Questa settimana ho deciso di intervistare Fabio De Ninno, autore di un libro uscito da poche settimane Fascisti sul Mare ( Laterza, 2017).
È da qualche anno che non uscivano pubblicazioni sulle forze armate italiane durante il fascismo. Quali nuove fonti lei ha potuto utilizzare?
In Italia, soprattutto per il periodo fascista, spesso si è fatta la storia navale pensando che fosse la storia delle navi, credendo che questa offrisse il livello di comprensione della politica navale. Invece, in entrambi i casi, ho voluto approfondire l’utilizzo di documentazione riferita al livello politico dell’istituzione, quello del ministro/sottosegretario e degli organi ad esso connessi che determinavano la politica navale attraverso i rapporti con il governo fascista, per evidenziarne la profondità, finora poco esplorata, della relazione regime-marina e come determinò lo sviluppo dell’istituzione e quindi la politica navale. In sostanza, oltre all’orginalità delle fonti è stato importante l’approccio metodologico, diverso dai lavori precedenti sulla marina.
La mia ricerca ha fatto riferimento soprattutto alla documentazione riguardante Regia marina custodita presso l’Archivio dell’Ufficio storico della Marina Militare e l’Archivio centrale dello stato di Roma. Si tratta in entrambi i casi di fondi enormi mai del tutto esplorati: l’archivio della Marina Militare è uno dei più vasti del mondo, tra quelli relativi al suo genere, ed è perfettamente conservato, grazie al lavoro dell’istituzione, ma forse poco esplorato da parte della letteratura scientifica.
Di conseguenza, ho utilizzato frequentemente documentazione del gabinetto del ministro, per comprendere i rapporti con le altre istituzioni militari e civili, oltre che col partito fascista. I carteggi tra il ministro, il duce e gli ammiragli per la politica navale. La pianificazione per comprendere le determinanti strategiche che incidevano sulla politica navale. I rapporti dei comandanti di basi e squadre navali per comprendere il livello della preparazione e i problemi della flotta.
Inoltre, mi sono servito di una fonte preziosa di cui non esisteva fino ad ora nemmeno accenno nella pubblicistica sulla marina: la documentazione della biblioteca dell’Accademia navale di Livorno. Anche in questo caso l’istituzione ha preservato ottimamente il materiale, che gli studiosi potranno sfruttare efficacemente. Qui sono custoditi i dattiloscritti inediti dei testi impiegati nell’istituto durante il periodo fascista, una fonte fondamentale per capire l’istituzione e la sua cultura.
Infine, la mia ricerca ha incluso anche archivi stranieri, in particolare i National Archives di Londra e il Service Historique de la defense di Parigi, dove ho avuto accesso alle carte degli osservatori diplomatici e militari che erano presenti in Italia, solitamente persone con una grande conoscenza della Regia marina e con rapporti personali con gli ufficiali italiani, che garantivano un punto di osservazione privilegiato sull’istituzione.
Quali erano le motivazioni che portarono al trattato di Washington? Che limiti imponeva il Trattato di Washington?
Per comprendere il Trattato di Washington bisogna innanzitutto capire il ruolo delle marine militari nella politica internazionale, un dato molto spesso sottovalutato dagli studi e dal pubblico italiano: le marine solo il pilastro su un paese costruisce il proprio status di grande potenza globale.
Dalla fine del XIX (e ancora oggi è così) fu un dato acquisito che la capacità di proiezione globale di uno stato (era l’età dell’imperialismo) dipendeva essenzialmente dalla forza della propria marina militare. La Grande guerra fu dovuta, non solo, ma in buona parte, proprio all’esplodere della rivalità navale tra la Gran Bretagna e la Germania e l’intero conflitto fu determinato della dimensione marittima: il blocco britannico degli Imperi centrali fu fondamentale per sconfitta della Germania.
