Bambini dei Gulag: la Tragica Storia di 10 Milioni “Piccoli Nemici di Stalin” #historyfactchecking

Bambini nei gulag, la drammatica storia di 10 milioni di bambini, vittime del sistema di repressione dell’unione sovietica.

Mi è capitato di imbattermi in alcuni vecchi post (e video), di un blog di divulgazione, di cui non farò il nome, intitolati Bambini dei Gulag: la Tragica Storia di 10 Milioni “Piccoli Nemici di Stalin”, che hanno come oggetto la “strage” di bambini avvenuta in URSS ai tempi di Stalin e dei gulag. Gli articoli partono dal presupposto che nei Gulag abbiano perso la vita oltre 20 milioni di persone, tra cui circa 10 milioni di bambini, tuttavia, la verità dei fatti è leggermente diversa, nella stampa specialistica internazionale, sulla base dei dati ufficiali, è emerso che i gulag fecero circa 20 milioni di vittime, dove per vittime si intende arresti, allontanamenti dalla famiglia, ma non decessi. I decessi stimati nei Gulag, si stima fossero circa 1,6 milioni (bambini e prigionieri di guerra inclusi). Ne consegue che, l’assunto da cui partono quei video sono errati, ma andiamo con ordine.

Introduzione

Bambini dei Gulag: la Tragica Storia di 10 Milioni “Piccoli Nemici di Stalin, si tratta di un titolo forte, inquietante, fa pensare che oltre 10 milioni di bambini dell’unione sovietica, vennero deportati nei Gulag, terribili luoghi di prigionia in cui i deportati vivevano in condizioni disumane, assimilabili a quelle dei lager nazisti. Ma l’articolo non si ferma a questo e arriva a concludere che 10 milioni di bambini morirono nei gulag e che il 40% dei prigionieri dei gulag fossero bambini. E nel sostenere ciò, cita una fonte in cui si dice tutt’altro. In cui si parla di orfanotrofi e istituti per bambini figli di deportati e si denuncia l’abbandono, da parte dello stato, di quei giovani allontanati dalle famiglie e costretti a vivere in contesti urbani degradati.

Tra questo titolo e la realtà c’è la stessa distanza che c’è tra l’articolo e il volume che utilizza come fonte, e si configura come un intero universo di possibilità ancora tutte da esplorare, detto in altri termini, il post è pieno di informazioni errate e dati falsi che non corrispondono ai dati ufficiali, che non trovano riscontro nelle fonti e trae conclusioni arbitrarie e soggettive, prive di alcuna connessione con i dati e le fonti.

Il tutto, condito da un accurata analisi di foto e copertine di libri, degne di un post di QAnon. Memorabile a tal proposito il commento dell’autore che, parlando del volume “Children of the gulag” osserva “la copertina del libro “Bambini dei Gulag”, che ritrae non a caso una bambina con uno sfondo di una foresta di pini.”.

A proposito di Children of the gulag, testo mai tradotto in italiano, non so esattamente perché, ma nel post, ogni volta che viene menzionato il libro, viene utilizzato il titolo ” l’autore del post, ogni volta che lo nomina, viene utilizzato il titolo “bambini dei gulag” traduzione letterale che neanche corrisponde al concetto a cui è costruito il libro. Una più accurata traduzione o adattamento del titolo in italiano dovrebbe essere “figli dei gulag” e il perché lo vedremo più avanti in questo post.

Vittima non significa deportazione o morte

Come già anticipato, vittima non significa necessariamente deportazione o morte, cominciamo quindi con il dire parlare di 10 milioni di bambini che, secondo il post avrebbero perso la vita nei nei gulag, questo dato è errato, ed è frutto di un interpretazione soggettiva (e distorta) dei dati presentati in diverse opere e volumi, distorcendo il concetto di vittima, rendendolo quindi un sinonimo di deportazione e morte. Come anticipato nell’introduzione, nei 30 anni di attività dei gulag, hanno perso la vita, nei campi, circa 1,6 milioni di persone.

Soffermiamoci sul concetto di vittima. Sebbene infatti il dato, 10 milioni, appaia effettivamente nei volumi più autorevoli, questo dato non si riferisce ai bambini morti nei gulag, e neanche ai bambini deportati nei gulag. 10 Milioni furono i bambini vittima del sistema di repressione sovietico, al cui apice c’erano i Gulag, ma Vittime non significa automaticamente deportazione nei gulag, ne morte, e giungere a questa conclusione è un’errata semplificazione, anche se capisco che è facile fraintendere il concetto di “vittima” il cui significato è apparentemente univoco viste le “poche sfumature” della lingua italiana.

Cercherò di essere più chiaro possibile, 10 milioni è il numero di bambini, figli di deportati, che sono stati allontanati dalle famiglie e condotti in orfanotrofi, non è il numero dei bambini deportati nei gulag o dei bambini che hanno perso la vita nei gulag. Quei bambini sono vittime indirette della repressione sovietica, possiamo anche dire che vennero deportati, se questo ci fa sentire meglio, e ci aiuta a dipingere meglio i sovietici come mostri disumani, perché comunque quei bambini vennero allontanati forzatamente dalle famiglie e condotti in orfanotrofi e centri di rieducazione minorile, ma quei bambini, non sono finiti nei gulag e non sono morti nei gulag. Dire che nei gulag hanno perso la vita 10 milioni di bambini è semplicemente falso.

Fatta questa precisazione linguistica, passiamo ad analizzare meglio tutti gli altri dati ed informazioni che vengono riportate nel post.

Revisione dei dati e pubblicazioni

In prima battuta il post ci presenta tre dati estremamente importanti e connessi tra loro, l’articolo parla di oltre 20 milioni di morti nei gulag, di cui 10 milioni di bambini, e come ovvia consecutio logica , viene fuori che il 40% dei prigionieri dei gulag erano Bambini, e, altra conseguenza logica di ciò, i Gulag, diversamente da come vengono descritti nella letteratura scientifica, non furono propriamente delle “prigioni politiche”.

Sono numeri da capogiro, sono numeri enormi, soprattutto se consideriamo che i decessi nei gulag interessarono circa il 10% dei prigionieri, il che significa che in un sistema di paesi che nel 1991 contava complessivamente circa 300 milioni di abitanti e che nel 45 contava più di 26 milioni di vittime causate della seconda guerra mondiale, nei Gulag, in teoria, è transitato il 100% della popolazione sovietica. Già qui dovrebbe suonare un campanello d’allarme e far dire, c’è qualcosa che non va.

