summum imperium, ed era accompagnato nel proprio esercizio da 24 littori. Tutte le altre magistrature ordinarie erano subordinate alla dittatura.

Nonostante il limite dei sei mesi, la dittatura di Cesare fu iterata più volte, fino al 47 a.c. quando la nomina fu estesa a dittatura decennale. Quella di cesare non fu la prima dittatura iterata, già con Silla, autore delle famose liste di proscrizione, Roma aveva assistito ad un iterarsi della dittatura.

Alla fine di gennaio del 44 a.c. il dittatore romano, fece posizionare presso i Rostri del foro romano, alcune statue raffiguranti Cesare, adornate con un Diadema.

Nella simbologia ellenistica, il diadema era un simbolo di potere e regalità, e la presenza di statue di Cesare adornate con diademi erano un chiaro messaggio di quali fossero le reali intenzioni di Cesare.

Questo episodio spiacevole, vide la contrarietà dei due Tribuni della plebe Caio Epido Marullo e Lucio Cesezio Flavo, che, incuranti della volontà del dittatore, fecero rimuovere le statue.

Appena pochi giorni dopo, approssimativamente il 26 gennaio del 44 a.c., secondo Plutarco, cesare venne salutato da alcuni cittadini romani, con l’appellativo di “Rex”. Ancora una volta Cesare si scontrò con l’opposizione dei due tribuni, e facendo ricorso ai propri poteri derivanti dal summum imperium, fece destituire i due tribuni.

I Lupercalia

Il 15 febbraio dello stesso anno, durante la festa dei Lupercalia, Cesare assistette alle celebrazioni, vestito di porpora e incoronato d’alloro, seduto su di un seggio dorato.

Terminato il rituale della corsa dei Luperci, una corsa in cui si correva indossando pelli di capra attorno al colle Palatino, uno dei Luperci, si avvicinò a Cesare per offrirgli in dono un diadema, che il dittatore rifiutò.

Come abbiamo già detto, il diadema, nella simbologia ellenistica, era un segno di regalità. Per la maggior parte delle fonti classiche concordano nell’asserire che l’iniziativa di offrire il diadema a Cesare, fu presa dal suo delfino Marco Antonio. Altre fonti tuttavia, sostengono che l’iniziativa partì da un tale Licino.

Le due narrazioni avvengono in ambienti politici differenti, e si prestano ad interpretazioni differenti.

Per essere più precisi, secondo la narrazione di Cicerone, dichiarato oppositore di cesare, l'incoronazione fu voluta dallo stesso Cesare, e voleva essere un tentativo di legittimazione simbolica del suo potere.
Diversamente, secondo la narrazione di Nicola di Damasco, la cui narrazione dichiaratamente più "vicina" a Cesare, e soprattutto Antonio cui era molto legato, l'incoronazione fu in realtà una cospirazione organizzata dai futuri cesaricidi per mettere in cattiva luce Cesare.

Non sappiamo quale delle versioni sia quella autentica. Sappiamo però che presumibilmente Cicerone fu testimone oculare della vicenda. O almeno, questo è quello che dice Cicerone.

Nella narrazione di Cicerone, Marco Antonio, al termine della corsa, tenne un breve discorso, cui fece seguito l’offerta del diadema a Cesare. Questo episodio, racconta cicerone, lasciò costernato Lepido, che in quel momento copriva la carica di magister equitum, carica che gli era stata conferita da Cesare in persona. Lo stesso Cicerone tuttavia osserva che Cesare rifiutò il dono.

Per Cicerone, Cesare rifiutò il diadema perché resosi conto del disappunto del popolo romano. Per Nicola di Damasco invece, Cesare rifiutò il dono perché consapevole che questi fosse parte di una cospirazione dei suoi oppositori.

L’assassinio di cesare nel film Cleopatra del 1963

Le idi di Marzo

Circa un mese più tardi, intorno alla metà del mese di Marzo, nel giorno dedicato alla celebrazione di Marte, si tenne una seduta in senato.

Tre giorni dopo, il 18 Marzo, Cesare sarebbe partito alla volta dell’oriente, per combattere Geti e Parti. In quegli stessi giorni, stava circolando a Roma, una profezia dei libri sibillini, in cui si affermava che i Parti sarebbero stati sconfitti da un Re. Ma roma, non aveva un re.

Il giorno delle idi di Marte, appare, col senno del poi, il momento più propizio per assassinare cesare. Se infatti cesare fosse partito, e avesse sconfitto i Parti, l’antica profezia Sibillina, avrebbe reso Cesare il nuovo Re di Roma. Di conseguenza, è molto probabile che i cospiratori abbiano pensato di eliminare Cesare prima della partenza.

Non sappiamo ovviamente quali fossero le reali intenzioni dei Cesaricidi, quale fosse il loro piano, sappiamo però, che terminata la seduta in senato, si compì la congiura a noi nota come Cesaricidio.

Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta.
Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.
Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto.
I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido

Svetonio, Le vite dei dodici Cesari. Vita di Giulio Cesare, 82

Star Wars, una Storia che parla di Storia – Gli Skywalker

Star Wars è un opera epocale, fa parte della nostra storia, Star Wars è immerso nella storia e ci parla di storia, attraverso scene di fantasia, ripropone eventi e momenti della storia reale. Dal Cesaricidio ai discorsi di Norimberga.

Il mondo di Star Wars è un mondo pieno di riferimenti alla storia reale, sia in termini narrativi, che nella costruzione dei personaggi che, non meno importante, nella regia di alcuni momenti. Celebre è la foto di Luke, Han Solo e Chewbecca che sfilano dopo aver distrutto la morte nera, comparata all’immagine dei capi del terzo reich in parata, o ancora più forte, l’immagine del discorso di incitamento al Primo Ordine sulla Base Starkiller, che ripropone la stessa regia, con un discorso molto simile, a quello di Hitler a Norimberga.

Lo stesso ordine 66, potrebbe ricordare a qualcuno la “notte dei lunghi coltelli” del 34.

Ma di Star Wars e i riferimenti e parallelismi tra l’impero e il terzo reich, ne è pieno il web, voglio quindi raccontarvi qualcosa di diverso e che forse non sapevate su Star Wars.

La famiglia Skywalker è la Gens Iulia

Se preferite, gli Skywalker passati al lato oscuro, attingono a piene mani alla storia Romana e la dinastia Giulio Claudia.

Ma facciamo un passo indietro, l’ascesa del senatore di Naboo, Sheev Palpatine, prima alla carica di Cancelliere Supremo della Repubblica, e successivamente ad imperatore, è stata costruita partendo dalla vita di Giulio Cesare, riproponendo in chiave fantasy le trasformazioni che, nel primo secolo avanti cristo, portarono alla trasformazione di roma nel primo Impero del Mediterraneo.
La scelta del titolo di cancelliere supremo, non è ovviamente casuale, è l’ennesimo riferimento al terzo reich, ma è anche altro, è l’incastro perfetto tra il mondo germanico degli anni 30 e 40 e il mondo romano antico, a cui la germania nazista, così come il fascismo, credevano di ispirarsi, rielaborandone alcuni passaggi.

L’ascesa di Sheev Palpatine come credo saprete, non è narrata nella saga originale, ma è frutto della seconda trilogia, in questo ciclo di film i riferimenti al mondo romano, più che al mondo germanico, abbondano e, a differenza di quello che alcuni ipotizzano, non sono un introduzione postuma, ma al contrario, sono presenti, in modo non troppo velato, già nella trilogia originale, ben nascosti tra altri riferimenti storici a cui l’universo narrativo di Star Wars ha attinto a piene mani.

Non voglio che questo post diventi un lungo elenco di riferimenti storici in Star Wars, se però vi interessa approfondire, possiamo farci una rubrica o, ancora meglio, vi consiglio di recuperare il saggio “Star Wars and History” di Nancy R.Reafin e Janice Liedl, dove trovate tutto, purtroppo non è mai stato tradotto in italiano ed è abbastanza costoso, ma vi lascio comunque qualche link per acquistarlo nel canale telegram delle Offerte Storiche.

Tornando al topic, come vi anticipavo, i membri della famiglia Skywalker passati al lato oscuro, attingono a membri della dinastia Giulio Claudia, e allora, andiamo per gradi e vediamoli nel dettaglio.

Abbiamo già detto che Palpatine è Cesare, ma, a meno che non ci venga rivelato qualcosa che non sappiamo nel prossimo film, Palpatine non è uno Skywalker, ma è l’uomo che introduce il primo Skywalker al lato oscuro, in qualche modo “adottando” il giovane Anakin, così come Cesare “adottò” il giovane Ottaviano, rendendolo suo erede, Ottaviano va detto che non è un personaggio a caso che Cesare adottò per simpatia, era pur sempre il figlio di Azia Maggiore, sorella di Gaio Giulio Cesare.

Il personaggio di Anakin Skywalker, parte da Ottaviano, e ne ripropone i drammi e la travagliata vita giovanile, combattuta tra vita privata, politica e vita militare, Ottaviano è molto legato a Cesare, così come Anakin è molto legato a Palpatine, ma Ottaviano è anche anche molto vicino al Senato, così come Anakin è vicino all’ordine Jedi e potrei andare avanti ancora per ore nel raccontare le analogie tra i due.

Come Star Wars ci insegna, Anakin, per molti anni, non avrebbe saputo dell’esistenza dei suoi eredi, e Luke e Leia, non sarebbero mai entrati a far parte della vita di Anakin/Darth Vader, e dunque, per loro, non c’è spazio nella dinastia Giulio Claudia, discorso invece ben diverso per la successiva generazione di Skywalker.

Ben Solo, figlio di Leia e Han Solo, si lascia corrompere dal lato oscuro, ma non totalmente, e in modo abbastanza ambiguo, confuso, perverso. Ben Solo, per compiere il proprio destino assassinerà suo padre, esattamente come sembra che Caligola assassinò Tiberio… ovvero infilzandolo con una spada laser durante un abbraccio.

