Le liste di Proscrizione Sillana

Nell’82 a.c. Silla pubblicò le liste di Proscrizione per eliminare i propri oppositori politici.

Sono passati 2100 anni da quando nell’82 a.c. Lucio Cornelio Silla pubblicò le liste di Proscrizione, ovvero delle liste in cui erano inseriti nomi di cittadini romani, per lo più oppositori politici dell’allora Dittatore romano, con cui si dichiaravano quei cittadini romani “hostes publici” ovvero nemici di Roma e di tutti i suoi cittadini.
Gli uomini inseriti nelle liste di proscrizione furono privati dei propri diritti politici e civili, furono sollevati dai propri incarichi pubblici, i loro beni ed i loro averi furono conquistati diventando proprietà di Roma.

Ma i nomi inseriti in quella lista erano realmente una minaccia per Roma o lo erano solo per Silla?

Per capirlo bisogna contestualizzare l’accaduto, le liste di Proscrizione furono pubblicate nell’82 a.c. poco dopo la nomina di Silla come Dittatore romano, magistratura straordinaria dalla durata di 6 mesi, che conferiva poteri eccezionali, superiori a quelli del Senato e dei Consoli romani. Insomma, una carica che dava un potere assoluto su roma per un periodo limitato di tempo.

Prima di essere nominato Dittatore, Silla aveva ricoperto ripetutamente la carica Pretore nel 97, propretore nel 96 e console nell’88. Tra il 91 e l’88 Roma era stata attraversata dal fenomeno delle guerre sociali, preludio a quelle che sarebbero state le successive guerre civili e se sul piano politico le guerre sociali terminarono ufficialmente nell’88 con l’elezione di Silla al Consolato, in termini pratici, l’insofferenza continuò ad esistere e diverse insurrezioni si manifestarono anche negli anni successivi costituendo il causus belli per la guerra civile dell’83, guerra civile che Roma avrebbe provato a frenare nominando Silla Dittatore.

Tra i vari elementi che costituiscono il causus belli per le guerre civili vi sono diversi episodi che progressivamente spostarono le tensioni dal piano politico a quello militare.
Nell’87, grazie all’appoggio delle legioni a lui fedeli, Silla riuscì ad allontanare i mariani dall’Urbe ed ottenne il comando militare per la guerra contro a Mitridate, successivamente riuscì ad ottenere il comando militare per le operazioni in Asia Minore. Con Silla impegnato sul campo, lontano da roma, la corrente politica dei populares, guidata da Gaio Mario, principale oppositore politico di Silla, riuscì a prendere il controllo di Roma, almeno fino al ritorno di Silla.

Senza inoltrarci troppo nelle vicende della guerra civile tra Silla e Gaio Mario, di cui abbiamo parlato in un video pubblicato su youtube, gli episodi della guerra civile, in particolare gli episodi dell’87 e dell’82 (in piena guerra civile), furono il punto d’origine che spinse Silla alla redazione delle liste di proscrizione, non a caso, i nomi presenti nelle liste appartenevano tutti, senza eccezioni, ad uomini che erano stati coinvolti proprio negli episodi dell’87 e dell 82.

Silla quindi ha usato i poteri straordinari derivanti dalla dittatura per epurare roma dai propri rivali e dai propri oppositori politici al fine di consolidare e mantenere il potere il più a lungo possibile.

Silla aveva ottenuto la dittatura in seguito alla vittoria di Porta Collina del novembre dell’82 a.C., poiché, in quella occasione il Senato romano era rimasto in disparte, non intervenendo per impedire ulteriori disordini, dal canto suo Silla, grazie alle legioni a lui fedeli, decise di intervenire autonomamente e di occuparsi personalmente della situazione ristabilendo l’ordine a Roma.

Dopo il trionfo degli uomini di Silla a Porta Callina, Silla convocò il Senato nel tempio di Bellona, situato situato all’esterno del pomerium a sud del Campo Marzio. Lì chiese al senato di essere riconosciuto Proconsole e di conseguenza che gli venisse riconosciuta l’autorità per poter esercitare il potere militare, successivamente questo potere sarebbe stato ampliato enormemente con la nomina di Silla alla carica di dittatore.
Mentre Silla spiegava al senato la propria strategia per porre fine alla guerra civile e riportare la pace a Roma e nella penisola italica, i suoi uomini giustiziavano i prigionieri dell’esercito vinto nella villa pubblica non lontana dal tempio di Bellona.

Terminata l’assemblea Silla fece proclamare dal banditore, il praeco, un editto che successivamente venne affisso al foro e in tutti i luoghi deputati all’affissione pubblica di editti dei magistrati, in tutta la penisola italica.

Insieme a questo editto, Silla fece affiggere anche tre liste di nomi, in cui furono inclusi tutti i nomi degli abitanti dell’Etruria e del Sannio di qualche importanza. Entrambe le regioni si erano opposte a Silla durante gli scontri e per questo furono duramente punite, del resto lo stesso Silla, all’assemblea con il Senato aveva dichiarato che non avrebbe concesso il perdono a nessuno di quelli che si erano opposti a lui durante la guerra.

Il destino dei Etruria fu durissimo, furono confiscate tutte le terre delle famiglie più importanti, ma in Sannio la repressione fu anche maggiore in quanto si procedette con l’eliminazione di tutti gli esponenti delle famiglie più eminenti della regione al fine di evitare la nascita di nuovi oppositori politici.

Una volta epurate l’Etruria e il Sannio ed eliminati tutti i prigionieri, la sete di sangue e vendetta di Silla era ancora lontana dall’essere saziata e per completare in maniera definitiva l’eliminazione dei suoi oppositori, furono pubblicate le liste di Proscrizione.

Nella prima lista erano presenti 80 nomi di esponenti del ceto senatorio, di parte mariana, magistrati o ex magistrati. Successivamente furono pubblicate altre due liste contenenti entrambe 220 nomi di esponenti di famiglie senatorie e cavalieri, per un totale di 520 nomi di magistrati, ex magistrati, senatori e cavalieri, divisi in tre liste e colpevoli di essersi opposti a Silla.

History Fact:

Se bene sappiamo quanti nomi furono inseriti nelle liste di Silla, non sappiamo esattamente quante furono le vittime e le morti effettive causate dalla proscrizione ed i vari autori che hanno affrontato la questione ci danno stime molto diverse.

Secondo Appiano, per effetto delle liste di proscrizione furono uccisi 60 senatori e circa 1600 tra cavalieri ed altri personaggi dal ceto non precisato.
Altri autori invece sono stati meno accurati di Appiano, non specificando il censo di appartenenza delle vittime, facendo quindi un discorso unico tra senatori, cavalieri, magistrati eccc, e in questi autori le stime sono molto più importanti.
Per Floro ci furono circa 2000 morti per effetto delle liste di proscrizione..
Per Valerio Massimo, le morti sono 4700.
Per Orosio, i morti sarebbero stati addirittura più di 9000.

Fonti: 
E.Gabba, Introduzione alla storia di Roma
E.Lo Cascio, Storia Romana, antologia delle fonti

Le origini della civiltà romana

Roma è uno dei rari casi nella storia in cui di una città si conosce il giorno di fondazione (il 21 Aprile) ma non se ne conosce l’anno.
Ci sono molte teorie riguardanti le origini di Roma, sia per quanto riguarda l’anno di fondazione che per quanto riguarda il gruppo “etnico” di appartenenza.
Secondo la tradizione roma è stata fondata nel 753 a.c. e questo significa che l’età monarchica sia durata circa 250 anni, che sono decisamente troppi per l’epoca, soprattutto se si considera che ci sono stati soltanto sette re. Secondo altre teorie, molto più verosimili, la fondazione di roma risalirebbe alla seconda metà del VII secolo, approssimativamente tra il 635 ed il 600 a.c., e questo è molto più probabile.

Per quanto riguarda l’origine “etnica” invece, qui le teorie sono tra le più disparate, la teoria più accreditata e maggiormente accettata è quella secondo cui Romolo, il mitico fondatore della città, fosse di origini Latine, altri sostengono che le origini di Romolo siano Sabine, secondo altre tesi le origini di Romolo sarebbero Etrusche e qualcuno azzarda l’ipotesi che Romolo fosse di origini Greche, e la cosa interessante è che, ognuna di queste teorie è supportata da una diversa variante del mito delle origini e della fondazione di Roma, ma, qual è la verità dietro Romolo la fondazione di Roma? che rapporto c’era tra i romani e le vicine popolazioni di sangue latino ?

Storia romana sui social Network : quando il mito supera la realtà

Nel 1936, più precisamente il 16 agosto 1936, Giorgio Pasquali pubblicò nella “nuova antologia” un saggio intitolato “La grande Roma dei Tarquini” pp. 405-416.

