Bambini dei Gulag: la Tragica Storia di 10 Milioni “Piccoli Nemici di Stalin” #historyfactchecking

Bambini nei gulag, la drammatica storia di 10 milioni di bambini, vittime del sistema di repressione dell’unione sovietica.

Mi è capitato di imbattermi in alcuni vecchi post (e video), di un blog di divulgazione, di cui non farò il nome, intitolati Bambini dei Gulag: la Tragica Storia di 10 Milioni “Piccoli Nemici di Stalin”, che hanno come oggetto la “strage” di bambini avvenuta in URSS ai tempi di Stalin e dei gulag. Gli articoli partono dal presupposto che nei Gulag abbiano perso la vita oltre 20 milioni di persone, tra cui circa 10 milioni di bambini, tuttavia, la verità dei fatti è leggermente diversa, nella stampa specialistica internazionale, sulla base dei dati ufficiali, è emerso che i gulag fecero circa 20 milioni di vittime, dove per vittime si intende arresti, allontanamenti dalla famiglia, ma non decessi. I decessi stimati nei Gulag, si stima fossero circa 1,6 milioni (bambini e prigionieri di guerra inclusi). Ne consegue che, l’assunto da cui partono quei video sono errati, ma andiamo con ordine.

Introduzione

Bambini dei Gulag: la Tragica Storia di 10 Milioni “Piccoli Nemici di Stalin, si tratta di un titolo forte, inquietante, fa pensare che oltre 10 milioni di bambini dell’unione sovietica, vennero deportati nei Gulag, terribili luoghi di prigionia in cui i deportati vivevano in condizioni disumane, assimilabili a quelle dei lager nazisti. Ma l’articolo non si ferma a questo e arriva a concludere che 10 milioni di bambini morirono nei gulag e che il 40% dei prigionieri dei gulag fossero bambini. E nel sostenere ciò, cita una fonte in cui si dice tutt’altro. In cui si parla di orfanotrofi e istituti per bambini figli di deportati e si denuncia l’abbandono, da parte dello stato, di quei giovani allontanati dalle famiglie e costretti a vivere in contesti urbani degradati.

Tra questo titolo e la realtà c’è la stessa distanza che c’è tra l’articolo e il volume che utilizza come fonte, e si configura come un intero universo di possibilità ancora tutte da esplorare, detto in altri termini, il post è pieno di informazioni errate e dati falsi che non corrispondono ai dati ufficiali, che non trovano riscontro nelle fonti e trae conclusioni arbitrarie e soggettive, prive di alcuna connessione con i dati e le fonti.

Il tutto, condito da un accurata analisi di foto e copertine di libri, degne di un post di QAnon. Memorabile a tal proposito il commento dell’autore che, parlando del volume “Children of the gulag” osserva “la copertina del libro “Bambini dei Gulag”, che ritrae non a caso una bambina con uno sfondo di una foresta di pini.”.

A proposito di Children of the gulag, testo mai tradotto in italiano, non so esattamente perché, ma nel post, ogni volta che viene menzionato il libro, viene utilizzato il titolo ” l’autore del post, ogni volta che lo nomina, viene utilizzato il titolo “bambini dei gulag” traduzione letterale che neanche corrisponde al concetto a cui è costruito il libro. Una più accurata traduzione o adattamento del titolo in italiano dovrebbe essere “figli dei gulag” e il perché lo vedremo più avanti in questo post.

Vittima non significa deportazione o morte

Come già anticipato, vittima non significa necessariamente deportazione o morte, cominciamo quindi con il dire parlare di 10 milioni di bambini che, secondo il post avrebbero perso la vita nei nei gulag, questo dato è errato, ed è frutto di un interpretazione soggettiva (e distorta) dei dati presentati in diverse opere e volumi, distorcendo il concetto di vittima, rendendolo quindi un sinonimo di deportazione e morte. Come anticipato nell’introduzione, nei 30 anni di attività dei gulag, hanno perso la vita, nei campi, circa 1,6 milioni di persone.

Soffermiamoci sul concetto di vittima. Sebbene infatti il dato, 10 milioni, appaia effettivamente nei volumi più autorevoli, questo dato non si riferisce ai bambini morti nei gulag, e neanche ai bambini deportati nei gulag. 10 Milioni furono i bambini vittima del sistema di repressione sovietico, al cui apice c’erano i Gulag, ma Vittime non significa automaticamente deportazione nei gulag, ne morte, e giungere a questa conclusione è un’errata semplificazione, anche se capisco che è facile fraintendere il concetto di “vittima” il cui significato è apparentemente univoco viste le “poche sfumature” della lingua italiana.

Cercherò di essere più chiaro possibile, 10 milioni è il numero di bambini, figli di deportati, che sono stati allontanati dalle famiglie e condotti in orfanotrofi, non è il numero dei bambini deportati nei gulag o dei bambini che hanno perso la vita nei gulag. Quei bambini sono vittime indirette della repressione sovietica, possiamo anche dire che vennero deportati, se questo ci fa sentire meglio, e ci aiuta a dipingere meglio i sovietici come mostri disumani, perché comunque quei bambini vennero allontanati forzatamente dalle famiglie e condotti in orfanotrofi e centri di rieducazione minorile, ma quei bambini, non sono finiti nei gulag e non sono morti nei gulag. Dire che nei gulag hanno perso la vita 10 milioni di bambini è semplicemente falso.

Fatta questa precisazione linguistica, passiamo ad analizzare meglio tutti gli altri dati ed informazioni che vengono riportate nel post.

Revisione dei dati e pubblicazioni

In prima battuta il post ci presenta tre dati estremamente importanti e connessi tra loro, l’articolo parla di oltre 20 milioni di morti nei gulag, di cui 10 milioni di bambini, e come ovvia consecutio logica , viene fuori che il 40% dei prigionieri dei gulag erano Bambini, e, altra conseguenza logica di ciò, i Gulag, diversamente da come vengono descritti nella letteratura scientifica, non furono propriamente delle “prigioni politiche”.

Sono numeri da capogiro, sono numeri enormi, soprattutto se consideriamo che i decessi nei gulag interessarono circa il 10% dei prigionieri, il che significa che in un sistema di paesi che nel 1991 contava complessivamente circa 300 milioni di abitanti e che nel 45 contava più di 26 milioni di vittime causate della seconda guerra mondiale, nei Gulag, in teoria, è transitato il 100% della popolazione sovietica. Già qui dovrebbe suonare un campanello d’allarme e far dire, c’è qualcosa che non va.

In ogni caso, l’articolo si apre in grande stile, dichiarando che, nei gulag, tra il 1930 e il 1960, l’anno di dismissione dei gulag, persero la vita oltre 20 milioni di persone di cui, apprendiamo solo dopo, circa 10 milioni di bambini.

