LINEA GOTICA. L’offensiva finale. Aprile 1945 – Intervista all’Autore Massimo Turchi

Qualche tempo fa, grazie a Diarkos Editore, ho avuto modo di intervistare Massimo Turchi, autore di una trilogia di libri sulla Linea Gotica, la cui ultima fatica si intitola Linea Gotica – L’offensiva Finale, aprile 1945.

Grazie all’editore ho avuto anche la possibilità di sfogliare il libro in anteprima, ma per questioni di tempo, organizzazione e festività, non sono riuscito a realizzare una guida alla lettura in tempo, ma ho avuto il piacere di scambiare comunque qualche email con l’autore e di seguito riporto la nostra intervista integrale.

Introduzione all’intervista a Massimo Turchi

Buongiorno, come anticipato, ecco alcune domande per l’intervista.
Come potrà notare, ho preferito dare più spazio a lei, alla sua attività di ricerca e di divulgazione che non al libro in sé, da storico e divulgatore, ciò che mi interessava capire e raccontare ai miei lettori è cosa l’ha portata a scrivere questo libro, cosa l’ha spinta a scegliere determinate fonti, e cosa l’ha portata a raccontare determinate storie.

Sono tre domande che avrei potuto porre in modo diretto, secco, ma in quel modo, temo si sarebbe persa una parte importantissima che è la sua storia personale in relazione alla linea gotica, che invece è ciò che mi interessa offrire ai miei lettori.

L’Intervista

Di libri che parlano e raccontano le vicende della linea gotica ce ne sono diversi, alcuni, come credo sia anche il suo, portano con sé un’eredità storica, e non ho potuto resistere alla tentazione di cercare di capire quale eredità desidera lasciare ai suoi lettori.

Partiamo dalla domanda più semplice, che quasi certamente le avranno già posto.

Da quel che ho potuto osservare lei ha dedicato una parte significativa della sua vita allo studio della linea gotica, e quindi, banalmente le chiedo, cosa ha acceso in lei questo interesse così profondo?

Nel farle questa domanda ho in mente la prefazione del testo Peccati di Memoria, la mancata Norimberga italiana, di Michele Battini, che fu mio docente di storia politica all’Università di Pisa.

La trilogia della Linea Gotica nasce dai racconti delle persone che hanno vissuto la guerra. Se devo indicare una data, questa è sicuramente il giugno del 2002, quando con l’associazione “Vecchia Filanda” abbiamo organizzato un convegno sulla battaglia della Riva Ridge, combattuta nel febbraio 1945. Per l’occasione abbiamo invitato soldati americani, tedeschi e i partigiani per parlare delle loro esperienze vissute durante la battaglia. Ascoltare i loro ricordi, vedere negli occhi le emozioni che avevano vissuto sulla Riva Ridge mi ha spinto ad approfondire storicamente le vicende belliche. Da quel momento – per me – il luogo dove questa battaglia è stata combattuta, non più stato lo stesso: è diventato catartico. Quindi con l’associazione abbiamo dato vita all’esperienza della metodologia didattica del “diorama vivente” con lo scopo di far “toccare con mano” agli alunni e agli adulti le storie delle persone che su quei monti hanno intrecciato parte delle loro vite e i traumi vissuti.

La seconda domanda è quasi consequenziale alla prima, da quanto ho potuto leggere, il suo interesse e la sua passione per la storia e le vicende che hanno caratterizzato la linea gotica durante la seconda guerra mondiale, l’hanno nel tempo a raccontarla in vari modi e attraverso vari strumenti, uno tra tutti l’associazione “Linea Gotica – Officina della Memoria” di cui ad oggi è presidente.

L’associazione Linea Gotica – Officina della Memoria, nasce proprio da quell’esperienza, con l’obiettivo di proporre una nuova narrazione dei luoghi della memoria: una narrazione a 360 gradi, ovvero dove sono presenti tutti i diversi punti di vista, tenendo però sempre ben presente cosa significava combattere per una parte o per l’altra. È quindi una narrazione che vuole suscitare domande, rompere la dicotomia buono vs. cattivo.

Con la vostra associazione raccontate la linea gotica mantenendo un contatto diretto con i  luoghi della memoria e questo mi porta alla domanda vera e propria.

Quanto è importante, secondo lei, il legame fisico con il territorio per comprendere appieno gli eventi della Linea Gotica e l’esperienza di chi li ha vissuti?

Sì, per noi il luogo è la componente fondamentale della narrazione, è il mezzo dove si riesce a ri-creare il collegamento con l’evento storico. Uno dei nostri obiettivi, se non il principale, è proprio quello di riportare le esperienze vissute dalle persone nei luoghi dove sono accadute.

Da quel che leggevo nel testo, il suo è un approccio narrativo “bottom up“, che per chi non lo sapesse, parte dalle storie locali e dalle esperienze personali per arrivare a temi più generali. In altri termini la sua narrazione è un ibrido tra la metodologia di rilevazione etnografica e la narrazione micro storica. Non mi ha quindi sorpreso trovare nella bibliografia di riferimento un testo di Mario Alberto Banti, anche lui è stato mio docente, di Storia Culturale, all’Università di Pisa.

Leggi la mia “Recensione” di wonderland di Mario Alberto Banti

Volevo quindi chiederle, quali sono le influenze che l’hanno ispirata, se ci sono autori, storici, saggisti, ricercatori, ecc, che hanno ispirato il suo lavoro sia nella metodologia che nella narrazione?

In breve, l’idea di una narrazione di questo tipo è nata spontaneamente, dopodiché ho letto tantissimi libri di molti autori storici, ma anche di psicologi sociali. Il punto è che la guerra, per chi l’ha vissuta, è un trauma che ha avuto delle conseguenze a livello di relazioni familiari più o meno importanti, ovviamente a seconda del tipo di trauma che la persona ha vissuto. Il focus di questa narrazione è però rivolto al pubblico, soprattutto ai ragazzi, in modo da suscitare in essi un interesse e soprattutto un invito a porsi delle domande. Se devo citare un autore cito James Hillman e il suo testo “Un terribile amore per la guerra”, ma ce ne sono moltissimi altri altrettanto importanti.

La maggior parte dei testi legati alla seconda guerra mondiale, o almeno, quelli che generalmente sono più apprezzati da un pubblico generalista, riguardano soprattutto aspetti militari e politici, lei invece, ha preferito le esperienze umane, e in un contesto complesso e delicato come quella parte di mondo tra il 1943 e il 1945, non è facile da gestire, soprattutto a livello personale. Parliamo di traumi, stragi e sofferenze, raccontata sulla base anche di testimonianze dirette. Personalmente quando per alcuni esami e relazioni all’università, mi sono ritrovato a leggere testimonianze di ciò che accadeva quotidianamente lungo la linea gotica, confesso di aver riscontrato non poche difficoltà, soprattutto sul piano emotivo.

Mi viene quindi quasi naturale chiederle, come ha gestito, a livello personale, il carico emotivo derivante dall’immergersi in queste storie così drammatiche per così tanti anni? 

Guardi, ho iniziato a fare le prime interviste nel 1995, poi, in maniera più sistematica a partire dal 2002. Tutte le persone che ho conosciuto o di cui ho letto le testimonianze le porto con me e quando mi reco sui luoghi di memoria, quelle persone, i loro occhi, le loro storie sono lì.

Comunque non è semplice, anche se, a mio avviso, andava fatto.

Il tempo, mi rendo conto, essere un elemento ricorrente in questa intervista, lei ha iniziato a lavorare, in maniera diretta o indiretta, a questo libro, nel lontano 2002, sono passati 23 anni da allora, e in così tanto tempo, immagino che di storie ne abbia sentite tante, di domande ne abbia fatte e ricevute tante, e, prometto che è l’ultima domanda legata al tempo.

Volevo chiederle se e come è cambiato il suo approccio narrativo e storiografico in questo lungo percorso. 

Sì, col tempo l’approccio è cambiato, si è sempre più affinato, per cercare di rendere più efficace la narrazione, dando un risalto maggiore al testimone, senza mai trasfigurare l’umiltà delle persone.

Non so se ha avuto modo di notare, ma i testimoni che ho riportato nella trilogia sono sempre persone semplici: soldati, partigiani, civili, parroci e altro, difficilmente troverà gli alti comandanti, perché quello che mi interessava, e mi interessa tuttora, è la storia delle persone semplici, umili.

Ogni tanto una domanda sul libro forse dovrei farla. Nella prefazione a cura di Mirco Carrattieri, viene evidenzia la presenza di ben trentotto nazionalità sugli Appennini durante quel periodo.

Nel suo lavoro di ricerca e scrittura, come ha cercato di dare voce o rappresentare questa incredibile diversità di esperienze e provenienze che hanno composto il fronte della Linea Gotica?

L’aspetto della multiculturalità della linea Gotica è un aspetto che non viene quasi mai colto e che invece, a mio avviso, rappresenta un enorme interesse. Nella trilogia ho cercato di puntare molto sulla multiculturalità, cercando testimonianze di soldati delle trentotto nazioni (all’epoca, oggi cinquantadue) e delle minoranze all’interno delle stesse nazioni: penso ai maori della Nuova Zelanda, agli irlandesi del Regno Unito e del Canada, ai nativi americani, così come agli afroamericani o ai Nisei, o alle stesse minoranze presenti nell’esercito indiano, ai brasiliani, alle varie confessioni religiose: cattolici, ebrei e molto altro. Persone quindi che provenivano da società molto diverse da quella italiana con la quale hanno interagito e, comunque, lasciato un segno del loro passaggio. Mi permetto di rimandare all’Introduzione al primo volume dove analizzo proprio la complessità e la “ricchezza” della linea Gotica in questo senso. 

Più in generale, un concetto che traspare è che per lei ogni testimonianza e documento rappresentano solo una parte di una storia enormemente più ampia e complessa. Di storie da raccontare lungo la linea gotica ce ne sono infinite, e di fronte a scenari così grandi, densi di elementi, scegliere un punto di partenza, un punto d’arrivo, e una strada da percorrere, può non essere facile.

Come ha affrontato lei la difficile sfida di ricostruire eventi complessi basandosi su fonti spesso parziali, frammentarie o in alcuni casi contraddittorie?

Sì, ha ragione, sicuramente non è stato un lavoro semplice, ho dovuto privilegiare i territori coinvolti nelle direttrici di sfondamento principale delle armate alleate, da quando è iniziata l’operazione di sfondamento della linea Gotica (fine agosto 1944), fino al raggiungimento del fiume Po (fine aprile 1945). Dichiarato così i confini cronologici e geografici, il resto del lavoro è stato quello di ricercare quegli eventi – non solo bellici – funzionali alle azioni di sfondamento della linea Gotica. Con questo lavoro meticoloso di ricerca alcune volte mi è capitato di evidenziare episodi quasi sconosciuti, a scapito di altri sopravvalutati.

Il confronto tra le tante fonti è stato fondamentale, e questo mi ha permesso di arricchire di particolari la narrazione dell’evento, componendo così la complessità che stavo cercando. A volte è capitato – per fortuna in pochissimi casi – di trovare contraddizioni tra le fonti; comunque leggendo a fondo, leggendo anche tra le righe, quelle contraddizioni si sono via via sfumate.

Non ho potuto fare a meno di notare che negli “Aggiornamenti” lei presenta nuove scoperte e, cosa più importante, corregge errori precedenti. Questo ammetto che mi ha colpito, perché dimostra un impegno notevole e costante che ha come fine quello di raccontare gli eventi della linea gotica per ciò che furono, con distacco e professionalità storiografica. Ma mostra anche un evidente desiderio di trasparenza nei confronti del lettore.

La ringrazio per averlo notato. Sì, ho voluto una sezione “Aggiornamenti” per il secondo e per il terzo volume perché dalla pubblicazione dei primi due la ricerca storica è proseguita e mi sembrava doveroso tenerne conto. L’editore poi mi ha concesso di creare una pagina internet gratuita, dove i lettori possono scaricare strumenti utili alla consultazione dei tre volumi e gli ulteriori Aggiornamenti dei libri che verranno pubblicati in futuro.

La domanda che segue a queste osservazioni quindi, non può che essere una. Al di là della ricostruzione storica, qual è il messaggio o l’eredità principale che spera di lasciare ai lettori con questa monumentale opera sulla Linea Gotica? Che per inciso, non mi riferisco al libro, ma all’interezza della sua attività di ricerca e divulgazione della linea gotica.