Il saggio del Pasquali, fu per l’epoca estremamente controverso e problematico, soprattutto perché nel 1936 in italia c’era il fascismo che, come sappiamo, aveva mitizzato la storia romana e costruito un culto di roma fondato su una visione parziale e distorta della storia romana. Il saggio del Pasquali nel 1936 segna un punto di rottura con la storiografia tradizionale e ad oggi è considerato un momento epocale per la ricerca riguardante soprattutto la Roma del VI secolo a.c., ovvero la Roma delle origini, una Roma in piena età monarchica.

Come è facile immaginare, la visione e l’interpretazione proposte dal Pasquali suscitarono grande scalpore, tra le altre ragioni perché le sue teorie minavano le origini del mito di Roma costruito dal fascismo.

La cosa interessante è che le teorie del Pasquali, nonostante l’epoca, furono largamente accettate e apprezzate dal mondo accademico e ci furono molti meno oppositori di quanto si possa immaginare, questo grande favore era legato soprattutto all’ampio progresso di conoscenze legate alle scoperte archeologiche e confermate dalla tradizione storico-letteraria.

Il modello di ricerca elaborato dal Pasquali è ancora oggi un modello solido e valido, e la sua interpretazione della Roma del VI secolo è largamente accettata, anche se continua ad essere al centro di un intenso dibattito storiografico sulle origini della civiltà romana e più precisamente sulle origini di “Romolo”.

Il motivo per cui oggi ho deciso di fare questo post riguardante le ricerche del Pasquali è perché uno dei capisaldi della sua metodologia di ricerca era la comparazione di diverse fonti storiografiche, ponendo sullo stesso piano sia fonti documentarie che archeologiche, e soprattutto prendeva in esame fonti contrastanti provenienti da epoche differenti e dalla cui comparazione era possibile individuare ed estrapolare gli elementi comuni che, nell’ottica del Pasquali erano i soli elementi di verità accettabili.

Questa modalità di ricerca rompeva la tendenza di alcuni storici dell’epoca di “ascoltare una sola campana” e professarla come verità assoluta ed è il motivo per cui oggi ho deciso di parlarne.

Il mondo accademico, per quanto riguarda la ricerca storiografica, ha ormai ampiamente assorbito questa modalità di studio e di ricerca, di fatto la comparazione di fonti differenti, provenienti da momenti diversi e la comparazione di diverse chiave interpretative, oggi sono alla base della ricerca storiografica.
Diversamente, sul web non funziona così, e molti “colleghi divulgatori” che si occupano di storia, tendono a non accettare e non accoglie questo modello di pensiero, non voglio stare a sindacalizzare sul modello di pensiero, ognuno è libero di approcciarsi alla storiografia nel modo che ritiene opportuno, ma focalizzarsi su una visione univoca della storia ed accettare solo “fonti favorevoli” alla propria visione, tacciando le fonti contrastanti come inesatte o inappropriate è estremamente deleterio, perché la tendenza è quella di divulgare “il mito di roma” e non la storia romana.

Sinceramente mi sono stancato di vedere community sui vari social network, anche molto ampie, di “appassionati” di storia, e soprattutto di storia romana che, invece di fare storia, invece di parlare di storia e di confrontarsi con la ricerca storiografica, tendono a propinare una storiografia parziale e accuratamente selezionata per confermare una visione distorta e inesatta della storiografia e sopratutto della storia romana.

La storia di Roma è una storia molto lunga, molto complessa e molto variegata, e questo perché è la storia di un popolo che ha inglobato nella propria civiltà innumerevoli popolazioni e civiltà contemporanee, di fatto la storia romana non è solo la storia di roma, ma è la storia di tutti i popoli del mediterraneo e in larga parte d’europa tra il secondo secolo avanti cristo e quinto secolo dopo cristo, è una storia pullulante di scontri politici interni e di crisi politiche interne oltre che di guerre con l’esterno, ma la maggior parte dei miei “colleghi” tende a puntare lo sguardo solo sulla storia gloriosa, sui successi di roma, dimenticando, forse troppo facilmente i periodi più cupi della storia romana, i momenti più dolorosi e soprattutto dimenticando che Roma non ha vinto ogni battaglia che ha combattuto.

Quando si parla di storia romana sui social network bisogna stare attenti ad un grande rischio.
Bisogna stare attenti a non confondere il Mito di Roma con la Storia di Roma, perché il mito è bello, è affascinante, è glorioso, ma la storia romana, come la storia di qualsiasi altra epoca, è fatta di alti e di bassi e se si crede che Roma non abbia mai perso una battaglia allora, forse è meglio fare qualche passo indietro e riaprire qualche vecchio e polveroso manuale di storia romana.

Ho scritto questo post perché sono stanco di vedere il mito di Roma sovrapporsi alla storia Romana.

L’uso strategico dell’urbanistica in età Romana

Tra le tante, infinite, meraviglie storiche che il nostro tempo ha ereditato dalla civiltà romana, la posizione di alcune importanti città europee è forse l’eredità più grande perché la loro fondazione ha determinato l’evolversi stesso delle civiltà europee e mediterranee, ma perché i romani scelsero di fondare le proprie città proprio in quei luoghi invece che in altri?

Perché se guardiamo una mappa delle città fondate dai romani, notiamo una serie di agglomerati urbani nelle regioni più esterne dei territori imperiali e nell’entroterra invece, al sicuro da invasioni barbariche e scorribande troviamo solo poche città sparse e molto lontane le une dalle altre?

Guardando questa carta che mostra la moderna disposizione di città romane, una domanda sorge spontanea, perché ci sono così tante città di romane ai confini dell’impero così poche nell’entroterra francese o ispanico ?

Non dovrebbero esserci più città nelle regioni “sicure” e meno in quelle più “pericolose”?

La risposta più immediata è , “certamente si” chiunque dotato di buonsenso andrebbe a costruire le proprie città in regioni sicure e non sulla linea del fronte ad un passo dalle barbariche tribù germaniche, e pure, Roma non agì in questo modo e fondò molte più città in territori pericolosi.

Guardando questa carta più attentamente possiamo notare che le città in area germanica non sono città sparse, ma anzi, sono molto vicine tra loro, sono così vicine che è quasi difficile capire dove finisce una città e dove inizia la successiva, sembra quasi che formino una linea continua, sembra quasi una barriera urbana, una muraglia di città posta lì, per qualche motivo, una muraglia urbana situata al confine estremo dell’’impero, costruita proprio sotto il naso delle vicine tribù germaniche con cui Roma era in guerra.

Deve esserci una ragione di qualche tipo, e di teorie sul perché Roma abbia fondato così tante città al confine delle regioni belligeranti ce ne sono effettivamente tantissime. In questo articolo non andrò ad esporle tutte ma mi soffermerò sulla combinazione di teorie che personalmente ho sempre trovato più interessante e prenderò le battute da due delle teorie più interessanti e maggiormente accreditate, che riguardano l’economia militare e la strategia militare.

Per quanto riguarda la teoria dell’economia militare questa prende in considerazione soprattutto l’età imperiale e l’ultimo secolo della repubblica, ovvero il periodo che va dalla riforma dell’esercito di Mario in avanti.
La riforma dell’ordinamento militare di Mario come sappiamo, aveva reso l’esercito professionistico e non più volontario e questo significava che i soldati romani vivevano per anni in accampamenti “al fronte” impegnati a pattugliare i confini dell’impero ed impedire eventuali invasioni barbariche.

La presenza di terre oltre i confini romani ad oriente e l’oceano ad occidente può aiutarci a comprendere perché nelle regioni occidentali Roma investì meno sulle frontiere, limitandosi a pattugliare le coste e allo stesso tempo ci da un importante indizio sul perché il fronte orientale fosse decisamente più militarizzato.
Iniziamo col dire che l’oceano rappresentava di per sé un importante difesa naturale per l’impero, mentre dall’altra parte, la presenza di terre significava anche la presenza di altri popoli non sempre amichevoli o pacifici e proprio la presenza delle belligeranti popolazioni germaniche ad oriente ci aiuta a fare chiarezza.