(si ok, forse caligola non usò una spada laser, si pensa più ad un cuscino o del veleno, ma vabbè, non è che dovete puntualizzare ogni cosa, se avesse avuto una spada laser sono sicuro l'avrebbe utilizzata)

Tiberio è il passaggio intermedio tra Ottaviano e Caligola, ed è un uomo che crede nei valori della repubblica, è un uomo che libera i propri schiavi ed affida ai propri liberti l’amministrazione dello stato romano, ma è anche un uomo che negli ultimi anni di vita, secondo fonti a lui vicine, di rango senatorio e avverse alla figura di Caligola, sembra stesse meditando per la dissoluzione dell’impero e il ripristino della Repubblica, volendo potremmo quasi associare Tiberio ai personaggi di Luke e Leia, (se bene non sia esattamente così, Luke e Leia abbiano un ispirazione storica molto diversa e lontana nel tempo, nel caso ne parleremo in altri post), mentre Ben, lui è Caligola, almeno nella prima fase della propria vita, quando è allievo di Luke, ma, dopo aver abbracciato il lato oscuro, diventa Nerone, e vive gli stessi drammi gli stessi conflitti familiari e la stessa “follia”, chiamiamola così.

Piccola considerazione personale su ciò che accadrà al mondo di Star Wars dopo “L’ascesa di Skywalker”.

Sapendo che il destino degli Skywalker è legato a quello della dinastia Giulio-Clausia, e sapendo che Ben, è l’ultimo degli Skywalker (o almeno così sembrerebbe), personalmente credo che l’epopea di Star Wars, o meglio, la saga degli Skywalker, si concluderà allo stesso modo della dinastia Giulio Claudia.

Con la caduta, dell’ultimo imperatore della Gens Iulia, il senato romano ha mantenuto la struttura imperiale, ed un senatore ha preso il potere, se bene per un breve periodo, prima che una nuova guerra civile infiammasse l’italia e portasse alla nascita di una nuova dinastia imperiale, la dinastia Flavia.

Lo stesso credo che accadrà al mondo di Star Wars, che ovviamente continuerà ad esistere anche dopo la “fine” degli Skywalker, così come Roma ha continuato ad esistere dopo la fine della Gens Iulia.

Chi era Giulio Cesare?

Gaio Giulio Cesare fu un personaggio chiave nella storia romana, proprio grazie alla sua dittatura ci fu un primo avvicinamento alla monarchia, inoltre fu un grande condottiero che guidò i suoi eserciti alla conquista della Germania, Britannia, Gallia, Grecia, Egitto e Ponto.

Gaio Giulio Cesare fu un personaggio chiave nella storia romana, proprio grazie alla sua dittatura ci fu un primo avvicinamento alla monarchia, inoltre fu un grande condottiero che guidò i suoi eserciti alla conquista della Germania, Britannia, Gallia, Grecia, Egitto e Ponto.

Formò il primo triumvirato con Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso.

Dopo la morte di Crasso iniziò la sua salita al potere, nel 49 a.C. risalì il Rubicone con le sue legioni e con la frase “alea acta est” diede inizio alla guerra civile che vinse definitivamente del 48 a.C. diventando dittatore.

Della sua dittatura due sono i gesti estremamente forti attraverso i quali viene ricordato, il primo episodio si svolse in una mattinata, qualcuno aveva posto ai piedi della statua di Cesare un diadema, simbolo della regalità romana, due tribuni della plebe lo accusarono di volersi proclamare re di Roma, Cesare convocò immediatamente il senato e accusò i due tribuni di aver messo loro il diadema per incastrarlo e creare scompiglio nel popolo, per punizione gli tolsero la carica di tribuni.
Il secondo episodio, il più importante, è ricordato come l’episodio dei Lupercali, durante questa festa romana, alla quale cesare assisteva dai rostri, Licino gli depose un diadema d’oro sui piedi, il popolo esortò Lepido di incoronare Cesare, quest’ultimo esitò, allora Cassio gli pose il diadema sulle ginocchia senza il consenso di Cesare, Antonio infine lo mise sulla testa del dittatore salutandolo come re, Cesare lanciò via il diadema e disse al popolo che il suo nome era Cesare e non Re e ordinò che fosse posto sul capo della statua di Giove.

Nel 44 a.C. Cesare nominò console Marco Antonio, questo gesto provocò rancore in cassio che iniziò a cercare tutti i nemici che Cesare si era fatto durante la sua dittatura, con le altre persone che volevano Cesare morto iniziò ad organizzare un omicidio che si consumò il 15 marzo del 44 a.C., nel giorno delle Idi di marzo.

Si racconta che prima dell’assassinio si Cesare ci furono vari segni, si udirono rumori strani nella notte, durante un sacrificio Cesare non riuscì a trovare il cuore della bestia che stava uccidendo, segno di malaugurio. la tradizione vuole che la notte prima dell’omicidio la moglie di Cesare avesse sognato di tenere fra le braccia il marito morto, lo stesso Cesare sognò di stare con Giove nel cielo, avvolto dalle nuvole.

