La contestazione cattolica. Intervista a Alessandro Santagata

 

Questa settimana ho deciso di intervistare Alessandro Santagata che nel 2016 ha pubblicato  il saggio La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68 (Viella, 2016)  ed   è borsista presso la Fondation Maison des sciences de l’homme / École pratique des hautes études di Parigi e collabora con la cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Roma Tor Vergata.

-Quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta a scegliere un argomento così particolare e così lontano dalle mode attuali?

 

A mio parere, questo ricerca si inserisce in un filone di studi che sta finalmente giungendo a maturazione, anche se in maniera disorganica, anche perché spontanea. Intendo dire che negli ultimi anni si è proposta una nuova generazione di storici che ha affrontato in modo nuovo e, nella maggioranza dei casi, post-ideologico lo studio degli anni Sessanta e Settanta. L’interesse per i movimenti nasce probabilmente anche dalla crisi della politica attuale e dallo studio delle cause profonde di quella crisi. Nello stesso tempo, mi sembra forte la ricerca di un legame con quel momento del nostro passato recente, in cui si era configurata la possibilità di una rivoluzione, prima che la categoria scomparisse dall’orizzonte. Per quanto riguarda lo studio dei movimenti cattolici, valuto in maniera positiva l’affermasi di una nuova leva di studiosi che intendono affrontare in maniera laica la materia. Penso, per esempio, al libro di Guido Panvini, L’altro album di famiglia. Cattolici e violenza politica, Venezia, 2014. Il mio libro condivide molti aspetti della sua impostazione, anche se è differente nelle domande e nel metodo. È vero però che resta ancora forte la diffidenza verso la storia della religione cattolica. Le ragioni sono da cercare nella storia stessa, ovverosia nella storia della storiografia e nelle ingerenze della Chiesa cattolica nella politica italiana, particolarmente forti negli ultimi quarant’anni: nelle campagne della gerarchia cattolica contro i diritti e via dicendo. Ho motivo di credere che le cose cambieranno, anche in conseguenza della svolta di papa Francesco…

 

-Che ruolo hanno nel concilio Vaticano II i vescovi italiani? Che ruolo  hanno all’interno dei Vescovi Italiani l’arcivescovo di Milano Montini e il quello di Bologna Lercaro?

 

I vescovi italiani sono il gruppo maggioritario al Vaticano II con ben 423 padri conciliari italiani. Eppure, l’episcopato italiano ha svolto un ruolo sostanzialmente marginale e poco influente sull’andamento dei lavori e sulle risoluzioni. Ciò è dovuto, in parte, alla disorganizzazione; basti pensare che le prime riunioni della Cei risalgono ai primi anni Cinquanta e da questo punto di vista il Vaticano II è un passaggio fondamentale per la “collegialità” italiana. Ma soprattutto, è dovuto alla difficoltà della maggioranza, guidata dal card. Siri, nel sintonizzarsi con le parole d’ordine dell’“aggiornamento” di Giovanni XXIII. Questo non significa che non ci siano figure che hanno avuto una funzione preziosa, come per esempio il card. Lercaro, che nel 1963 diventa uno  dei quattro moderatori, oppure Montini, a cui spetta il compito di chiudere il Concilio da papa: una scelta peraltro non scontata. Altre figure di rilievo sono quelle di Bettazzi, Guano, Bartoletti, Baldassarri. Altri ancora invece hanno animato la galassia conservatrice, come il già citato Siri e poi Carli e Ruffini. Giunti al momento del voto, i vescovi italiani si allineano alla maggioranza. Gli anni del post-concilio saranno quelli più difficili, perché la Cei si troverà a fare i conti con un evento che l’ha trasformata, ma che ha sostanzialmente subito.

-Il suo libro ripercorre il periodo in cui si sviluppa livello politico il centro-sinistra. Che rapporto c’è in questa fase tra Dc e mondo cattolico? L’associazionismo cattolico ha ancora una funzione importante all’interno della Dc?

Il rapporto tra la Dc e il mondo cattolico è sempre stato molto stretto. Possiamo dire che è stato un tratto costitutivo dello stesso “partito cristiano”. Questo è ancora vero negli anni Sessanta, anche se la secolarizzazione, da un lato, e il Concilio, dall’altro, hanno allentato notevolmente i legami con esisti diversi. Nel caso dell’Azione cattolica, che era stata la fucina della classe dirigente democristiana il processo, è iniziato già nel 1959 con la presidenza Maltarello. Per quanto riguarda le Acli, già nel 1958 è sorto un ragruppamento parlamentare che fa riferimento a Pastore, ma sarà solo con la presidenza Labor che si arriverà tra il 1968 e il 1969 a rompere il collateralismo. Bisogna considerare, del resto, Dc di Rumor, siamo di fronte a un partito sempre più autoreferenziale, nonostante le aperture di Moro alla trasformazione culturale. La mancata ricezione del Vaticano II lo confermerà.