Un impero che teme i propri nemici tende ad allontanare le proprie città dai confini, o meglio, tende ad espandere i propri confini creando un cuscinetto di terre disabitate tra il confine dove sono stanziati i soldati e le proprie città, questo è il motivo per cui vengono costruite fortificazioni e si sceglie di fondare città dove è presente una minima difesa naturale, la stessa Roma non è da meno e nella sua prima fase espansionistica, soprattutto nella prima età repubblicana, si è comportata esattamente in questo modo. Roma per secoli ha vissuto protetta da delle mura e da un fiume, tuttavia, l’espansione di Roma e l’assorbimento di numerose civiltà molto avanzate, in alcuni casi persino più avanzate della stessa civiltà romana, e il sempre maggiore allontanamento dei confini permise all’impero romano di compiere un enorme balzo in avanti sul piano urbanistico, tecnologico e militare. Non a caso la maggior parte delle città interne, fondate in età imperiale, è sprovvista di mura e fortificazioni, questo perché de facto si era creata un enorme disparità di forza tra l’esercito romano ed i primitivi eserciti delle tribù che per un motivo o per un altro, non erano state inglobate nell’impero, e soprattutto perché si erano messi molti chilometri tra quelle città ed i potenziali nemici, ma allora, ancora una volta, perché ci sono così tante città vicino i territori popolati dalle tribù germaniche?

Cerchiamo di inquadrare la situazione e osservare i rapporti di forza tra Roma e le popolazioni germaniche. La dinamica militare che incontriamo è quella “classica” della guerra asimmetrica, in cui una delle due fazioni è tecnologicamente più avanzata dell’altra ed è dotata di un esercito più grande, meglio addestrato e meglio armato. In questo contesto la logica ci suggerisce che l’esercito “migliore” sia quello romano e che, di conseguenza, con più semplicità avrebbe ottenuto la vittoria in uno scontro diretto. Tuttavia, come sappiamo, dinamiche di questo tipo sono le più imprevedibili e molto spesso, l’esercito più piccolo e disorganizzato riesce ad avere la meglio su quello più imponente evitando lo scontro diretto ed utilizzando strategie alternative che, come sappiamo, permisero alle tribù germaniche di resistere per secoli nello scontro con Roma e a conferma di questo, come sappiamo, Roma non riuscì mai a sconfiggere totalmente le tribù germaniche.

Se bene l’esercito romano fosse militarmente superiore sotto ogni punto di vista alle milizie germaniche, le tribù germaniche riuscirono a resistere grazie a strategie e tecniche che oggi chiameremmo anacronisticamente “di guerriglia” (termine introdotto soltanto nel XIX secolo) compiendo raid improvvisi, assalti, sabotaggi ecc ecc ecc.

Nella guerra contro le tribù germaniche Roma era impegnata a combattere contro un nemico invisibile e letale, un nemico che era in grado di colpire e sparire prima ancora che Roma si accorgesse dell’attacco e per fronteggiare questo nemico Roma utilizzò quella che molti indicano come una strategia “psicologica”. Roma combatté contro le popolazioni germaniche mostrando al nemico di non temerlo, e per farlo, unì insieme economia militare e strategia.

Ai confini dell’impero i tantissimi soldati che lo proteggevano vivevano in accampamenti militari e fortini che gli permettevano di presidiare il confine. Oltre la linea di frontiera, al di la dei fortini, delle barricate e delle trincee, solitamente vi era un ampia area in cui i romani avevano abbattuto ogni albero per centinaia di metri, permettendo così ai soldati di sorvegliare un area estremamente vasta.
Sul fronte interno invece, vennero sviluppati numerosi villaggi, inizialmente con funzioni ausiliarie alle attività militari, in cui vi erano prevalentemente fabbri, artigiani, locandieri e prostitute e la vita economica di questi villaggi dipendeva quasi esclusivamente dalla presenza del vicino accampamento militare. Col passare del tempo questi villaggi iniziarono a svilupparsi autonomamente, con la creazione di fattorie e distillerie in cui venivano allevati maiali e si produceva prevalentemente più grano e birra.

Questi primitivi nuclei urbani, in cui grazie ai soldati romani circolava molto denaro, attiravano sempre più lavoratori, soprattutto contadini, mercanti e prostitute, ed i villaggi si espandevano sempre di più fino a diventare delle vere e proprie città, in cui, molto spesso, l’imperatore preferiva risiedere per stare vicino alle armate ma senza rinunciare alle comodità urbane che nella vita da campo gli erano negate.

Queste città nate in conseguenza alla presenza dei vicini accampamenti permanenti dei militari, vennero utilizzate sul piano strategico, in primo luogo dando al nemico l’idea che Roma non temesse minimamente le scorribande barbariche, poiché appunto, aveva costruito delle città ai confini, e queste città erano protette soltanto dalla presenza del vicino accampamento militare. In secondo luogo, queste città mostravano al nemico i comfort della vita urbana e le comodità che la civiltà romana aveva da offrire. Più o meno come quando durante la guerra fredda ai confini con l’Unione Sovietica venivano innalzati ripetitori radio e televisivi che permettevano nell’est europa di ascoltare e vedere i programmi TV e le serie televisive europee e americane, che davano l’idea di un occidente da sogno in cui vivere, ma questo è un altro discorso.
Tornando a Roma, questi elementi messi insieme davano al nemico un idea di invincibilità romana che molto spesso e per molti anni, fu sufficiente ad impedire tentativi di invasione e in alcuni casi spinse gli abitanti di villaggi germanici a passare il confine per vivere nei più sicuri e civilizzati territori romani.
L’efficacia della strategia urbana venne meno soltanto negli ultimi decenni dell’impero, quando la ricchezza e la grandezza di Roma era ormai soltanto un lontano ricordo e in molte città di frontiera le elité fuggirono via lasciandosi contadini, artigiani, soldati e prostitute alle spalle.

TRIUMVIRATO – Quando un accordo privato decide le sorti di una repubblica

Come certamente saprete il Primo Triumvirato tra Gaio Giulio Cesare, Marco Licinio Crasso, e Gneo Pompeo Magno nel 60 a.c. è stato un accordo privato e non ufficiale che avrebbe permesso a tre uomini politici di ottenere enormi poteri e privilegi.
Ma come è stato possibile, nella perfezione della Repubblica di Roma, che tre uomini, tre privati cittadini, grazie ad un accordo privato, siano riusciti ad ottenere il controllo totale della repubblica e delle sue istituzioni?

Per dirlo in breve, questi tre uomini erano tutti e tre uomini politici che avevano seguito il lungo iter della politica romana del tempo e con questo accordo non ufficiale decisero di allearsi politicamente e di appoggiarsi a vicenda nelle elezioni per le varie magistrature, potremmo definirla come una sorta di archetipo di una moderna alleanza non ufficiale tra partiti politici.

Per fare un esempio contemporaneo e di attualità, chiamo in causa tre leader di partiti politici a caso, ai fini dell’esempio i nomi non sono importanti. Queste tre personalità politiche si incontrano privatamente in una località esterna ai luoghi della politica. quale può essere un resort di lusso, una sagra di paese o una residenza privata e durante l’incontro o gli incontri vengono definiti gli aspetti principali del loro accordo con cui, restando elasticamente fedeli alla propria linea politica e restando politicamente separati, in quanto candidati in partiti differenti che tuttavia corrono in un unica lista e, al momento delle elezioni, facendo confluire i voti raccolti dai singoli partiti nell’unica lista comune, riescono ad ottenere o a far ottenere almeno ad uno dei tre, un importante incarico politico.

Questo tipo di accordi oggi è ufficialmente riconosciuto e consentito, ma nella prima metà del primo secolo A.C. non era propriamente ufficiale come pratica, se bene fosse abbastanza comune che vari uomini politici si accordassero privatamente per il conseguimento di una data magistratura. Il discorso sarebbe cambiato leggermente con il secondo triumvirato, ma questo è un altro discorso.

Tornando al primo Triumvirato, prima di allearsi tra loro Cesare, Crasso e Pompeo avevano già ricoperto diverse magistrature “inferiori” grazie alle quali erano riusciti ad ottenere in alcuni casi incarichi militari più o meno importanti, con tutti i privilegi che ne derivano e questo non è un elemento di poco, anzi, direi che è fondamentale per spiegare le ragioni del potere di questi tre uomini.

L’aver ricoperto incarichi militari in questo dato momento storico è molti importante, perché siamo in una Roma post riforma dell’ordine militare di Gaio Mario, una riforma che rese l’esercito da volontario a professionistico e mercenario, in pratica i soldati iniziavano la carriera militare in primis per la garanzia del soldum (fondamentalmente un salario) e poi per l’onore e la patria, ma quando l’alternativa è la fame, l’onore e la patria passano in secondo piano. Questa trasformazione dell’esercito ha importantissime conseguenze politiche e sociali che avrebbero trasformato radicalmente il volto di roma ed avrebbe portato soprattutto ai comandanti militari un grande, enorme potere politico.