Ma il segno più impressionante fu l’iscrizione sulla tomba del fondatore di Capua Capi che recitava: “Quando verranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo verrà assassinato per mano dei suoi consanguinei, e subito sarà vendicato con grandi stragi e lutti per l’Italia. Questo discendente fu Cesare.

Imperator Rome | un parere da Storico

Imperator Rome, è uno strategico a turni, ambientato nel mondo romano che condurrà il giocatore alla formazione del più grande impero dell’antichità.

Buongiorno a tutti, oggi volevo spendere qualche parola a proposito di Imperator Rome, il nuovo strategico a turni di casa Paradox, gli sviluppatori di Europa Universalis <3, Victoria e altri strategici a turni che hanno accompagnato gran parte della mia vita videoludica.

Più che una recensione, la mia è un opinione a caldo, perché non ho ancora giocato ad Imperator Rome, ma sono intenzionato a giocarlo quanto prima (magari anche in live su twitch se volete), mi limiterò quindi ad alcune considerazioni sul gioco, basandomi sul trailer, le prime immagini promozionali e la mia esperienza con i precedenti titoli della Paradox (che ho sempre apprezzato avendo totalizzato circa 140 ore di gioco su Europa Universalis IV e più di 200 ore su Victoria II).

Questa tipologia di giochi mi è sempre piaciuta molto e uno strategico ambientato nel mondo romano, confesso che mi attira e mi attrae particolarmente, e prima di cominciare ci tengo a sottolineare che l’accuratezza storica del titolo non è uno dei parametri che prenderò in considerazione, perché sono dell’opinione che in alcuni titoli (come gli strategici a turni) dove il giocatore ha molta libertà d’azione, troppa accuratezza storica tolga libertà al giocatore. L’accuratezza va bene in un avventura grafica, in un punta e clicca, in un titolo con una storia ben precisa da seguire, ma se c’è libero arbitrio e il giocatore può interagire con il mondo come e meglio crede, un eccessiva accuratezza storica rischia di uccidere il gameplay rendendo il gioco noioso e a nessuno piacciono i giochi noiosi.

Parto commentando questa immagine che è a mio avviso stupenda, perché racchiude in poco spazio gran parte della storia di roma, dalla fondazione alla caduta, e lo fa in modo fighissimo.

L’immagine è costruita su uno colle, e già qui meritano un applauso, ai piedi del colle sono raffigurate alcune immagini che richiamano eventi chiave della storia di roma, c’è la lupa che allatta gli infanti Romolo e Remo, immagine iconica della fondazione della città, c’è l’assassinio di cesare, c’è l’affissione delle leggi o delle liste di proscrizione di Silla (credo sia l’affissione delle leggi) ci sono i nemici di roma che puntano le loro armi contro Roma, ci sono degli uomini che cercano di fermare la caduta di una colonna, probabilmente un sacco di Roma o la caduta stessa di Roma, e in fine, ma non meno importante, in cima al colle, c’è l’imperatore di roma, ispirato ad Ottaviano, che si erge sulla storia di roma, e invito chiunque pensi che quella statua raffiguri Giulio Cesare a riflettere su due cose, la prima, il cesare assassinato poco più in basso ha fattezze diverse da quelle dell’uomo in alto e in secondo luogo, dare un occhiata all’Augusto di Prima Porta o Augusto loricato, perché il richiamo a quella statua, nella posa dell’imperatore di roma, è a mio avviso più che palese.

Augusto di Prima Porta, noto anche come Augusto loricato

Da quel che ho letto sul sito di paradox, il gioco copre un arco temporale molto ampio, che va dall’impero ellenico di Alessandro all’apice dell’impero romano, di conseguenza quindi abbiamo almeno 4 secoli giocabili, e da quel che si può vedere nei trailer (che in questo video commento a caldo, mentre li vedo per la prima volta) sarà possibile giocare con più di 400 nazioni (per la maggior parte popolazioni elleniche e tribù celtiche e germaniche) collocate geograficamente tra l’india orientale e la penisola scandinava, passando per il nord africa e le isole britanniche.

Tanta giocabilità quindi e potenzialmente tanta rigiocabilità, sia in single player che in multiplayer on-line

Per quanto riguarda le meccaniche di gioco, avendo giocato diversi titoli di paradox come i victoria ed europa universalis, mi permetto di fare una previsione e dire che quasi certamente a livello di gameplay, Imperator Rome, non si discosterà molto dai suoi predecessori, è uno strategico a turni in cui il giocatore dovrà imporsi sulle varie altre nazioni in game attraverso la gestione di economia, politica e guerra, e da questo punto di vista, la sola differenza rispetto ad un Victoria è che questa volta l’ambientazione sarà il mondo romano o meglio, il mondo classico, vista la presenza di nazioni giocanti e giocabili i cui contatti con roma, storicamente, sono quasi inesistenti.