Partiamo dal dato generale dei 20 milioni di decessi in 30 anni, significa circa 1,2 milioni di decessi all’anno. Questa informazione è falsa, ha iniziato a circolare nel 1989, con il crollo dell’URSS e sono state riprese nel 2004, al seguito della pubblicazione del libro “Gulag: A History“, della giornalista statunitense Anne Applebaum, vincitrice del premio Pulizer per quest’opera tanto apprezzata dalla stampa generalista quanto criticata dalla stampa specialistica. Il dato degli oltre 20 milioni di decessi nei gulag è stato smentito quasi immediatamente, in realtà già prima della pubblicazione del libro, poiché i volumi che analizzavano i dati e traevano le prime stime storiografiche sul numero di deportati e vittime dei gulag, hanno iniziato ad uscire già dal 93, al seguito dell’apertura degli archivi dell’ex URSS dopo il crollo dell’URSS, dando così accesso al mondo accademico, tra le altre cose, ai registri relativi ai gulag con annessi documenti sui prigionieri.

Secondo le fonti ufficiali, e per ufficiali è bene precisarlo, non si intende le dichiarazioni del governo sovietico e successivamente quello russo, ma i documenti relativi ai gulag e ai prigionieri, insomma, fonti che sono state verificate da diversi studi storici e revisionati a livello internazionale da numerose reviews (mi dispiace per chi ancora vive ancora immerso nella dialettica della guerra fredda), che vedono concordare la maggior parte degli storici mondiali, indipendentemente dalle proprie simpatie politiche, si stima che tra il 1930 e il 1960 transitarono nei gulag circa 20 milioni di prigionieri.

Transitarono, non morirono. Ai decessi arriviamo tra poco.

Il dato più puntuale registrato fino ad oggi, riporta circa 18,5 milioni di persone deportate complessivamente nei Gulag, ma manteniamoci larghi e restiamo sui 20 milioni, così abbiamo cifra tonda ed è più facile fare i conti. Sempre secondo le fonti ufficiali, il picco massimo di prigionieri presenti contemporaneamente nella rete dei gulag, venne registrato nel 1953, anno in cui si registrarono circa 2 milioni di prigionieri presenti in tutti i campi di concentramento dell’Unione Sovietica.
Questo dato è presentato nello studio Illness and Inhumanity in Stalin’s Gulag pubblicato da Yale University Press, nel 2017 e revisionato sulla rivista di settore The American Historical Review, Volume 123, Issue 3, June 2018, Pages 1049–1051, pubblicato nel giugno 2018.

Altro dato interessante è quello relativo all’indice di mortalità nei gulag, il post parla di 20 milioni di morti, che su 20 milioni di prigionieri accertati, significa un tasso di mortalità del 100% e come potete facilmente intuire, visto che neanche i campi di sterminio nazisti, che erano campi di sterminio, raggiunsero “una tale efficienza” nello sterminare persone, c’è qualcosa che non torna.

Secondo le fonti ufficiali, l’indice di mortalità medio nei gulag è da stimarsi mediamente del 4%, con picchi del 7% registrati tra il 1940 e 1945. Secondo lo studio Victims of Stalinism and the Soviet Secret, di S.G. Wheatcroft, pubblicato nel 1999 sulla rivista Europe-Asia Studies, Vol. 51, No. 2, i picchi di mortalità vengono registrati negli anni in cui nei Gulag vennero trasferiti anche i prigionieri di guerra nazisti, durante la seconda guerra mondiale. Non è dato sapere a quali torture vennero sottoposti perché fornissero informazioni strategicamente rilevanti. Gli anni tra il 1940 e il 1945, osserva Wheatcroft, sono anche gli anni di maggior affluenza di nuovi prigionieri nei campi, secondo i registri infatti, i nuovi arrivi erano dovuti principalmente all’afflusso di prigionieri di guerra e disertori.

Questi dati ci dicono due cose importantissime, la prima, durante la seconda guerra mondiale l’URSS non rispettò le convenzioni internazionali in merito al trattamento dei prigionieri di guerra, ma questa per il momento non ci interessa e comunque non è una novità. La seconda, che invece ci interessa è che il numero complessivo di decessi avvenuti nei Gulag, in tutto il periodo di attività, approssimativamente l’8% dei prigionieri facendo una media ponderata (e non matematica) di tutto il periodo, si aggira intorno agli 1,6 milioni. Ipotizzando inoltre che molti decessi non vennero registrati, possiamo tenerci larghi e stimare circa 2 milioni di decessi. Due milioni di decessi sono sicuramente tanti, sono più di quelli effettivamente documentati o comunque di quelli identificati dagli studi, sono un decimo dei 20 milioni decantati post, ma soprattutto, 2 milioni di decessi complessivi, sono meno di 10 milioni di decessi minorili. C’è ancora qualcosa che non torna.

Questi dati, pubblicati e revisionati su importanti riviste di settore, sono frutto di diverse analisi comparative che hanno preso in esame oltre ai registri dei gulag, anche le cartelle cliniche dei detenuti, i documenti di arresto, i documenti di rilascio, registri sanitari, mortuari e di natalità, e per non farsi mancare nulla, in alcuni studi, sono stati presi in esame anche i documenti pubblici, prodotti dalle persone, dopo il loro rilascio e che, anche se liberi, erano rimaste sotto stretta sorveglianza da parte della Ceka.

Tutte queste informazioni le abbiamo perché l’elefantesca burocrazia sovietica teneva traccia di qualsiasi cosa, e perché diversi studiosi hanno trascorso diversi anni negli archivi di stato dell’ex URSS a Mosca, catalogare e analizzare fascicoli e raccogliendo dati. Abbiamo innumerevoli sorgenti di dati, fonti documentarie, che ci forniscono dati concordanti e coerenti tra loro.

Appurato quindi che quelle 20 milioni di vittime dei gulag, si riferisce ai prigionieri e non ai decessi e che questi invece ammontano a circa 2 milioni, cerchiamo di capire da dove salta fuori quel 10 milioni relativo ai bambini deceduti nei gulag.

Questo dato lo incontriamo già nel titolo, anche se lì non si fa riferimento ai decessi, si parla solo di “piccoli nemici di Stalin” ed è solo nella conclusione del post che si parla apertamente di decessi. Il post si conclude con una dichiarazione di Aleksandr Yakovlev, Commissario del Cremlino per la riabilitazione delle vittime della repressione politica, datata 2002. In questa dichiarazione Yakovlev asserisce che sono stati circa 10 milioni i bambini vittime del sistema di deportazione minorile e della repressione sovietica.

Yakovlev ha effettivamente riportato questo dato, ha parlato di 10 milioni di bambini vittime dei gulag, e come abbiamo specificato più volte, fonti alla mano, vittima non significa decessi.

Le dichiarazioni di Yakovlev, coerentemente a quanto emerso dalle fonti di cui sopra, parlano di circa 10 milioni di bambini che si sono ritrovati a fare i conti con la macchina della repressione, attraverso l’arresto dei propri genitori e dei propri familiari, bambini che sono stati dati in affidamento ad orfanotrofi e strutture rieducative e che, molto spesso, sono stati abbandonati a loro stessi.