Il potere derivato da un comando militare era dovuto a diversi fattori riducibili per lo più al forte legame che intercorre tra i comandanti ed i propri soldati. Questo legame non è ovviamente un esclusiva dell’esercito romano, anzi, è un qualcosa che ha caratterizzato e caratterizza tutt’oggi qualsiasi organismo militare e questo legame è particolarmente forte quando i comandanti vivono sul campo insieme ai propri soldati e ancora di più quando sono i comandanti a pagare i propri soldati. Certo, la paga dei soldati era versata dalle casse di Roma e non dalla tasca del comandante, ma quando sei sul campo, impegnato in lunghe marce che durano mesi e mesi, oltre i confini, in una terra selvaggia e ostile, contro un nemico invisibile e in un epoca in cui non esiste il diritto internazionale, e che non lo fai un saccheggio al villaggio/città nemica più vicino? non lasci stuprare donne, uomini e bambini che vivono nei villaggi/città che stai saccheggiando ai tuoi soldati? Non prendiamoci in giro, certo che lo fai.
Garantire ai propri soldati questo genere di “privilegi”, e di “libertà” che rendevano meno faticosa la vita militare e inoltre permetteva ai soldati di arrotondare il salario, è una pratica barbarica oggi ampiamente condannata che tuttavia è sopravvissuta almeno fino all’ultimo conflitto mondiale e storicamente si è sempre tradotta, quasi automaticamente in un rafforzamento del già forte legame tra i comandanti ed i soldati sotto al loro comando. Questo legame, questa fedeltà, si traduce a sua volta in peso e influenza politica, perché fondamentalmente i soldati, rappresentano la spada dello stato, inoltre, in epoca romana i soldati votano e il voto dei soldati è in questo momento un voto privilegiato per ragioni che vedremo più in avanti, inoltre anche le loro famiglie votano e il soldato vota il proprio comandante, vota l’uomo con cui ha versato fiumi di sangue e con cui ha rischiato la vita, vota l’uomo che lo ha reso, non dico ricco, ma gli ha permesso di avere una casa dignitosa e magari anche con un pezzo di terra da coltivare.
A tutto questo va aggiunto anche che, soprattutto Cesare, ma anche Crasso e Pompeo, godevano di un enorme e crescente consenso popolare, questo consenso era dovuto al fatto che i tre erano percepiti come “uomini nuovi” della politica romana, fondamentalmente perché politicamente legati a quelli che possiamo considerare, in maniera molto anacronistica, dei partiti populisti che de facto prendevano le distanze dalla vecchia politica, dalle vecchie caste e dalla tradizionale aristocrazia romana, proponendo al contrario riforme, innovazioni e una nuova classe dirigente per Roma che veniva direttamente dal popolo.

Cesare, Crasso e Pompeo sono quindi uomini nuovi che possono godere della fedeltà dell’esercito e  l’esercito, nella politica romana, è sempre stato un interlocutore privilegiato per diversi fattori, in primis perché durante la fase espansionistica l’esercito rappresenta il principale motore economico e sociale per uno stato, e nel primo secolo a.c. Roma è nel vivo della propria fase espansionistica. Se da un lato l’esercito rappresenta la principale spesa per la Repubblica, perché mantenere un esercito permanente così grande costa tanto, è anche vero che le nuove conquiste territoriali che avrebbero portato Roma ad estendere, in questo periodo, il proprio potere sull’intero bacino del mediterraneo, hanno l’effetto di portare sotto il controllo di Roma nuove terre e ingenti ricchezze e fondamentalmente l’esercito non solo si ripaga da solo con le proprie conquiste territoriali, ma il surplus di ricchezza e terra si traduce in un importante introito a vantaggio di tutta Roma.
Procedendo con un altro esempio contemporaneo, potremmo sostituire l’esercito romano con un interlocutore privilegiato della nostra epoca, ovvero le grandi aziende nazionali e multinazionali. In un epoca in cui non c’è più nulla da conquistare sul pianeta e l’economia è diventata più astratta e meno legata alla terra, non è più la conquista geografica a garantire un canale privilegiato con la politica, ma il fatturato e per via delle loro enormi entrate economiche, le grandi aziende e corporazioni da un lato, ed i sindacati dall’altro sono diventate de facto alcuni dei principali interlocutore della politica.
Garantire ai soldati di epoca romana, libertà di stupro e saccheggio si traduce in epoca moderna nel garantire e tutelare i mercati nazionali con misure protezionistiche, si traduce nello strizzare un occhio al settore industriale promettendo misure meno rigide per quanto riguarda le emissioni inquinanti, la sicurezza dei propri lavoratori e l’evasione fiscale, ma anche, dall’altra parte, garanzie per il mantenimento di posti di lavoro e per maggiori tutele in campo di sicurezza sul lavoro.

L’insieme di un crescente consenso popolare dovuto allo scontento per l’inadeguatezza della vecchia classe politica e l’appoggio di importanti interlocutori privilegiati e di mille altri fattori, si traduce in un enorme influenza e peso politico che de facto avrebbe dato a Cesare, Crasso e Pompeo il potere di poter decidere insieme le sorti di Roma, alleandosi e formando quello che sarebbe passato alla storia come il primo Triumvirato.

Flavio Biondo e il Medioevo: alle origini del termine

Il Medioevo. Quante volte sentendo questo termine avete pensato a qualcosa di negativo.
Pensate ad un epoca buia, dominata dalla superstizione, dal potere instabile creatosi con la caduta dell’Impero Romano, orde di barbari che saccheggiavano città e dove la religione era l’unico rifugia per dare un senso a quella vita breve e precaria. Ma soffermiamoci un attimo sul termine Medioevo.

Innanzitutto chi lo ha coniato? In quale circostanza? Erano ragioni valide le sue?

Il termine nasce verso la seconda metà del secolo XV e quindi in ambito umanistico – rinascimentale. Il nome che vi faccio è poco conosciuto. Si tratta di Flavio Biondo storico e umanista italiano del Rinascimento vissuto tra il 1392 e il 1463. 

Biondo è famoso per essere stato il primo ad occuparsi di archeologia. Si è dedicato allo studio delle antiche rovine della città di Roma, dove ha vissuto lavorando come segretario del Vaticano, essendo nato a Forlì. E lo ha fatto sia esaminando l’architettura dei resti degli edifici sia consultando le opere classiche, all’epoca le uniche fonti su cui poter fare affidamento. In base ai suoi studi ha pubblicato un opera enciclopedica in tre volumi tra il 1444 e il 1446, De Roma Instaurata (Roma restaurata) una ricostruzione della topografia romana antica.

Il termine Medio Evo lo troviamo per la prima volta nella sua opera più importante Historiarum, una sorta di storia dell’Europa dal 412 (due anni dopo il Sacco di Roma)fino all’epoca dell’autore.
Biondo usa il termine Medioevo per indicare un arco di tempo (e dico uno e non quello essendo stato usato per la prima volta) che va dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente sino al suo tempo, anche se non specifica bene l’anno di inizio. Ma è probabilmente che la concezione che il Medioevo abbia inizio nel 476 si rifà all’opera di Biondo.

Ora Biondo si rende conto che dopo la caduta dell’Impero Romano, la memoria storica dell’epoca classica era andata perduta. Basti pensare che la zona intorno al Foro Romano si era ridotta ad una rozza campagna piena di catapecchie e maiali. E chiaro che tutto ciò agli occhi di un classicista è segno di barbarie e arretratezza. E quindi che Flavio Biondo avesse una concezione negativa del Medioevo non vi sono dubbi, ed è per questo che si è dedicato allo studio dell’Antica Roma per salvaguardare il patrimonio di quella che fu “La Regina dell’Antichità”.

Biondo ha coniato questo termine dispregiativo per una giusta causa: salvaguardando il patrimonio classico di Roma, egli cercava soprattutto di sensibilizzare i romani a rivivere la loro gloriosa origine, prendendo come esempio politico e militare la Roma pagana (come scrive nella sua opera De Roma Triumphante – I trionfi di Roma) di cui la Roma papale ne era erede dei valori (una concezione un po’ controversa in ambito umanistico – rinascimentale che poneva l’uomo al centro di tutto).
Se quindi, almeno per gli umanisti, il Medioevo è vero che è stata un’epoca buia, dall’altra ha tirato fuori il suo lato positivo più importante, la riscoperta delle opere classiche. Ci sarebbe stato Rinascimento senza Medioevo?