La grande varietà di nazioni giocabili mi fa temere per una scarsa caratterizzazione delle stesse che de facto potrebbero avere ben poche differenze le une dalle altre, se non per pochi casi come Roma, sicuramente caratterizzata in modo forte (essendo la civiltà protagonista del titolo), Cartagine, l’Egitto, e i regni ellenici in generale, civiltà mostrate nei trailer, temo invece (e spero di sbagliarmi) una moltitudine di popolazioni più o meno identiche tra loro, caratterizzate semplicemente da skin di colore differente e racchiuse in quattro o cinque macro categorie, insomma, temo che fatta eccezione per Roma e poche altre popolazioni giocabili, tutte le altre avranno una caratterizzazione riducibile a popolazioni germaniche, popolazioni druidiche, popolazioni “orientali” e popolazioni elleniche.

Il Gameplay

L’obbiettivo del gioco è la conquista del mondo conosciuto in un anacronistica guerra totale, sarà però interessante trovare la via più efficace per questa conquista.

Si dice che tutte le strade portino a Roma, e in uno dei trailer ci viene mostrata proprio l’edificazione di strade che da roma si diramano in tutto il mondo di gioco, e in questo caso, a proposito di questo gioco, possiamo dire che molte strade portano alla gloria di Roma, e che quasi certamente il giocatore potrà provare a raggiungere questa gloria percorrendo strade diverse a seconda della popolazione scelta e di come vorrà giocare, ad esempio incentrando la propria campagna sulla gestione dell’economica, facendo del commercio il proprio punto di forza e creando così un impero economico che non ha bisogno di combattere per soggiogare i propri rivali, oppure attraverso la diplomazia, creando una vasta rete di alleati da unire poi in un unica nazione, oppure seguendo la via tradizionale della guerra, saccheggiando le città nemiche e annientando tutte le nazioni che si opporranno alla propria.

Da questo punto di vista Imperator Rome promette molta varietà e mi auguro che questa varietà si traduca in alcune nazioni più adatte alla guerra rispetto ad altre più inclini alla diplomazia o all’economia, come già accadeva in Victoria ed Europa Universalis.

In ogni caso, sono fiducioso del fatto che Paradox abbia sviluppato un titolo all’altezza dei precedenti.

Nazionalismo, la causa di ogni male della storia

ciò che ha segnato il declino e instillato guerre continue che hanno insanguinato e devastato l’europa per secoli, è stata l’incapacità di guardare oltre il proprio naso, soffermandosi sulle differenze più superficiali, soffermandosi su ciò che divideva piuttosto che su ciò che accomunava gli uomini ed i popoli europei (e non), disegnando una mappa del mondo, sempre più frammentaria e disgregando, una dopo l’altra, tutte le grandi realtà nate con l’intento di tenere lontane le guerre e garantire uno stato di pace duratura.

Se c’è qualcosa che la storia avrebbe dovuto insegnarci sul nazionalismo è che questi, è molto probabilmente, la principale causa di ogni guerra mai conosciuta dall’uomo.

Il nazionalismo così come siamo abituati a conoscerlo è un qualcosa di apparentemente recente e pure è qualcosa di estremamente antico che ha attraversato, corroso e distrutto la maggior parte, per non dire tutte, le grandi civiltà della storia a partire dalla culla delle civiltà in Mesopotamia, fino ai più remoti insediamenti Indios nelle americhe precolombiane, passando per le polis greche e Roma, il nazionalismo ed il sovranismo, hanno trascinato nel baratro ogni realtà che la storia abbia mai conosciuto.

A proposito di Roma, Roma è spesso indicata come un modello di eccellenza per i sostenitori del nazionalismo, e probabilmente non esiste esempio più sbagliato. Quello che infatti è, con molta probabilità, il più importante e significativo esempio di civiltà, fortemente nazionaliste (passatemi il termine nonostante sia estremamente anacronistico in questo contesto), non è Roma, ma la Grecia antica, sono le Polis.

Le polis rappresentano il più importante e noto esempio di nazionalismo (nel mondo antico) che possiamo incontrare nella storia e il loro declino è un monito, ignorato da sempre, a non ripetere gli stessi errori.

Le polis greche, nella loro storia, hanno dimostrato più di chiunque altro che il nazionalismo indebolisce i popoli, crea nemici rendendo un nemico chiunque non appartenga alla propria cerchia ristretta, ed espone i suddetti popoli alle minacce di questi nemici.

Le polis greche, come sappiamo, erano città stato, autonome e indipendenti le une dalle altre, individualmente deboli e facili da schiacciare, ma insieme rappresentavano una vera e propria forza della natura, un colosso inamovibile in grado di arrestare anche la più inarrestabile delle avanzate e ciò che è successo durante le guerre persiane ne è un chiaro esempio.