Nel volume Children of the gulag, pubblicato da C.A. Frierson e S.S. Vilensky tramite Yale University press nel 2010, gli autori hanno concentrato i propri studi proprio sui bambini vittima del sistema di repressione dell’URSS. Di questo volume parleremo in maniera più ampia in un paragrafo dedicato più avanti perché apparentemente il post cita questo volume come fonte, tuttavia, il volume e l’articolo, forniscono numeri diversi, il volume parla di 10 milioni di vittime, il post parla di 10 milioni di decessi, e non serve che ripeta ancora una volta che vittime e decessi non sono sinonimi.

Passiamo all’ultimo dato, il 40% dei prigionieri dei Gulag costituito da Bambini. L’autore del post scrive “Nonostante la visione popolare del Gulag come “sistema di repressione politica”, in questi campi erano pochi i prigionieri classificabili come “politici” e il 40% degli internati erano solo dei bambini, innocenti collegati in qualche modo a genitori colpevoli di qualsiasi accusa.

Su questo dato ammetto la mia ignoranza, non ho la più pallida idea del dove l’autore abbia reperito questo dato del 40%, la maggior parte degli studi di settore citati fino ad ora non presentano questo dato. Personalmente credo sia una proporzione fatta tra i 20 milioni di prigionieri e i 10 milioni di minori, ma non ne sono troppo sicuro visto che il rapporto in quel caso sarebbe al 50%.

In ogni caso, i minori vittima del sistema di repressione, ovvero, i figli di deportati, come abbiamo visto, furono effettivamente circa 10 milioni, ovvero il 50% rispetto ai deportati. Qui va fatta un altra precisazione, 50% rispetto ai deportati e non 50% dei deportati. Questi 10 milioni di bambini, figli di deportati, non vennero deportati insieme ai propri genitori nei gulag, vennero invece trasferiti in orfanotrofi e istituti rieducativi, se vogliamo, per darci un tono, possiamo parlare comunque di deportazione, ma è una deportazione verso istituti diversi dai gulag, istituti di cui esistono i registri e che sono ampiamente documentati.

C’è però da dire una cosa, alcuni bambini vissero effettivamente nei gulag, questo avvenne perché nacquero nei gulag stessi, da donne deportate durante la gravidanza o che vennero concepiti nei gulag, in seguito a rapporti non sempre consensuali, ma non siamo qui per parlare degli stupri nei gulag. Il numero di bambini che vissero nei gulag, e che non erano prigionieri, vivevano in strutture separate dai gulag e seguivano una dieta più ricca e varia (comunque misera) rispetto a quella dei prigionieri.

Lo studio Glasnost’ and the Gulag: New Information on Soviet Forced Labour around World War II di
Edwin Bacon, pubblicato su Soviet Studies, Vol 44, No.6, nel 1992, stima la dieta dei prigionieri nei Gulag, tra le 700 e le 1000 chilocalorie al giorno, una dieta inadeguata alle condizioni di lavoro e le temperature, che richiederebbero una dieta da circa 3300 chilocalorie al giorno. Nel caso dei bambini la dieta è stimata intorno alle 2000 chilocalorie al giorno, analogamente alla dieta dei bambini nei gli orfanotrofi e istituti di rieducazione, dove sappiamo non esistere distinzione nella dieta per “orfani” e figli di deportati.

Purtroppo l’entità dei bambini che nacquero e vissero nei gulag, non è ancora nota agli storici, ma si stima essere nell’ordine delle decine di migliaia.

L’ordinanza numero 00486

Nei primi paragrafi del post, si parla della deportazione di bambini nei campi di concentramento e viene citata l’ordinanza n° 00486, prodotta dal commissario del popolo per gli affari interni dell’URSS (NKVD) in data 15 Agosto del 1937. Secondo l’autore del post, cito testualmente “l’ordinanza documenta l’“Operazione di repressione delle mogli e dei figli dei traditori della Patria”, si dice inoltre che, secondo questa ordinanza “mogli e figli dei traditori” erano classificati “socialmente pericolosi”, non per le loro azioni ma per quello che avrebbero potuto fare in futuro, in quanto parenti di nemici del popolo.

Sorvolando, sul fatto che nel post (non l’ordinanza) si sofferma su mogli e figli dei nemici del popolo, ignorando invece mariti, fratelli, sorelle, genitori e familiari in generale, il post continua dicendo che “mogli e figli adolescenti erano destinati ai lavori forzati, mentre i più piccoli erano destinati agli orfanotrofi della kvd (Narodnyj komissariat vnutrennich – Commissariato del popolo per gli affari interni)” specificando che, la distinzione tra figli adolescenti e figli più piccoli, era arbitraria, più o meno come sono arbitrarie le conclusioni a cui si giunge nel post.

L’ordinanza numero 00486 viene citata, ma non ci viene mostrata, ne ci viene detto cosa effettivamente contenga.

Ho provato a risalire al testo dell’ordinanza, se l’autore del post l’ha citata ipotizzo ne abbia letto il contenuto, da qualche parte deve essere, ma ammetto di non essere riuscito a trovarne il testo, ho però trovato alcuni articoli che annoverano questa stessa ordinanza tra le note bibliografiche, come ad esempio un articolo pubblicato sulla rivista telematica di studi sulla memoria femminile, a cura di Emilia Magnanini, dell’Università Ca’ Foscati di Venezia, in cui viene menzionata l’ordinanza 00486, articolo che si concentra sul tema delle condizioni dei “figli dei deportati nei Gulag”.

I figli dei gulag

L’articolo di Emilia Magnanini usa come fonte primaria per il proprio articolo un volume, pubblicato a Mosca nel 2002, intitolato “Deti Gulaga. 1918-1956” a cura di S.S. Vilenskij, A.I. Kokurin, G.V. Atamaškina e I. Ju. Novičenko, si tratta di un volume dal valore epocale perché una delle primissime pubblicazioni in cui vengono riportati documenti relativi non solo ai deportati nei Gulag ma anche ai loro familiari e tra questi documenti figura anche la famigerata ordinanza 00486 dell’agosto 1937.

Secondo Magnanini, i documenti presentati in Deti Gulaga sono estremamente eloquenti e ci parlano del destino di milioni di bambini e adolescenti che hanno subito gli effetti della repressione che aveva colpito i loro genitori.

Nell’articolo, Emilia Magnanini ci dice testuali parole “la stragrande maggioranza dei minori finiva negli orfanotrofi, negli istituti correzionali o persino nel lager dopo essere rimasti soli perché i loro genitori erano contadini deportati e morti di stenti, o perché erano stati arrestati e fucilati, oppure condannati al lager”

Inoltre, nei documenti ufficiali, osserva Magnanini, ricorre spesso il termine “besprisornye”, termine utilizzato per indicare i ragazzi ospitati negli istituti di rieducazione. L’etimologia di questa parola parte dal concetto di “ragazzi sfuggiti alla vigilanza (degli adulti)”, “ragazzi di strada”, “criminalità minorile”.