 

Fonti:

Riccardo Fubini, “Flavio Biondo” in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 10, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1968
Augusto Campana, Ritratto Romagnolo di Biondo Flavio (1963), a cura di M. Lodone, Cesena, Stilgraf, 2016

 

 

 

 

 

OBELISCHI EGIZI A ROMA

Le principali piazze di Roma sono decorate da alti obelischi: alcuni sono egiziani, altri risalgono all’epoca romana. Il primo imperatore a portare gli obelischi in città fu Augusto, avendo posto egli stesso l’Egitto sotto il controllo romano, rendendolo una provincia dell’impero; il suo esempio è stato seguito da numerosi imperatori dopo di lui.

In epoca imperiale essi non avevano una funzione decorativa, bensì avevano un significato politico e religioso: erano bottino di guerra, segno della potenza e della capacità dell’impero; erano collocati nei templi egizi (numerosi a Roma in quel periodo), in aree consacrate al dio Sole, davanti a monumenti funerari. Si trovavano, quindi, in luoghi diversi da quelli in cui si trovano oggi. Con l’avvento delle invasioni barbariche, andarono incontro al crollo o finirono smarriti, senza lasciare traccia.
Furono i papi a far poi reinnalzare queste enormi steli sacre, facendole trasportare nelle piazze della Roma rinascimentale e barocca: il primo fu papa Sisto V Peretti (1585-1590) il quale, grazie alla collaborazione dell’architetto Domenico Fontana, ha trasformato l’aspetto della città: fece costruire grandi strade rettilinee per collegare le basiliche che ogni buon pellegrino doveva visitare (il famoso “giro delle sette chiese”) e per aiutare ad orientarsi tra i palazzi usò come punti di riferimento proprio gli obelischi. Fece trasportare e collocare quattro di essi: quello di Piazza San Pietro, dell’Esquilino, di San Giovanni in Laterano e di Piazza del Popolo.

Oggi ci sono 13 obelischi antichi in città, ma in origine erano di più, almeno 17. Nel XVIII secolo un obelisco è stato portato a Firenze, nel Giardino di Boboli a Palazzo Pitti; due sono stati portati ad Urbino, davanti alla chiesa di San Domenico. Un altro obelisco si trovava sull’isola tiberina: è crollato a terra nel XVI secolo e alcuni frammenti sono conservati tra il Museo Nazionale di Napoli e Monaco di Baviera.
La nostra capitale possedeva anche un obelisco axumita, proveniente appunto da Axum, la città sacra dell’antico imperio etiope, esso era alto più di 23 metri e contava 150 tonnellate di peso; gli italiani ne entrarono in possesso durante la guerra di Etiopia alla fine del 1935, lo rinvennero frantumato in tre tronconi, lo sezionarono ulteriormente e con due mesi di fatiche fu trascinato fino al porto, giunse a Napoli nel 1937 e poi, da lì, a Roma. I soldati italiano lo avevano prelevato come bottino di guerra, ma si offrirono di restituirlo già dal 1947: fu un percorso travagliato e dopo vari tentennamenti e perplessità il primo frammento della stele partì per tornare a casa solo nell’aprile del 2005. Il suo ripristino finale fu ufficialmente celebrato nel settembre del 2008, con la presenza di migliaia di persone, tra cui la delegazione italiana.
Ma torniamo agli obelischi egiziani attualmente in piedi nella capitale:

 

Obelisco lateranense ©Foto di Federica Ruggiero

L’obelisco lateranense è il più antico, nonché il più alto: 32,185m, basamento escluso. In granito rosso, era situato a Tebe dinnanzi al tempio di Amon a Karnak ed era dedicato al grande faraone Thutmosis III, oggi spicca al centro della piazza dinnanzi all’entrata posteriore della basilica di San Giovanni in Laterano. Ma come giunse a Roma? Fu l’imperatore Costanzo II a volerlo in città, nel 357 fu fatto innalzare nel circo massimo. Fu poi abbandonato e ritrovato sepolto e spezzato in tre parti nel 1587; venne restaurato dall’architetto Domenico Fontana su ordine di papa Sisto V e posizionato nella sua attuale sede. Ha un gemello, attualmente situato nella piazza Sultanhamet nel cuore di Istanbul.

 

 

Obelisco vaticano ©Foto di Federica Ruggiero

Al centro di piazza San Pietro troneggia fiero l’obelisco vaticano, l’unico sempre rimasto in piedi: monolito a fasce lisce, nessun geroglifico, alto più di 25 metri, basamento ovviamente escluso. Fu eretto dal faraone Nencoreo III (nome inventato da Plinio, Nemcoreo III è oggi identificato in Amenemhat II) ad Heliopolis ed è in porfido. Nel 37 d.C. l’imperatore Caligola lo volle a Roma: l’obelisco abbandonò la sua sede ad Heliopolis e finì a decorare il circo di Nerone. Nel 1586 papa Sisto V lo fece collocare dov’è ora da Domenico Fontana; le decorazioni poste tra la base e la cima sono riconducibili alla famiglia Chigi, alla famiglia Conti ed, ovviamente, a Sisto V. In cima, prima di ospitare le reliquie della santa croce, pare ci fosse una palla di bronzo che, secondo tradizione, conteneva le ceneri di Giulio Cesare, donate poi da Sisto V al comune di Roma.

 

Obelisco Flaminio ©Foto di Federica Ruggiero

Innalzato ad Heliopolis da Seti I e Ramesse II, l’obelisco Flaminio fu tra i primi a traslocare a Roma per volere di Augusto: quasi 24 metri senza contare il basamento, nuova casa fu il Circo Massimo. “Il cielo degli dei è soddisfatto per quello che fece il figlio del Sole Seti I dagli spiriti di Eliopoli amato come il sole”, questa la traduzione dei geroglifici incisi lungo la stele. Sisto V lo fece spostare alla sua attuale sede in piazza del popolo nel 1589. Il basamento, su ogni lato, riporta un’iscrizione diversa: il lato rivolto verso il pincio è riferito alla chiesa di Santa Maria del Popolo, dal lato opposto la dedica va proprio a Sisto V, dalla parte rivolta verso la porta del popolo viene rievocata la vittoria di Augusto sull’Egitto ed, infine, l’ultimo lato è purtroppo danneggiato.

 

Obelisco di Montecitorio ©Foto di Federica Ruggiero

L’obelisco di montecitorio, insieme a quello vaticano, fu l’unico ad aver svolto funzioni di indicatore solare. Alto quasi 22 metri, nato ad Heliopolis per merito di Psammetico II, si trova a Roma per volere di Augusto dal 10 a.C. e inizialmente si trovava in campo Marzio, fu poi reinnalzato su ordine di papa Benedetto XIV e spostato a Montecitorio,dopo averlo fatto restaurare con frammenti di granito rosso della colonna antonina. In cima gli collocarono una sfera forata da cui a mezzogiorno sarebbe dovuto passare un raggio di sole.

 

 

Obelisco di Dogali ©Foto di Federica Ruggiero

L’obelisco di Dogali è stata restaurata ed utilizzata per il monumento commemorativo dei 548 caduti in Etiopia durante la battaglia di dogali del 1887; alto poco più di 6 metri, fu innalzato sul “monumento più malinconico che ci sia sotto il cielo di Roma” (cit.) che si trovava dinnanzi alla stazione di Roma termini e nel 1925 fu spostato nella sua attuale sede, il giardinetto delle terme di Diocleziano. Anch’esso nativo di Heliopolis, costruito durante il regno di Ramsete II, fu trovato nel 1883 nell’antico tempio romano dedicato alla dea Iside. Dopo la conquista d’Etiopia fu arricchito con un leone di Giuda in bronzo ma post fascismo esso fu restituito al Negus etiope Hailè Selassiè.

 

 

Obelisco del pantheon ©Foto di Federica Ruggiero

Anche l’obelisco del pantheon è opera di Ramsete II, sito in Heliopolis, non si sa con precisione quando arrivò a Roma ma si sa che abbelliva il tempio di Iside e serapide in campo Marzio; alto poco più di sei metri, in granito rosso, arrivò in piazza del pantheon per mano di Papa Clemente XI Albani, dopo esser passato per piazza san Macuto (Sant’Ignazio) nel 1374. Fu Filippo Barigioni l’architetto che si occupò dell’inserimento della stele nella splendida fontana cinquecentesca scolpita da Giacomo della Porta, riuscendo a legare armoniosamente i due monumenti. Non fu un’impresa facile, ma oggi abbiamo un’opera splendida da ammirare.