Cosa vorrebbe che rimanesse, in particolare alle nuove generazioni, di queste “Storie”?

I messaggi sono due. L’invito a visitare i luoghi di memoria e i piccoli musei sparsi che custodiscono le memorie locali degli eventi. Il secondo è di provare a mettersi nei panni delle persone che hanno vissuto – forse sarebbe più appropriato dire subìto – la guerra, per evitare che accada di nuovo.

Considerazioni finali 

L’intervista con Massimo Turchi è stata molto interessante, almeno per me, e spero anche per voi. Parlando e confrontandomi con lui ho potuto notare una reale e autentica passione nel raccontare un angolo di mondo, vicende storiche e storie di persone che di quel mondo e quelle vicende ne sono stati testimoni più o meno diretti.

Si tratta di un sentimento comune che ho riscontrato spesso lungo le vie della linea gotica, il più acceso e caldo fronte della seconda guerra mondiale, un luogo di memoria che fu testimone di massacri indicibili e crimini atroci, dettati dalla più feroce crudeltà umana, camuffata da ideologia politica.

Come saprete ho vissuto per molti anni a La Spezia e i luoghi e memoriali della linea gotica e della guerra civile italiana, ho avuto modo di esplorarli e vederli con i miei occhi, ho avuto modo di conoscere tante persone per le quali quella guerra ufficialmente conclusa 80 anni fa, non è mai finita del tutto. E ancora oggi portano con se le ferite legate alla perdita dei propri cari.

L’impero Moghul e le conquiste militari

All’inizio del XVI secolo si formarono tre grandi imperi islamici che subentrarono al posto di piccoli stati islamici. Questi tre grandi regni erano quello in India dei Moghul, quello persiano dei Safawidi e quello turco degli Ottomani. Si trattava di governi profondamente radicati nel medioevo islamico a causa dell’aspetto religioso, ma tutti esposti in primo piano all’epoca moderna europea, caratterizzata da una ripresa dei commerci e dall’espansione coloniale degli stati europei, fattori che porteranno a dei cambiamenti economici anche all’interno di questi imperi.

La Fondazione dell’Impero Moghul in India

La storia della presenza islamica in India è molto antica e si può far risalire almeno al regno di Muhmud di Ghaznì fondato nella provincia di Khurasan nel 999, anche se le prime invasioni islamiche in India avvennero precedentemente dall’ Afghanistan. A partire dall’inizio del XIII secolo dominò il sultanato di Delhi, governato da una dinastia militare afghano-turca. La presenza islamica in India diventò rilevante nel periodo dell’impero dei Moghul.

L’impero fu un grande regno che nel periodo di massima espansione governò su tutto il subcontinente indiano, senza precedenti. Nel periodo che va tra il 1556 e il 1658 l’impero islamico dei Moghul è stato un potente stato centralizzato, organizzato con una capillare burocrazia, un esercito e un impero con una fede aperta e tollerante, dove vi fu una sintesi religiosa tra induismo e islamismo.

La fondazione risale al regno Zahir-ud-Din Muhammad Babur, un condottiero turco erede in linea materna di Gengis Khan, e in linea paterna, da Tamerlano, che riuscì a stabilire un regno nel nord dell’India nel 1526, sfruttando le rivalità tra gli emiri locali e il disordine provocato dalle guerre dei Safavidi con gli Uzbechi. Oltre ad essere un conquistatore insaziabile, fu un grande uomo di cultura: le sue memorie – scritte in prosa – sono considerate un’opera importante dell’intera letteratura turca. Nel 1504 e nel 1506 Babur conquistò rispettivamente Kabul e Kandahar e nel 1526 anche l’intera India del nord, grazie ad una cavalleria e ad una tecnica bellica nettamente superiori.
Il regno di Babur durò solo quattro anni a partire dalla conquista della città di Agrae e la proclamazione d’imperatore dell’Hindustan, ma gli eredi riuscirono a consolidare il regno. In particolare due suoi eredi: Humayun e soprattutto Akbar.

L’Era di Akbar: Consolidamento e Apogeo dell’Impero Moghul

Akbar, il terzo padishah, fu il vero creatore della potenza Moghul e regnò dal 1556 al 1605: è considerato il più importante all’interno di una dinastia dove vi erano personaggi straordinari, tanto da essere ricordato come una delle figure più rappresentative della storia indiana.

I primi anni del regno non furono tali da far presagire tale grandezza: fino al 1560 fu governato con durezza dal reggente Bairam Khan. Sotto la sua guida, vennero sconfitti gli ultimi principi Sur e i Moghul occuparono alcuni centri chiave come Lahore, Multhan, Jaunpur che si aggiunsero a Delhi e Agra. Questa espansione si arrestò per i contrasti tra Akbar e Bairam Khan stesso, che si conclusero con la rimozione dall’incarico di quest’ultimo nel 1560. Successivamente a questi avvenimenti la gestione della nuova linea politica venne lasciata ad una fazione capeggiata dalla nutrice di Akbar e da suo figlio Adam Khan. Egli riprese l’espansione con la spedizione contro il sultanato del Malwa. Presto però i rapporti tra il padishah e Adam Khan si deteriorano e le tensioni tra i due esplosero quando Adam Khan uccise il primo ministro, una delle figure più vicini ad Akbar.

Le cronache raccontano che Adam Khan si recò all’ingresso dell’harem sporco di sangue della vittima e l’imperatore lo affrontò a mani nude, stordendolo e poi dando l’ordine di gettarlo da uno dei balconi del palazzo: dopo tale episodio la madre si suicidò. Tutto ciò è descritto nelle cronache dell’epoca e rappresentato anche nelle miniature.

Riorganizzazione dello Stato e Strategie Militari di Akbar

Il dominio Moghul in quella parte dell’India del Nord continuava ad essere quello di un esercito d’ occupazione in un territorio vasto ed ostile: era circondato da una moltitudine di stati in armi e anche la società indiana era fortemente militarizzata. L’esercito in questa fase era poco organizzato e con forti limiti strutturali, formato da 51 distaccamenti al servizio di nobili legati al sovrano da vincoli di fedeltà. La maggior parte di essi, essendo di origine turca e uzbeca, considerava il sovrano un primus inter pares, quindi questo non assicurava la loro fedeltà al sovrano, che doveva essere guadagnata ogni volta.

La minoranza – formata da circa 16 nobili – era di origine persiana, influenzata quindi dall’ideologia imperiale, cui si doveva fedeltà e obbedienza al sovrano. Akbar per modificare questa situazione, attuò una politica che aveva due obbiettivi: il controllo sulla nobiltà e uno stato in grado sbarazzarsi di ogni possibile avversario.

Queste strategie comportarono la possibilità di concentrare tutte le risorse per alcune battaglie rilevanti condotte dal padishah in persona, che si rivelò un ottimo stratega e conquistò prima del 1562 tutta l’India del Nord, l’Afghanistan e il Kandesh. La battaglia di Panipat, per quanto vinta di stretta misura, diede la fama a Akbar di essere invincibile nelle battaglie in campo aperto, mentre la conquista di alcune fortezze importanti tra il 1658 e il 1569 dimostrarono la sua abilità anche nella guerra di posizione.
La fama di Akbar – e dell’esercito Moghul – fu di essere invincibili sia nella guerra di posizione che in quella in campo aperto. Ciò è dimostrato anche dal fatto che alcuni nobili e regni accettarono di sottomettersi a lui in cambio della nobiltà Moghul.

Articolo a cura di Sbalchiero Francesco Sunil

Fonti

Hans Kung, Islam, Bur, Milano, 2015
Michelangelo Torri, Storia dell’India, Laterza, Bari, 2010
Raffaele Russo, Islam: storie e dottrine http://www.academia.edu/1900477/Islam_storie_e_dottrine

Mussolini tagliò il Debito Pubblico: Verità o Propaganda?

La teoria che Mussolini ridusse il debito pubblico italiano è infondata; in realtà, il debito crebbe e l’Italia pagò un prezzo alto per presunti “tagli”.

Periodicamente torna a circolare su diversi quotidiani e social la storia per cui Benito Mussolini sarebbe stato l’unico uomo ad aver tagliato il debito pubblico italiano. Questa stravagante teoria non è nuova, ed emerge spesso negli ambienti di un certo orientamento politico, vicino agli ideali di Mussolini e del Fascismo, ma corrisponde alla verità o si tratta solo di Propaganda?

Come ogni questione storica, la risposta purtroppo non è semplice, e liquidare il tutto ad una frase non è semplice, ma, al di la della complessità della vicenda, una cosa è certa, dire che Mussolini tagliò il debito italiano è falso, ma andiamo con ordine.

Il contesto economico pre-fascista: L’eredità della Grande Guerra.

Prima dell’ascesa al potere di Mussolini e l’avvento del fascismo, l’italia si trovò ad affrontare diversi e gravi problemi di natura economica, elemento che accompagnò tutti i paesi europei impegnati nella grande guerra.

Per riavviare il paese, riconvertire il sistema produttivo e rilanciare l’economia, l’italia fece ricorso all’emissione di moneta e a molteplici interventi da parte di Banca d’Italia per “salvare” le aziende in difficoltà. La nuova moneta immessa sul mercato era solo in parte coperta dall’emissione di titoli di stato e di conseguenza la moneta italiana andò in contro ad una forte svalutazione.

L’alta inflazione che ne derivò andò a colpire soprattutto le fasce più povere della popolazione, principalmente lavoratori dipendenti che, allo svalutarsi della moneta ed il conseguente incremento dei prezzi, non videro corrispondere un aumento dei salari.

In questo clima economico, fortemente sfavorevole e di grande tensione si verificarono gli avvenimenti del famoso biennio rosso (1919-1920) che causarono gravi disordini in tutto il paese e spinsero molti lavoratori impoveriti a sostenere il Fascismo poiché, neanche Giovanni Giolitti, che in passato era stato protagonista di una stagione splendente per l’economia italiana, riuscì a risolvere la crisi e sanare il debito crescente.

Questa fu la situazione che spianò la strada alla prese di potere da Quando nell’ottobre del 1922 Vittorio Emanuele III affidò il governo a Mussolini, l’italia si trovava in una situazione stagnante, con un enorme debito crescente alimentato da una moneta molto debole ed un enorme spesa statale.

Questa lunga premessa può sembrare noiosa, ma è fondamentale per capire esattamente se Mussolini riuscì a tagliare realmente il debito, se non lo ridusse ma riuscì comunque a contenerlo o se invece provocò un incremento del debito pubblico italiano.

La politica economica fascista: Ruolo di Mussolini e gestione De’ Stefani (1922-1925).

A questo punto bisogna aprire una breve parentesi sull’orientamento economico del regime, la politica economica fascista, detta della terza via, si colloca in un limbo, una zona grigia intermedia che derivavano dall’orientamento dei vari ministri delle finanze, dall’ideologia fascista e da varie contingenze nazionali e internazionali. E a tal proposito è importante ricordare che, se bene Accentrò nelle proprie mani numerosi ministeri ed esercitò grande influenza e pressioni sui ministeri che non erano di sua competenza, Mussolini non fu mai ministro delle Finanze, del Commercio e del Tesoro.

Mussolini fu ministro dell’Areonautica, degli Esteri dell’Africa italiana, delle Colonie, delle Corporazioni, della Guerra, dei Lavori Publici e della Marina, ma nessuno di questi ministeri era in grado di intervenire direttamente sul debito, e anzi, i suoi ministeri erano quelli che assorbirono maggiori risorse economiche, giocando de facto un ruolo attivo nell’incremento e non nella riduzione della spesa, ma andiamo con ordine.

Sul piano puramente linguistico possiamo dire con assoluta certezza che Mussolini, attraverso i suoi ministeri, non fece nulla per ridurre il debito, resta però da capire se invece il governo fascista, nel suo complesso, riuscì in qualche modo a ridurre il debito o comunque a contenere la spesa limitando l’aumento del debito.

Tra il 1922 ed il 1925, il ministero delle finanze e del tesoro fu affidato ad Alberto De’ Stefani che attuò una politica di grandi tagli alla spesa pubblica, e cercò di incrementare le entrate, con l’intento di rimettere in ordine il bilancio dello stato. Una politica comune in situazioni di questo tipo, da Agostino Magliani (ministro delle finanze agli albori della prima crisi economica del regno d’italia nell’ultimo quarto dell’ottocento) a Mario Monti.