In ogni caso, l’articolo si apre in grande stile, dichiarando che, nei gulag, tra il 1930 e il 1960, l’anno di dismissione dei gulag, persero la vita oltre 20 milioni di persone di cui, apprendiamo solo dopo, circa 10 milioni di bambini.

Partiamo dal dato generale dei 20 milioni di decessi in 30 anni, significa circa 1,2 milioni di decessi all’anno. Questa informazione è falsa, ha iniziato a circolare nel 1989, con il crollo dell’URSS e sono state riprese nel 2004, al seguito della pubblicazione del libro “Gulag: A History“, della giornalista statunitense Anne Applebaum, vincitrice del premio Pulizer per quest’opera tanto apprezzata dalla stampa generalista quanto criticata dalla stampa specialistica. Il dato degli oltre 20 milioni di decessi nei gulag è stato smentito quasi immediatamente, in realtà già prima della pubblicazione del libro, poiché i volumi che analizzavano i dati e traevano le prime stime storiografiche sul numero di deportati e vittime dei gulag, hanno iniziato ad uscire già dal 93, al seguito dell’apertura degli archivi dell’ex URSS dopo il crollo dell’URSS, dando così accesso al mondo accademico, tra le altre cose, ai registri relativi ai gulag con annessi documenti sui prigionieri.

Secondo le fonti ufficiali, e per ufficiali è bene precisarlo, non si intende le dichiarazioni del governo sovietico e successivamente quello russo, ma i documenti relativi ai gulag e ai prigionieri, insomma, fonti che sono state verificate da diversi studi storici e revisionati a livello internazionale da numerose reviews (mi dispiace per chi ancora vive ancora immerso nella dialettica della guerra fredda), che vedono concordare la maggior parte degli storici mondiali, indipendentemente dalle proprie simpatie politiche, si stima che tra il 1930 e il 1960 transitarono nei gulag circa 20 milioni di prigionieri.

Transitarono, non morirono. Ai decessi arriviamo tra poco.

Il dato più puntuale registrato fino ad oggi, riporta circa 18,5 milioni di persone deportate complessivamente nei Gulag, ma manteniamoci larghi e restiamo sui 20 milioni, così abbiamo cifra tonda ed è più facile fare i conti. Sempre secondo le fonti ufficiali, il picco massimo di prigionieri presenti contemporaneamente nella rete dei gulag, venne registrato nel 1953, anno in cui si registrarono circa 2 milioni di prigionieri presenti in tutti i campi di concentramento dell’Unione Sovietica.
Questo dato è presentato nello studio Illness and Inhumanity in Stalin’s Gulag pubblicato da Yale University Press, nel 2017 e revisionato sulla rivista di settore The American Historical Review, Volume 123, Issue 3, June 2018, Pages 1049–1051, pubblicato nel giugno 2018.

Altro dato interessante è quello relativo all’indice di mortalità nei gulag, il post parla di 20 milioni di morti, che su 20 milioni di prigionieri accertati, significa un tasso di mortalità del 100% e come potete facilmente intuire, visto che neanche i campi di sterminio nazisti, che erano campi di sterminio, raggiunsero “una tale efficienza” nello sterminare persone, c’è qualcosa che non torna.

Secondo le fonti ufficiali, l’indice di mortalità medio nei gulag è da stimarsi mediamente del 4%, con picchi del 7% registrati tra il 1940 e 1945. Secondo lo studio Victims of Stalinism and the Soviet Secret, di S.G. Wheatcroft, pubblicato nel 1999 sulla rivista Europe-Asia Studies, Vol. 51, No. 2, i picchi di mortalità vengono registrati negli anni in cui nei Gulag vennero trasferiti anche i prigionieri di guerra nazisti, durante la seconda guerra mondiale. Non è dato sapere a quali torture vennero sottoposti perché fornissero informazioni strategicamente rilevanti. Gli anni tra il 1940 e il 1945, osserva Wheatcroft, sono anche gli anni di maggior affluenza di nuovi prigionieri nei campi, secondo i registri infatti, i nuovi arrivi erano dovuti principalmente all’afflusso di prigionieri di guerra e disertori.

Questi dati ci dicono due cose importantissime, la prima, durante la seconda guerra mondiale l’URSS non rispettò le convenzioni internazionali in merito al trattamento dei prigionieri di guerra, ma questa per il momento non ci interessa e comunque non è una novità. La seconda, che invece ci interessa è che il numero complessivo di decessi avvenuti nei Gulag, in tutto il periodo di attività, approssimativamente l’8% dei prigionieri facendo una media ponderata (e non matematica) di tutto il periodo, si aggira intorno agli 1,6 milioni. Ipotizzando inoltre che molti decessi non vennero registrati, possiamo tenerci larghi e stimare circa 2 milioni di decessi. Due milioni di decessi sono sicuramente tanti, sono più di quelli effettivamente documentati o comunque di quelli identificati dagli studi, sono un decimo dei 20 milioni decantati post, ma soprattutto, 2 milioni di decessi complessivi, sono meno di 10 milioni di decessi minorili. C’è ancora qualcosa che non torna.

Questi dati, pubblicati e revisionati su importanti riviste di settore, sono frutto di diverse analisi comparative che hanno preso in esame oltre ai registri dei gulag, anche le cartelle cliniche dei detenuti, i documenti di arresto, i documenti di rilascio, registri sanitari, mortuari e di natalità, e per non farsi mancare nulla, in alcuni studi, sono stati presi in esame anche i documenti pubblici, prodotti dalle persone, dopo il loro rilascio e che, anche se liberi, erano rimaste sotto stretta sorveglianza da parte della Ceka.

Tutte queste informazioni le abbiamo perché l’elefantesca burocrazia sovietica teneva traccia di qualsiasi cosa, e perché diversi studiosi hanno trascorso diversi anni negli archivi di stato dell’ex URSS a Mosca, catalogare e analizzare fascicoli e raccogliendo dati. Abbiamo innumerevoli sorgenti di dati, fonti documentarie, che ci forniscono dati concordanti e coerenti tra loro.

Appurato quindi che quelle 20 milioni di vittime dei gulag, si riferisce ai prigionieri e non ai decessi e che questi invece ammontano a circa 2 milioni, cerchiamo di capire da dove salta fuori quel 10 milioni relativo ai bambini deceduti nei gulag.