 

Obelisco della Minerva ©Foto di Federica Ruggiero

Appena cinque metri di altezza per l’obelisco di piazza della Minerva, ma è di una bellezza unica: nel 1667 fu dotato di un curioso basamento disegnato da Gian Lorenzo Bernini e realizzato da Ercole Ferrata, un elefantino. La stele poggia sul dorso dell’animale, fu voluto da papa Alessandro VII Chigi, il quale volle anche un’incisione filosofica, oltre che storica, sul basamento, ovvero (tradotta): “Chiunque tu sia, puoi qui vedere che le figure del sapiente Egitto scolpite sull’obelisco sono sostenute da un elefante, il più forte degli animali: capisci l’ammonimento, che è proprio di una robusta mente sostenere un solida sapienza”. I geroglifici sulla stele, invece, sono stati cosi tradotti: ” La protezione di Osiride contro la violenza del nemico Tifone deve essere attirata secondo i riti appropriati e le cerimonie con sacrifici e mediante l’appello al Genio tutelare del triplice mondo, per assicurare il godimento della prosperità tradizionalmente concessa dal Nilo contro la violenza del nemico Tifone”.
Eretto per la prima volta in Egitto dal faraone Aprie (589-570 a.C.), fu trovato in ottimo stato di conservazione, è in granito rosa con geroglifici sulle 4 facciate. Il progetto iniziale del Bernini fu bocciato e ci furono numerose divergenze tra lui, un frate domenicano che voleva vedersi affidare il progetto ed il papa, la posizione dell’elefantino sarebbe la prova delle divergenze che ebbero.

Obelisco Mattei – celimontana ©Foto di Federica Ruggiero

Il più difficile da localizzare e trovare, l’obelisco di villa celimontana è ubicato all’interno dei giardini della residenza, sede attuale della società geografica italiana, giardini che sono divenuti parco pubblico nel 1925: la villa era antica residenza della famiglia Mattei. È il pù piccolo tra gli obelischi di cui abbiamo parlato, misura appena due metri, ma è stato dotato di una “piccola aggiunta” di circa 10 metri, di colore diverso, a fasce lisce e priva di geroglifici. Tra i vari nomi, ha anche quello di “obelisco Mattei” ed “obelisco capitolino”, quest’ultimo perché in epoca imperiale fu trasportato a Roma e posto nel tempio di Iside capitolina; fino al 1952 era situato in campidoglio. Fu donato al duca Ciriaco Mattei nel 1528 dal senato di Roma, il quale lo fece smontare subito dal cimitero dove si trovava. Si narra che un operaio che stava lavorando alla collocazione dell’obelisco sulla base attuale vi perse le mani e parte delle braccia a causa della rottura di una fune.

Bibliografia :

http://www.turismoroma.it/cosa-fare/gli-obelischi
http://www.angolohermes.com/Luoghi/Lazio/Roma/Obelischi/obelischi_1.html
Munoz A.- Gli obelischi egiziani di Roma 1953
Cipriani G.B.-Su i dodici obelischi egizi che adornano la città di Roma 1823
Farina G,- L’obelisco domizianeo nel Circo Agonale 1908
Gnoli D.- Disegni di Bernini per l’obelisco della Minerva in Roma 1888
Grassi G.- Gli obelischi di Roma
Bastico S –Obelischi egiziani a Roma. In Romana Gens 1956
Briganti Colonna G.-Avventure di obelischi 1937

©Tutte le foto sono state scattate e post-prodotte da Federica Ruggiero, autrice dell’articolo

L’ascesa al potere di Ottaviano Augusto

Il cesaricidio, ovvero l’assassinio di Gaio Giulio Cesare da parte di Bruto e altri cospiratori, avvenuta alle idi di marzo del 44 a.c. (15 marzo 44 a.c.), segna l’inizio dell’ascesa politica di Gaio Giulio Cesare Ottaviano, ma procediamo con ordine.

Dopo la morte di Cesare, Marco Emilio Lepido e Marco Antonio stringono un’alleanza militare volta ad eliminare i cesaricidi, al tempo Lepido, già pretore nel 49 e governatore di spagna dal 48 al 47, si trovava a Roma con il suo esercito, un esercito che dopo le riforme dell’ordinamento militare di Gaio Mario era diventato un esercito mercenario, professionista, stipendiato e fedele prima al proprio comandante (ma soprattutto a chi versava loro il soldum) e poi a Roma. La presenza a Roma di Lepido ed il suo esercito lo poneva in una situazione di vantaggio rispetto ai cesaricidi, e grazie all’alleanza con Marco Antonio, già luogotenente di Cesare e suo erede militare, ottenne la carica di Pontifex Maximus (pontefice Massimo), precedentemente ricoperta da Cesare, si trattava della più alta carica religiosa e conferiva a chi la ricopriva, il pieno controllo del diritto romano, impegnandolo nella regolazione dei fasti, nel redigere annualmente la tabula dealbata e gli annales pontificum.

L’alleanza tra Lepido e Marco Antonio era percepita dal senato come una minaccia all’ordine repubblicano, forse persino più grande della minaccia precedentemente rappresentata da Cesare, in quanto Marco Antonio puntava a costituire a Roma una monarchia di stampo orientale, progetto dovuto al suo forte legame con l’oriente, in particolare con l’Egitto di Cleopatra.
Per frenare questo progetto monarchico e limitare il potere dei due, il senato doveva trovare il modo di privare Marco Antonio del proprio esercito, esercito che aveva “ereditato” da Cesare. Decisero quindi di portare in italia Gaio Giulio Cesare Ottaviano, erede materiale del tesoro di Cesare, in possesso quindi dell’oro necessario per pagare i soldati di Marco Antonio, consapevoli che, la sua presenza in italia avrebbe fatto vacillare la fedeltà dell’esercito nei confronti di Antonio.

Gli astuti membri del senato erano certi di poter controllare il giovane Ottaviano e di riuscire ad utilizzarlo come strumento per ripristinare l’ordine repubblicano, e conseguentemente dell’autorità e i privilegi del senato, ma Ottaviano si sarebbe rivelato molto più astuto del previsto e soprattutto, molto più difficile da controllare.

Ottaviano si sarebbe alleato inizialmente con il senato contro Marco Antonio e Lepido, successivamente si stipulò un accordato privato con i due cesariani, durante un incontro organizzato da Lepido, che si proponeva come mediatore tra i due eredi di Cesare. L’incontro sarebbe avvenuto nei pressi della colonia romana di Bononina (Bologna). Da questo incontro sarebbe nato il secondo triumvirato della storia romana, ma, a differenza del primo triumvirato tra Cesare, Pompeo e Crasso, questo triumvirato non sarebbe rimasto a lungo un accordo privato, e il 27 novembre del 43 a.c. con la Lex Titia, il patto fu ufficializzato ed istituzionalizzato, ottenendo valore legale, nominando i membri Triumviri Rei Publicae Constituendae Consulari Potestate (Triumviri per la Costituzione della Repubblica con Potere Consolare, abbreviato come “III VIR RPC“) e sarebbero rimasti in carica per una durata di cinque anni.

Prima che venisse varata la Lex Titia, il senato vide nell’accordo tra Ottaviano, Antonio e Lepido, un rischio per la repubblica, mobilitando di conseguenza i consoli Irzio e Penza contro gli eredi di Cesare. Ne seguì una dura battaglia che si sarebbe conclusa con il trionfo di Ottaviano e Marco Antonio, ed il successo militare avrebbe portato alla ratifica della Lex Titia.

Il ruolo “privilegiato” degli eredi di Cesare agli occhi dei soldati e della popolazione, unita al carisma di Ottaviano e Marco Antonio, avrebbe rapidamente messo in secondo piano la figura di Lepido, e durante la battaglia di Filippi, Ottaviano e Marco Antonio avrebbero marciato alla testa dei propri uomini, contro gli ultimi cesaricidi rifugiatisi in Grecia, mentre Lepido fu lasciato in Italia.
Dopo la Battaglia di Filippi, il triumvirato fu rinnovato per altri 5 anni, secondo i nuovi accordi presi a tra Ottaviano e Antonio a Brindisi nel 40.a.c. e suggellati dal matrimonio tra Marco Antonio e Ottavia minore, sorella di Ottaviano.
La nuova divisione territoriale lasciava a Lepido il governo dell’Africa, Antonio invece rinunciava alla Gallia per ottenere il pieno controllo sull’Oriente e Ottaviano manteneva il controllo dell’Illirico estendendo il proprio potere all’intero Occidente.

Tra il 39 ed il 36 Ottaviano si sarebbe scontrato in Sicilia contro Sesto Pompeo, durante la guerra avrebbe chiesto l’aiuto di Lepido che però lo avrebbe tradito accordandosi con Pompeo. La poca fedeltà di Lepido nei confronti di Ottaviano, gli sarebbe costata la fiducia dell’esercito che lo avrebbe abbandonato, costringendolo ad implorare il perdono di Ottaviano prima di uscire definitivamente dalla scena politica romana e ritirarsi a vita privata al Circeo dove sarebbe rimasto fino alla morte nel 12 a.c.