 

 

-Che ripercussioni hanno  i movimenti di contestazione che sono seguiti al Concilio Vaticano II sulla politica di quel periodo della Dc? In che modo viene messa in discussione la Dc ?

 

Tutto ha inizio da alcuni cenacoli intellettuali legati ad alcune riviste (Testimonianze, Il gallo, Questitalia, etc) che mettono in discussione la legittimità dell’unità politica dei cattolici sulla base dei documenti conciliari, in particolare del paragrafo 76 di Gaudium et spes. In poche parole, si afferma che il Vaticano II ha tolto al “partito cristiano” il suo fondamento ideologico, ma i sostenitori del “movimento cattolico” hanno buoni argomenti per affermare il contrario. I testi del Vaticano II, infatti, si prestano a essere interpretati in modi diversi e talvolta opposti. Da parte sua, la Dc cerca di rispondere alle accuse a partire dal convegno di Lucca del 1967, in cui sostanzialmente presenta il Vaticano II come un momento di ratifica del progetto storico di Sturzo e De Gasperi: un’occasione mancata per una riflessione autocritica, come denunciano i gruppi spontanei, e un passaggio chiave per comprendere la contestazione cattolica degli “anni ‘68”.

 

 

-Come cambia l’Azione cattolica dopo il Concilio Vaticano II? Che ruolo ha in questo Bachelet?

 

L’associazionismo cattolico entra in crisi negli anni Sessanta a causa degli effetti sempre più dirompenti della secolarizzazione che investe la sfera del religioso, ma anche le altre culture politiche (si pensi, per esempio, al drastico calo di iscrizioni alla Fgci). Altri fattori di crisi sono da ricercare nel processo di ricezione conciliare, dal momento che i gruppi spontanei mettono in discussione la legittimità stessa dell’“apostolato gerarchico”. Infine, bisogna tenere presente che la crisi attraversa anche la stessa Aci con le organizzazioni giovanili (Giac e Fuci) impegnate per la democratizzazione interna e per una rottura definitiva del collateralismo. In questo contesto, la presidenza Bachelet si trova a gestire la difficile transizione verso la “scelta religiosa”: un allontanamento graduale dalla Dc, e dalla politica, che non si traduce però in una rottura con il movimento cattolico. L’esito sarà quello di traghettare l’associazione in una nuova epoca che vedrà però l’associazionismo ridimensionato dal punto di vista della rilevanza pubblica.

 

-Quali sono le principali caratteristiche dei gruppi  spontanei che si formano dopo il Concilio Vaticano II?  Che ruolo ha Wladimiro Dorigo in questa fase?

 

I gruppi spontanei iniziano a proliferare negli anni del Concilio e vivono la loro fase di massima diffusione tra il 1966 e il 1969. Sono in maggioranza gruppi di piccole dimensioni, auto-organizzati e generazionalmente connotati. Vi si ritrovano per lo più i militanti usciti dalle organizzazioni del movimento cattolico che chiedono una rottura dell’ordine esistente – leggi le commistioni tra Chiesa, Stato e Dc – sulla base della lezione conciliare. I gruppi non si considerano organizzazioni religiose, ma esclusivamente politiche. Tuttavia, la loro azione è nella sostanza incentrata sul piano della riforma politica del mondo cattolico, con tutta una serie di contraddizioni di carattere ideologico nella relazione tra appartenenza religiosa e identità politica. Negli incontri nazionali, coordinati in una prima fase da Wladimiro Dorigo, ex-militante della Base e direttore di Questitalia, e dal settimanale Adista, si delinea un processo verso la “nuova sinistra” alternativa a quella comunista e socialista, della quale si intende però stimolare una trasformazione. Il Pci, da parte sua, cerca senza particolare successo di assorbire il movimento per spaccare il blocco elettorale cattolico. L’esaurirsi della stagione dei gruppi comporterà anche la fine della parabola di Questitalia. Da quell’esperienza prenderà corpo il movimento delle Comunità di base, che declinerà in modo diverso, perché con una separazione più chiara dei piani, ispirazione cristiana, riforma della Chiesa e militanza a sinistra.

 

-In che modo Comunione e Liberazione è una risposta alla crisi dell’associazionismo cattolico e della Chiesa cattolica in generale? In che modo è riconducibile al movimento studentesco ?