Questo dato lo incontriamo già nel titolo, anche se lì non si fa riferimento ai decessi, si parla solo di “piccoli nemici di Stalin” ed è solo nella conclusione del post che si parla apertamente di decessi. Il post si conclude con una dichiarazione di Aleksandr Yakovlev, Commissario del Cremlino per la riabilitazione delle vittime della repressione politica, datata 2002. In questa dichiarazione Yakovlev asserisce che sono stati circa 10 milioni i bambini vittime del sistema di deportazione minorile e della repressione sovietica.

Yakovlev ha effettivamente riportato questo dato, ha parlato di 10 milioni di bambini vittime dei gulag, e come abbiamo specificato più volte, fonti alla mano, vittima non significa decessi.

Le dichiarazioni di Yakovlev, coerentemente a quanto emerso dalle fonti di cui sopra, parlano di circa 10 milioni di bambini che si sono ritrovati a fare i conti con la macchina della repressione, attraverso l’arresto dei propri genitori e dei propri familiari, bambini che sono stati dati in affidamento ad orfanotrofi e strutture rieducative e che, molto spesso, sono stati abbandonati a loro stessi.

Nel volume Children of the gulag, pubblicato da C.A. Frierson e S.S. Vilensky tramite Yale University press nel 2010, gli autori hanno concentrato i propri studi proprio sui bambini vittima del sistema di repressione dell’URSS. Di questo volume parleremo in maniera più ampia in un paragrafo dedicato più avanti perché apparentemente il post cita questo volume come fonte, tuttavia, il volume e l’articolo, forniscono numeri diversi, il volume parla di 10 milioni di vittime, il post parla di 10 milioni di decessi, e non serve che ripeta ancora una volta che vittime e decessi non sono sinonimi.

Passiamo all’ultimo dato, il 40% dei prigionieri dei Gulag costituito da Bambini. L’autore del post scrive “Nonostante la visione popolare del Gulag come “sistema di repressione politica”, in questi campi erano pochi i prigionieri classificabili come “politici” e il 40% degli internati erano solo dei bambini, innocenti collegati in qualche modo a genitori colpevoli di qualsiasi accusa.

Su questo dato ammetto la mia ignoranza, non ho la più pallida idea del dove l’autore abbia reperito questo dato del 40%, la maggior parte degli studi di settore citati fino ad ora non presentano questo dato. Personalmente credo sia una proporzione fatta tra i 20 milioni di prigionieri e i 10 milioni di minori, ma non ne sono troppo sicuro visto che il rapporto in quel caso sarebbe al 50%.

In ogni caso, i minori vittima del sistema di repressione, ovvero, i figli di deportati, come abbiamo visto, furono effettivamente circa 10 milioni, ovvero il 50% rispetto ai deportati. Qui va fatta un altra precisazione, 50% rispetto ai deportati e non 50% dei deportati. Questi 10 milioni di bambini, figli di deportati, non vennero deportati insieme ai propri genitori nei gulag, vennero invece trasferiti in orfanotrofi e istituti rieducativi, se vogliamo, per darci un tono, possiamo parlare comunque di deportazione, ma è una deportazione verso istituti diversi dai gulag, istituti di cui esistono i registri e che sono ampiamente documentati.

C’è però da dire una cosa, alcuni bambini vissero effettivamente nei gulag, questo avvenne perché nacquero nei gulag stessi, da donne deportate durante la gravidanza o che vennero concepiti nei gulag, in seguito a rapporti non sempre consensuali, ma non siamo qui per parlare degli stupri nei gulag. Il numero di bambini che vissero nei gulag, e che non erano prigionieri, vivevano in strutture separate dai gulag e seguivano una dieta più ricca e varia (comunque misera) rispetto a quella dei prigionieri.

Lo studio Glasnost’ and the Gulag: New Information on Soviet Forced Labour around World War II di
Edwin Bacon, pubblicato su Soviet Studies, Vol 44, No.6, nel 1992, stima la dieta dei prigionieri nei Gulag, tra le 700 e le 1000 chilocalorie al giorno, una dieta inadeguata alle condizioni di lavoro e le temperature, che richiederebbero una dieta da circa 3300 chilocalorie al giorno. Nel caso dei bambini la dieta è stimata intorno alle 2000 chilocalorie al giorno, analogamente alla dieta dei bambini nei gli orfanotrofi e istituti di rieducazione, dove sappiamo non esistere distinzione nella dieta per “orfani” e figli di deportati.

Purtroppo l’entità dei bambini che nacquero e vissero nei gulag, non è ancora nota agli storici, ma si stima essere nell’ordine delle decine di migliaia.

L’ordinanza numero 00486

Nei primi paragrafi del post, si parla della deportazione di bambini nei campi di concentramento e viene citata l’ordinanza n° 00486, prodotta dal commissario del popolo per gli affari interni dell’URSS (NKVD) in data 15 Agosto del 1937. Secondo l’autore del post, cito testualmente “l’ordinanza documenta l’“Operazione di repressione delle mogli e dei figli dei traditori della Patria”, si dice inoltre che, secondo questa ordinanza “mogli e figli dei traditori” erano classificati “socialmente pericolosi”, non per le loro azioni ma per quello che avrebbero potuto fare in futuro, in quanto parenti di nemici del popolo.

Sorvolando, sul fatto che nel post (non l’ordinanza) si sofferma su mogli e figli dei nemici del popolo, ignorando invece mariti, fratelli, sorelle, genitori e familiari in generale, il post continua dicendo che “mogli e figli adolescenti erano destinati ai lavori forzati, mentre i più piccoli erano destinati agli orfanotrofi della kvd (Narodnyj komissariat vnutrennich – Commissariato del popolo per gli affari interni)” specificando che, la distinzione tra figli adolescenti e figli più piccoli, era arbitraria, più o meno come sono arbitrarie le conclusioni a cui si giunge nel post.

L’ordinanza numero 00486 viene citata, ma non ci viene mostrata, ne ci viene detto cosa effettivamente contenga.

Ho provato a risalire al testo dell’ordinanza, se l’autore del post l’ha citata ipotizzo ne abbia letto il contenuto, da qualche parte deve essere, ma ammetto di non essere riuscito a trovarne il testo, ho però trovato alcuni articoli che annoverano questa stessa ordinanza tra le note bibliografiche, come ad esempio un articolo pubblicato sulla rivista telematica di studi sulla memoria femminile, a cura di Emilia Magnanini, dell’Università Ca’ Foscati di Venezia, in cui viene menzionata l’ordinanza 00486, articolo che si concentra sul tema delle condizioni dei “figli dei deportati nei Gulag”.