Per quanto riguarda la riconfigurazione delle entrate, De’ Stefani non intervenne aumentando le tasse come spesso avviene, ma al contrario, osservando che una fetta enorme della popolazione era esclusa dalla partecipazione contributiva, fece in modo di allargare la base, tassando quelle fasce sociali fino a quel momento escluse, e allo stesso tempo, ridusse le aliquote per categorie sociali ritenute più inclini all’investimento.

Detto più semplicemente, tassò le fasce più povere della popolazione, fino a quel momento esonerati e ridusse le tasse all’alta e media borghesia, producendo così un incremento delle entrate dovuto al maggior numero di contribuenti.

L’intento di De’ Stefani era quello di rilanciare l’iniziativa privata e ridurre le spese dello stato, spese che, in quel momento, erano rappresentate soprattutto dai salari di dipendenti pubblici, e di conseguenza il taglio della spesa si configurò come un taglio netto nel personale dei settori “improduttivi” dello stato, licenziamento di circa 65.000 impiegati pubblici e circa 27.000 ferrovieri e favorendo l’ingresso dei privati in alcuni settori, fino a quel momento sotto il controllo dello stato, come il settore assicurativo, ferroviario e telefonico.

In termini numerici gli interventi di De’ Stefani furono positivi e il bilancio, almeno quello statale, fu riportato in pari, mentre quello degli enti locali non fu mai parificato durante tutto il ventennio. In ogni caso, questi interventi favorirono una leggera ripresa e innescarono un lieve processo di crescita per il paese che però non risolse il problema monetario, la lira valeva sempre meno e anche se, in termini numerici il debito cresceva più lentamente, il minor valore della lira, rendeva più difficile un suo risanamento.

Fin dai tempi dalla grande guerra la Banca d’Italia si era impegnata nel sostegno delle imprese e banche immobilizzate dalla riconversione e questo impegno continuò durante i primi anni del fascismo, producendo tra il 1922 e il 1925 un incremento di liquidità che portò ad un ulteriore ondata inflazionistica, alimentata da un peggioramento della bilancia dei pagamenti.
Nel 1925 De’ Stefani promosse alcuni provvedimenti che però si rivelarono insufficienti e portarono ad un tracollo della borsa italiana e al fallimento di numerose aziende italiane.

La gestione Volpi (1925-1928) e la ristrutturazione del debito estero.

Gli industriali rappresentavano lo zoccolo duro del fascismo ed avevano molta influenza sulle azioni del governo, così, per non perdere il loro consenso, Mussolini sostituì il ministro delle finanze, assegnando l’incarico a Giuseppe Volpi.

Volpi rimase in carica dal 1925 al 1928 e durante il suo mandato giocò un ruolo decisivo per le sorti economiche e di bilancio dell’Italia.

Sul piano internazionale il 1924, con il piano Dawes aveva visto la fine alla questione delle riparazioni tedesche e si stava valutando un ritorno delle nazioni al gold standard per stabilizzare le monete, idea nata in seno al trattato di Versailles.

Nonostante questo però, la forte svalutazione della lira, il peggioramento della bilancia commerciale e numerosi altri fattori speculativi, non resero semplice il lavoro di Volpi e come se non fosse abbastanza, il fallimento del rinnovo dei BOT venticinquennali nel 1924, dovuto alla grande richiesta di liquidità di banche e privati, impedì all’Italia di emettere nuovi titoli di stato.

Nel 1925 il bilancio interno ufficialmente era in pari, ma nei fatti non lo era, nel bilancio infatti non erano stati conteggiati i titoli di stato da ripagare e l’italia, fortemente indebitata, non era in grado di ripagare i propri debiti.

Volpi decise quindi di agire in sintonia con la Banca d’Italia che sostenne il cambio, riuscendo a raggiungere un accordo con gli in investitori americani più favorevole in termini assoluti, ma va precisato gli investitori americani raggiunsero accordi simili in tutta europa e tra i tanti, l’accordo italiano fu quello “meno morbido“, il merito di Volpi non fu quindi quello di aver trovato un accordo favorevole, come spesso si dice, ma fu quello di aver trovato un accordo.

Sul finire del 1925 gli il governo statunitense accordò all’Italia un prestito, noto come Prestito Morgan, il cui intento era quello di risollevare la lira, di fatto acquistando parte del debito pubblico italiano. Sulla stessa linea nel gennaio del 1926 l’italia trovò un accordo simile con il regno unito. Secondo questo accordo l’italia cedette al regno unito la propria quota di riparazioni tedesche, gestite della Cassa autonoma di ammortamento dei debiti di guerra, costituita il 3 marzo 1926.

Analisi critica del “taglio”: Un pareggio di bilancio pagato a caro prezzo.

Grazie a questo accordo l’italia riuscì a ripagare parte dei propri debiti esteri, rinunciando al flusso costante di ripartizioni di guerra tedesche.

A questo punto, in termini numerici l’italia era ufficialmente in pari con il bilancio, ma questo pareggio come detto, va contestualizzato e il contesto è quello di un paese che ha dovuto ricorrere letteralmente al baratto.

L’italia ha “cancellato” il proprio debito consegnando ai propri creditori tutto quello che aveva, l’italia ripaga i propri creditori cedendo titoli esteri acquistati dal tesoro in precedenza e rinunciando alle proprie riparazioni di guerra, dal valore di diversi milioni di marchi pagati in oro ogni anno, pagamenti che la Germania avrebbe interrotto qualche anno più tardi con una decisione unilaterale in seguito all’avvento del Nazismo e di Hitler, e che avrebbe ricominciato a pagare nel secondo dopoguerra.

Il Trattato di Versailes aveva imposto alla Germania il pagamento di 132 miliardi di marchi oro, e parte di quell’oro sarebbe andato all’Italia, e anche se rateizzato, la quota italiana delle riparazioni di guerra aveva un ammontare complessivo enormemente superiore al proprio debito.

Conclusione: La smentita storica dell’affermazione sul risanamento del debito.

In conclusione, se è vero che sul piano linguistico è falso dire che Mussolini tagliò il debito, ma nei fatti questo taglio è riconducibile a Mussolini, allo stesso tempo, è vero dire che il fascismo tagliò il debito, ma nei fatti, questo taglio è costato all’Italia miliardi in oro, avrebbe contribuito ad alimentare una progressiva e crescente svalutazione monetaria e produsse, parallelamente alla cancellazione del debito, l’impossibilità per l’italia di ottenere nuovi prestiti e finanziamenti, trascinando il paese verso un progressivo impoverimento generale che non sarebbe stato possibile disinnescare se non fosse stato per gli aiuti postbellici, ricevuti dopo la seconda guerra mondiale.

Dire quindi che Mussolini e il fascismo hanno “sanato il debito pubblico italiano” è la cosa più falsa che si possa dire.

Fonti e letture consigliate

V.Zamagni, Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie storica, in “Rivista di storia economica”, Il Mulino, 3/1988, dicembre.
P.Frascani, Finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni trenta.
R. de Felice, Mussolini il fascista, la conquista del potere, 1921-1925.
S. Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza fra Giolitti e Mussolini.
G.Mele, Storia del debito pubblico italiano dall’unità ai giorni nostri, Tesi di laurea presso università Luiss, Dipartimento di Economia e Management Cattedra di Storia dell’economia e dell’impresa, A.A. 2014/2015.

Elon Musk prende le distanza dai Dazi di Trump e i Dazi: Rottura o strategia di “Brand Revitalization”?

Nelle ultime settimane non sono passate inosservate le numerose “trasformazioni” (decisamente troppo repentine), i cambi di posizione e atteggiamento di Elon Musk, il tutto magistralmente e sistematicamente giustificato dalla sindrome di asperger.

L’effetto più evidente di questo “nuovo” Musk che si sta mostrando in queste settimane lo abbiamo nelle dinamiche tra il patron di Tesla e il presidente Trump. Il miliardario che fino a qualche settimana fa era pronto a difendere a spada tratta Trump su qualsiasi posizione avesse assunto, dopo la sconfitta in Winsconsin, ha decisamente cambiato marcia ed ha iniziato a contestare punti fermi della politica di Trump, che lo stesso Musk aveva ampiamente sostenuto in campagna elettorale. Si pensi alla politica dei Dazi doganali fortemente voluta da Trump, ampiamente annunciata in campagna elettorale e sulla quale, in passato, lo stesso Musk si era dimostrato totalmente allineato.

Musk cambia rotta?

Questo cambio di rotta non sembra casuale, e non è il primo.

Musk nella sua storia personale, ha cambiato molte volte posizione, allineandosi il più delle volte con temi di tendenza e fortemente sostenuti dall’opinione pubblica, insomma, una vera e propria banderuola che è sempre andato là dove soffia il vento, e che con la discesa in campo, al fianco di Trump, ha tirato troppo l’asticella, assumendo posizioni radicali e ampiamente contestate che gli hanno causato la perdita di diverse centinaia di miliardi di dollari.

In quest’ottica, un cambio di posizione così radicale e repentino appare come una goffa strategia di brand revitalization, da parte di un uomo convinto che il mondo sia popolato da idioti… e su questo forse non ha poi tutti i torti…

Cos’è la “Brand Revitalization”?

Ho parlato di “brand revitalization” (rivitalizzazione del marchio) ma che cos’è? Si tratta di un processo strategico attraverso cui un’azienda, un marchio, o come in questo caso caso una figura pubblica, cerca di rinnovare e rinvigorire l’immagine del proprio brand che ha perso attrattiva, rilevanza o credibilità nel tempo. Insomma , cerca di svecchiare e/o ripulirsi e in questo caso specifico, non sarebbe tanto una questione di svecchiamento, quanto più di “pulizia”. 

Al di là del caso specifico, l’obiettivo della brand revitalization è quello di riposizionare il brand nella mente del pubblico, adattandolo ai cambiamenti del mercato, ai nuovi valori sociali o per correggere errori passati che ne hanno danneggiato la sua reputazione. Questa trasformazione può avvenire attraverso cambiamenti dei valori comunicati, dei messaggi, delle partnership, ecc. 

Il Caso Musk: Politica e Immagine

Come anticipato, non è la prima volta che Musk fa un’operazione di questo tipo, basti pensare che, prima della Pandemia, Musk è stato un acceso sostenitore di temi di inclusività ed ambientalismo, promotore di energie rinnovabili e pulite, tecnologie a basso impatto ambientale ecc. Poi con la pandemia ha cambiato completamente rotta, diventando praticamente un negazionista dei cambiamenti climatici e schierandosi apertamente contro le politiche di inclusione, fino ad arrivare a sostenere personalità con posizioni fortemente xenofobe e intolleranti nei confronti delle minoranze. 

In definitiva, Musk è passato dall’essere uno dei “nemici pubblici” più attaccati e contestati dall’estrema destra USA ed UE nel 2019, secondo solo a Soros e Bill Gates, ad essere nel 2024 il più grande sostenitore dell’estrema destra in USA ed UE, ed ora, a poco più di 2 mesi dall’insediamento di Trump alla White House, Musk ha iniziato una nuova trasformazione.

Come un rettile che cambia pelle con le stagioni, Musk ha iniziato a dismettere i panni del Trupiano, in cerca di una nuova identità più “accettabile” dall’opinione pubblica globale.

Parliamo di una figura estremamente polarizzante che negli anni ha costruito parte del proprio personal brand sull’immagine dell’innovatore visionario, fuori dagli schemi, ribelle e controcorrente, elemento quest’ultimo che spesso lo ha portato ad assumere posizioni forti e radicali su temi estremamente controversi e divisivi. 

E se questa strategia in passato gli ha sempre portato “fortuna” , l’ultima pelle indossata gli ha portato più danni che benefici, alienandogli una parte significativa del pubblico che in passato lo sosteneva, tra cui anche investitori e potenziali partner commerciali.

Le sue uscite pubbliche, spesso impulsive e provocatorie, e le sue prese di posizione politiche hanno iniziato a proiettare diverse ombre sulle sue aziende, causandogli perdite senza eguali nella storia. 

Stando ai diversi report e analisi di mercato, ad oggi la sua immagine personale è considerata un fattore di rischio, ragione per cui diversi fondi di investimento hanno prontamente liquidato i propri investimenti in aziende associate a Musk, causando un crollo nel valore di titoli come Tesla, crollo che è stato amplificato dalla sfiducia dei consumatori.