L’articolo di Magnanini giunge alla conclusione che, quella situazione di criticità e disagio per molti giovanissimi sovietici, costretti a vivere alla giornata, era effetto della repressione. L’articolo è estremamente critico nei confronti dell’URSS e fa le pulci al modo in cui lo stato sovietico, tra il 1930 e 1960, ha gestito figli dei deportati, de facto abbandonandoli a loro stessi. In tutto questo però, nell’articolo non si fa riferimento, se non in un contesto generale, alle deportazioni minorili. Neanche quando l’articolo cita come fonte l’ordinanza 00486. Detto più semplicemente, l’articolo di Magnanini, che parte dal “Deti Gulaga” e analizza i documenti ufficiali tra cui le lettere e diari dei ragazzi figli di deportati, le lettere e diari degli stessi deportati, oltre ad atti burocratici, non ci dice che i figli dei deportati venivano deportati a loro volta perché figli di deportati o che i familiari adulti dei deportati venissero arrestati in via precauzionale, ne ci parla di bambini deportati e deceduti nei gulag, nonostante i bambini vittima della repressione sovietica sono proprio l’oggetto dell’articolo.

Ci dice invece che questi, i figli dei deportati, rimasti senza genitori e abbandonati a loro stessi, vennero portati in orfanotrofio, i più grandi in istituti correttivi, e in quel clima di degrado e disagio, circondati da altri ragazzini che avevano vissuto un disagio simile o che avevano commesso dei crimini, circondati da “ladruncoli e criminali“, alcuni di loro iniziarono a sviluppare sentimenti avversi e ostili all’URSS, avvicinandosi quindi a gruppi sovversivi e reti di cospiratori anti governative e quando scoperti, perché comunque sotto sorveglianza, vennero deportati a loro volta.

Non c’è in questo una deportazione precauzionale, c’è invece una serie di azioni e reazioni che si alimentano a vicenda.

Nell’articolo di Emilia Magnanini, tra le altre cose, viene riportato il testo (tradotto) di alcune lettere e documenti che raccontano proprio questo disagio e angoscia, questo senso di abbandono vissuto dai figli dei deportati.

Children of the Gulag di Frierson e Vilensky

Tornando invece al post, questi, nella parte centrale arriva al vero topic. In questa sezione vi viene riportata la storia di alcuni bambini ed è indicata come fonte (finalmente appare una fonte) il volume Children of the gulag” a cura di Cathy A. Frierson e Semyon S. Vilensky edito da Yale University press nel 2010, per qualche motivo italianizzato in “bambini dei gulag” anche se il volume non è mai stato tradotto in italiano.

Premesso che la traduzione “bambini dei gulag” è una traduzione letterale, e non un adattamento e che una più corretta traduzione, che ricalchi il concetto espresso dal titolo del volume, sarebbe “figli dei gulag” (come l’articolo di Magnanini).

In ogni caso, nulla da dire sulle storie che ci vengono raccontate, c’è qualche foto e qualche informazione sui bambini protagonisti delle vicende, in particolare il post si sofferma sulla particolare storia di Engelsina Markizova, bambina della regione di Buriata, vicina alla Mongolia, che venne ritratta con Stalin in un servizio fotografico ufficiale del 1936 poi utilizzato per fini propagandistici.

Voglio però spendere qualche parola sul volume curato da Frierson e Vilensky, il volume, proprio come Deti Gulaga prima d’esso, indica come fonti numerosi documenti degli archivi sovietici declassificati dopo la caduta dell’URSS. Si tratta nella maggior parte dei casi degli stessi documenti utilizzati in Deti Gulaga, a cui se ne aggiungono di nuovi, risultando in questo senso molto più ricco e aggiornato.

La cosa interessante è che uno degli autori di Children of the Gulag è Semyon S. Vilensky, è anche uno dei curatori del volume Deti Gulaga e, nella bibliografia di Children of the Gulag, viene citato tra gli altri riferimenti bibliografici proprio Deti Gulaga. In questo non c’è nulla di anomalo o sorprendente, si tratta di studi simili e in continuità tra loro, separati da circa 10 anni (il primo è del 2002, il secondo del 2010), che partono da una base documentaria comune, fatta di fonti di prima mano, e affrontano aspetti diversi di una problematica comune.

Come per Deti Gulaga, anche Children of the Gulag è un volume di alto profilo, fondamentale per chiunque voglia approcciarsi allo studio dei Gulag e della società sovietica, il volume è ricco di mappe, fotografie, cronologie, appunti e tabelle riportanti i dati ufficiali, insomma, è un opera monumentale, che oltre ad un analisi corale e comparativa di innumerevoli fonti, fornisce ai lettori la più imponente selezione di fonti primarie, che si possa immaginare. Documenti di prima mano fondamentali per la ricerca storiografica che, senza quest’opera, sarebbero estremamente difficili da reperire per chi non vive a Mosca.

Per questi ed altri motivi, Children of the Gulag è stato ed è tutt’oggi molto apprezzato dalla comunità scientifica, ricevendo numerose reviews positive. Tra le varie reviews, , che non sono recensioni, ma più delle verifiche delle fonti, nella primavera del 2011 la rivista Slavic Review, Volume 70 , Issue 1, edita da Cambridge University Press, alle pagine 197-198, pubblica una delle tante reviews dell’opera.

Nell’articolo, Children of the gulag viene citato come fonte e arriva alla conclusione che, nei gulag, persero la vita circa 10 milioni di bambini sovietici, figli di deportati accusati di essere “nemici del popolo”, ma, in Children of the Gulag ci viene detto che i deportati complessivi furono circa 20 milioni, in linea con gli altri studi di settore e non si fa riferimento a bambini deportati nei gulag, nonostante l’oggetto dell’articolo sia proprio il destino dei bambini vittime del sistema di repressione sovietico. A tal proposito voglio citare direttamente la Reviews di Children of the gulag pubblicata su Slavic Review nel 2011.

“What comes out in these interviews and, indeed, in the entire book, is the way in which this population of victims did not experience a single traumatic moment but a lifetime of crippling blows. In one of these interviews, an orphaned child of “enemies of the people,” Boris Faifman, described his days as a thief in the company of juvenile criminals. Later, Faifman will mourn his parents three times, in his words, first when they were arrested, second when he was told they had died of heart disease in Kolyma, and a third time when he learned the truth—as late as 1962—that they had, in fact, been executed.”
“Ciò che emerge in queste interviste e, in generale, dall'intero libro, è il modo in cui questa popolazione di vittime (si riferisce ai figli dei deportati) non ha vissuto un solo momento traumatico ma una vita di colpi paralizzanti. In una di queste interviste, un bambino orfano di “nemici del popolo", Boris Faifman, ha descritto i propri giorni come ladro in compagnia di criminali minorenni. Più tardi, Faifman piangerà i suoi genitori tre volte, nelle sue parole, la prima quando erano stati arrestato, la seconda quando gli avevano detto che erano morti di malattie cardiache a Kolyma, e la terza quando ha appreso la verità - nel 1962 - scoprendo che in realtà erano stati giustiziati.”