I figli dei gulag

L’articolo di Emilia Magnanini usa come fonte primaria per il proprio articolo un volume, pubblicato a Mosca nel 2002, intitolato “Deti Gulaga. 1918-1956” a cura di S.S. Vilenskij, A.I. Kokurin, G.V. Atamaškina e I. Ju. Novičenko, si tratta di un volume dal valore epocale perché una delle primissime pubblicazioni in cui vengono riportati documenti relativi non solo ai deportati nei Gulag ma anche ai loro familiari e tra questi documenti figura anche la famigerata ordinanza 00486 dell’agosto 1937.

Secondo Magnanini, i documenti presentati in Deti Gulaga sono estremamente eloquenti e ci parlano del destino di milioni di bambini e adolescenti che hanno subito gli effetti della repressione che aveva colpito i loro genitori.

Nell’articolo, Emilia Magnanini ci dice testuali parole “la stragrande maggioranza dei minori finiva negli orfanotrofi, negli istituti correzionali o persino nel lager dopo essere rimasti soli perché i loro genitori erano contadini deportati e morti di stenti, o perché erano stati arrestati e fucilati, oppure condannati al lager”

Inoltre, nei documenti ufficiali, osserva Magnanini, ricorre spesso il termine “besprisornye”, termine utilizzato per indicare i ragazzi ospitati negli istituti di rieducazione. L’etimologia di questa parola parte dal concetto di “ragazzi sfuggiti alla vigilanza (degli adulti)”, “ragazzi di strada”, “criminalità minorile”.

L’articolo di Magnanini giunge alla conclusione che, quella situazione di criticità e disagio per molti giovanissimi sovietici, costretti a vivere alla giornata, era effetto della repressione. L’articolo è estremamente critico nei confronti dell’URSS e fa le pulci al modo in cui lo stato sovietico, tra il 1930 e 1960, ha gestito figli dei deportati, de facto abbandonandoli a loro stessi. In tutto questo però, nell’articolo non si fa riferimento, se non in un contesto generale, alle deportazioni minorili. Neanche quando l’articolo cita come fonte l’ordinanza 00486. Detto più semplicemente, l’articolo di Magnanini, che parte dal “Deti Gulaga” e analizza i documenti ufficiali tra cui le lettere e diari dei ragazzi figli di deportati, le lettere e diari degli stessi deportati, oltre ad atti burocratici, non ci dice che i figli dei deportati venivano deportati a loro volta perché figli di deportati o che i familiari adulti dei deportati venissero arrestati in via precauzionale, ne ci parla di bambini deportati e deceduti nei gulag, nonostante i bambini vittima della repressione sovietica sono proprio l’oggetto dell’articolo.

Ci dice invece che questi, i figli dei deportati, rimasti senza genitori e abbandonati a loro stessi, vennero portati in orfanotrofio, i più grandi in istituti correttivi, e in quel clima di degrado e disagio, circondati da altri ragazzini che avevano vissuto un disagio simile o che avevano commesso dei crimini, circondati da “ladruncoli e criminali“, alcuni di loro iniziarono a sviluppare sentimenti avversi e ostili all’URSS, avvicinandosi quindi a gruppi sovversivi e reti di cospiratori anti governative e quando scoperti, perché comunque sotto sorveglianza, vennero deportati a loro volta.

Non c’è in questo una deportazione precauzionale, c’è invece una serie di azioni e reazioni che si alimentano a vicenda.

Nell’articolo di Emilia Magnanini, tra le altre cose, viene riportato il testo (tradotto) di alcune lettere e documenti che raccontano proprio questo disagio e angoscia, questo senso di abbandono vissuto dai figli dei deportati.

Children of the Gulag di Frierson e Vilensky

Tornando invece al post, questi, nella parte centrale arriva al vero topic. In questa sezione vi viene riportata la storia di alcuni bambini ed è indicata come fonte (finalmente appare una fonte) il volume Children of the gulag” a cura di Cathy A. Frierson e Semyon S. Vilensky edito da Yale University press nel 2010, per qualche motivo italianizzato in “bambini dei gulag” anche se il volume non è mai stato tradotto in italiano.

Premesso che la traduzione “bambini dei gulag” è una traduzione letterale, e non un adattamento e che una più corretta traduzione, che ricalchi il concetto espresso dal titolo del volume, sarebbe “figli dei gulag” (come l’articolo di Magnanini).

In ogni caso, nulla da dire sulle storie che ci vengono raccontate, c’è qualche foto e qualche informazione sui bambini protagonisti delle vicende, in particolare il post si sofferma sulla particolare storia di Engelsina Markizova, bambina della regione di Buriata, vicina alla Mongolia, che venne ritratta con Stalin in un servizio fotografico ufficiale del 1936 poi utilizzato per fini propagandistici.

Voglio però spendere qualche parola sul volume curato da Frierson e Vilensky, il volume, proprio come Deti Gulaga prima d’esso, indica come fonti numerosi documenti degli archivi sovietici declassificati dopo la caduta dell’URSS. Si tratta nella maggior parte dei casi degli stessi documenti utilizzati in Deti Gulaga, a cui se ne aggiungono di nuovi, risultando in questo senso molto più ricco e aggiornato.

La cosa interessante è che uno degli autori di Children of the Gulag è Semyon S. Vilensky, è anche uno dei curatori del volume Deti Gulaga e, nella bibliografia di Children of the Gulag, viene citato tra gli altri riferimenti bibliografici proprio Deti Gulaga. In questo non c’è nulla di anomalo o sorprendente, si tratta di studi simili e in continuità tra loro, separati da circa 10 anni (il primo è del 2002, il secondo del 2010), che partono da una base documentaria comune, fatta di fonti di prima mano, e affrontano aspetti diversi di una problematica comune.

Come per Deti Gulaga, anche Children of the Gulag è un volume di alto profilo, fondamentale per chiunque voglia approcciarsi allo studio dei Gulag e della società sovietica, il volume è ricco di mappe, fotografie, cronologie, appunti e tabelle riportanti i dati ufficiali, insomma, è un opera monumentale, che oltre ad un analisi corale e comparativa di innumerevoli fonti, fornisce ai lettori la più imponente selezione di fonti primarie, che si possa immaginare. Documenti di prima mano fondamentali per la ricerca storiografica che, senza quest’opera, sarebbero estremamente difficili da reperire per chi non vive a Mosca.