Nel 1918, la fine della guerra ridefinì l’equilibrio delle relazioni internazionali. La scomparsa degli imperi tedesco, russo ed austroungarico e l’ascesa di due grandi potenze extraeuropee, gli Stati Uniti e il Giappone, ridisegnò il panorama geopolitico del pianeta. Subito, il nuovo ordine mondiale alimentò le tensioni tra le grandi potenze superstiti, rischiando di scatenare una nuova competizione nel campo degli armamenti navali. Le difficoltà finanziarie della Gran Bretagna, stremata dalla guerra, l’opposizione dell’opinione pubblica americana a nuove spese per armamenti dopo la fine del conflitto e la consapevolezza del Giappone di non poter competere con gli Stati Uniti nel Pacifico, aprirono la possibilità di trattative relative al disarmo navale.
Il Trattato di Washington (gennaio 1922) fu la conseguenza della volontà di “formalizzare” gli assetti politici globali nati dal conflitto, stabilendo nel contempo una “gerarchia” delle potenze che rifletteva i loro rapporti di forza. Il trattato stabilì la relatività in fatto di navi capitali (navi da battaglia e portaerei) tra le grandi potenze, secondo la formula: 5:5:3:1,75:1,75. Tali coefficienti indicavano la proporizione del tonnellaggio spettante a ciascuna delle grandi potenze: Gran Bretagna e Stati Uniti (5), Giappone (3), Francia e Italia (1,75).
Il trattato in effetti stabilì una “diarchia” angloamericana nei rapporti internazionali, frustrando le ambizioni del Giappone, che mirava ad un rapporto di forze più favorevole nel Pacifico e quelle della Francia, che riteneva la propria posizione nel Mediterraneo minacciata dell’Italia, tantoche a Parigi la parità con Roma fu recepita come un autentico schiaffo diplomatico. Il trattato comunque non copriva il naviglio leggero (incrociatori, cacciatorpediniere, torpediniere e sommergibili) e per aumentare la propria potenza navale, le potenze scontente dell’accordo vararono ampi programmi di costruzione di questo tipo di navi, alimentando una nuova competizione che i successivi tentativi di regolamentazione (le conferenze navali di Roma 1927, Londra 1930 e Londra 1936) non riuscirono a contenere.
Di fatto, il trattato oltre a stabilire una “gerarchia” delle potenze fece delle marine un oggetto centrale della diplomazia e della questione del disarmo navale un elemento fondamentale delle relazioni internazionali tra le due guerre mondiali. Un fatto di cui Mussolini era ben consapevole quando affermava che in tempo di pace la gerarchia degli stati era determinata dalla loro marina.
In che modo il Trattato di Washington condizionò la Regia Marina?
Carlo Schanzer, il senatore che aveva guidato la delegazione italiana a Washington, sottolineò che in seguito alla firma dell’accordo la Regia marina vedeva immediatamente aumentata la propria importanza tra le flotte mondiali (e con essa il paese), perchè la parità con la Francia stabiliva una presunta parità diplomatico-militare tra le due potenze. In realtà, il trattato garantiva la parità solo in fatto di navi capitali, per dimostrare che l’Italia non effettivamente in grado di mantenere una parità generale, i francesi avviarono programmi navali per ottenere la superiorità nel naviglio leggero, in modo da porre in discussione la posizione italiana nelle successive conferenze sul disarmo. Dopo il 1922, perciò la Regia marina si trovò nella necessità supportare una politica navale espansiva, in grado di competere con quella francese in termini di costruzioni navali. Di conseguenza, la questione della parità divenne un problema di prestigio centrale per il regime fascista, che negli anni Trenta cominciò a supportarla anche a scapito di una crescita bilanciata della flotta tra nuove costruzioni e miglioramento della preparazione e del livello tecnologico.
Che influenza ebbe la politica economica del ministro De Stefani sull’esercito e sulla Regia Marina ?