Riassumendo, Boris Faifman, il protagonista di questa vicenda è uno dei tanti “figli dei gulag” che fino al 1962 non aveva idea di cosa fossero i Gulag, che non ha mai visto un Gulag e che (fortunatamente per lui) non è stato deportato in un gulag perché “figlio di nemici del popolo”, deportati ed entrambi giustiziati in un gulag.

L’opera di Frierson e Vilensky, così come il più recente articolo di Magnanini di cui sopra, e come anche Deti Gulaga dello stesso Vilensky, ci parlano del dramma dei ragazzi figli di deportati, delle loro condizioni di vita difficilissime, del loro abbandono, del loro essere vittime dirette e indirette della repressione sovietica ed è per questo che quei bambini sono “figli dei gulag“.

In Children of the gulag, Frierson e Vilensky ci raccontano le storie dei figli dei gulag, ci raccontano storie di abbandono, di sofferenza, di vite distrutte dalla repressione, ci raccontano le storie di quei ragazzi che sono stati abbandonati a loro stessi, a cui lo stato sovietico ha tolto tutto, ha portato via la famiglia e a cui è stata negata una vita normale, normale per quella che era la normalità sovietica dell’epoca, ciò nonostante, non sono storie di bambini deportati nei gulag perché figli di “nemici del popolo” e non sono storie di bambini che hanno perso la vita nei gulag dopo essere stati deportati perché figli di deportati.

Il volume, citato come fonte del post, che non è assolutamente accomodante nei confronti dell’unione sovietica e ne denuncia la crudeltà della repressione a colpi di dati, fonti e testimonianze, mostrando la natura disumana e disgustosa dei Gulag, non ci parla di 10 milioni di bambini che persero la vita nei gulag.

Per fare ciò il volume ci fornisce informazioni accuratissime sugli orfanotrofi, sugli istituti rieducativi, sul tasso di criminalità minorile tra figli di deportati e ci parla anche del tasso di mortalità dei bambini e adolescenti nelle strutture rieducative, mortalità dovuta a pessime condizioni igienico sanitarie, spesso maltrattamenti e in alcuni casi suicidi. Il volume ci dipinge un ambiente sociale terribile per dei minori, un ambiente degradato e carico di sofferenza, in cui permane uno stato di abbandono e un senso di solitudine costante.

Conclusioni

L’articolo decontestualizza e decostruisce le fonti, proponendo una propria narrazione e interpretazione dei fatti, non basata sulle fonti, ma basata su preconcetti e idee di parte. L’articolo ci parla di 10 milioni di bambini deceduti nei gulag, ma nei gulag non hanno perso la vita 10 milioni di bambini, e neanche 10 milioni di persone indipendentemente dall’età. L’articolo confonde il significato di “vittime” facendo passare 10 milioni di bambini che più o meno direttamente hanno avuto a che fare con la macchina della repressione, per decessi di minori.

In URSS al tempo dei gulag sono stati commessi crimini atroci, ben più gravi dell’assassinio, a quei bambini allontanati dalla famiglia, abbandonati a loro stessi e consegnati ad un destino di criminalità, odio e miseria, è stato tolto tutto, ma non la vita e non la loro storia. I loro nomi non vennero cancellati, la loro memoria non venne abrasa, la loro vita venne sì distrutta, ma non eliminata.

I figli dei deportati, come nel caso di Boris Faifman, mantengono il proprio nome, e in un perverso spirito materno, la grande madre Russia che aleggiava sull’URSS ha quasi cercato di “proteggerli” dalla repressione che applicava. Ha cercato di “proteggerli” da se stessa, in modo discutibile e aberrante, mentendo loro sull’arresto dei genitori, sulle cause della morte dei genitori, sul perché venissero portati in orfanotrofio, nascondendo loro informazioni e raccontando loro una verità di facciata nel tentativo di plasmarli come dei “bravi patrioti e servitori della patria“, analogamente a quanto accaduto in Italia con i balilla, in germania con la gioventù hitleriana e in generale, nel mondo cristiano con l’azione cattolica ragazzi, ma pur nascondendo loro la verità su cosa fosse successo ai propri familiari, diversamente da quanto asserito, Frierson e Vilensky, ci dicono che non viene tolta loro l’identità. Nell’articolo viene raccontata la storia di Engelsina Markizova, non ci viene però detto che Engelsina Markizova conosceva il proprio nome, conosceva il proprio passato ed è stata lei stessa a raccontare che quel passato nessuno ha provato a portarglielo via, e questo perché, in quella logica perversa della società sovietica, terminata la prigionia nei Gulag, gli ormai ex prigionieri (sopravvissuti e rieducati) potevano ritornare dalle proprie famiglie e sono milioni gli uomini e le donne che, dopo la prigionia, sono tornati a casa dai propri familiari.

Bibliografia

Donna seminuda, inseguita da uomini armati durante il Pogrom di Leopoli

Con progrom, un termine di derivazione russa, generalmente si indica un insurrezioni popolare contro alcune minoranze etniche/culturali/religiose, ed è generalmente perpetuato da gruppi di ultra-nazionalisti, nelle regioni dell’europa orientale.

Ci troviamo a Lwowski (Leopoli), per ora, non vi dirò quando. Nella foto possiamo vedere una donna, ebrea, seminuda e sanguinante, inseguita da alcuni “uomini” e non credo serva spiegare quali sono le loro intenzioni o quale sarà il destino della donna, ma se proprio vi tenete, inizia con uno stupro e finisce con la un omicidio morte.

La colpa della donna? a quanto pare, essere nata donna Ebrea, a Leopoli, tra il 1881 ed il 1945, ed essere stata adulta durante un Poogrom.

“Pogrom” è una parola di derivazione russa che significa “devastazione” ed indica generalmente sommosse popolari ai danni di minoranze etniche e religiose, in particolare tra il 1881 e il 1943, nel mondo ai confini con la russia, si verificheranno numerosi pogrom/insurrezioni popolari, di matrice antisemita.

La popolazione ebraica di alcune città come Lwowski o Černobyl, nel novecento, fecero i conti con diversi pogrom, di matrice antisemita, alcuni dei quali in un clima sovietico ed altri, in un clima da terzo reich.

Nella foto, assistiamo alla ferocia di un pogrom, attraverso le sue vittime, vediamo una donna seminuda inseguita da uomini in armi, ma vediamo anche altro, oltre agli uomini vediamo anche bambino, con in mano un bastone, che insegue la donna divertito, il bambino è evidente dal suo sguardo che non sta capendo cosa sta accadendo in quel momento, ma avrebbe assimilato quell’odio, attraverso quello che per lui era un momento di gioco.