Per questi ed altri motivi, Children of the Gulag è stato ed è tutt’oggi molto apprezzato dalla comunità scientifica, ricevendo numerose reviews positive. Tra le varie reviews, , che non sono recensioni, ma più delle verifiche delle fonti, nella primavera del 2011 la rivista Slavic Review, Volume 70 , Issue 1, edita da Cambridge University Press, alle pagine 197-198, pubblica una delle tante reviews dell’opera.

Nell’articolo, Children of the gulag viene citato come fonte e arriva alla conclusione che, nei gulag, persero la vita circa 10 milioni di bambini sovietici, figli di deportati accusati di essere “nemici del popolo”, ma, in Children of the Gulag ci viene detto che i deportati complessivi furono circa 20 milioni, in linea con gli altri studi di settore e non si fa riferimento a bambini deportati nei gulag, nonostante l’oggetto dell’articolo sia proprio il destino dei bambini vittime del sistema di repressione sovietico. A tal proposito voglio citare direttamente la Reviews di Children of the gulag pubblicata su Slavic Review nel 2011.

“What comes out in these interviews and, indeed, in the entire book, is the way in which this population of victims did not experience a single traumatic moment but a lifetime of crippling blows. In one of these interviews, an orphaned child of “enemies of the people,” Boris Faifman, described his days as a thief in the company of juvenile criminals. Later, Faifman will mourn his parents three times, in his words, first when they were arrested, second when he was told they had died of heart disease in Kolyma, and a third time when he learned the truth—as late as 1962—that they had, in fact, been executed.”
“Ciò che emerge in queste interviste e, in generale, dall'intero libro, è il modo in cui questa popolazione di vittime (si riferisce ai figli dei deportati) non ha vissuto un solo momento traumatico ma una vita di colpi paralizzanti. In una di queste interviste, un bambino orfano di “nemici del popolo", Boris Faifman, ha descritto i propri giorni come ladro in compagnia di criminali minorenni. Più tardi, Faifman piangerà i suoi genitori tre volte, nelle sue parole, la prima quando erano stati arrestato, la seconda quando gli avevano detto che erano morti di malattie cardiache a Kolyma, e la terza quando ha appreso la verità - nel 1962 - scoprendo che in realtà erano stati giustiziati.”

Riassumendo, Boris Faifman, il protagonista di questa vicenda è uno dei tanti “figli dei gulag” che fino al 1962 non aveva idea di cosa fossero i Gulag, che non ha mai visto un Gulag e che (fortunatamente per lui) non è stato deportato in un gulag perché “figlio di nemici del popolo”, deportati ed entrambi giustiziati in un gulag.

L’opera di Frierson e Vilensky, così come il più recente articolo di Magnanini di cui sopra, e come anche Deti Gulaga dello stesso Vilensky, ci parlano del dramma dei ragazzi figli di deportati, delle loro condizioni di vita difficilissime, del loro abbandono, del loro essere vittime dirette e indirette della repressione sovietica ed è per questo che quei bambini sono “figli dei gulag“.

In Children of the gulag, Frierson e Vilensky ci raccontano le storie dei figli dei gulag, ci raccontano storie di abbandono, di sofferenza, di vite distrutte dalla repressione, ci raccontano le storie di quei ragazzi che sono stati abbandonati a loro stessi, a cui lo stato sovietico ha tolto tutto, ha portato via la famiglia e a cui è stata negata una vita normale, normale per quella che era la normalità sovietica dell’epoca, ciò nonostante, non sono storie di bambini deportati nei gulag perché figli di “nemici del popolo” e non sono storie di bambini che hanno perso la vita nei gulag dopo essere stati deportati perché figli di deportati.

Il volume, citato come fonte del post, che non è assolutamente accomodante nei confronti dell’unione sovietica e ne denuncia la crudeltà della repressione a colpi di dati, fonti e testimonianze, mostrando la natura disumana e disgustosa dei Gulag, non ci parla di 10 milioni di bambini che persero la vita nei gulag.

Per fare ciò il volume ci fornisce informazioni accuratissime sugli orfanotrofi, sugli istituti rieducativi, sul tasso di criminalità minorile tra figli di deportati e ci parla anche del tasso di mortalità dei bambini e adolescenti nelle strutture rieducative, mortalità dovuta a pessime condizioni igienico sanitarie, spesso maltrattamenti e in alcuni casi suicidi. Il volume ci dipinge un ambiente sociale terribile per dei minori, un ambiente degradato e carico di sofferenza, in cui permane uno stato di abbandono e un senso di solitudine costante.

Conclusioni

L’articolo decontestualizza e decostruisce le fonti, proponendo una propria narrazione e interpretazione dei fatti, non basata sulle fonti, ma basata su preconcetti e idee di parte. L’articolo ci parla di 10 milioni di bambini deceduti nei gulag, ma nei gulag non hanno perso la vita 10 milioni di bambini, e neanche 10 milioni di persone indipendentemente dall’età. L’articolo confonde il significato di “vittime” facendo passare 10 milioni di bambini che più o meno direttamente hanno avuto a che fare con la macchina della repressione, per decessi di minori.

In URSS al tempo dei gulag sono stati commessi crimini atroci, ben più gravi dell’assassinio, a quei bambini allontanati dalla famiglia, abbandonati a loro stessi e consegnati ad un destino di criminalità, odio e miseria, è stato tolto tutto, ma non la vita e non la loro storia. I loro nomi non vennero cancellati, la loro memoria non venne abrasa, la loro vita venne sì distrutta, ma non eliminata.

