Come si definisce una crisi dal punto di vista storico e filosofico? Non basta un semplice elenco: un arretramento economico, un conflitto armato, un dissesto agricolo, una rivoluzione. Se così fosse, con crisi dovremmo intendere qualcosa di molto simile alla maggior parte degli accadimenti della storia moderna e contemporanea. Crisi non indica nemmeno un mutamento repentino, una trasvalutazione dei valori fino ad allora accettati (più o meno acriticamente).
Cambiamenti politici, economici, tecnologici, culturali; è innegabile che dal 1945 ad oggi abbiamo vissuto tutto ciò a un ritmo accelerato, senza avere la percezione che il mondo fosse in perenne crisi. Solo nell’ultimo decennio abbiamo cominciato ad assistere – e a percepire – un progressivo sgretolamento dell’ordine geopolitico (e mondiale) post-bellico, il che ha innegabilmente fatto sprofondare le coscienze nella caducità, nella disillusione, nella crisi.
Il punto interessante sembra essere questo: fino a che punto un mutamento che sfocia nel sovvertimento dei valori e/o uno sconvolgimento politico ed economico che innesca il progresso, anche a fasi alterne di crescita e decrescita, può qualificarsi e definirsi come una crisi? Quando gli storici ricorrono a questo termine di solito lo fanno a posteriori, mettendo insieme un pacchetto di dati e di fatti che, solo con “il senno di poi”, acquistano una coerenza e un significato che era impossibile cogliere per i contemporanei.

La grande crisi seicentesca, il periodo delle guerre della Rivoluzione Francese, gli sconvolgimenti della fase napoleonica. Tutti esempi di crisi; ma ciò che non va dimenticato è la peculiarità di alcune tra queste crisi. Ad esempio, la crisi tra le due guerre mondiali si rivelò diversa dalle precedenti. Le popolazioni erano coscienti di attraversarla. Prima non accadeva. Come mai? Una risposta plausibile riposa nell’eccezionalità del primo conflitto mondiale e nelle aspettative che la sua fine generò nei popoli. La sensazione della fine di un’epoca pavimentò la strada alla filosofia di Nietzsche.
Friedrich Nietzsche è vissuto nella seconda metà dell’Ottocento (1844-1900), un periodo in cui si impose facilmente l’idea che la civiltà occidentale stesse procedendo in modo inarrestabile verso il progresso: la conquista dei mercati mondiali grazie al colonialismo, crescente sicurezza e benessere grazie alla scienza e alle tecniche. E poi l’estensione del diritto di voto (anche alle donne) l’istruzione pubblica, la difesa dei ceti più deboli, tutte misure che destarono sospetti: come sarebbe stato possibile conservare le aristocrazie con una sempre più diffusa uguaglianza? Tutto ciò è davvero una conquista o rappresenta il momento terminale di una malattia che ha colpito l’Occidente? Nietzsche è il pensatore che si pose in modo più radicale questa domanda.
L’attacco alla cultura cristiana e borghese si inserisce infatti nel più ampio quadro di sfiducia nei confronti della civiltà e del progresso. Lo scetticismo di Nietzsche per tutte le manifestazioni della modernità, valori e morale inclusi, il disprezzo sprezzante verso le masse, chiamate i superflui, rappresentarono per molti giovani un motivo di fuga dalla realtà. “Libertà significa che gli istinti virili, gli istinti che gioiscono della guerra e della vittoria, hanno la signoria su altri istinti, per esempio quelli della felicità. L’uomo divenuto libero, e tanto più lo spirito divenuto libero, calpesta la spregevole sorta di benessere di cui sognano i mercantucoli, i cristiani, le mucche, le femmine, gli Inglesi e altri democratici. L’uomo libero è guerriero“, (F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, trad. it. Adelphi, 1983, par. 38, pp.113-114).
A proposito di questo passo, Richard Overy rileva come i giovani dell’epoca trovassero proprio in Nietzsche un profeta del declino e, al tempo stesso, un punto di riferimento per una rigenerazione spirituale: “tanti giovani se ne andarono al fronte nel 1914 con Nietzsche nello zaino (l’esercito tedesco si era anzi premurato di ordinare migliaia di copie di Così parlò Zarathustra da distribuire agli ufficiali di leva). La guerra, per chi ebbe la ventura di viverla sino in fondo, si rivelò qualcosa di macabro, sporco, abbruttente, un deserto morale. Ma fu una conferma della premonizione nietzschiana del declino, dell’evoluzione in negativo. molti intellettuali accolsero la crisi come una purificazione, prima della rigenerazione morale e sociale”, (R. Overy, Crisi tra le due guerre mondiali (1919-1939), Il Mulino, 2007, p.10).
Il più famoso esponente della crisi e declino del continente fu però Oswald Spengler, il cui Tramonto dell’Occidente vide la luce nel 1918 e poi nel 1922. Le civiltà secondo Spengler, attraversano una storia ciclica in cui esiste un momento di declino: il Novecento si apre al tramonto. L’Europa sarebbe caduta in balìa di politiche selvagge, nell’individualismo più becero e in un annientamento generale se non fosse riuscita a purificarsi. Chiaramente Spengler non pensava solo alla guerra ma a tutti gli eventi storici precedenti che ne avevano disegnato l’ambiente, l’humus. Ho richiamato sommariamente questi due autori per riflettere su due questioni.
(1) Una definizione completa di un concetto come quello preso in esame si può ottenere, per quanto non sia qualcosa di assoluto, su un piano intermedio tra storia e filosofia. Lo sguardo dello storico, e con molte più difficoltà per i contemporaneisti soprattutto per il problema delle fonti, è costitutivamente uno sguardo a posteriori. E su questa base definisce, a seconda del periodo, i caratteri peculiari a una determinata crisi. Per il filosofo spesso questo non vale; Nietzsche e Spengler sono stati, per certi versi, profetici in quanto scrivevano della crisi e nella crisi: già Auguste Comte nel Discorso sullo spirito positivo del 1844 caratterizzava la modernità come un’età di crisi, un’instabilità che si sarebbe fatta sentire soprattutto in ambito scientifico (e come dargli torto oggi, nell’epoca dei terrapiattisti ed antivax). Il filosofo, a volte, ha la sventura di non sopravvivere alla verità delle sue parole.
(2) Infine, riflettere sul concetto di crisi è a mio avviso molto interessante perché ci permette di capire meglio il presente, un presente che molti vivono consapevolmente come periodo di crisi (una consapevolezza che chiaramente dipende anche dal tasso di scolarizzazione). Come definiamo la nostra crisi? Quali sono le sue peculiarità? E perché non troviamo un Nietzsche che la interpreta ma solo un Edmund Husserl, una voce del passato, che nel suo testo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale del 1934 (pubblicata postuma solo nel 1954) ha sottolineato il problema che si era posto Comte, approfondendo il lato epistemologico della questione. Possiamo dire, partendo da Husserl, che la crisi oggettivistica delle scienze (in virtù della quale i suoi principi risultano svincolati dalla operatività del senso soggettivo) è un “pericolo” per le masse, per i pregiudizi che possono avere nei confronti della scienza, visto che una diffusa ignoranza oggi porta a credere a chiunque mettendo gli esperti sullo stesso piano dei santoni. Siete d’accordo?
Sono portata a pensare che la crisi che viviamo non sia solo una crisi di valori, di idee, economica e politica, ma sia anche una crisi umanistica scientifica, una crisi nella scienza e della scienza che si trova a dover faticare, forse più che in passato, contro l’oscurantismo e la credulità delle masse ignoranti. E voi, cosa ne pensate?