La Strategia di “Pulizia” del Brand

Il recente, apparente, ammorbidimento delle posizioni di Musk e le prime prese di distanza da Trump, come la volontà di lasciare il DOGE entro qualche mese, o le aperte critiche ai Dazi imposti dal presidente, possono essere facilmente interpretati come un primo tentativo di “ripulire” il proprio brand personale. Prendere le distanze da figure e politiche divisive, come i dazi sostenuti da Trump (che peraltro potrebbero danneggiare le catene di approvvigionamento globali da cui dipendono le sue stesse aziende), potrebbe essere una mossa finalizzata a Riconquistare Credibilità e Appeal, ma soprattutto, potrebbe essere una mossa per proteggere le sue aziende. Si pensi alla fuga massiva di utenti da X (ex Twitter), il cui valore è passato in meno di due anni da 44 miliardi a 12 miliardi, o alle azioni Tesla, il cui valore, fortemente accresciuto dopo l’elezione di Trump, è tornato ad aprile 2025 ai livelli di ottobre 2024 , registrando un calo di oltre il 42,23% negli ultimi 3 mesi. 

Conclusione

Il presunto cambio di rotta di Elon Musk non è necessariamente un’abiura delle sue convinzioni passate, anche perché non abbiamo idea di quali siano realmente le sue convinzioni. Musk negli anni ha cambiato innumerevoli posizioni, rimanendo costante su un unico punto. Il suo primo e unico interesse è tutelare se stesso, ed è pronto ad abbandonare qualsiasi partner in qualsiasi momento pur di salvarsi.

Appare quindi abbastanza evidente come le sue critiche ai dazi di Trump, che lo stesso Musk aveva sostenuto in campagna elettorale, non siano altro che una grottesca strategia di brand revitalization, costruita partendo dall’assunto che l’opinione pubblica mondiale non se ne accorgerà. 

L’obiettivo delle critiche e l’allontanamento da Trump è chiaro e riassumibile nello slogan, MMGA, Make Musk Great Again, rendere il brand “Musk” nuovamente appetibile a consumatori e investitori, così da rendere meno rischiose le collaborazioni e partnership con le sue aziende e iniziative. 

Musk ha puntato sulla stupidità. Resta da vedere quanto questa strategia sarà efficace, e soprattutto se avrà puntato correttamente, o se questa scommessa segnerà definitivamente la sua rovina. Personalmente temo che se non nel breve periodo, nel medio e lungo termine riuscirà a ripulire il proprio brand.

La crisi del Trecento: Quali furono le cause?

Nel corso del primo Trecento l’Europa attraversò un periodo di forte crisi che ha influenzato il commercio internazionale e intercontinentale. Come si arriva a questo? Quali sono le cause?

Cambiamento climatico

Una delle cause che hanno portato ad una crisi del corso del Trecento potrebbe essere legata ad un cambiamento del clima con un abbassamento delle temperature. Calo delle temperature e inondazioni causate dall’eccessivo disboscamento delle foreste hanno portato ad una minor disponibilità di materie prime nell’edilizia, artigianato e la carenza di fauna selvatica incrementando l’avvento delle carestie.

Commercio, monete e crisi finanziaria

Un altro problema che ha portato alla crisi del Trecento è stata la carenza di metallo prezioso utilizzato per la coniazione di monete. La mancanza di materiale, avrebbe messo in crisi il commercio, soprattutto quello con l’Estremo Oriente. Mancando i contanti, questi divennero cari e i banchieri e finanziatori che ne avevano in quantità chiedevano degli interessi troppo alti ai mercanti. Questa situazione portò ad una crisi finanziaria alimentata dal fallimento delle banche italiane e in particolare delle società dei Bardi e dei Peruzzi. Queste due società avevano finanziato il Re Edoardo III d’Inghilterra durante la guerra contro la Francia ma, quando il sovrano dichiarò che non li avrebbe rimborsati, dovettero dichiarare il fallimento. Inoltre, le società avevano raccolto i risparmi dei privati ma anche questi furono coinvolti dalla crisi, peggiorando la loro posizione.

La peste del 1348

In questo clima di incertezza generale, nel 1348-1350 in Europa si diffuse un’epidemia di peste. La malattia iniziò a diffondersi nel 1347 in Asia centrale arrivando fino alla colonia genovese di Caffa, in Crimea. Successivamente, attraverso le navi si estese a Costantinopoli, Sicilia e Genova. Oltre all’Italia, furono colpite: Spagna, Francia, Germania, fino al Corno d’Africa. La peste veniva trasmessa dal batterio della pulce del ratto che, pungendo l’uomo, lo contagiava. Il tasso di mortalità fu molto elevato, in Europa morì un terzo della popolazione.

La ripresa

L’epidemia di peste fu un evento molto traumatico per la popolazione europea anche se migliorò le condizioni di vita del popolo. La riduzione demografica ebbe come conseguenza una maggior disponibilità di risorse ed un calo della manodopera e quindi un aumento dei salari. La crescita dei salari portò ad un calo dei prodotti alimentari poiché la produzione agricola sovrabbondava per una popolazione ridotta. Tutto questo permise alle famiglie di spendere il denaro per altro: vestiti, edilizia, arredamento. Chi risentì della crisi del Trecento furono i commerci intercontinentali che ridussero la loro importanza. I banchieri toscani acquisirono nuovamente importanza riorganizzandosi in compagnie più piccole, attente agli investimenti ed evitando di prestare somme troppo elevate.

Le origini del concetto di Bisessualità

Il concetto di bisessualità viene usato per la prima volta nel 1886, ed è inizialmente considerata una forma di malattia mentale.

La storia della bisessualità è antica come l’uomo, come ci insegna Eva Cantarella nel suo libro Secondo natura, la bisessualità nel mondo antico, tuttavia il concetto di bisessualità è relativamente recente, soprattutto il suo utilizzo applicato alla sfera sessuale.

In questo post andremo alle origini del concetto di bisessualità, applicato alla sfera sessuale cercando di decifrare il contesto storico culturale in cui questo concetto appare per la prima volta.

Il concetto di bisessualità

Il concetto di bisessualità è un concetto coniato nel XIX secolo e originariamente apparteneva al mondo della botanica, ma, sul finire del secolo, venne preso in prestito dalla psichiatria tedesca e utilizzato nello spettro delle malattie mentali.

Il termine bisessuale venne utilizzato per la prima volta in riferimento alla sessualità, nel 1886, nel trattato Psychopathia Sexualis di Richard Freiherr von Krafft-Ebing.

Nella stessa opera appaiono anche per la prima volta i termini Sadismo e Masochismo, derivati dal nome del “marchese De Sade”. Questi due concetti sono stati coniati di proprio pugno da Krafft-Ebing, diversamente il termine bisessuale, come anticipato, è stato preso in prestito dalle scienze botaniche, dove era utilizzato da oltre mezzo secolo.

Psychopathia Sexualis è un testo molto controverso e alo stesso tempo rilevane, non tanto per le proprie teorie ma per il ruolo che ha ricoperto nella storia della sessualità, si tratta infatti di uno dei primissimi studi sul tema, purtroppo però, è un testo figlio del proprio tempo, scritto sul finire del XIX secolo da un uomo del XIX secolo.

Nel testo lo psichiatra tedesco si concentra soprattutto sul tema dell’omosessualità maschile, e, insieme ai tre concetti sopracitati, la inserisce tra le “patologie sessuali” o più comunemente parafilie.

Nella sua opera Krafft-Ebing fonde insieme le teorie di psichiatrica di Karl Ulrichs alla teoria della malattia di Bénédict Morel, arrivando a concludere che “la maggior parte degli omosessuali soffre di una malattia mentale“.

Il testo, estremamente popolare all’epoca, per il quale in appena 6 anni, tra il 1886 e il 1892 vennero realizzate 7 diverse edizioni (dalla settima edizione il testo è stato tradotto anche in lingua inglese), è stato considerato per molto tempo un pilastro delle scienze psichiatriche ed ha avuto una fortissima influenza sulla prima psichiatria forense, nonostante ciò, già dalla prima pubblicazione è stato considerato estremamente controverso e aspramente criticato da diversi ambienti.

Controversie legate al libro di Krafft-Ebing

Come anticipato, il libro, già nel 1886 suscitò scalpore e rabbia, soprattutto negli ambienti ecclesiastici e la chiesa fu tra i più accesi detrattori delle teorie di Krafft-Ebing, anche se, la motivazione delle critiche, purtroppo depone troppo a loro favore del mondo ecclesiastico.

Per la chiesa del XIX secolo, gli uomini bisessuali ed omosessuali erano peccatori, non malati e la malattia mentale costituiva, una forma di “assoluzione morale” dei peccatori che la chiesa non poteva accettare.

In pratica la chiesa attaccava le teorie di Krafft-Ebing perché, considerando omosessuali e bisessuali dei malati di mente, li assolveva dai propri peccati e ciò era inammissibile, in altri termini la malattia mentale era considerata una scusa, una giustificazione, per compiere atti contro natura.

Sul finire del XIX secolo e gli inizi del XX, la bisessualità maschile e l’omosessualità maschile, si trovarono sotto il fuoco incrociato della scienza dell’epoca, che li considerava malati mentali e della chiesa che li considerava peccatori immorali. Diversamente, la bisessualità femminile invece era “accettata” o per meglio dire, tollerata, e in alcuni casi richiesta, soprattutto nei bordelli… ma questa è un altra storia.

Società segrete, poteri occulti e complotti, di Roberto Paura | Guida alla lettura

Guida alla lettura del saggio Società Segrete, poteri occulti e complotti di Roberto Paura, edito da Diarkos.

Lo scorso agosto Diarkos Editore mi ha inviato il libro di Roberto Paura, Società Segrete, poteri occulti e complotti, edito da diarkos, al fine di realizzare una guida alla lettura o comunque una recensione.

Ho appena finito di leggerlo e queste sono le mie prime impressioni, seguirà la guida alla lettura e forse un intervista all’autore per il podcast L’Osservatorio.

Prima di cominciare con l’analisi e guida alla lettura, come al solito, voglio aprire una parentesi sull’Autore.

Chi è Roberto Paura?

Roberto Paura è un giovane divulgatore scientifico, laureato Relazioni e Politiche Internazionali presso l’Università di Napoli “L’Orientale” che ha collaborato e collabora con diverse realtà divulgative, tra cui le riviste i Il Tascabile, L’Indiscreto, Delos Science Fiction, e la rivista Query del CICAP.

Tra i suoi libri incontriamo titoli di diverso genere, che si occupano di storia e scienza, soffermandosi, sul piano storico, soprattutto sul periodo illuminista, in particolare il periodo che va dalla rivoluzione francese alla caduta di napoleone, attraverso i libri La strada per Waterloo. Declino e caduta dell’Impero napoleonico, Odoya, Bologna, 2014, ISBN 978-8862882415, Storia del Terrore. Robespierre e la fine della Rivoluzione francese, Odoya, Bologna, 2015, ISBN 978-8862882811 e Guida alla Rivoluzione francese, Odoya, Bologna, 2016, ISBN 978-8862883276.

Oltre a questo, Roberto Paura è fondatore e promotore dell’Italian Institute for the Future, un associazione che si pone l’obiettivo di diffondere in Italia i futures studies e la futurologia sociale, una branca di ricerca, e soprattutto di pensiero, diffusasi a partire dagli anni 50, che ha come obbiettivo “lo studio del futuro”, ovvero l’analisi dell’attualità nel tentativo di individuare la direzione che l’umanità sta prendendo.
Conosco poco questo settore disciplinare, se interessati vi rimando ad un articolo di Roberto Cobianchi, in cui racconta i futures studies. Cercando in rete è presente anche un articolo dello stesso Roberto Paura sui futures studies.

Inquadrato l’autore, cerchiamo di capire il libro, e, come in tutte le mie guide alla lettura, voglio soffermarmi soprattutto su quelli che reputo i difetti e le mancanze, in modo che, grazie a questa guida, la lettura del libro possa essere il più possibile chiara e semplice.

Osservazioni generali sul libro Società Segrete, poteri occulti e complotti.

Cominciamo con il dire che la prefazione/introduzione in cui si parla e osservano le fallace della teoria cospirativa QAnon, raccontandone la genesi, gli elementi caratterizzanti. L’introduzione è a mio avviso la parte migliore dell’intero libro perché permette al lettore di partire dall’attualità, per andare poi a studiare fenomeni analoghi nel passato, come le varie teorie cospirative che si sono susseguite nei secoli. Il tutto risulta molto interessante, così come è molto interessante il racconto e la ricostruzione delle varie teorie cospirative che viene fatto nell’intero libro attraverso i vari capitoli dedicati alle varie teorie.