I figli dei deportati, come nel caso di Boris Faifman, mantengono il proprio nome, e in un perverso spirito materno, la grande madre Russia che aleggiava sull’URSS ha quasi cercato di “proteggerli” dalla repressione che applicava. Ha cercato di “proteggerli” da se stessa, in modo discutibile e aberrante, mentendo loro sull’arresto dei genitori, sulle cause della morte dei genitori, sul perché venissero portati in orfanotrofio, nascondendo loro informazioni e raccontando loro una verità di facciata nel tentativo di plasmarli come dei “bravi patrioti e servitori della patria“, analogamente a quanto accaduto in Italia con i balilla, in germania con la gioventù hitleriana e in generale, nel mondo cristiano con l’azione cattolica ragazzi, ma pur nascondendo loro la verità su cosa fosse successo ai propri familiari, diversamente da quanto asserito, Frierson e Vilensky, ci dicono che non viene tolta loro l’identità. Nell’articolo viene raccontata la storia di Engelsina Markizova, non ci viene però detto che Engelsina Markizova conosceva il proprio nome, conosceva il proprio passato ed è stata lei stessa a raccontare che quel passato nessuno ha provato a portarglielo via, e questo perché, in quella logica perversa della società sovietica, terminata la prigionia nei Gulag, gli ormai ex prigionieri (sopravvissuti e rieducati) potevano ritornare dalle proprie famiglie e sono milioni gli uomini e le donne che, dopo la prigionia, sono tornati a casa dai propri familiari.

Bibliografia

Chruščëv e la Scarpa all’ONU: Il Giorno che Cambiò la Storia

Nikita Chruščëv ha davvero battuto la scarpa sui banchi dell’ONU? se si, cosa lo ha spinto a tanto e se non è andata così, cosa è successo davvero il 12 ottobre 1960?

Nikita Chruščëv ha davvero battuto la scarpa sui banchi dell’ONU? Sse si, cosa lo ha spinto a tanto e se non è andata così, cosa è successo davvero il 12 ottobre 1960?

Il Contesto: L’assemblea ONU del 12 ottobre 1960 e l’intervento di Sumulong

Era un mercoledì quel 12 ottobre del 1960, quando al palazzo dell’ONU di New York, era in corso la 902a riunione planetaria dell’assemblea generale delle nazioni unite.

Durante questa storica riunione, tra i punti all’ordine del giorno, vi era un intervento del delegato filippino Lorenzo Sumulong, nel quale, si denunciava la condizione sociale e politica dei popoli dell’Europa orientale, che, stando alle dichiarazioni del delegato filippino, riportate fedelmente nei dattiloscritti ufficiali della seduta, erano stati “privati del libero esercizio dei loro diritti civili e politici e che sono stati inghiottiti, per così dire, dall’Unione Sovietica”.

Il delegato filippino non ha scelto casualmente questa riunione per denunciare questi fatti, avrebbe potuto parlarne in qualunque riunione planetaria, ma, la 902a riunione planetaria dell’ONU aveva un qualcosa di unico rispetto a qualsiasi riunione precedente, poiché in sala, quel 12 ottobre, era presente il primo segretario del partito comunista dell’unione sovietica, nonché presidente del consiglio dei ministri dell’unione sovietica, Nikita Sergeevič Chruščëv.

La replica accesa di Chruščëv: Difesa dell’URSS e scontro di visioni

L’intervento del delegato filippino attirò inevitabilmente l’attenzione della delegazione sovietica e di Chruščëv, e, al termine dell’intervento, lo stesso Chruščëv riuscì a conquistare il podio e prendere la parola.

Questo è il momento decisivo, il momento in cui il mito incontra la realtà, che segnò l’inizio dello spettacolo internazionale dai toni decisamente sopra le righe e noto al mondo come l’incidente di battitura della scarpa.

Durante il lungo intervento, il leader sovietico provò in ogni modo a lui consentito di giustificare e definire la politica “interna” dell’unione sovietica, ed è importante sottolineare il termine interna, poiché agli occhi della leadership sovietica si trattava di politica interna, mentre, agli occhi del delegato filippino, i rapporti tra Mosca e altri paesi dell’Unione, erano una questione di politica estera, de facto, Sumulong, e come lui numerosi altri delegati delle nazioni unite, non riconoscevano totalmente l’Unione Sovietica come un unico stato, ma come un insieme di stati autonomi e indipendenti, se pur legati strettamente tra loro da accordi internazionali.

Per Sumulong, l’Unione Sovietica non era diversa nella sostanza dalle Nazioni Unite, tuttavia, questo parallelismo era soltanto teorico e nella pratica, l’Unione Sovietica era un Impero guidato da Mosca, in cui la Russia era una potenza centrale che esercitava il proprio potere in maniera arbitraria su tutte le altre nazioni (non libere) dell’Unione.

Queste argomentazioni, molto forti, provocatorie e in larga parte condivise, sia da quella fetta di mondo non allineata con l’unione sovietica, che da parte delle popolazioni “sottomesse” dall’unione sovietica (e che, alcune parti, totalmente disallineate sia dagli USA che dall’URSS, vedevano come una versione più incisiva e meno subdola dell’analogo imperialismo statunitense) ebbero come effetto, l’escandescenza di Nikita Sergeevič Chruščëv che, in prima battuta osservò che non vi era alcuna limitazione nelle libertà civili e politiche dei cittadini sovietici, rimarcando l’unità dell’Unione Sovietica come nazione, e non come entità sovranazionale, osservando poi che, le diverse realtà che componevano l’unione sovietica, avevano visioni politiche non necessariamente identiche e anzi, in alcuni casi in contrasto tra loro, rimarcando più volte che, la propria corrente politica di appartenenza era in aperto contrasto con la corrente stalinista che lo aveva preceduto alla guida dell’unione.
Insomma, Chruščëv, nel proprio intervento, ricordò al mondo che l’Unione Sovietica era uno stato, con al proprio interno tante nazioni e altrettante correnti politiche, tutte libere anche se inserite all’interno del grande calderone del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, un partito che, aveva al proprio interno correnti più legate all’estrema sinistra, correnti più moderate e persino correnti liberali e di destra, del resto, egli stesso si era fatto promotore nell’URSS di una politica di destatalizzazione che potremmo interpretare come espressione di un comunismo sovietico più liberale e moderato.

Il gesto controverso: Chruščëv si sfila la scarpa

Durante l’intervento molto partecipato, Chruščëv si lasciò trasportare, forse un po’ troppo dalle emozioni, scaldandosi particolarmente e, nell’esprimere in maniera molto forte i propri concetti, le proprie posizioni, e le proprie emozioni, durante le battute finali dell’intervento, Chruščëv iniziò ad agitare violentemente il pugno per poi sfilarsi una scarpa e appoggiarla sul bancone.

In tutto l’intervento, stando a quanto asserisce William Taubman, giornalista statunitense, laureato ad Harvard e vincitore del premio Pulizer, se bene Chruščëv abbia effettivamente sfilato la scarpa e l’abbia poggiata sul bancone, non vi è alcuna prova video, non vi è alcuna immagine o testimone che possa confermare che Chruščëv abbia agitato la scarpa e che l’abbia battuta con forza sul bancone.