L’uscita di Lepido dalla scena politica segna la fine del triumvirato formale del triumvirato che si comporrà d’ora in avanti di soli due membri, sempre più in conflitto tra loro a causa della divisione territoriale ed i successi militare contro pirati illirici e parti.
Antonio ormai relegato in Egitto avrebbe sposato la regina Cleopatra, ripudiando la moglie romana (sorella di Ottaviano) e abbandonando progressivamente le tradizioni ed i costumi romani per adottare quelli orientali, e quando Antonio deciderà di lasciare in eredità ai figli di Cleopatra, i territori orientali di Roma, provocherà l’ira del senato che, appoggiato da Ottaviano, entrerà in guerra contro l’Egitto.

La guerra di Egitto si conclude nel 31 a.C. con la battaglia di Azio dove Ottaviano riuscì a sconfiggere le truppe di Marco Antonio. In seguito alla sconfitta di Azio, Cleopatra ed Antonio si toglieranno la vita e l’oriente sarebbe passato nelle mani di Ottaviano che avrebbe trasformato l’Egitto in provincia romana, privandolo così dell’autonomia di cui aveva goduto fino a quel momento ed unificando tutti i possedimenti romani sotto il suo controllo.

Ottaviano si ritrova quindi ad essere il padrone assoluto dello stato romano, anche se formalmente roma è ancora una repubblica e ufficialmente Ottaviano non aveva ricevuto alcuna investitura, ma poté governare al sicuro, poiché e la sua vittoria contro Marco Antonio, fu interpretata come una vittoria dell’Italia e della romanità, sull’oriente.

Negli anni che seguirono alla vittoria di Azio, Ottaviano ricevette dal senato numerose onorificenze e privilegi, lasciando però intatta la natura repubblicana di roma. In fine, come già accaduto a Cesare prima di lui, gli fu offerta la dittatura a vita, ma Ottaviano a differenza di cesare rifiutò tale investitura, mostrando al popolo romano di agire in rispetto della Repubblica e non in funzione di un potere personale.

Il 16 gennaio del 27 a.c. Ottaviano restituì formalmente al senato del popolo romano i poteri straordinari che aveva ottenuto durante la guerra contro Marco Antonio, ricevendo in cambio il titolo di console, che doveva essere rinnovato annualmente ed aveva una potestas con maggiore auctoritas rispetto agli altri magistrati (consoli e proconsoli) che gli garantiva il diritto di veto in tutti i territori di Roma e che non lo assoggettava ad alcun veto da parte di qualunque altro magistrato. Ricevette anche l’imperium proconsolaris sulle province “imperiali” ovvero le province in cui era necessario un comando militare, ottenendo di fatto il comando di tutto l’esercito romano, l’imperium proconsolaris aveva durata decennale e sarebbe stato rinnovato nel 19 a.c.
In fine, ma non meno importante, ottenne il titolo di Augustodegno di venerazione e di onore“, che avrebbe sancito la sua posizione sacra, fondata sul consensus universorum di Senato e popolo romano. Gli fu inoltre concesso di utilizzare il titolo di Princeps “primo cittadino” e gli fu garantito il diritto di condurre trattative con chiunque volesse, e il diritto di dichiarare guerra o stipulare trattati di pace con qualunque popolo straniero.

La concentrazione di tutti questi poteri e privilegi nelle mani di Ottaviano Augusto segna, secondo la storiografia, la fine dell’età Repubblicana e l’inizio dell’Impero Augusteo, facendo di Ottaviano il primo Imperatore della storia romana, anche se, va detto che per molto tempo gli storici non si sono riferiti ad Ottaviano ed i suoi successori con il titolo di Imperatore, ma utilizzando il termine Augustus. Sottolineando la natura ancora una volta innovatrice di roma, il cui sistema politico era formalmente una monarchia, ma di fatto, non lo era ancora.

Il Culto di Iside a Roma

In età Romana, il culto isiaco (culto per la dea Iside) si diffuse, a più riprese, in tutte le parti dell’impero.
In Italia, il culto della divinità egizia si sviluppò prevalentemente in età imperiale, frutto del contatto diretto tra l’impero e la cultura egizia, ed ebbe una diffusione di gran lunga maggiore rispetto a quello di Dionisio (Bacco) e Cibele (culti di origine Greca, ben più noti e popolari nell’immaginario collettivo).

Iside è considerata la dea della natura, della fecondità, la madre di tutte le cose, la dea universale. Questa divinità fu identificata da numerosi popoli antichi, come spesso accadeva, con nomi diversi. In Grecia ad esempio fu identificata in Era, Demetra, Afrodite, Selene, Io.
Iside, Osiride e il figlio Horus formano la triade suprema della religione egizia (una triade che, secondo alcune letture, può essere idea originaria di quella che sarebbe poi diventata la “trinità” cristiana). Insomma, la figura mitica di Iside (e ciò con cui era identificata più che la divinità stessa) è all’origine di numerosi altri miti, misteri e riti, diffusi in gran parte dei popoli antichi e delle civiltà precristiane.

Fatta questa premessa, molto approssimativa, sulla “storia delle religioni” (se vi interessa la mitologia vi rimando alla pagina Mitologicamente Grivitt se invece amate l’egittologia vi rimando a Djed Medu – Blog di Egittologia) ciò che mi interessava approfondire, è l’impatto culturale che il culto di Iside ha avuto sulla storia Romana (e di conseguenza, su tutto ciò che ne è venuto dopo), e visto che il culto di Iside ha potuto germogliare nella Roma prima repubblicana e poi Imperiale grazie a Cleopatra, che ricordiamo essere una “devota adoratrice del culto di Iside”. Possiamo asserire senza difficoltà che qui si parlerà anche dell’impatto culturale che Cleopatra ebbe su Roma.

Dico “anche” perché in realtà già prima di Cleopatra, tra il 239 ed il 169 a.C. Claudio Ennio per primo, istituì a Roma il culto isiaco, incontrando un grande favore popolare, cosa che suscitò le ire dell’aristocrazia romana ed l’effetto negativo di mobilitare il senato contro il culto isiaco; De facto portando ad una sorta di messa al bando del culto nel 64 a.C, perseguitando eventuali adepti di tale culto. Nonostante ciò il culto di Iside continuò a diffondersi clandestinamente nell’ultima repubblica, qui arriviamo a Giulio Cesare e Marco Antonio.

Come è noto dalla tradizione romana, durante la guerra civile tra Marco Antonio e Ottaviano, per il predominio politico e militare su roma, Marco Antonio, a causa della sua unione con Cleopatra e la vicinanza ai culti orientali (che altro non significa che, Antonio era divenuto un adoratore di Iside) e la conseguente lontananza culturale dalla tradizione romana, fu abbandonato sia dal senato che dall’opinione pubblica, dall’altra parte Otttaviano, professandosi “campione della tradizione Romana” nel rispetto della legge e dei costumi tradizionali, fu legittimato, a livello pubblico e politico, a procedere contro Antonio, in quanto dal 64 a.c. il culto di Iside era “perseguitato e fuori legge”.

Per queste stesse ragioni, già prima dello scontro tra Antonio e Ottaviano, più precisamente con Cesare e Bruto, i cesaricidi furono considerati “Liberatori di Roma”, per vari motivi politici (ben noti e che qui citeremo appena) in quanto assassino di un aspirante Monarca e in quanto, con l’assassinio di Cesare si restituiva Roma alla repubblica, ma fu anche liberatore “culturale” di Roma, in quanto, uccidendo Cesare, amante di Cleopatra, vicino ai culti Orientali e quindi ad Iside.

La persecuzione del culto isiaco tuttavia non sarà permanente, e anzi, con l’avvento di imperatori come Vespasiano, diventerà non solo legittimo, ma anche ufficiale, al punto che l’imperatore stesso farà coniare, nel 71 d.C, una moneta su cui sarà riprodotta su un lato l’immagine di Iside-Sothis a cavallo del cane e circondata da sei stelle. Questa moneta sarà ripresa in età severiana, quando l’imperatore Settimio Severo fece erigere un tempio dedicato ad Iside nel cuore storico di roma, presso il Campo Marzio, sulla cui facciata era raffigurata la moneta coniata dall’imperatore Vespasiano (creando quindi anche un ponte storico e culturale tra i due imperatori, ma questo è un altro discorso).

In conclusione, per gran parte della storia di Roma, il culto di Iside fu professato nell’ombra o alla luce splendente del sole, questo destino fu comune a molti culti religiosi, compreso il cristianesimo che passò dalla persecuzione più dura, al diventare culto imperiale.