 

Cl nasce come movimento universitario nel 1969 dalla crisi di Gioventù studentesca, il primo gruppo guidato da don Giussani e attivo nelle scuole. Si struttura quindi come una risposta di natura integralistica al movimento studentesco e, nello stesso, tempo come alternativa di carattere movimentistico all’Azione cattolica. Tuttavia, spogliando le fonti di Gs è possibile osservare una vicinanza del gruppo alle istanze di rottura del ’68 (terzomondismo, antiautoritarismo, critica alle istituzioni borghesi etc). Lo conferma anche il fatto che nel 1968 la maggioranza dei militanti abbandona Gs per confluire nel movimento di protesta. Negli anni Settanta, l’intuizione del nucleo di Giussani si evolverà, non senza contraddizioni, all’insegna della contrapposizione alla Nuova Sinistra e di un progetto di rilancio dell’identità cattolica come reazione alla crisi post-conciliare. Si profilerà, in sostanza, una nuova visione dei rapporti tra fede e politica, la “linea della presenza”, che porterà all’impatto con l’Azione cattolica della “scelta religiosa”.

-Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia? A qualche consiglio di lettura e di storiografia?

Ho iniziato ad amare la storia ai tempi del liceo e credo che tale passione derivasse anche dal mio impegno politico a livello studentesco e di movimento. Sono convinto che scrivere di storia sia un modo per cercare delle risposte alle domande che agitano ciascuno di noi. Inoltre, scrivere un libro di storia è anche un esercizio di autobiografia. Consiglio a questo proposito di leggere l’intera produzione di George Mosse, storico straordinario che ha impiegato la vita a occuparsi di storia alla ricerca di se stesso.

Aldo Moro. Lo statista e il sua dramma. Intervista al professor Guido Formigoni

Ho deciso di intervistare  il Prof. Guido Formigoni  che insegna Storia contemporanea nell’Università IULM di Milano autore di diversi libri:  “La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale” (1996), “Storia della politica internazionale nell’età contemporanea” (nuova ed. 2006) ,  “L’Italia dei cattolici” (2010) e “Aldo Moro” ( 2016).

  • Molto spesso, quando si parla di Aldo Moro, ci si concentra in particolare sui 55 giorni, lei invece si è occupato molto della sua formazione. Che rapporto ebbe il giovane Aldo Moro con il Fascismo?

 

Moro (nato nel 1916) ebbe tutta la sua formazione infantile e giovanile nell’ombra del regime fascista, che cadde quando lui era un giovane di 27 anni. La sua famiglia non era fascista per ideologia, ma nemmeno apertamente antifascista. Il padre agnostico e liberale, ebbe qualche difficoltà nella sua carriera di ispettore scolastico, ma non fu certo un perseguitato; la madre, donna attiva e intellettualmente dotata, era una cristiana appassionata. Il giovane Aldo si formò nelle associazioni cattoliche e in particolare nella Federazione universitaria, la Fuci, dove negli anni ’30 l’eredità di Montini di un netto quanto silenzioso riserbo verso il regime si era modificata sensibilmente: era divenuta più diffusa la convinzione che fosse necessario fare i conti con la prevedibile durata della dittatura, cercando di orientare le posizioni sociali e culturali al suo interno. Moro quindi mostrò con i suoi studi giuridici (e particolarmente filosofico-giuridici) di ispirarsi a una visione eclettica, tutt’altro che organica alle correnti stataliste gentiliane, ma molto interna alla rivalutazione della statualità rispetto alla cultura cattolica tradizionale. Partecipò da studente universitario ai Littoriali, come scelta non personale ma probabilmente come parte di una generazione che intendeva condividere i percorsi dei propri coetanei, discutendo anche di “dottrina del fascismo”. Si iscrisse al Pnf per poter iniziare la carriera universitaria. Insomma, esprimeva una linea prudente e moderata nei comportamenti, quanto solida nelle convinzioni personali e ideali di distanza dal totalitarismo. Il fatto che fosse militare al Sud quando il regime crollò, non gli fece nemmeno sperimentare il dilemma delle regioni del nord e la possibilità dell’azione resistenziale. Da qui probabilmente anche i caratteri del suo antifascismo successivo (citato in Costituente e più volte ripreso nella sua attività pubblicistica e politica): non tanto militante e ideologico, ma attento a porre netti e precisi argini sostanziali all’eredità del fascismo nella società italiana.

 

2- Che idee differenziarono Moro dal gruppo dei “Professorini di Milano”?