Secondo Taubman, la foto storica di Chruščëv che agita la scarpa è un artefatto ed è curioso come quella foto sia effettivamente l’unica foto, non ve ne sono altre, o almeno non ne sono mai state divulgate, pubblicate o distribuite altre, ed è curioso, osserva Taubman, che esiste, una foto identica, che mostra la stessa scena, lo stesso istante, dalla stessa angolazione, un immagine perfettamente sovrapponibile all’immagine della scarpa, in cui, tuttavia, non vi è alcuna scarpa, ma un semplice pugno.

Mistero e Iconicità

L’immagine di Chruščëv che batte la scarpa all’ONU è forse una delle immagini più iconiche e rappresentative del XX secolo, ed è un immagine che porta dietro di se un alone di mistero, poiché letteralmente unica.

Qualcuno ha ipotizzato che in quei pochi istanti altri fotografi erano distratti e che per qualche motivo, le telecamere non erano puntate su Chruščëv, cosa curiosa e abbastanza anomala visto che in quel momento, Chruščëv, leader dell’Unione Sovietica, che era insieme agli USA una delle due super potenze mondiali in quel momento storico, era in piedi, di fronte all’assemblea planetaria delle nazioni unite, impegnato a difendere l’immagine dell’Unione Sovietica.

Va però detto che, secondo la RAI esiste un video che mostra Chruščëv intento ad agitare la scarpa, tuttavia, quel video, dal quale si ipotizza sia stato estrapolato il celebre fotogramma non è di pubblico dominio, ma è nascosto e custodito in gran segreto negli archivi RAI, emittente radiotelevisiva italiana che per qualche motivo, sembrerebbe avere l’unica prova video dell’incidente della scarpa di Chruščëv all’ONU, mentre, in tutti gli altri filmati, Chruščëv agita e poi batte il pungo, e non la scarpa, sul bancone.

Fonti e approfondimento

Kruscev Ricorda
Atti XX convegno partito comunista URSS
Dialogo sulla distensione

Intervista a Marcello Flores

Questo libro che è stato pubblicato nell’anno del centenario della Rivoluzione Russa tratta di gran parte della storia del socialismo del 900. Quali sono le motivazioni che l’hanno portata a compiere questa scelta?
La rivoluzione russa si è imposta in gran parte del movimento operaio come l’unico modello di socialismo possibile, come il socialismo “vero”, diverso da quello dei “rinnegati” della Seconda internazionale. Mi interessava non tanto guardare a come il socialismo fosse stato costruito in Urss (su cui ci sono una quantità di volumi ottimi) e cioè con criteri e valori in qualche modo agli antipodi dai valori socialisti che si erano imposti nel movimento operaio tra Otto e Novecento; ma a come fosse stato possibile che quel socialismo (autoritario, monopartitico, violento, totalitario) diventasse per molti “il” modello di socialismo da difendere e se possibile da imitare. E ho cercato di farlo attorno alla rilevanza (alla creazione e alla diffusione) del mito che ha accompagnato l’Ottobre e ai successivi miti che hanno accompagnato la storia dell’Urss.