La civiltà greca costruita sulle polis tuttavia è sopravvissute a lungo nel profondo mare della storia e se bene il loro ricordo è giunto fino ad oggi, non è passato moltissimo tempo tra il respingimento delle forze persiane e l’annichilimento interno durante le guerre del Peloponneso, fino alla caduta sotto l’avanzata ellenica di Alessandro il Macedone.
La cosa interessante è che Alessandro, al tempo della conquista della Grecia era un nemico delle polis greche creato dalle stesse polis greche che non vollero riconoscere la natura greca della macedonia. Cosa ancora più interessante è che l’esercito con cui Alessandro invase e conquistò la Grecia era nei fatti numericamente inferiore, peggio armato e meno organizzato degli eserciti persiani, che appena qualche secolo prima, le polis avevano respinto e pure, Alessandro,
a differenza di Dario e di Serse, riuscì a soggiogare la grecia rendendola parte del proprio impero.

Il grande successo di Alessandro nasconde quello che, allo stesso tempo, è stato il grande fallimento delle polis, e questo è un passaggio che non va ignorato, perché per ogni successo, per ogni trionfo della storia, c’è un altrettanto grande fallimento, in questo caso, la sconfitta delle polis, la cui incapacità di vedere oltre il proprio naso è uno dei più grandi fallimenti della storia, che ha segnato la caduta della civiltà greca. Le polis sono state direttamente responsabili del proprio declino, poiché il loro “nazionalismo” e il loro “sovranismo”, hanno impedito ai governanti delle singole polis di superare le proprie divergenze, mantenendole così separate, isolate e deboli, fino al momento in cui non sono state totalmente travolte dalla storia attraverso l’annessione al regno di macedonia.

Dall’altra parte il modello di Roma, spesso iconizato e presentato come eccellenza del nazionalismo nel mondo antico, nei fatti fu tutt’altro che nazionalistico, in apparenza Roma fu una grande nazione universale, ma nella realtà tangibile delle cose, Roma rappresenta il primo, reale, concreto, vero e proprio esempio di struttura sovranazionale e di civiltà multietnica e multiculturale. Roma, nella sua forma reale, è l’antitesi stessa del concetto di nazionalismo.

Nella maggior parte della sua storia Roma è riuscita ad espandersi, includendo all’interno dei propri territori, civiltà e popoli diversi dal popolo romano, integrando gli stranieri nel substrato sociale dello stato romano, fin dai tempi dei re Etruschi di Roma, e permettendo ai vari popoli incorporati nello stato romano, di vivere secondo le proprie tradizioni, e nel rispetto delle regole e delle leggi di Roma.

Finché Roma ha vissuto in questo modo, la sua civiltà ha prosperato ed è cresciuta sempre di più, espandendosi fino, ed oltre, ai confini del mondo conosciuto, agghindando con i propri vessilli ogni angolo di ogni casa, di ogni strada d’Europa.

Purtroppo per Roma, la sua espansione non è stata eterna e ad un certo punto della storia la sua crescita si è arrestata, per poi iniziare un lento ed inesorabile declino.
Del declino di Roma ho già parlato altre volte, come ad esempio in questo articolo in cui approfondisco il legame tra la crisi economico finanziaria dell’impero e gli elefanteschi costi dell’esercito romano, conseguenza della riforma dell’ordinamento militare di Gaio Mario, ed è interessante osservare come questi, coincida in larga parte con la deriva nazionalistica e sovranista dello stato romano.

Il declino di Roma è iniziato quando Roma ha smesso di essere una realtà multietnica e multiculturale ed ha iniziato a limitare le libertà dei propri abitanti, imponendo l’adozione di un modello culturale unico in tutto l’impero, imponendo l’adozione della cultura e delle tradizioni romane, o meglio, dell’imperatore, a tutti gli abitanti dell’impero.

Il declino di Roma, che sarebbe culminato soltanto con la caduta dell’impero e di Roma, è iniziata con la deriva autoritaria e nazionalistica dell’impero, una deriva che avrebbe alimentato tensioni, rivalità ed ostilità tra i popoli che videro trasformate le proprie radici e la propria cultura, in qualcosa, prima di subordinato e poi di vietato.

Roma avrebbe cercato, in vano, di rimediare e di sedare queste tensioni, con la forza e con la politica, ma questi tentativi furono fatti troppo tardi, quando ormai l’integrità dell’impero universale, quale grande contenitore di civiltà, era già stata crepata, e a nulla valse provare ad ingrossare ulteriormente le fila del già pachidermico e dormiente esercito romano o l’estensione della cittadinanza prima latina e poi romana a tutti gli abitanti dell’impero, nel tentativo di sedare le nascenti e sempre più frequenti insurrezioni, con il conferimento di privilegi politici, anche perché, fattore non di poco conto, quelli che un tempo erano i privilegi legati allo status di Cittadino Romano, non erano più tali e nel momento in cui tutti nell’impero divennero cittadini romani, persino le elitè imperiali, che si videro poste sullo stesso piano dell’ultimo dei nati nella più povera e remota provincia imperiale, si videro traditi da Roma, contribuendo a loro volta ad inasprire ulteriormente la situazione, che di fatto, rese inefficace la strategia politica adottata dagli imperatori ed inevitabile la fine dell’impero stesso.