Il ministero di De Stefani (1922-1925) coincise con la prima fase del governo fascista. Una fase in cui il potere di Mussolini sullo Stato non era ancora del tutto consolidato e la cui politica economica fu indirizzata soprattutto alla stabilizzazione del bilancio statale e alla promozione di politiche liberiste. In tal senso il contenimento della spesa pubblica incise fortemente su quella militare e di conseguenza anche sui rapporti del fascismo con le forze armate. Esercito e marina avevano supportato l’ascesa di Mussolini al potere nella convinzione che questo avrebbe permesso di realizzare i progetti di riforma ed espansione desiderati dal vertice militare. Nel caso specifico della marina, contava soprattutto la volontà di avviare programmi navali di risposta a quelli francesi, in quanto la crescita della Marine Nationale seguita al Trattato di Washington era ritenuta una minaccia sostanziale per la difesa delle comunicazioni italiane. Le restrizioni di bilancio imposte dal governo Mussolini alla Marina invece portarono al contenimento dei programmi e, assieme alla costituzione della Regia Aeronautica (1923), alimentarono le tensioni, anche in forma pubblica, tra il Presidente del consiglio e il ministro della Marina, l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, duca del mare e grandeammiraglio della vittoria nella Grande guerra. Tale conflitto si inserì nella crisi politica più generale seguita all’omicidio Matteotti, che portò alla definitiva trasformazione del fascismo in regime e anche alla ridefinizione dei rapporti tra le forze armate e il duce, in senso subordinativo. Le tensioni dovute alla politica economica di De Stefani furono centrali in tale cambiamento nei rapporti fascismo-forze armate.
In una parte del suo libro paragona la Marina italiana a quella del Giappone e a quella tedesca, ci sono delle differenze tra queste tre marine?
Tutte e tre queste marine nacquero negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento come prodotto dei processi di unificazione/modernizzazione nazionale attraversati dai tre paesi e in tutti e tre i casi si configurarono come centri propulsivi per elaborazioni geopolitiche e della modernizzazione politica ed economica nazionale. Anche se in Italia non ne abbiamo piena cognizione, la costruzione delle istituzioni navali nazionali fu un importante agente di sviluppo economico e nazionalizzazione delle masse tra Otto e Novecento.
Un tratto che le tre marine mantennero anche nei decenni successivi e che spiega anche lo stretto legame che svilupparono con il nazionalismo, accettando nel primo dopoguerra la radicalizzazione di tale politica. Soprattutto la Germania nazista e l’Italia fascista offrono interessanti parallelismi per la relazione che si sviluppò tra le loro marine e i partiti nazista e fascista, che furono lasciati penetrare nell’istituzione da élite convinte che i due regimi avrebbero permesso la realizzazione di una politica estera e navali tali da assicurare le ambizioni di cui le due istituzioni erano portatrici.
Le tre marine tuttavia avevano alle spalle anche tre differenti realtà politiche, economiche e sociali che si riflessero sulle tre istituzioni. In Italia ed in Germania, la struttura policratica delle dittature (un contesto in cui le istituzioni sono più in competizione che in coordinazione) ebbe un peso decisivo nell’emergere dei contrasti tra forze armate che impedirono la creazione di un’aeronautica di marina pienamente efficiente in entrambi i casi. In Giappone, viceversa, la marina era un centro di potere notevolissimo, data la natura di nazione-arcipelago del paese, e questo le permise di mantenere la sua autonomia rispetto all’esercito e di dotarsi anche di una grande forza aeronavale. Tale aspetto è solo uno dei tanti esempi possibili che possono essere fatti per comprendere come i contesti politici e sociali incidano sullo sviluppo delle istituzioni militari.
– Che rapporto c’era tra la Regia Marina e la Regia aeronautica che era una delle forze armate più fascistizzate?
I conflitti tra le due istituzioni, cominciati nel 1923 con la costituzione della seconda, più che alla correlazione tra una più o meno maggiore fascistizzazione vanno ricondotti a due problemi: la struttura politica del regime e la più generale contrapposizione tra le neonate forze aeree e le forze armate tradizionali, problema comune più o meno a tutte le grandi potenze.
La conflittualità aeronautica-marina fu consentita soprattutto dalla natura del regime fascista, in quanto il duce impedì la creazione di organi di coordinamento effettivo tra le forze armate, temendo che un capo di stato maggiore generale troppo forte fosse una minaccia al suo potere. Tale logica del divide et impera finì col danneggiare le possibilità di cooperazione e la costruzione di una politica militare integrata e coerente tra le tre armi. Tuttavia, anche quando il dittatore ebbe l’effettivo potere di imporre il proprio volere alle tre forze armate, con il processo di radicalizzazione del regime nella seconda metà degli anni Trenta, le sue personali convinzioni in materia di aeronautica e marina, come ad esempio l’idea che l’Italia fosse una “portaerei naturale”, incisero decisamente sui rapporti tra le due armi.