Nel libro, quando affronta il tema del socialismo degli anni 30 lei evidenzia due posizioni: una critica verso il socialismo dell’Unione Sovietica e l’ altra invece favorevole. In entrambi i casi Lei non cita intellettuali italiani. Che posizione ebbero gli intellettuali italiani dell’epoca verso l’Unione Sovietica?
Direi che tra queste due posizioni, una di critica molto forte e una di adesione acritica, vi sono anche posizioni intermedie, anche perché quello è il decennio in cui ci sono molti mutamenti di opinione, di cambiamento di giudizi, ecc. Per quanto riguarda gli italiani bisogna comprendere che, vivendo sotto il regime fascista, la situazione per loro era assai diversa da quella degli intellettuali che potevano esprimersi liberamente e confrontarsi in Francia, Inghilterra, Stati Uniti. Vi sono intellettuali antifascisti che sono presenti nel libro: Salvemini proprio a metà anni ’30 e Silone a cavallo tra anni ’20 e ’30, ma sono intellettuali con una forte partecipazione politica, anche diretta, quindi un po’ atipici rispetto a quelli degli altri paesi. Tra gli intellettuali italiani più vicini al fascismo vi fu un forte interesse per l’esperienza sovietica, che in alcuni casi e per alcuni aspetti fu avvicinata a quella fascista. Il punto di vista più significativo (d’interesse molto forte ma con occhi condizionati da un atteggiamento allora positivo verso il fascismo) fu quello di Corrado Alvaro dopo un viaggio che compì in Urss. Credo però che il clima e l’orizzonte del fascismo non permisero – tranne che per gli esuli dell’antifascismo – una discussione sull’Urss analoga a quella avvenuta nei paesi democratici. Anche se, occorre ricordarlo, le pubblicazioni sull’Urss negli anni ’30 sono numerosissime in Italia, comprese le maggiori opere scritte da Trockij.
Un momento di svolta nella storia dell’Unione Sovietica fu certamente ciò che avvenne nel febbraio del 1956 con il rapporto Chruščëv Che situazione c’era in quella fase? In che modo la lettura del rapporto segreto influenzò la politica dei partiti comunisti occidentali nei confronti dell’Unione Sovietica?
In Urss nel 1956 era in corso la lotta politica tra quei dirigenti che volevano, dopo la morte di Stalin, cambiare il corso dello sviluppo socio-economico (più attenzione ai consumi individuali, miglioramento delle condizioni di vita, specie nelle campagne, grandi obiettivi come il dissodamento delle terre vergini o la corsa allo spazio) alleggerendo la stretta repressiva pur nell’ambito di un monopolio del partito che restava esclusivo del partito comunista. Chruščëv riesce a emergere e, per rafforzarsi, decide di puntare sul dare la colpa a Stalin per salvare la sostanza del socialismo, con la formula del “culto della personalità”. I partiti comunisti occidentali, che erano all’oscuro fino all’ultimo della portata delle accuse a Stalin da parte di Chruščëv, si trovarono spiazzati e reagirono con difficoltà, edulcorando e riducendo nella sostanza le accuse rispetto a quanto aveva fatto Chruščëv. Togliatti, ad esempio, sotto la finta di voler meglio approfondire le “contraddizioni” del socialismo non permise che vi fosse una critica serrata a Stalin analoga a quella svolta in Urss, e si comportò con chi voleva aprire il dibattito (Giolitti, Calvino e tanti altri) con un settarismo e una chiusura di pieno stampo staliniano. Quando poi, nell’ottobre, vi fu la rivolta ungherese e l’intervento armato sovietico, si assisté a una nuova solidarietà in nome della repressione di presunti traditori e nuovi nemici del popolo, a dimostrazione di come la “destalinizzazione” non era vista come messa in discussione dei principi autoritari e totalitari dello stato e della politica sovietici, ma come cambiamento rispetto al passato ma in sostanziale continuità con esso. L’apertura democratica dei partiti comunisti ebbe sempre come vincolo e ostacolo insuperabile la critica all’Urss, come si vide subito dopo in occasione del premio Nobel a Pasternak e in ogni occasione almeno fino al 1968, quando si poterono esprimere – in occasione dell’invasione di Praga – le prime timide critiche.
Nel suo libro racconta che molti dei viaggiatori, intellettuali e politici che si recarono in Unione Sovietica furono “vittime” del confirmation bias (pregiudizio di conferma). Questo fenomeno ebbe una discontinuità dopo il Rapporto Chruščëv?
Lo ebbe per molti, ma purtroppo non per la maggioranza dei politici e intellettuali che rimasero alla guida dei partiti comunisti, che si ostinarono ancora a lungo – praticamente fino agli anni ’80 – a rifiutare di conoscere, discutere, prendere in considerazione le ricostruzioni storiche, economiche, culturali relative alle vicende del comunismo e dell’Urss. Questo “pregiudizio di conferma” fa sì che gli intellettuali comunisti scelgano di non leggere, ad esempio, Koestler o Solženicyn, perché si fidano dei giudizi che ne danno i dirigenti del partito, tacciandoli da anticomunisti, venduti, ecc. Dopo il Rapporto Chruščëv le cose migliorarono un po’, ma non di molto almeno nell’immediato: tranne, ovviamente, per coloro, e furono parecchi, che vissero le dichiarazioni al XX congresso e poi la rivolta ungherese come una crisi e un dramma che li portarono ad abbandonare il comunismo. Per gli altri credo che si debba giungere fino al 1968 perché le cose cambino davvero; anche se, a questo punto, il “pregiudizio di conferma” viene spesso utilizzato non più nei confronti dell’Urss ma della Cina e di Mao.
Nel periodo finale dell’Unione Sovietica, Gorbačëv cercò anche di riprendere alcune idee di Lenin per cercare di creare un socialismo diverso. Quali idee di Lenin cercò di riproporre?
Più che idee particolari si trattava di un clima diverso. Si voleva riproporre, intanto, una libera discussione dentro il partito, e infatti la glasnost? (trasparenza) fu la parola d’ordine più efficace adoperata da Gorbačëv. Anche se presto quegli spazi di maggiore libertà, verità, democrazia che si aprirono dentro il PCUS li si volle, a partire dallo stesso Gorbačëv, ampliare all’intera società. L’unica vera idea dell’epoca leninista direi che la si può trovare nelle riforme economiche, analoghe in spirito alla NEP che Lenin impose al X congresso nel marzo 1921 al termine della guerra civile. In questo caso, però, il fallimento delle riforme economiche nel breve periodo non dettero alcun consenso a Gorbačëv che, anzi, trovò proprio in patria le critiche più feroci. Si può dire che il richiamo al leninismo costituì il punto di partenza per legittimare le riforme, per lasciarsi definitivamente alle spalle lo stalinismo e quanto di esso era sopravvissuto nell’epoca brežneviana, con l’idea, però, che occorreva andare oltre, che non ci si poteva limitare al semplice ritorno a Lenin, per esempio sul mantenimento del partito unico. Però quello era l’orizzonte ideologico cui rifarsi per permettere a chi voleva le riforme dentro il partito di uscire allo scoperto senza timore di diventare un traditore o un anticomunista. La spinta della glasnost’, tuttavia, rese rapidamente impossibile restare all’interno dei limiti e dei vincoli del leninismo, perché la pressione per ampliare gli spazi democratici dentro la società divenne troppo forte.
In questi ultimi anni sta emergendo molto l’idea di una storia controfattuale. In che modo questo ha condizionato e condiziona lo studio della storia in generale e anche quella  dell’Unione sovietica e del socialismo?
La storia controfattuale ha avuto un momento di gloria qualche anno fa, ma nella maggior parte dei casi è rimasta ancorata a racconti narrativi o giornalistici, come occasione di fantasticare su “cosa sarebbe successo se”. Per gli storici interrogarsi su queste ipotesi significa poter mettere in luce le alternative esistenti anche se non realizzate, significa non accettare una visione meccanicistica e necessaria del divenire storico, per cui le cose non potevano andare che come sono andate, togliendo così ogni possibile libertà agli attori storici. Quello che non si può fare, se non come divertissement giornalistico o come spunto narrativo, è pensare di poter – sulla base delle alternative possibili o esistenti – immaginare come sarebbe evoluto il mondo in questo caso, anche se qualche speculazione, restando nel campo delle pure ipotesi, si può fare e può essere di qualche utilità per la comprensione del divenire storico.
Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studia la storia o si diventa storici. Quindi, in definitiva, professore, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?
Per me studiare la storia è stato un elemento strettamente connesso con l’impegno politico giovanile. La storia, soprattutto la storia contemporanea, rappresentava il terreno che sembrava più utile per meglio comprendere il presente, per dare strumenti che si sarebbero potuti utilizzare anche nell’arena politica. Per fortuna il fascino della storia e dello studio della storia ha preso presto il sopravvento: non perché essa non si sia dimostrata utilissima per la comprensione del presente, ma perché grazie alla lezione dei grandi storici (Bloch primo fra tutti) ho perduto subito una visione un po’ strumentale del suo uso, puntando alla conoscenza come elemento di comprensione di una complessità molto lontano dal giudizio riduttivo, spesso morale o moraleggiante, che emerge quando si lega troppo strettamente la politica alla storia. Guardare alla storia interrogandola con questioni che attengono al presente è qualcosa di diverso che cercare nella storia la legittimazione di quello che si pensa oggi o dell’agire nell’oggi. Leggi tutto “Intervista a Marcello Flores”

Exit mobile version