La crescente disunità dell’impero, da cui sarebbe derivata la divisione stessa dell’impero in almeno due parti, unita all’incessante crisi economica e mille altri problemi interni che si intrecciano tra di loro, avrebbe segnato un ulteriore punto a favore della disgregazione dell’impero, e con esso, la fine stessa dell’impero occidentale sul cui modello e per le stesse ragioni si sarebbero fondate e sarebbero cadute tutte le future grandi realtà politiche europee.

Dall’impero carolingio all’unione europea ciò che ha segnato la crescita e l’espansione è stata la voglia e la capacità di includere, nel tentativo di superare le differenze e le divergenze, per creare un qualcosa di nuovo, di più grande e significativo di ciò che era stato, per creare qualcosa che guardasse verso il futuro, senza dimenticare il passato.
Dall’altra parte invece, ciò che ha segnato il declino e instillato guerre continue che hanno insanguinato e devastato l’europa per secoli, è stata l’incapacità di guardare oltre il proprio naso, soffermandosi sulle differenze più superficiali, soffermandosi su ciò che divideva piuttosto che su ciò che accomunava gli uomini ed i popoli europei (e non), disegnando una mappa del mondo, sempre più frammentaria e disgregando, una dopo l’altra, tutte le grandi realtà nate con l’intento di tenere lontane le guerre e garantire uno stato di pace duratura.

Per approfondire lo studio della questione sul nazionalismo, consiglio la lettura del testo Nazioni e nazionalismi. Programma, mito, realtà, di Eric J.Hobsbawm

Gli unicorni sono esistiti davvero?

Oggi gli unicorni sono considerati creature leggendarie, appartenenti al mito, ma non è sempre stato così, nel mondo antico gli unicorni appartenevano al mondo naturale, proprio come uomini, capre, cani e cavalli.

Oggi gli unicorni sono considerati creature leggendarie, appartenenti al mito, ma non è sempre stato così, nel mondo antico diversamente da creature come pegaso, minotauri, centauri e fauni, che appartenevano al mondo del mito, gli unicorni appartenevano al mondo naturale, proprio come uomini, capre, cani e cavalli.

Questo significa forse che gli unicorni potrebbero essere realmente esistiti?

Nell’immaginario comune l’unicorno è una creatura dalle sembianze di un cavallo dotato di un corno al centro della fronte. Questa creatura leggendaria è stata citata innumerevoli volte nelle varie epoche storiche, da autori differenti e in opere molto distanti tra loro. Lo incontriamo come elemento mitico nella letteratura cavalleresca, ma anche nei salmi, in diversi bestiari del mondo antico e medievale e in fine, ma non meno importante, nell’iconografia cristiana e nella simbologia araldica medievale.

Nella simbologia araldica e nell’iconografia cristiana l’unicorno è un simbolo di simbolo di castità, purezza, verginità, che per lungo tempo fu eletto a sigillo di molti notabili europei, tra i più illustri vanno citati sicuramente Borso della casa d’Este, ma è anche uno dei simboli della Scozia ed appare negli stemmi del Regno Unito, della Nuova Scozia in Canada, del Canada e, in misura minore, come supporto nello stemma della Lituania.

Nel medioevo l’unicorno (o liocorno) era una figura mitologica, appartenente al mondo del mito, ma non è nel medioevo che l’immagine dell’unicorno fa la sua apparizione, queste creature leggendarie erano già note, ed erano state ampiamente descritte, in numerose opere della tradizione scritta e orale del mondo antico, c’è però una differenza tra gli unicorni araldici del medioevo e quelli del mondo antico, e questa differenza sta nel mondo in cui queste creature dimoravano, per dirla semplicemente, nel medioevo gli unicorni appartenevano esclusivamente al mito e alla mitologia, ma nel mondo antico le cose stavano diversamente, e per capire cosa intendo bisogna aprire una breve parentesi sulla mitologia.

Nel mondo antico la mitologia era uno strumento fondamentale per la comprensione del mondo, grazie alle sue storie e le vicende di dei ed eroi, permetteva agli uomini del mondo antico di orientarsi nel mondo di vivere senza essere intimoriti dalla natura misteriosa delle cose.

Il mito era uno strumento potentissimo per spiegare ciò che per gli strumenti di osservazione del tempo, non poteva essere spiegato, e se bene il mondo mitologico e quello reale spesso entrassero in contatto e vi fossero delle interferenze, in particolar modo nel mondo greco, vi era una netta distinzione tra quelle creature appartenenti al mondo “naturale” e quelle creature appartenenti invece al mito e gli uomini del mondo antico erano perfettamente consapevoli di questa distinzione. Sapevano che nel tragitto tra due polis greche era estremamente improbabile (per non dire impossibile) che qualcuno potesse imbattersi in un Idra, in un Cerbero, in un Pegaso o un Minotauro, e anche quando qualcuno raccontava di un incontro con una creatura mitica, la maggior parte degli ascoltatori era tendenzialmente scettica.