Non ho ancora detto quando la foto è stata scattata e non l’ho fatto per un motivo, scene come questa, ce ne sono state a migliaia, sia nel 1918, durante il Pogrom di Lwowski, ad opera dei polacchi, sia nel 1941, dopo l’ingresso degli Einsatzgruppen tedeschi nella città, ad opera dei collaborazionisti del Terzo Reich.

Nell’ottobre del 1918, geograficamente parlando, Lwowski si trova in Polonia, tuttavia, quell’anno, ad ottobre, fu creato il Consiglio nazionale ucraino di Leopoli, guidato da Jewhen Petruszewycz, un nazionalista ucraino che nel proprio suo manifesto proclamò la nascita della “Repubblica popolare dell’Ucraina occidentale”.

Jewhen Petruszewycz nella sua azione politica riconobbe l’esistenza di numerose minoranze nazionali, tra cui quella ebraica, cosa eccezionale ed estremamente rara per il tempo, poiché, non esistendo una nazione ebraica, gli ebrei non erano riconosciuti come un popolo da quasi nessuna nazione in europa.

Il 1 novembre 1918, venne creato a Leopoli il distretto ebraico, in cui, inizialmente era presente un presidio armato di milizie ebraiche filo ucraine, di circa 200 uomini e circa 100 civili (per lo più donne, anziani e bambini).

Leopoli, non va dimenticato, in questo momento è una città spaccata in due, attraversata da scontri armati tra due gruppi di nazionalisti, da una parte la città è “ucraina” e dall’altra parte è “polacca”, ed è proprio in questo clima di violenza, di divisione ed intolleranza, che iniziarono i problemi per la comunità ebraica di Leopoli o Lwowski o Lviv.

Senza dilungarmi troppo, gli ebrei, che erano riconosciuti come popolo dall’Ucraina, vennero accusati dalle milizie polacche di aver cospirato insieme alle milizie ucraine contro la Polonia, e si finì in pochissimo tempo a scaricare sulla popolazione ebraica ogni sorta di responsabilità per qualunque disastro mai avvenuto a Lwowski negli ultimi mille anni o giù di lì, innescando un escalation di violenza che si tradusse in un insurrezione popolare, di nazionalisti polacchi, contro gli ebrei di Leopoli.

Non conosciamo il numero esatto delle vittime, sappiamo però che almeno 2000 ebrei vennero assassinati e circa 4000 vennero ridotti in fin di vita, inoltre i testimoni parlano anche di numerosi stupri, spesso avvenuti in strada e sotto gli occhi di bambini.

Sappiamo inoltre che in quel momento, Leopoli era la terza città “polacca” per numero di cittadini ebrei, stando ai registri cittadini dell’epoca, Leopoli ospitava circa 100.000 ebrei. Sempre secondo i registri della città sappiamo anche che, nel 1941 (più di 20 anni dopo) a Leopoli vivevano circa 200.000 ebrei, e questo secondo dato ci porta al “secondo” pogrom di Leopoli, ovvero quello del 1941.

Il pogrom iniziò il 25 luglio 1941, quando, in seguito all’omicidio del leader ucraino Symon Petliura, circa 2.000 ebrei persero la vita, in alcuni scontri “civili” in cui gli ebrei di Leopoli vennero attaccati da nazionalisti polacchi di lingua tedesca, collaborazionisti del Terzo Reich e costituiti in milizie cittadine armate. Sappiamo dai testimoni che moltissimi ebrei vennero costretti a marciare, sotto la minaccia delle armi, fino al cimitero ebraico o alla prigione di Lunecki, dove vennero assassinati. Questi eventi sono noti come “I giorni di Petliura“, e rappresentano sono solo l’inizio di ciò che sarebbe successo di li a poco alla popolazione ebraica di Leopoli.

Non troppo tempo dopo infatti, i collaborazionisti del terzo reich aprirono le porte della città alle truppe tedesche e agli einsatzgruppen, che entrarono in città ed istituirono dall’8 novembre 1941 il ghetto ebraico di Lwowski, in pratica una parte della città venne recintata, sorvegliata da guardie armate e all’interno del lungo corridoio in filo spinato, sarebbero stati rinchiusi circa 100/120 mila ebrei, tra il novembre del 41 e il giugno del 43.

Se ricordate, poco fa ho detto che nel 1941 la popolazione ebraica di Leopoli era di circa 200.000 persone, ma nel ghetto di Leopoli ne sarebbero finite circa 100 mila, ed è curioso notare che, centomila, è anche il numero degli ebrei di leopoli nel 1918. Questo dato ci dice molte cose, ma lascio a voi le dovute deduzioni.

Torniamo però alla foto che mi ha permesso di aprire una parentesi sui pogrom di Leopoli, del 1918 e del 1941. Sono partito da quella foto, ed ho voluto raccontare entrambi gli episodi perché sono collegati attraverso il bambino presente nella foto.

La fotografia è stata scattata durante il Pogrom del 1918, e come dicevo, quel bambino avrebbe assimilato quella violenza, quell’intolleranza, quell’odio viscerale per la popolazione ebraica, attraverso il gioco. Quel bambino è cresciuto odiando gli ebrei e da adulto, 20 anni dopo, quando si è trovato di fronte uno stato, come il Terzo Reich, che gli parlava di superiorità della razza ariana, e prometteva lo sterminio ebraico, avrebbe compiuto determinate scelte che lo avrebbero spinto ad arruolarsi volontario nelle milizie filo naziste, diventando un collaborazionista polacco del Terzo Reich.

Ho voluto raccontare entrambi i pogrom anche per un altro motivo, il pogrom di leopoli del 1918 è spesso indicato come un pogrom di matrice “sovietica”, anche se, come abbiamo visto, non è esattamente così.

Il motivo per cui spesso si parla del pogrom del 1918 come di un pogrom di matrice sovieticha è in parte dovuto al termine “pogrom”, è un termine russo e questo sposta automaticamente l’attenzione sull’Unione Sovietica, del resto, il pogrom del 1941, non sempre è chiamato pogrom. Inoltre, nel 1918 esisteva l’unione sovietica già, ma a differenza del 1941, non esisteva il Terzo Reich, e se è vero che, se si parla di ebrei nell’Unione Sovietica, questi, almeno fino agli anni 80 furono fortemente discriminati e spesso perseguitati ed è altrettanto vero che la Russia è ha dato i natali al falso storico dei protocolli dei Savi di Sion, è anche vero che, nonostante l’URSS sia stata una nazione fortemente antisemita, praticava l’antisemitismo lontano dai riflettori, e non lo sbandierava nelle piazze.