Per come è strutturato il libro può essere letto in ordine sparso, nel senso che, i vari capitoli non sono propedeutici al capitolo successivo, si può quindi scegliere la teoria cospirativa o “società segreta” che si preferisce o si reputa più interessante, e leggere ciò che l’autore ha scritto, indipendentemente dal resto del libro.

Nel complesso il saggio si organizza come una serie di racconti storici, ricchi di dettagli e informazioni, anche se, da per scontate alcune informazioni e passaggi che, a mio avviso, sarebbe stato meglio includere nel libro al fine di fornire al lettore una una maggiore comprensione dei fenomeni trattati.

Senza troppi giri di parole, il libro è interessante, ma ha delle mancanze, che lo penalizzano molto. Mancano delle informazioni chiave che, se inserite, avrebbero alzato di molto il valore dell’intero volume e reso la comprensione dei fenomeni storici analizzati, molto più semplice anche per lettori inesperti. Senza queste informazioni è purtroppo molto facile cadere in un errata interpretazione del fenomeno e trarre conclusioni errate.

Il saggio di Roberto Paura presenta però anche un altro “difetto” se così lo si può chiamare, relativo alle fonti utilizzate, o meglio, relativo al modo in cui le fonti vengono utilizzate.

Nello specifico, tra le fonti citate incontriamo saggi storici e filosofici, opere analitiche e letterarie e si passa da un contesto all’altro in modo molto repentino, e senza segnalazioni di sorta.

Per fare un esempio pratico, durante la narrazione di un fenomeno come la rivoluzione francese, si raccontano alcuni aneddoti legati al romanzo Cagliostro di Alexander Dumas, intrecciando questi elementi narrativi agli avvenimenti storici e le varie teorie cospirative, con il rischio di far passare concetti errati, come ad esempio l’idea che prima della rivoluzione francese si discutesse e prevedesse una rivoluzione, perché nel libro di Dumas, successivo alla rivoluzione, ci viene raccontata questa storia.

Va però detto che è possibile sopperire a questo difetto prestando attenzione ai riferimenti bibliografici presenti nel testo cosa che, per un lettore “esperto” risulta naturale, ma che, un utente alle prime armi, che non è pratico della lettura critica di un saggio, generalmente non fa.

Il mio consiglio a tal proposito è quello di avere sempre un occhio rivolto alle fonti citate a pie pagina, così da capire esattamente se il passaggio che è stato appena letto è storico, filosofico o narrativo.

Conoscenze preliminari necessarie per una lettura efficace.

Come anticipato, nel libro ci sono delle mancanze, che rendono necessarie al lettore alcune conoscenze preliminari, a mio avviso importanti per una maggiore comprensione del testo.

Un primo elemento mancante, che mi è dispiaciuto non incontrare, soprattutto perché nei primi capitoli si affrontano le teorie del complotto di epoca illuminista, è il tema del Realismo Politico di matrice Hegeliana. Hegel è stato, insieme a Thomas Hobbes tra i primi filosofi ad ipotizzare quello che oggi definiamo “realismo politico” o “realpolitik”, anche se, un precedente a queste idee lo incontriamo già nel Principe di Machiavelli. Detto molto brevemente, il realismo politico, in chiave filosofica, è la teoria per cui la politica mente a priori. La politica, o più precisamente, il potere, di cui, secondo Weber, la politica è un espressione, mente per il mantenimento del potere, e questo attraverso diversi contesti e interessi, la politica può mentire per interessi “politici”, economici, sociali, culturali, personali, bellici, ecc, in definitiva, indipendentemente dalle motivazioni, la politica (attraverso i politici) ed il potere, mentono, in modo più o meno ampio.

In un saggio che affronta il tema del complottismo e delle teorie cospirative, per quando mi riguarda, non può mancare una parentesi sul realismo politico, o quanto meno accennare a tale teoria, perché grazie ad essa l’autore può fornire al lettore, uno strumento critico e di analisi dei fenomeni che si vanno a raccontare, inoltre, grazie a questo elemento, la comprensione delle varie teorie cospirative e della loro genesi, apparirebbe molto più chiara. Tuttavia, l’assenza di una parentesi legata al realismo politico non discrimina troppo la narrazione generale del libro che, se bene non ne parli direttamente, lascia intuire che la maggior parte delle teorie cospirative, sono per lo più fenomeni reazionari a momenti di turbamento volte al conseguimento o comunque al mantenimento del potere.

Altro elemento che mi è dispiaciuto non incontrare, è un accenno alle origini dell’ordine dei Rosa Croce. Ordine che viene citato e chiamato in causa in diverse occasioni nel corso dei vari capitoli, ma in merito al quale, non viene detto molto, e soprattutto, non ci vengono raccontate le origini dell’ordine.
Non ci viene detto che le sue origini sono ignote, sia in età moderna che contemporanea, non ci viene detto l’ordine “vero e proprio” appare solo nel XVIII secolo e che prima d’allora abbiamo solo vaghi riferimenti simbolici, disconnessi e scostanti tra loro e questa informazione mancante, determinante per analizzare le varie teorie legate all’ordine, fa si che l’ordine venga percepito dal lettore come un ordine “millenario”, strutturato e organizzato, che sopravvive attraverso i secoli, percezione che, tuttavia, non coincide con la realtà storica dell’ordine dei Rosacroce.

Apriamo quindi una parentesi sui rosacroce, così che la lettura del saggio possa essere più semplice grazie a questa guida.

Una delle ipotesi più accreditate riguardante l’origine dell’ordine dei rosacroce vedrebbe la nascita effettiva dell’ordine solo in età illuminista, più precisamente nel XVIII secolo, e vedrebbe questo ordine inizialmente fittizio, costruito artificialmente da un solo uomo che ne aveva codificato la ritualità sulla base dei riti e della simbologia massonica, attraverso l’appropriazione indebita di simboli precedenti, creando così l’apparenza di una simbologia antica e millantando un ordine millenario.

Se torniamo all’introduzione del saggio, possiamo osservare che, questo stesso fenomeno, viene messo in atto dalla teoria QAnon, che, come ci viene detto nel libro, individua simboli e gestualità, attribuendo ad essa dei significati specifici, per cui, l’individuazione di quei simboli in determinati contesti, diventa espressione di appartenenza a qualche strana società segreta e cospirazione.

Conclusioni personali

Per concludere, visto il background autoriale di Roberto Paura, mi aspettavo che il contesto filosofico e culturale in cui si sono sviluppate le varie teorie del complotto, in particolare le teorie risalenti al XVIII e XIX secolo, venisse raccontato non solo per fare da sfondo alla narrazione delle teorie cospirative che circolavano in quegli anni, ma anche, e soprattutto, per ragionare sulle origini di quelle teorie cospirative.

In definitiva, il libro di Roberto Paura è un racconto quasi cronistico delle varie società segrete e teorie cospirative ad esse collegate e che si sono succedute nei secoli, è un libro sicuramente interessante, ma poco ambizioso, al quale però manca quello slancio in più, quella componente più analitica e riflessiva, sui fenomeni storici che va a raccontare, che lo avrebbe reso un piccolo tesoro, storiografico oltre che divulgativo.

Il saggio ha un carattere prettamente divulgativo, la narrazione è avvincente, densa, divertente e mai noiosa, ed è un vero peccato che manchi quella decina di pagine, quel capitolo, quella postfazione analitica, in più che lo avrebbe reso, allo stesso tempo, più semplice per un pubblico inesperto e adatto anche ad un pubblico esperto.
Così com’è il libro si colloca in un limbo per il quale non riesco a trovare un pubblico adatto, nel senso che sono richieste, per una lettura ampia e completa, diverse conoscenze preliminari, storiche e filosofiche, senza le quali i vari saggi contenuti nel libro possono risultare incompleti, confusionari, o, nel peggiore dei casi, portare il lettore ad un errata comprensione del fenomeno storico raccontato.

Allo stesso tempo però, ad un lettore più esperto, che ha già una discreta conoscenza delle varie teorie relative a società segrete e cospirazioni, il libro non da molto in più su cui riflettere.

Detto questo, per una buona lettura del saggio, da parte di un lettore inesperto, consiglio caldamente, come già detto in precedenza, di fare molta attenzione alle note bibliografiche e alle fonti citate, in modo da avere ben chiaro ciò di cui si è letto e riuscire a mettere in ordine le informazioni, senza che elementi storici e narrativi si intreccino tra loro.

I Medici di Claudia Tripodi, Guida alla lettura

Dopo tanto tempo, finalmente, ritorno a pubblicare, e lo faccio con una guida alla lettura, in particolare la guida alla lettura del saggio I Medici di Claudia tripodi.

Questa guida sarebbe dovuta uscire ad ottobre, ma, una serie di sfortunati eventi, mi hanno impedito di lavorarci per molto tempo, ho quindi rimandato la scrittura e pubblicazione a dopo le feste, forte di una seconda rilettura del saggio di Claudia Tripodi.

Prima di cominciare con la guida, voglio ringraziare l’editore Diarkos per avermi fornito una copia del libro finalizzata alla produzione di questa guida.

I medici, ascesa e potere di una grande dinastia

Il saggio I medici, ascesa e potere di una grande dinastia, di Claudia Tripodi si presenta come una raccolta di saggi di carattere biografico, riguardanti le principali personalità che hanno fatto la storia della famiglia de Medici, partendo dal capostipite Giovanni di Bicci de Medici, vissuto tra XIV e XV secolo, fino ad arrivare alla principessa palatina Anna Maria Luisa de Medici, vissuta tra XVII e XVIII secolo.

L’arco temporale coperto dal saggio è dunque molto ampio, e coincide con l’ultimo medioevo e gran parte dell’età moderna, epoche di cui è consigliato avere un infarinatura generale al fine di affrontare la lettura del saggio in modo armonioso. Il saggio è comunque di carattere divulgativo, e fornisce, tra le proprie pagine, tutti gli strumenti necessari per poter ricostruire e comprendere a pieno, la dimensione politica e sociale in cui si collocano le vite presentate nell’opera.

In poco più di 300 pagine, il saggio condensa una narrazione enciclopedica delle vite e delle vicende che hanno reso grande la dinastia de Medici, protagonista, non di secondo piano, di gran parte della storia italica ed europea.

La raccolta di saggi può essere letta sia come una “storia familiare” che come una storia europea che parte dalla toscana, giunge Roma, presso la corte papale di Leone X, al secolo Giovanni Lorenzo de Medici, si trasferisce poi a Parigi, presso la corte del re di Francia Enrico II, di cui Caterina de Medici era consorte, per poi tornare in Italia, presso la corte medicea del Granducato di Toscana.

I Medici

La storia della famiglia de Medici è una storia immensa ed estremamente complicata, e non basterebbe una vita intera per studiarla completamente, poiché tante, forse troppe, sono le personalità di alto rilievo appartenute a quella che è stata una delle più importanti dinastia dell’intera storia d’Italia.

Nonostante il saggio si muova in un campo a dir poco sterminato, l’autrice riesce a mantenere ben saldo il timone ed impostare una rotta precisa e puntuale, organizzata in modo schematico attraverso la ricostruzione dei momenti più importanti delle vite degli uomini e delle donne della famiglia de Medici.

Uno degli aspetti che ho apprezzato particolarmente di questo libro è la sua struttura verticale, ogni saggio biografico infatti, può essere letto indipendentemente dagli altri, e può essere visto come punto di partenza per uno studio più approfondito, sulla vita dei singoli protagonisti dell’opera. Fermo restando che, per alcuni membri della famiglia de Medici è più facile reperire informazioni rispetto ad altri.

Uomini e donne come Cosimo il Vecchio, Lorenzo il Magnifico e Caterina de Medici, hanno nomi estremamente celebri e la letteratura storiografica attorno a queste personalità, è a dir poco infinita, altri membri della famiglia invece, come ad esempio Giovanni di Bicci, Cosimo III e Anna Maria Luisa, sono decisamente meno noti, e la letteratura che li riguarda è circoscritta ad un numero estremamente esiguo di opere molto puntuali e, sotto un certo punto di vista, complicate da leggere.

Il saggio I Medici, di Claudia Tripodi, permette, in modo semplice e immediato, di accedere ad informazioni significative, sulla vita di queste personalità, e se per personaggi più noti, può sembrare un qualcosa di non particolarmente significativo, se si sposta la lente sui personaggi minori della dinastia, il saggio diventa estremamente interessante ed utile.