Tuttavia, nonostante la distinzione tra il mondo del mito ed il mondo naturale, dove invece le creature erano ben note a tutti ed era facile credere a qualche mercante vagabondo che raccontava di essere stato aggredito da un branco di lupi, vi è una creatura, mitologica che però figura tra i bestiari del mondo naturale e questa creatura è proprio l’Unicorno.

Nel mondo contemporaneo, nell’era di internet, l’unicorno è una creatura mitologica, senza se e senza ma, si tratta di una creatura estremamente iconiche, estremamente versatile ed affascinante, ma che, tutti collocano nel mondo del Mito, e anche se molti (me compreso) vorrebbero un unicorno, purtroppo siamo costretti ad accettare la realtà che questa creatura straordinaria non appartenga al nostro mondo. Ma nel mondo antico, per motivi ancora ignoti, non era così.

Nel mondo greco, l’unicorno, se bene fosse una creatura mitologica, che appariva esclusivamente nei miti e nelle leggende, che nessuno aveva mai realmente visto e toccato, era considerato come una creatura del mondo naturale, e tra i vari autori che ne hanno fatto menzione nelle proprie opere, il riferimento più importante e in questo senso più interessante ci arriva da Ctesias, che, nel suo lavoro Indika, una sorta di bestiario di quelle che erano le creature note all’epoca, inserisce la descrizione di un animale, proveniente dal medio oriente (secondo alcune ipotesi dall’area dell’odierno Iran), che sembrava un grosso asino selvatico dotato di un corno. 

Ma Ctesias non è il solo autore “scientifico” (passatemi il termine) a parlare di unicorni, nel mondo romano, intorno al primo secolo dopo cristo, Plinio il vecchio, un altro autore più celebre e autorevole di Ctesias, descrive una creatura che chiama “monoceros”, che si presenta come un incrocio tra un grosso cervo, un elefante, un cinghiale ed un cavallo, più precisamente un aspetto simile ad un cavallo, la stazza di un grosso cinghiale, e la presenza di un corno, simile a quello degli elefanti, posto però sul capo come un cervo.

Nell’Europa medievale, l’unicorno era una creatura molto popolare, resa celebre dai poemi cavallereschi e descritto nella forma di una creatura simile ad un cavallo dotato di un corno sul capo e proprio sul finire del medioevo, nel XIII secolo, Marco Polo, nella sua opera Il Milione, racconta di aver incontrato, nell’area dell’odierno Iran, proprio un unicorno, descritto con qualche lieve differenza dalla sua immagine classica di cavallo con un corno. Per essere più precisi, l’unicorno incontrato da Marco Polo, non assomiglia tantissimo ad un cavallo, assomiglia di più ad un grosso, enorme, cinghiale quasi del tutto glabro e con un singolo corno sulla testa.

La descrizione dell’unicorno di Marco polo richiama molto la descrizione di Plinio, e se si considera che è molto improbabile che un mercante, che non sapeva leggere e scrivere, avesse letto le opere di Plinio, le due descrizioni diventano molto interessanti.

Secondo molte ipotesi, la creatura che molti autori occidentali nel corso dei secoli hanno descritto e associato all’immagine di un unicorno, potrebbe essere un rinocerontide, noto con il nome di Elasmotherium, che si ipotizza essersi estinto durante il medio Pleistocene medio (circa 700.000 -120.000 anni fa), le cui fattezze ricordano moltissimo la creatura descritta soprattutto da Plinio.
Vi lascio di seguito alcune illustrazioni della creatura.

Le probabilità che la descrizione di Plinio il vecchio si basi su un reale incontro con un esemplare vivente di Elasmotherium, sono molto basse, per non dire quasi inesistenti visto che questa creatura si ritiene essersi estinta oltre 120.000 anni prima della descrizione fornita da Plinio. è molto più probabile che la sua descrizione si sia basata su una ricostruzione effettuata sulla base di ritrovamenti ossei, e in questo caso sarebbe un eccellente ricostruzione, sicuramente migliore di quelle ricostruzioni che, partendo da ritrovamenti ossei di dinosauri, hanno portato ad ipotizzare l’esistenza di giganti.

Per quanto riguarda invece la descrizione di Ctesias e ancora di più quella fornita da Marco Polo, questa potrebbe essersi basata sui racconti locali degli indigeni dell’area del medio oriente, e su eventuali raffigurazioni di questa antica creatura.

Quale sia la verità sulle origini dell’unicorno è ancora un mistero, una cosa è certa, per gli uomini e le donne del mondo antico, questa creatura era reale tanto quanto un cavallo, un mulo, un elefante o un cinghiale, e anche se nessuno ne aveva mai incontrato uno vivo, si aveva l’assoluta convinzione che almeno in passato quella creatura fosse appartenuta al mondo naturale piuttosto che a quello del mito.

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