Tutte queste teorie speculative alla fine della fiera significano poco o nulla, e c’è un unico elemento realmente significativo in tutta la vicenda, ovvero che gli artefici del Pogrom del 1918 non furono militanti bolscevichi e filo-sovietici, ma nazionalisti polacchi di lingua tedesca.

E a mio avviso è importante sottolineare che proprio questi gruppi, negli anni trenta, avrebbero sposato totalmente le teorie antisemite del nascente nazional-socialismo tedesco, al punto da produrre un nuovo pogrom di matrice antisemita, al fianco delle SS, nel 1941, pogrom che avrebbe portato all’occupazione nazista di Leopoli e la nascita del ghetto ebraico della città.

Chruščëv e la Scarpa all’ONU: Il Giorno che Cambiò la Storia

Nikita Chruščëv ha davvero battuto la scarpa sui banchi dell’ONU? se si, cosa lo ha spinto a tanto e se non è andata così, cosa è successo davvero il 12 ottobre 1960?

Nikita Chruščëv ha davvero battuto la scarpa sui banchi dell’ONU? Sse si, cosa lo ha spinto a tanto e se non è andata così, cosa è successo davvero il 12 ottobre 1960?

Il Contesto: L’assemblea ONU del 12 ottobre 1960 e l’intervento di Sumulong

Era un mercoledì quel 12 ottobre del 1960, quando al palazzo dell’ONU di New York, era in corso la 902a riunione planetaria dell’assemblea generale delle nazioni unite.

Durante questa storica riunione, tra i punti all’ordine del giorno, vi era un intervento del delegato filippino Lorenzo Sumulong, nel quale, si denunciava la condizione sociale e politica dei popoli dell’Europa orientale, che, stando alle dichiarazioni del delegato filippino, riportate fedelmente nei dattiloscritti ufficiali della seduta, erano stati “privati del libero esercizio dei loro diritti civili e politici e che sono stati inghiottiti, per così dire, dall’Unione Sovietica”.

Il delegato filippino non ha scelto casualmente questa riunione per denunciare questi fatti, avrebbe potuto parlarne in qualunque riunione planetaria, ma, la 902a riunione planetaria dell’ONU aveva un qualcosa di unico rispetto a qualsiasi riunione precedente, poiché in sala, quel 12 ottobre, era presente il primo segretario del partito comunista dell’unione sovietica, nonché presidente del consiglio dei ministri dell’unione sovietica, Nikita Sergeevič Chruščëv.

La replica accesa di Chruščëv: Difesa dell’URSS e scontro di visioni

L’intervento del delegato filippino attirò inevitabilmente l’attenzione della delegazione sovietica e di Chruščëv, e, al termine dell’intervento, lo stesso Chruščëv riuscì a conquistare il podio e prendere la parola.

Questo è il momento decisivo, il momento in cui il mito incontra la realtà, che segnò l’inizio dello spettacolo internazionale dai toni decisamente sopra le righe e noto al mondo come l’incidente di battitura della scarpa.

Durante il lungo intervento, il leader sovietico provò in ogni modo a lui consentito di giustificare e definire la politica “interna” dell’unione sovietica, ed è importante sottolineare il termine interna, poiché agli occhi della leadership sovietica si trattava di politica interna, mentre, agli occhi del delegato filippino, i rapporti tra Mosca e altri paesi dell’Unione, erano una questione di politica estera, de facto, Sumulong, e come lui numerosi altri delegati delle nazioni unite, non riconoscevano totalmente l’Unione Sovietica come un unico stato, ma come un insieme di stati autonomi e indipendenti, se pur legati strettamente tra loro da accordi internazionali.

Per Sumulong, l’Unione Sovietica non era diversa nella sostanza dalle Nazioni Unite, tuttavia, questo parallelismo era soltanto teorico e nella pratica, l’Unione Sovietica era un Impero guidato da Mosca, in cui la Russia era una potenza centrale che esercitava il proprio potere in maniera arbitraria su tutte le altre nazioni (non libere) dell’Unione.

Queste argomentazioni, molto forti, provocatorie e in larga parte condivise, sia da quella fetta di mondo non allineata con l’unione sovietica, che da parte delle popolazioni “sottomesse” dall’unione sovietica (e che, alcune parti, totalmente disallineate sia dagli USA che dall’URSS, vedevano come una versione più incisiva e meno subdola dell’analogo imperialismo statunitense) ebbero come effetto, l’escandescenza di Nikita Sergeevič Chruščëv che, in prima battuta osservò che non vi era alcuna limitazione nelle libertà civili e politiche dei cittadini sovietici, rimarcando l’unità dell’Unione Sovietica come nazione, e non come entità sovranazionale, osservando poi che, le diverse realtà che componevano l’unione sovietica, avevano visioni politiche non necessariamente identiche e anzi, in alcuni casi in contrasto tra loro, rimarcando più volte che, la propria corrente politica di appartenenza era in aperto contrasto con la corrente stalinista che lo aveva preceduto alla guida dell’unione.
Insomma, Chruščëv, nel proprio intervento, ricordò al mondo che l’Unione Sovietica era uno stato, con al proprio interno tante nazioni e altrettante correnti politiche, tutte libere anche se inserite all’interno del grande calderone del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, un partito che, aveva al proprio interno correnti più legate all’estrema sinistra, correnti più moderate e persino correnti liberali e di destra, del resto, egli stesso si era fatto promotore nell’URSS di una politica di destatalizzazione che potremmo interpretare come espressione di un comunismo sovietico più liberale e moderato.

Il gesto controverso: Chruščëv si sfila la scarpa

Durante l’intervento molto partecipato, Chruščëv si lasciò trasportare, forse un po’ troppo dalle emozioni, scaldandosi particolarmente e, nell’esprimere in maniera molto forte i propri concetti, le proprie posizioni, e le proprie emozioni, durante le battute finali dell’intervento, Chruščëv iniziò ad agitare violentemente il pugno per poi sfilarsi una scarpa e appoggiarla sul bancone.

In tutto l’intervento, stando a quanto asserisce William Taubman, giornalista statunitense, laureato ad Harvard e vincitore del premio Pulizer, se bene Chruščëv abbia effettivamente sfilato la scarpa e l’abbia poggiata sul bancone, non vi è alcuna prova video, non vi è alcuna immagine o testimone che possa confermare che Chruščëv abbia agitato la scarpa e che l’abbia battuta con forza sul bancone.

Secondo Taubman, la foto storica di Chruščëv che agita la scarpa è un artefatto ed è curioso come quella foto sia effettivamente l’unica foto, non ve ne sono altre, o almeno non ne sono mai state divulgate, pubblicate o distribuite altre, ed è curioso, osserva Taubman, che esiste, una foto identica, che mostra la stessa scena, lo stesso istante, dalla stessa angolazione, un immagine perfettamente sovrapponibile all’immagine della scarpa, in cui, tuttavia, non vi è alcuna scarpa, ma un semplice pugno.