I saggi verticali sui medici

Nell’immaginario collettivo, la dinastia de Medici inizia la propria ascesa al potere, tra Arezzo e Firenze, grazie al genio e l’acume politico di Cosimo de Medici, noto alla storia come Cosimo il Vecchio, tuttavia, Cosimo non è un uomo comune che costruisce un impero dal nulla, Cosimo è in vero figlio di Giovanni di Bicci de Medici, piccolo e ambizioso banchiere fiorentino, la cui eredità avrebbe permesso a Cosimo di gettare le basi dell’Impero della famiglia medicea.

La storia di Giovanni di Bicci è una storia molto sottotono rispetto a quella dell’erede Cosimo, ma non meno significativa o importante, e, nell’ottica di un lavoro ampio e completo sulla famiglia de Medici, è necessario partire da Giovanni per poter comprendere meglio la figura di Cosimo.

Come anticipato nel paragrafo precedente, ho trovato particolarmente utili i saggi sui “medici minori”, di cui, il più delle volte, al di fuori di campi di studio estremamente specifici sulla toscana in età moderna, si conosce forse il nome ed il titolo, ma nulla di più. Questo saggio, grazie allo spazio dedicato a queste personalità, mi ha permesso di conoscere meglio un mondo che mi era lontano, donandomi la chiave di accesso a storie e vite, fino a quel momento collocate in strade quasi completamente sconoscute.

Uno dei miei saggi preferiti del libro è il sesto, intitolato I medici fuori da Firenze, saggio in cui, in modo molto rapido, si raccontano le storie dei pontefici Leone X e Clemente VII oltre che del duca d’Urbino, Lorenzo de Medici, da non confondere con Lorenzo il Magnifico.

Altro saggio che ho apprezzato in modo particolare è il nono, intitolato Caterina dei Medici, la regina Nera, saggio in cui, senza troppi giri di parole, si parla della regina di Francia Caterina de Medici, consorte del re di Francia Enrico II di Valois.

Questi due saggi sono quelli che meglio racchiudono e definiscono il potere temporale della famiglia de Medici, una famiglia così potente da riuscire a partecipare al gioco del trono papale, insediando per ben due volte un membro della propria famiglia al soglio pontificio, e ancora, una famiglia così ricca e potente, da riuscire ad insediarsi, al fianco, e secondo alcuni, riuscendo a controllare, il re di Francia. Caterina non è però stata solo la regina di Francia, ma anche la regina reggente di Francia, per ben due volte, la prima, alla morte di Enrico II, tra il 1560 ed il 1563, per conto del figlio primogenito Carlo IX di Francia e la seconda, nel 1574, alla morte del figlio Carlo, per conto del secondogenito Francesco II di Francia.

Durante la propria presenza alla corte di Francia, Caterina de Medici, fu una donna estremamente presente nella vita politica, sia in veste di regina, che di regina madre, oltre che ovviamente di regina reggente. Ben note sono infatti le rivalità tra Caterina de Medici e Maria Stuart, regina di Scozia e regina consorte di Francia in quanto moglie di Francesco II di Francia.

Il saggio su Caterina de Medici, ci mostra quel mondo controverso e complicato delle relazioni politiche e internazionali del XVI secolo, attraverso la vita di una donna decisamente fuori dal comune che, per un lungo periodo della propria vita, si ritrovo al centro dell’universo politico europeo.

Il saggio sui Medici

Il saggio I medici, di Claudia Tripodi, è nell’insieme, un libro di ampio respiro, in grado di fornire al lettore un infarinatura generale sulla storia politica ed economica dell’Europa moderna, attraverso il racconto delle vite di uomini e donne che, chi più, chi meno, sono stati determinanti nella costruzione di un concetto europeo.

Come già detto altre volte, il saggio ha una struttura verticale, che lo rende particolarmente adatto ad una lettura occasionale o non necessariamente consequenziale. I saggi che compongono l’opera possono essere letti in modo isolato o in ordine sparso, ed è proprio in quest’ultimo medo che ho affrontato la seconda lettura del testo, preferendo soffermarmi su quei saggi che reputavo più interessanti, per quello che era il mio gusto personale e i miei interessi. In soldoni, durante la seconda lettura, ho preferito dare maggiore spazio a saggi che mi incuriosivano e interessavano maggiormente, ovvero saggi su quei personaggi di cui avevo letto e sapevo poco o nulla, e sui quali avevo difficoltà a reperire informazioni.

I Medici, una lettura utile e consapevole

Sfogliando le pagine del libro si noterà immediatamente un enorme varietà di fonti consultate dall’autrice per la realizzazione di quest’opera, i cui contenuti sono tanti quanti i protagonisti della dinastia de medici, e per chi vuole addentrarsi nello studio della famiglia de Medici, o più semplicemente vuole conoscere meglio uno dei suoi protagonisti, questo libro si presenta come uno strumento estremamente utile per due motivi.

Il primo motivo è che questo libro fornisce una porta d’accesso a quelle biografie, attraverso dei saggi monografici, brevi, semplici e di ampio respiro, il saggio su Caterina de Medici, per citarne uno, è un ottimo strumento per acquisire informazioni di base sulla regina di Francia, da cui partire per un lavoro di analisi e ricerca, magari più ampio, inoltre, qualora si fosse intenzionati ad approfondire la figura di Caterina, il saggio, come ogni buon saggio, permette di accedere ad un ampia bibliografia, che, nel caso del saggio su Caterina, si configura come un indice di testi, articoli e documenti, riguardanti questa donna, letture che chiunque può prendere in mano al fine di conoscere meglio e più da vicino la figura di Caterina de Medici.

Qualche parola sull’autrice de I Medici, Claudia Tripodi

Archivista e storica di professione, Claudia Tripodi ha studiato presso l’accademia Paleografica e Università di Firenze, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia Medievale nel 2009, per poi spostare la propria attività di ricerca sulla storia delle famiglie e la mobilità sociale tra Medioevo e Rinascimento, ed è proprio in questo campo che si colloca, perfettamente, il saggio I Medici, un saggio che, come detto più volte in questa guida, è una storia di famiglia, la famiglia de Medici, ma anche una storia politica ed economica europea a cavallo tra medioevo ed età moderna.

Claudia tripodi è attualmente collaboratrice archivista presso l’Archivio di Stato di Firenze, per conto dell’Università Neubauer di Chicago, oltre che redattrice per la rivista “Archivio storico Italiano”.

La maggior parte delle pubblicazioni della dottoressa Tripodi sono di carattere tecnico, in particolare review realizzate per conto di alcune riviste di settore.

Nonostante ciò, è anche autrice di diversi saggi, ultimo dei quali, I Medici, ascesa e potere di una grande dinastia, un saggio che segue lo stile narrativo e strutturale dei precedenti saggi, su Vespucci, edito da Viella Editore e pubblicato nel 2018 con il titolo Prima di Amerigo. I Vespucci da Peretola a Firenze e, prima ancora, del saggio sulla famiglia Spini del 2013, intitolato Gli Spini tra XIV e XV secolo. Il declino di un antico casato fiorentino ed edito da Olschki nella collana Biblioteca storica toscana.

I saggi di Claudia Tripodi sono accomunati, oltre che da un forte carattere divulgativo, che vuole raccontare, in modo chiaro, semplice e diretto, un ampio e complesso percorso di ricerca molto puntuale e specifico. Il saggio sui Medici sintetizza, tra le proprie pagine, anni di studio e ricerca compiuti dall’autrice, sulla nobiltà fiorentina e la società europea tra medioevo e rinascimento.

Conclusioni

Il libro I Medici, ascesa e potere di una grande famiglia di Claudia Tripodi è una raccolta di brevi saggi biografici, realizzati dall’autrice ed aventi come protagonisti, la famiglia de Medici, di cui ci vengono raccontate storie, vite, intrighi, ma anche ambizioni, ostacoli, difficoltà e successi. Il tutto è scritto in modo semplice e chiaro, con uno stile molto lineare e conciso, senza troppi fronzoli e senza dare troppo spazio a concetti e informazioni irrilevanti.

questo libro di Claudia Tripodi si concentra su quelli che sono i momenti più importanti delle vite raccontate, e, se c’è un difetto che è possibile incontrare in questo saggio, forse è proprio la puntualità con cui sono narrate le vicende.

Il saggio ha un carattere divulgativo molto spinto ed acceso, tuttavia, senza una preliminare conoscenza (molto superficiale) delle dinamiche sociali degli ultimi anni del basso medioevo e del rinascimento, alcuni passaggi potrebbero risultare complicati da comprendere e potrebbero richiedere una seconda lettura. Nonostante ciò, il libro non presenta ostacoli insuperabili, le conoscenze e competenze preliminari richieste per poter leggere il libro in modo completo, sono davvero pochissime, e, chiunque sia interessato a leggere un saggio biografico sulla famiglia de Medici, quasi per definizione, dispone già delle conoscenze preliminari richieste.

La struttura verticale del libro, diviso in capitoli monografici riservati ai singoli protagonisti della dinastia medicea, rende il saggio estremamente dinamico, e può essere letto, in vari modi e dimensioni, io stesso, la prima volta che ho letto il libro l’ho letto in un modo “classico” ovvero seguendo l’ordine naturale dei capitoli, mentre, la seconda volta che l’ho letto, mi sono mosso tra i capitoli in ordine sparso, leggendo ad esempio il saggio su Caterina de Medici parallelamente al saggio su Cosimo il Vecchio, ho voluto leggere parallelamente quei due saggi perché da un certo punto di vista, parallele sono le figure di Caterina e Cosimo, entrambi infatti portano la famiglia de Medici su un più alto piano sociale, il primo, Cosimo, introducendo la famiglia all’aristocrazia Italica, la seconda, portando l’aristocratica famiglia italica sul piano delle teste coronate che in quel momento governavano l’Europa, insediandosi sul trono di Francia e dando i natali all’erede di casa Valois.

In definitiva, il libro I Medici di Claudia Tripodi un libro che consiglio a chiunque, sia a chi è incuriosito dalla storia della famiglia de Medici e vuole iniziare un percorso di studio e letture, sia a chi è già addentrato nel mondo della letteratura storiografica e vuole andare ad approfondire determinati aspetti della società europea, in particolare la mobilità sociale tra medioevo e rinascimento, che, in questo libro, la fa da padrona.

Altre guide alla Lettura

Se questa guida alla lettura ti è stata utile e vuoi leggerne altre, ti consiglio la lettura di:

I Lobgobardi, di Elena Percivaldi.
Il Formaggio e i Vermi, di Carlo Ginzburg.
La Fine della cultura di Erich Hobsbaem
Wonderland, di Alberto Mario Banti.

Carola Rackete, una donna meravigliosa, con più palle della nazionale maschile di Rugby, e la volontà di lottare e morire per i propri ideali di giustizia universale.

Carola Rackete, una donna con più Palle della nazionale maschile di Rugby, Simbolo di un mondo in cui lottare per i propri ideali è ancora possibile, simbolo di un mondo in cui cè ancora speranza di salvezza per lumanità

Paura del diverso e del contrario, di chi lotta per cambiare,
paura delle idee di gente libera, che soffre, sbaglia e spera.

Con queste parole, nel 1994 Francesco Guccini descriveva gli USA per aver arrestato “preventivamenteSilvia Baraldini, accusata di star pianificando una rapina per finanziare il terrorismo in italia.
In quella canzone Guccini evidenzia un concetto fondamentale “non è possibile rinchiudere le idee in una prigione” e soprattutto che “da sempre l’ignoranza fa paura, ed il silenzio è uguale a morte” , e direi che questi due concetti, si adattano perfettamente al caso di Carola Rackete, arrestata più per le sue idee che per le sue azioni, e portatrice di valori ed idee che al bigotto mondo ultranazionalista fanno decisamente troppa paura. E nel suo caso, il suo silenzio, inteso come un non far nulla, sarebbe costato la vita ad oltre 40 persone, persone che oggi nessuno vuole, ma che se ci piaccia o meno, se non fosse stato per l’intervento di Carola, oggi sarebbero mangime per pesci.

Questi sono i miei due centesimi per Carola Rackete, una donna che non posso fare a meno di ritenere meravigliosa e non posso non associare alla figura di Silvia Baraldini, cantata da Francesco Guccini nel brano “canzone per Silvia“, ed approfitto di questo articolo per dedicare a Carola, questa meravigliosa canzone.