Fonti :

F.Dunand. Le cult d’Isis dans lebassin oriental de la Méditerranée.3 voll. Leiden.Brill.
F.Trotta. I culti non greci inepoca sannitica e romana.L’evo antico.Electa.

Storia Roma, Crescita e Declino di un impero millenario

La storia romana è una storia millenaria fatta di uomini giusti e tiranni, che vede protagonista la più longeva civiltà della storia dell’uomo, è stata modello e fonte di ispirazione per qualunque altro popolo vissuto dopo la sua fine.

Nella sua fase primordiale fu una monarchia, che divenne una repubblica unica nella sua forma, e poi, si trasformò in un impero che avrebbe condizionato l’evoluzione politica dell’intera europa per oltre duemila anni.

Romolo, Numa, Tullio Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, ultimo re, che secondo la tradizione fu esiliato dalla città, e dopo di lui Roma avrebbe giurato che mai più sarebbe stata governata da un monarca, portando così, alla nascita della più grande repubblica mai conosciuta.

La particolarità della Repubblica romana sta nel suo equilibrio di forze determinata da Senato, Consoli e Magistrati, i quali, rappresentavano la perfetta combinazione delle tre forme di governo preesistenti, ovvero l’oligarchia, di cui era impregnato il senato, la monarchia, di cui i due consoli erano un espressione, e la democrazia, manifestata dalla pubblica elezione dei magistrati.
Questo equilibrio però era tutt’altro che stabile, e le lotte di potere tra l’una o l’altra carica non mancarono di turbare questo equilibrio, “fortunatamente” l’ascesa al potere di numerosi uomini giusti (ma anche aspiranti tiranni) portò ad un sempre maggiore equilibrio, puntando sempre di più verso la parità sociale di tutte le classi di censo, dai più ricchi ai più poveri, includendo anche chi non possedeva altro che se stesso.

Roma in questo senso si dimostrerà molto elastica dal punto di vista sociale, alimentando il sogno di un ascesa sociale (che oggi banalmente chiameremmo, il “sogno americano”) dove un uomo, di umili origini, che non possiede altro che se stesso, può arricchirsi fino a diventare l’uomo più potente dell'”impero” più potente dello stesso imperatore. E di “uomini nuovi” esterni alla tradizione politica che riuscirono a scalare le vette del potere, la storia politica e militare di Roma ne sarà piena, e tra i tanti, un nome risuona su tutti, quello del nipote di un esattore, e figlio di un usuraio, che divenne Tribuno Laticalvo (la seconda carica più alta di una Legione) poi Questore di Creta e Cirene, Pretore in Germania Magna ed in fine Imperatore, in seguito al trionfo nella guerra civile che esplose dopo l’assassinio di Caligola, ed il suo nome era ovviamente Tito Flavio Vespasiano.

Ma Vespasiano non fu l’unico protagonista della storia romana ad avere “umili origini” , e stare qui ad elencarli tutti richiederebbe più tempo del dovuto. Ma va sicuramente menzionato il ruolo centrale che i Liberti dell’imperatore Claudio, ebbero nell’amministrazione della “burocrazia” imperiale, ricordando che i liberti erano schiavi liberati, e quindi degli ex schiavi, che dal non possedere nulla, neanche se stessi, si ritrovarono ad amministrare per Claudio, l’Impero, ricoprendo alcune delle cariche più prestigiose del loro tempo, de facto, degli ex schiavi erano tra gli uomini più potenti dell’impero.

La grande mobilità sociale, caratteristica dell’età repubblicana subì un ulteriore accelerazione in età imperiale, con la progressiva estensione della cittadinanza latina e successivamente romana, a tutti gli abitanti dell’impero, alimentando parallelamente la crisi sociale ed economica, iniziata con la riforma mariana dell’esercito nel primo secolo avanti cristo, che trasformava l’esercito da volontario in mercenario, e che, se in fase di conquista era autosufficiente e perfettamente in grado di auto-alimentarsi, in tempi di pace o comunque durante le fasi statiche o difensive della storia territoriale di Roma, la sua natura mastodontica, dovuta alla presenza tra le fila di roma di migliaia di soldati ai quali l’impero doveva fornire cibo, acqua, vino ed un compenso, si dimostrò sul lungo periodo un peso più che una risorsa, conducendo all’inevitabile collasso di un sistema semi millenario.

Il declino di roma a questo punto ci appare come inevitabile, serviva solo un capro espiatorio che dichiarasse la fine dell’impero, ormai attraversato da secoli di stanziante deterioramento, e questo annuncio avvenne per mano di Odoacre che, conquistando e saccheggiando Roma, poté dichiarare ufficialmente la fine dell’impero Occidentale.

Dal quarto secolo infatti l’impero era stato diviso tra occidente ed oriente, e se bene i due “imperi” rappresentassero un unica entità statale, in pratica seguirono realtà evolutive diverse, sia sul piano politico militare che sul piano culturale, e così, mentre ad oriente un nuovo impero prendeva forma vestendo i tradizionali colori di Roma, Roma sprofondava su se stessa, divorata da un evoluzione fuori controllo che l’avrebbe portata a superare i confini politici impregnando culture e popolazioni diverse che in quegli anni iniziavano a definirsi, segnando così l’inizio del Medioevo e con esso, dei processi formativi dei futuri stati nazionali.

Drimaco, l’eroe gentile

I secolo a.C., Roma, periodo repubblicano. Le rivolte servili mettevano alla prova la città ed il suo esercito, ma a scuotere l’Impero ci pensò un solo uomo: Spartaco.

Contadino originario della Tracia, si arruolò nelle milizie romane per estinguere dei debiti; disertò poco dopo, a causa delle condizioni di maltrattamento e razzismo a cui era sottoposto tra le fila romane. Fu presto catturato e reso schiavo, come gladiatore. Nel 73 a.C., insieme ad altri 200 gladiatori con cui condivideva la sorte, si ribellò a Roma dando il via alla terza guerra servile. A lui furono dedicati numerosi film, poemi, libri, serie televisive ma non fu l’’unico capo dei ribelli dell’’età antica; fu senz’altro il più famoso ma abbiamo fonti che attestano di numerose altre rivolte, delle quali abbiamo traccia ma sicuramente anche molte lacune. È assai tangibile l’ipotesi che ci manchino notizie sulla maggior parte delle rivolte.

Un caso degno di nota di cui ci è giunta notizia, ebbe luogo all’incirca nel III secolo a.C. a Chio, un’’isola dell’’Egeo, ove un gruppo di schiavi divenne coeso ed in seguito alla fuga si stabilì su delle colline, dalle quali potevano attaccare facilmente e sistematicamente le case dei padroni. Erano guidati da Drimaco, il quale riuscì a proporre un trattato ai padroni: esso prevedeva che i suoi uomini rubassero solo determinate somme necessarie al sostentamento e che avrebbe arruolato nelle sue file solo schiavi che avevano subìto un trattamento davvero pessimo dai padroni. Una cosa è certa: Drimaco teneva fede alla parola data, gli schiavi fuggirono meno frequentemente.
Nonostante i padroni fossero tacitamente d’’accordo con questa soluzione, offrirono una ricompensa a chi gli avesse consegnato lo schiavo fuggiasco capo dei ribelli, vivo o morto. Nessuno reclamò mai il premio. Non appena Drimaco raggiunse la vecchiaia, incitò il suo amante a decapitarlo ed a riscattare il denaro per la sua testa, così da poter comprare la libertà e far ritorno in patria. Dopo la sua morte i fuggiaschi scatenarono un caos incontrollabile, spesero gran parte del denaro in suo onore e i proprietari terrieri eressero un sacrario a Drimaco, “l’’eroe gentile”… entrambe le parti riconoscevano in lui un benefattore ed erano consapevoli e nostalgici dell’’ordine e della pace che egli aveva portato.

 

Bibliografia:
Spartaco, Theresa Urbainczky

Una vita da Legionario

Qual è la vita del legionario romano? Quali sono le sue mansioni? Come impegna il proprio tempo libero? È difficile da dire, poiché l’Impero Romano ha attraversato quasi mille anni di storia e, inevitabilmente, è mutato nel corso dei secoli.
Ma c’è una peculiarità che caratterizza sia l’esercito romano arcaico sia quello repubblicano che quello imperiale: l’adattabilità. Un elemento, questo, che ai nostri occhi sembra scontato, ma è di fondamentale importanza per capire il successo militare romano. Infatti, rispetto alle altre popolazioni, i romani furono in grado di adattare il loro esercito in base alle caratteristiche del territorio e del nemico. Questa capacità è stata affiancata anche da un’altra particolarità: la disciplina.

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