A questo bisogna aggiungere che nell’Italia fascista, almeno a livello teorico, fu notevole l’impatto di Giulio Douhet. Forse più usato politicamente che ascoltatodottrinariamente, Douhet fu il primo teorico del ruolo strategico decisivo dell’aviazione attraverso l’impiego di massicci bombardamenti strategici per colpire la popolazione civile nemica. Soprattutto nel periodo di Italo Balbo (1926-1933), la Regia Aeronautica utilizzò Douhet per giustificare l’indipendenza assoluta dell’arma aerea da impieghi ritenuti “secondari” come l’appoggio all’esercito e alla marina. Il regime aveva attivamente supportato la creazione di un’arma aerea indipendente e l’appoggio di cui l’aviazione godeva negli ambienti governativi fascisti, fu fondamentale per privare la marina della possibilità di costruire portaerei e un’aviazione navale adeguate. Gli ammiragli che a metà degli anni Trenta riproposero prepotentemente tale problema, come parte di un più generale richiamo alla necessità di correlare ambizioni e mezzi per la futura guerra nel Mediterraneo contro le potenze occidentali, finirono con l’essere isolati ed esclusi dalla gestione della politica navale, con la connivenza del vertice stesso dell’istituzione, ormai succube del potere carismatico del dittatore.
– Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, dottore, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?
Naturalmente il primo elemento è stata la passione. Un aspetto che ho maturato nell’adolescenza, semplicemente perché orientato dalle letture allo studio della guerra e dei fenomeni militari, cominciato quasi per caso. Strategie, uomini, tattiche, mezzi divennero il mio pane quotidiano.
L’interesse intellettuale mi ha spinto a studiare storia all’università, nonostante la preoccupazione di molte persone, che sostenevano stessi commettendo un errore, date le difficoltà di inserimento nel mondo accademico o della cultura e le scarse prospettive occupazionali. Sebbene tali problemi costituiscano un questione assillante per chi si avvia allo studio delle discipline umanistiche, nel mio caso la passione prevalse, a ragione o a torto, vedremo.
Seguendo i miei interessi, all’università, ho scelto di dedicarmi allo studio della storia militare perché penso, forse banalmente, che in guerra gli uomini diano il meglio e il peggio di sé stessi e al tempo stesso perché lo studio delle istituzioni militari del XX secolo permette di interallacciarsi con ogni aspetto della società contemporanea: politica estera, politica interna, economia, tecnologia e società sono tutti problemi che mi sono trovato ad affrontare nel corso delle mie ricerche.
Nello specifico, mi sono dedicato alla storia della marina per due motivi. Il primo è la mia convinzione che l’Italia, nonostante non ne abbia pienamente coscienza, è un paese marittimo. Sono originario di Napoli e quando mi ritrovo periodicamente a fissare il Golfo non vedo il Vesuvio, ma le linee di comunicazione che dalla città partono verso Suez, l’Oceano Indiano e l’Estremo Oriente, oppure verso Gibilterra e l’Atlantico. Ieri come oggi, il nostro commercio e in generale la nostra prosperità dipendono dal mare, senza che si sia verificato un parallelo aumento di coscienza di questo rapporto sia per il passato sia per il presente.
Le marine militari sono state e sono ancora oggi preposte alla difesa, all’apertura e alla preservazione di tali spazi e comunicazioni, mentre nessun altro strumento ha la capacità di svolgere il loro lavoro con altrettanta efficacia e flessibilità. La storia navale serve per comprendere le cause di successi e fallimenti nella proiezione esterna del paese, ma bisogna considerare che, per costruire la propria marina, il paese si è servito del meglio delle sue risorse umane, economiche e tecnologiche. Di conseguenza, la storia navaleci può dire molto sulla storia dell’Italia contemporanea, sulla sua politica, economia e società. Un dato frequentemente sottovalutato sia dagli studiosi sia dal grande pubblico.