Mistero e Iconicità

L’immagine di Chruščëv che batte la scarpa all’ONU è forse una delle immagini più iconiche e rappresentative del XX secolo, ed è un immagine che porta dietro di se un alone di mistero, poiché letteralmente unica.

Qualcuno ha ipotizzato che in quei pochi istanti altri fotografi erano distratti e che per qualche motivo, le telecamere non erano puntate su Chruščëv, cosa curiosa e abbastanza anomala visto che in quel momento, Chruščëv, leader dell’Unione Sovietica, che era insieme agli USA una delle due super potenze mondiali in quel momento storico, era in piedi, di fronte all’assemblea planetaria delle nazioni unite, impegnato a difendere l’immagine dell’Unione Sovietica.

Va però detto che, secondo la RAI esiste un video che mostra Chruščëv intento ad agitare la scarpa, tuttavia, quel video, dal quale si ipotizza sia stato estrapolato il celebre fotogramma non è di pubblico dominio, ma è nascosto e custodito in gran segreto negli archivi RAI, emittente radiotelevisiva italiana che per qualche motivo, sembrerebbe avere l’unica prova video dell’incidente della scarpa di Chruščëv all’ONU, mentre, in tutti gli altri filmati, Chruščëv agita e poi batte il pungo, e non la scarpa, sul bancone.

Fonti e approfondimento

Kruscev Ricorda
Atti XX convegno partito comunista URSS
Dialogo sulla distensione

Scoperta una fossa comune nella regione di Kirov, trovati resti di italiani

La scorsa estate, nella regione di Kirov, in Russia centro settentrionale, è stata fatta una delle più grandi scoperte legate alla seconda guerra mondiale.
Un ritrovamento impressionante di quella che si presentava come una mastodontica fossa comune, risalente agli anni della guerra, dalle indagini sui corpi potrebbero arrivare tantissime nuove informazioni, qualcuno azzarda l’ipotesi che alcune pagine di storia legate a quegli avvenimenti potrebbero essere riscritte.
Per ora una cosa è certa, migliaia di uomini creduti dispersi in battaglia, ora potranno finalmente tornare a casa per riposare in pace.
L’oscura scoperta ha riacceso immediatamente il ricordo dei Gulag, rigidissimi campi di concentramento, volti ad ospitare detenuti e prigionieri politici e di guerra, disseminati un po ovunque tra le regioni più rigide del vasto impero sovietico, la cui esistenza tenuta segreta per molti anni ha alimentato numerosi miti sull’effettiva natura di quei campi, di cui, ancora oggi si discute su quanti effettivamente fossero e quanti prigionieri ospitarono nei numerosi anni di attività.
Tralasciando la parentesi gulag, e soffermandoci sulla recente scoperta, ho deciso di parlarne con un po di ritardo rispetto all’ufficializzazione della scoperta perché, prima di esprimermi in merito volevo essere sicuro di ciò che è stato effettivamente trovato e qualche giorno fa è stata annunciata un’importantissima scoperta collaterale che mi ha convinto a parlarne, qualche settimana fa, sono stati identificati i resti di un soldato italiano tra le migliaia di ossa depositate in quella fossa comune.
L’uomo in questione si chiamava Lazzarotti Giulio, classe 1922, originario di parma, era soldato del regio esercito al servizio del corpo degli Alpini, disperso dal 20 gennaio 1943, in seguito alla battaglia di Nowo Postolajowka, nel corso della quale molti soldati italiani e tedeschi caddero prigionieri dell’armata rossa.
La vita di Giulio sembra finire in quella data, mentre la sua famiglia continua ad aspettare il suo ritorno, un ritorno che probabilmente non si sarebbe mai compiuto.
La lunga attesa della famiglia Lazzarotti tuttavia è finalmente giunta a termine quando recentemente il suo corpo è stato identificato nella fossa comune di Kirov.
Al di la della drammatica storia personale di Lazzarotti e la sua famiglia, è importante chiedersi, perché Kirov ? dove si trova e come hanno fatto Giulio e gli altri soldati impegnati nella campagna di Russia, ad arrivare fino a lì ?
Kirov si trova a circa 800KM a nord-est da Mosca, a molti chilometri di distanza dalle linee nemiche, e ben nascosta all’interno dell’immenso territorio dell’impero sovietico.
Da queste prime informazioni preliminari è facile dedurre che probabilmente la regione ospitasse un centro di detenzione e prigionia per prigionieri di guerra, c’è però un enorme punto interrogativo che aleggia su questo ipotetico centro, Giulio era disperso, e come lui gran arte delle vittime ritrovate in quella fossa comune, teoricamente, la convenzione di Ginevra del 1899 imponeva ai vari paesi aderenti, ivi compresa l’Unione Sovietica, di stilare una lista di prigionieri detenuti nei propri campi di prigionia, e fornire questo elenco alla croce rossa internazionale, va tuttavia detto che, durante la seconda guerra mondiale e non solo, era comune la pratica di omettere alcuni nomi dalla lista di prigionieri, e in alcuni casi estremi, si verificava l’omissione stessa di interi campi di detenzione e prigionia.
Nel caso specifico del campo di prigionia di Kirov, la sua esistenza è nota da tempo, così come il presunto numero di prigionieri contenuti al suo interno. Prima di questa scoperte le stime parlavano di 1.136 prigionieri italiani, di cui si ha una traccia documentaria e di cui si conoscevano i nomi, tuttavia, tra quei nomi però, sembra non figurasse quello di Giulio Lazzarotti. Questa omissione (o errore di trascrizione) apre la porta ad infinite possibilità, e le speculazioni in merito non mancano. Tra le tante, le ipotesi più plausibili ed interessanti sembrano essere due.
La prima ipotesi fa riferimento ad un ipotetico campo nascosto al resto del mondo, di conseguenza il numero reale dei prigionieri di Kirov andrebbe ricalcolato e quasi certamente accresciuto di diverse migliaia di unità.
L’altra ipotesi, a mio avviso interessante, fa riferimento ad una prematura morte di alcuni prigionieri, non abituati alle temperature estreme della Russia settentrionale in pieno inverno, in questo senso la battaglia di Nowo Postolajowka avvenuta il 10 gennaio del 1943 è perfettamente collocata nello scenario, e alcuni soldati feriti più o meno gravemente potrebbero non essere sopravvissuti al lungo viaggio di oltre 1000 chilometri che li avrebbe condotti al lontano e rigido campo di prigionia. 
Se questa ipotesi fosse vera, significherebbe che Giulio e presumibilmente tutte le migliaia di uomini ritrovati nella fossa comune, sarebbero morti prima di giungere al campo, e ciò giustificherebbe la loro assenza dai registri ufficiali.
Quale che sia la verità soltanto il tempo e nuove ricerche potranno rivelarlo.
La guerra fredda è conclusa da oltre un quarto di secolo ed il disgelo sta finalmente portando alla luce elementi chiave per risolvere antichi misteri, risalenti alla seconda guerra mondiale.
Exit mobile version