L’ONU è nata come istituzione volta a risolvere le controversie internazionali senza necessità di passare per l’uso della forza e delle armi, è nato come istituzione volta a bandire la guerra, ed è per questo che l’ONU non si è mai dotata di un proprio, reale, esercito, scegliendo invece la via delle “forze di pace“, ma l’ONU per essere il luogo di risoluzione delle controversie, deve avere anche la forza e gli strumenti per risolvere le controversie, e questi strumenti al momento non li ha, e dalla sua istituzione non li ha mai avuti.

Oggi l’ONU è un luogo di dialogo e confronto, ma la cui legge, che dovrebbe essere superiore a qualsiasi altra legge è in realtà solo fumo, molto fumo, un fumo così denso che fa lacrimare gli occhi e impedisce di vedere la realtà, ma pur sempre fumo, intangibile, e può essere spazzato via agitando qualche foglio di carta, come ad esempio un decreto legge ministeriale che de facto rende illegale quello che per il diritto internazionale dovrebbe essere un dovere universale. Soccorrere chi è in difficoltà e portare in salvo chi viene recuperato in mare.

Il ruolo del diritto internazionale rispetto al diritto nazionale non è chiaro e cristallino come sembra, e nei fatti si colloca in una zona grigia molto ambigua e complessa da decifrare, e nel tentativo di fare un po’ di chiarezza ho scritto questo articolo “ONU e Diritto Internazionale, una questione spinosa”

Qui c’è il paradosso di Carola Rackete, le cui azioni sul piano del diritto nazionale italiano, si sono compiute in una zona grigia al limite della legalità, tuttavia, secondo il diritto internazionale, secondo la convenzione di ginevra e la carta dei diritti fondamentali dell’uomo, non vi erano molte altre strade percorribili e le sue azioni sono per il diritto internazionale, pienamente legittime. Ma come dicevamo, il diritto internazionale, molto spesso, come in questo caso, è solo fumo.

In ogni caso comunque, Carola ha più palle di tutti gli italiani messi insieme, e al di la di ciò che verrà deciso dalla magistratura, non posso fare a meno di provare una profonda sttima per una donna, che in nome di un ideale ha deciso di mettere a rischio se stessa, la propria vita e la propria libertà.

Paura del diverso e del contrario, di chi lotta per cambiare,
paura delle idee di gente libera, che soffre, sbaglia e spera.
Nazione di bigotti! Ora vi chiedo di lasciarla ritornare
perché non è possibile rinchiudere le idee in una galera.

Come dicevo, non riesco a non associare Carola, questa donna a mio avviso meravigliosa, alla figura di Silvia Baraldini cantata da Guccini, riascoltando la Canzone per Silvia, ogni strofa, ogni verso, ogni singola parola, sembra scritto ora ed oggi e sembra raccontare e parlare di lei, di Carola, di questa donna che di fatto, ha commesso il grande crimine di essere una donna Libera guidata da una legge morale che si trova più in alto di qualsiasi altra legge terrena.

Come cantava Guccini, non è possibbile rinchiudere le idee in una prigione, e se all’epoca Guccini immaginava Silvia con indosso una maglietta con su scritte le parole “da sempre l’ignoranza fa paura, ed il silenzio è uguale a morte” io oggi vedo quella stessa maglietta indossata con fierezza da Carola, perché oggi come allora, il silenzio è uguale a morte, e il suo silenzio avrebbe significato la morte di oltre 40 persone.

Persone che se oggi sono vive è solo grazie a lei e alla sua precisa volontà di rispondere ad una legge superiore, per la quale la vita di ogni essere umano, viene prima di qualsiasi altra cosa, indipendentemente dal luogo in cui quelle persone sono nate, dal colore della loro pelle, dalla loro religione o dal fatto che i loro organi genitali siano interni anziché esterni.

ONU e diritto internazionale, una questione spinosa

È in giorni come questi, di grande turbamento, ambiguità e confusione sul piano internazionale e del diritto internazionale che l’ONU mostra la stessa fallacia che fu per la Società delle Nazioni quasi un secolo fa, e diventa sempre più evidente la necessità, oltre che l’urgenza di una profonda e sincera riflessione, sul ruolo e il funzionamento di questa organizzazione, de iure un istituzione internazionale, de facto, un mero accozzaglio di politicanti e burocrati senza alcun potere o autorità reale.

L’ONU oggi non ha il potere necessario ad imporre le norme del diritto internazionale ai propri membri, poiché afflitta da un male originale, quale un profondo deficit democratico e di natura politica, che accompagna l’istituzione sin dalla propria fondazione nell’immediato dopoguerra.

All’epoca l’ONU, il cui compito principale, la cui missione fondativa, la cui ragione d’essere, è la prevenzione dei conflitti tra le nazioni e la creazione di canali diplomatici in cui confrontarsi e dialogare in cerca di soluzioni alle controversie internazionali, quando venne creata, non aveva la possibilità di diventare pienamente il luogo della risoluzione delle controversie internazionali, perché il mondo, in quegli anni, stava ancora piangendo le vittime della seconda guerra mondiale e si stava preparando ad un conflitto politico e ideologico tra i due principali vincitori del conflitto.

La divergenza di visione tra USA e URSS, non è un segreto, ha mutilato l’ONU alle sue origini, che, con la creazione di un meccanismo di salvaguardia per le due super potenze ed i vincitori della seconda guerra mondiale, ha de facto reso nulla ogni possibile risoluzione onu che partisse da principi universali, limitando l’efficacia dell’organizzazione alle sole operazioni congrue alla volontà dei cinque membri permanenti del consiglio di sicurezza.

I membri permanenti del consiglio di sicurezza hanno un potere enorme nell’istituzione, che non è il potere di decidere dove intervenire, ma qualcosa di molto più importante, il potere di decidere dove e quando l’ONU non può intervenire.

Nel mio podcast “l’osservatorio” su spotify e su youtube, ho parlato diverse volte dell’onu, delle sue origini e dei suoi limiti, e in questo articolo voglio soffermarmi ancora una volta sui limiti dell’ONU.

Il motivo per cui l’organizzazione delle nazioni unite ha poteri limitati è principalmente politco, oltre che storico e intreccia insieme la volontà dei vincitori della Seconda guerra mondiale, di ritagliarsi uno spazione nel nuovo ordine mondiale, e dall’altro lato, lanecessità, di rispettare la sovranità delle singole nazioni membre delle nazioni unite, e a scanso di equivoci, questa necessità, è a sua volta frutto della seconda guerra mondiale e dell’imminente guerra fredda.

L’onu delle origini doveva trovare un modo per permettere all’ONU stessa di collocarsi nel mondo al di sopra delle nazioni, affinché potesse rappresentare, come dicevo, quel luogo di confronto, in cui risolvere le controversie internazionali, senza ricorrere all’uso delle armi, ma, allo stesso tempo, doveva configurarsi come un istituzione subordinata alla volontà politica delle singole nazioni.

Il punto di incontro tra queste due necessità venne trovato nella creazione del consiglio di sicurezza dall’altro, e nella configurazione di un assemblea generale che avesse natura nominativa e non politica.

Detto più semplicemente, l’ONU, nel 1945, ha scartato la possibilità di creare la prima forma di un ipotessi di parlamento internazionale, preferendo creare un assemblea rappresentativa degli stati i cui membri non sono cariche elettive, ma nominali, e affidando ai singoli paesi piena autonomia sui modi e i mezzi per nominare i propri rappresentanti presso le nazioni unite, creando in questo modo un interessante paradosso.

Non avendo alcuna carica elettiva (nessun membro, commissario, rappresentante ecc, dell’ONU viene eletto) l’ONU non alcun tipo di potere politico, e sul piano giuridico, se bene rappresenti in un certo senso la sede centrale del diritto internazionale, e se bene , in un ordine gerarchico teorico, il diritto internazionale si pone al di sopra del diritto nazionale, in realtà, quel diritto non ha la forza di imporsi sul diritto nazionale che, prodotto da legislatori eletti, pur trovandosi gerarchicamente più in basso rispetto al diritto internazionale, politicamente è legittimamente e paradossalmente più in alto del diritto internazionale.

Va però precisato che, i singoli stati membri delle nazioni unite, hanno accettato implicitamente di riconoscere, sottoscrivendo i vari trattati, il diritto internazionale di cui l’ONU è depositario, riconoscendolo quindi, superiore al diritto nazionale.

Detto così sembra molto caotico e confusionario, e in effetti lo è, la questione del diritto internazionale è estremamente confusa, ma può essere semplificata in questo modo.

Il diritto internazionale è superiore al diritto nazionale, nei limiti concessi dal diritto nazionale, insomma, la legge internazionale esiste, ha valore, gli stati hanno l’obbligo di rispettarla e se non viene rispettata ci possono essere delle ripercussioni, a meno che non si abbiano le spalle coperte, come ad esempio facendo parte del consiglio permanente o più ambiguamente, tenendosi ben cari amici ed alleati che fanno parte del consiglio permanente.

Circa trent’anni fa, con la fine della guerra fredda, il mondo iniziava una prima riflessione sull’ONU e paventava la possibilità oltre che la necessità di una riforma dellorganizzazione, con una svolta di natura politica che segnasse il primo passo verso la costruzione di un primo tassello di quello che un giorno sarebbe potuto diventare un governo mondiale, nel quale tutti i popoli si sarebbero uniti in un unica nazione, nel nome del diritto internazionale dal valore universale.

Negli ultimi trent’anni questa riforma non c’è stata e anzi, l’ONU negli ultimi anni ha perso molta della propria autorità, sempre più spesso messa all’angolo dalle grandi potenze mondiali che de facto, dell’ONU e del diritto internazionale, perdonate il termine tecnico, se ne sciacquano le palle.

Civiltà Dorica – Chi erano i Dori?

Chi erano i Dori, il misterioso popolo che si insediò in Grecia in secoli arcaici?
I dori erano popoli di origine europea o orientale? e giunsero in Grecia prima o dopo la caduta dell’impero Miceneo?

Sono molti gli interrogativi sul popolo dorico che ancora oggi non hanno una risposta, a partire dalla domanda fondamentale “Chi erano i Dori?” di loro sappiamo solo che si tratta di un popolo misterioso che in un momento non meglio specificato, si insediò in Grecia, e l’alone di mistero che ruota attorno a questo popolo ha suscitato non poche domande collaterali.

I dori erano di origine europea o orientale?
Giunsero in Grecia prima o dopo la caduta dell’impero Miceneo?

I Dori, così come Achei, Eoli e Ioni erano una delle grandi etnie che nell’antichità si insediarono nella penisola greca dando vita, attraverso un lungo periodo di trasformazione e riorganizzazione delle loro civiltà, villaggi, città, in quelle che noi oggi conosciamo come le Polis Greche. Di questi popoli abbiamo molte informazioni relative alla loro presenza in Grecia, conosciamo la loro cultura, le loro tradizioni, conosciamo la loro storia successiva all’VIII secolo, ma ciò che precede i secoli bui, è ancora oggi avvolto dal mistero e domande essenziali come chi erano esattamente i Dori, da dove venivano e quando giunsero in Grecia? sono ancora oggi senza una risposta certa.

In passato, qui su Historicaleye ci siamo già occupati delle origini della civiltà greca, affrontando la questione in un discorso di carattere generale molto ampio, senza però entrare nel merito delle singole popolazioni e della loro storia e in questo post voglio andare la superficie, scavare più affondo ed ad approfondire il discorso con un focus mirato sul popolo dei Dori, una per ognuna delle quattro grandi etnie del mondo greco.

I dori nella tradizione.

Secondo la tradizione, le origini mitiche del popolo dorico risalirebbero al tempo degli Dei e sarebbero discendenti di Doro, eroe mitico della tradizione arcaica che secondo Apollodoro di Atene, era il figlio primogenito di Elleno, re di Fria una città della Tessaglia, e della ninfa Orseide, fratello maggiore degli dei Eolo e Suto, e padre di Tettamo, Santippe e di tutto il popolo Dorico. Secondo il drammaturgo Euripide invece, Doro era figlio di Suto, a sua volta figlio di Apollo, e fratello di Acheo, il mitico capostipite del popolo degli Achei.

Dal punto di vista storico sappiamo poco sul periodo in cui Doro, o chi per lui, si stabilì in Grecia, poiché l’arrivo del popolo dorico coincide con i secoli bui del medioevo ellenico. Sappiamo che prima di questa fase oscura la civiltà micenea controllava gran parte della penisola finché in seguito alle scorrerie di alcuni popoli orientali noti come i popoli del mare, la civiltà micenea scomparve, le città furono abbandonate e per tre secoli non si seppe più nulla, poi, il sole tornò ad albeggiare sulla Grecia arcaica, i villaggi ricominciarono a prosperare e commerciare tra loro, ritornò in uso la lavorazione del ferro e le produzioni di vasellame, si ricominciò a costruire templi, palazzi e città, dando nuova vita alla Grecia.

Ma chi erano realmente i Dori? Da dove venivano e quando giunsero effettivamente in Grecia?

Vi sono due possibili teorie storiografiche riguardanti le origini della civiltà dorica, da un lato vi è la teoria migrazionista che ipotizza l’insediamento in Grecia di un popolo (quello dorico) proveniente da oriente, e dall’altro la teoria anti-migrazionista che fondamentalmente esclude l’ipotesi di una migrazione di popoli e teorizza la presenza dorica in Grecia già dai temi della civiltà micenea, ma andiamo con ordine.

Secondo la teoria delle grandi migrazioni, quella dorica era una civiltà mista greco-illirica, proveniente dall’area balcanica, più precisamente dalle regioni del medio Danubio, contribuendo alla distruzione della civiltà micenea, per poi espandersi nel Peloponneso e a Creta.


Secondo questa teoria, il popolo dorico era un popolo guerriero, molto primitivo, seguace del culto dei tumuli, dei veri e propri barbari selvaggi, senza storia ne cultura, se paragonati alla più avanzata civiltà micenea, e la loro penetrazione in Grecia rappresentò, secondo questa teoria, l’ultima grande ondata migratoria di tribù selvagge provenienti da nord e da est, che si insediarono nella penisola e nelle isole greche. Questa teoria delle “invasioni barbariche del mondo greco” parte dalla leggenda del ritorno degli Eraclidi, i mitici figli di Eracle.

Questa teoria fu formulata per la prima volta nel XIX secolo, ma per lo storico Martin Bernal, ha un carattere puramente ideologico ed è un tentativo di vincolare la civiltà greca ad una tradizione europea, sostenendo, dal canto suo, che le origini della civiltà Greca andrebbero ricercate in oriente, e nei secoli bui, la Grecia fu colonizzata dagli Egiziani.
Questa teoria molto controversa è stata avanzata per la prima volta nel libro atene nera, le radici afroasiatiche della civiltà classica.

Il punto di partenza della teoria di Bernal sono i numerosi contatti, noti e documentati, della civiltà Micenea con il mondo Egizio da cui, si ipotizza, i Micenei abbiano appreso le prime forme di scrittura e le tecniche di lavorazione del metallo e della ceramica. Dall’altra parte Bernal critica la teoria che vedrebbe i Dori provenire dal cuore dell’europa, perché questa teoria ha un carattere puramente ideologico, e nacque in un contesto storico in cui era in corso un processo di epurazione ed espulsione dalla civiltà greca di ogni riferimento e connessione alle civiltà anatoliche, medio-orientali, fenicio-semite ed egizie, il cui fine era quello di rendere la civiltà greca qualcosa di tipicamente ed esclusivamente europeo, e quindi connessa alla teoria razziale che vedrebbe una connessione diretta tra i popoli del nord europa e il mondo greco. Insomma, una teoria volta ad includere il popolo ariano nella genesi della civiltà greca più che una teoria volta a comprendere realmente le origini della civiltà greca.

Per Bernal questa teoria definita come un “modello ariano” era una teoria astorica, derivata da teorie pseudoscentifiche di carattere razzista, di grande moda tra il XIX e il XX secolo nel mondo accademico.

Ovviamente per mettere in discussione una teoria non è sufficiente criticarla ma è necessario proporre una teoria alternativa, supportata da  prove empiriche e fonti, nel caso di Bernal, lo studioso osservando che la stessa mitologia greca era ricca di riferimenti a fondatori arcaici provenienti da oriente, dalla Fenicia e dall’Egitto, propose una teoria che partiva dal recupero del modello antico, comparando i dati provenienti dalla mitologia ad altre fonti storiche, archeologiche e linguistiche, per tracciare una storia delle origini dei Dori, nelle sue mire Bernal puntava ad escludendo ogni possibile preconcetto di matrice arianocentrica, per dare alla ricerca una reale impronta scientifica. La sua proposta fu accolta dal mondo accademico con non poche riserve e perplessità, e va detto che ancora oggi è fonte di un acceso dibattito storiografico.

Lo studio di Bernal portò alla formulazione di una teoria secondo cui i greci ritenevano che i re Dori fossero di origine micenea e straniera, probabilmente discendenti di matrimoni politici tra notabili micenei e stranieri volti a costruire alleanze politiche e militari, mentre il popolo dorico, volendo accettare l’ipotesi di una origine nordica, provenivano non dall’Europa centrale ma, più probabilmente, dalle regioni a nord-ovest della Grecia, più precisamente da una regione nota come Doride, situata tra l’Etolia e la Locride. A sostegno di questa ipotesi il fatto che, in epoca classica, proprio in questa regione vi erano diverse città doriche (Erineo, Bois, Citinio, Akyptias).

Uno dei punti di forza della teoria di Bernal è che in un certo senso rappresenta un punto di convergenza tra la teoria migrazionista e la teoria ant-migrazionista.

Bibliografia e fonti :

M.Bernal, Atene nera, le radici afroasiatiche della civiltà classicahttps://amzn.to/2OUiwfm
C.Orrieux, P. Schmitt Pantel, Storia Greca, https://amzn.to/2PoAqq7
C.Mossé, A Schnapp Gourbeillon, Storia dei Greci, dalle origini alla conquista romana, https://amzn.to/2z2Ud48

Uno STORICO al Governo? Riflessioni su un possibile governo Sapelli

Una considerazione personale su Giulio Sapelli, storico, per essere più precisi storico dell’economia ed economista, in lista per essere un probabile presidente del consiglio dei ministri italiano.

Premetto che ho delle sue opere ho letto soltanto “Storia economica dell’Italia contemporanea”, edito da Mondadori, “Adriano Olivetti. Lo spirito nell’impresa”, edito da Mondadori (entrambi studiati per un esame di storia economica) ed ho letto, per un esame i geografia dello sviluppo, “Antropologia della globalizzazione”, edito da Mondadori.

Non vi è dubbio che come storico dell’economia, Sapelli sia una vera e propria e eccellenza italiana, che ha lavorato in numerose università prestigiose, sia italiane che europee. Inoltre, come economista leggevo che ha ricoperto incarichi di alto profilo in diverse grandi istituzioni bancarie italiane e non. Ma al di la delle competenze e delle conoscenze tecniche, per me Sapelli è prima di tutto uno storico e nella mia riflessione è questo l’aspetto più importante.

Potenzialmente potremmo avere uno storico come presidente del consiglio dei ministri, e la sua formazione accademica, ,è per quanto mi riguarda, una potenziale garanzia di imparzialità e responsabilità, poiché uno storico nella sua formazione impara a tenere presenti tutte le opzioni, non solo quelle favorevoli alla propria tesi e allo stato attuale delle cose, un uomo con questa capacità è potenzialmente in grado di governare l’italia riuscendo a trovare un punto di contatto tra le tre forze politiche che spaccano il parlamento.

Dal mio punto di vista puramente personale, la possibile presidenza di Sapelli sarebbe auspicabile, appena ho letto il suo nome e ne sono stato entusiasta, non sapevo a quale forza politica fosse legato e sinceramente la cosa non mi interessava minimamente, poi ho scoperto un legame tra Sapelli e il Centro Destra e la cosa ha lasciato il mio entusiasmo invariato, questo perché Sapelli ha, per quanto mi riguarda, le carte in regola per essere un buon presidente del consiglio dei ministri (personalmente lo vedrei molto bene anche come ministro dell’Economia e delle finanze) e il fatto che sia uno storico è per me la cosa più importante in assoluto, poiché lo pone al di sopra della propaganda e degli interessi politici, ma il fatto che sia uno storico è per me, anche, una fonte di dubbio.

Non fraintendetemi, da storico sono più che felice di vedere uno storico in lizza per una carica così importante, sarebbe sicuramente un grande riconoscimento per la categoria, finalmente gli storici italiani avrebbero nuovamente quella dignità istituzionale che in italia hanno perso da tempo, una dignità istituzionale perduta non per colpa loro, ma perché messi quasi al bando dalle istituzioni e dall’ambiente lavorativo in generale, non serve che sia io a dirlo, ma una laurea in storia, così come una qualsiasi altra laurea umanistica, in questo paese, sul piano lavorativo vale ben poco.

Personalmente sarei estremamente felice di vedere uno storico alla presidenza del consiglio dei ministri, sarei felice, da storico e da cittadino italiano dotato di intelligenza e forse da idealista sognatore, sono anche spinto a pensare (in maniera totalmente irrazionale) che questo governo possa essere un governo abbastanza stabile e duraturo; Se l’italia fosse un paese normale e incline alla democrazia, cosa che ultimamente ha dimostrato di non essere, questo governo improvvisato potrebbe potenzialmente durare molto a lungo, perché a la mediazione tra le forze politiche, affidata al presidente del consiglio, sarebbe de facto affidata ad un uomo, la cui formazione accademica consiste proprio nel cercare un punto di contatto tra visioni politiche e ideologiche differenti, tra fonti storiche spesso contrastanti tra loro. Dall’altra parte però, sono perfettamente consapevole che questo governo non sarà un governo realmente solido, e di sicuro non sarà un governo duraturo, so benissimo che alla fine, gli interessi politici dei singoli partiti impegnati nella formazione del governo, al di là dei vari slogan elettorali, verranno anteposti agli interessi reali degli italiani e che questo governo sarà fondamentalmente un governo a tempo.

Ed è questo che più mi preoccupa, mi preoccupa l’idea di vedere un governo destinato a fallire, affidato alle sapienti mani di un uomo di uno storico, affidato ad un uomo come Giulio Sapelli, mi preoccupa l’idea che, il quasi inevitabile, fallimento di questo eventuale governo verrà attribuito alle mancate capacità del Premier più che all’incapacità e alle responsabilità delle due forze politiche che formeranno il governo.

La mia preoccupazione più grande è che il riflesso del fallimento di questo potenziale prossimo governo, possa ricadere sullo storico e sugli storici italiani, compromettendo ulteriormente l’immagine percepita dagli italiani della figura degli storici e della storia in generale.

Purtroppo viviamo in un epoca in cui la storia non è più maestra di vita, ma è un banale strumento di propaganda piegato e distorto all’occorrenza dal politicante di turno, viviamo in un epoca e in una nazione in cui gli storici non sono neanche considerati dei veri intellettuali, e per la maggior parte delle persone la storia è un semplice ricordo di un passato mitico, distorto da qualche loggia massonica e istituzioni politiche o private, per tutelare i propri interessi. Viviamo in un epoca in cui la storia ha perso ogni valore reale ed è spesso considerata uno spreco di tempo, una materia scolastica “inutile e noiosa” in cui  ci si limita ad imparare a memoria date e nomi di persone morte da tempo, ed eventi di cui ci importa ben poco e che non ci serviranno mai nella vita.

Da storico provo profonda tristezza per questa visione estremamente riduttiva della storia ed ho paura che l’inevitabile fallimento del prossimo governo, se affidato a Sapelli, diventi un ulteriore elemento di denigrazione della storia e della figura degli storici. E se oggi noi storici in italia, sopratutto sul piano lavorativo, contiamo decisamente poco, perché non siamo mica laureati in Giurisprudenza, Economia, Scienze politiche, Ingegneria o al massimo in Filosofia, ho paura che se Sapelli sverrà posto posto a capo del governo e se il suo governo cadrà in pochi mesi, come è prevedibile che sarà, l’immagine pubblica di noi storici cadrebbe ancora più in basso.

E quindi sono confuso e sono combattuto, perché da una parte non riesco ad immaginare uomo migliore di Sapelli (tra quelli proposti nelle ultime settimane) per rappresentare l’italia, per governare il nostro paese, non riesco ad immaginare una figura più professionale e competente di uno storico per traghettare il paese fuori da una crisi istituzionale e politica che la stessa italia ha già visto manifestarsi con modalità molto simili, in un passato non troppo lontano ma già dimenticato. Dall’altra però sono anche molto preoccupato del fatto che, questa scelta possa affossare ulteriormente la figura degli storici in italia.

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