 

Su questo punto ci sono ancora dibattiti aperti, anche perché le carte non hanno fornito appoggi solidissimi per precisare il discorso. Secondo me, Moro fu molto vicino a Dossetti, non solo – come sappiamo – nel lavoro costituente, ma anche dopo il 1947 nello sviluppo della sua corrente e della conseguente battaglia politica per attuare la prima parte della costituzione: il disegno cioè di un moderno Stato democratico-sociale di impronta europea. Questa resterà la sua ispirazione politica fondamentale per tutta la vita. Differenziandosi però da Dossetti, maturò dall’incontro con De Gasperi una visione meno contrapposta all’azione dello statista trentino, e in particolare – direi così – colse quello che De Gasperi aveva fatto per consolidare la democrazia italiana, introiettando nella Dc il moderatismo e il conservatorismo nel 1947, con la scelta di rompere l’alleanza ciellenistica e smontare la pressione delle destre. Moro resterà sempre convinto che ogni evoluzione riformatrice della società italiana nel senso del progetto democratico-sociale della Costituzione, dovesse essere attentamente e prudentemente gestita per evitare di creare una reazione nel ventre molle conservatore del paese. Espressione politica di ciò era la convinzione che bisognasse portare la Dc unita – cosa non sempre facile, anzi – alle svolte politiche più importanti.

 

3- Un evento importante che accadde mentre Moro era segretario della Dc fu la vicenda del “Piano solo”. Che ruolo ebbe Moro in tale vicenda?

 

Oggi conosciamo piuttosto bene la vicenda, dopo anni di polemiche anche fuorvianti ed esagerate. La crisi del luglio 1964 fu uno dei momenti più alti della reazione alla costituzione del centro-sinistra, che proprio con Moro aveva appena portato i socialisti al governo. Il vero perno dell’operazione fu Segni dal Quirinale, che intendeva favorire la costituzione di un governo tecnico fuori dai partiti, per bloccare le riforme e dar credito alle forze proprietarie, che nel paese vedevano preoccupatissime montare la cosiddetta “congiuntura” economica critica (proprio per effetto delle prime battaglie salariali e delle ipotesi di aumento della spesa pubblica). Segni si preoccupò di possibili reazioni di piazza (il caso Tambroni era fresco) e quindi fece preparare un piano d’emergenza al comandante dei carabinieri De Lorenzo, che ipotizzava in caso di disordini di far scattare le note misure autoritarie (compresa l’”enucleazione”” di dirigenti della sinistra). Era una contro-preparazione difensiva, per sostenere una manovra certamente per lo meno al limite delle prerogative costituzionali della presidenza. La crisi di governo fu durissima, ma alla fine Moro riuscì a salvare l’asse con Nenni e a portarsi dietro la Dc del segretario Rumor, confermando l’alleanza di centro-sinistra. Il prezzo da pagare a Segni e alle componenti politiche che lo appoggiavano fu il ridimensionamento del programma.

 

4-  Un ruolo importante che Aldo Moro ricoprì fu quello di Ministro degli Esteri. In che modo cercò di intervenire nella politica estera italiana?

 

Egli fu ministro quasi ininterrottamente dal 1969 al 1974, cioè nel periodo della cosiddetta distensione e dell’emergere del terzo mondo. Aveva pian piano costruito una statura internazionale negli anni della presidenza del Consiglio, ma in questi anni era un uomo sconfitto e piuttosto isolato nel suo stesso partito, per cui l’azione da ministro soffrì di certi limiti. Possiamo però dire che egli confermò la sua visione del solido ancoraggio atlantico e del primato della scelta europea dell’Italia, allargando però il senso di queste scelte, alla luce della comprensione dei mutamenti internazionali e del nuovo protagonismo dei popoli extra-europei. Soprattutto nel Mediterraneo, questo significava tentare di appoggiare una soluzione dei conflitti il più equilibrata e avanzata possibile.  Si equivoca definendola una linea “filoaraba”: era una linea che voleva tenere assieme la difesa di Israele e la pressione per una soluzione pacifica, che interloquisse con i leader del mondo arabo. Questa idea si collegava all’ipotesi che la distensione bipolare, immaginata inizialmente dalle superpotenze come strumento di ingessatura degli equilibri, potesse trasformarsi anche grazie all’azione europea (si pensi all’Ostpolitik tedesca) e a quella più modesta ma non inesistente italiana. Dando così vita a un processo di graduale superamento dei blocchi politico-militari: non a caso egli appoggiò molto la conferenza di Helsinki e la creazione della Csce.

 

5- Nel momento del sequestro di Aldo Moro vi erano molte figure che avevano un ruolo più importante rispetto a lui, tra le quali: Enrico Berlinguer, segretario del Pci, Giulio Andreotti, Presidente del consiglio, Benigno Zacagnini, segretario della Dc. Perché le BR scelsero Aldo Moro?

 

Difficile da dire: secondo l’autoricostruzione dei brigatisti che hanno parlato, Moro era semplicemente un simbolo dell’odiato potere democristiano, più facile da rapire rispetto ad altri più protetti. Resta però il dubbio che con il suo rapimento si volesse colpire la sua politica: non tanto, come spesso si è detto l’“apertura ai comunisti”. Moro non pensava che la proposta del compromesso storico di Berlinguer fosse realistica. Non credeva a un governo con il Pci nel breve periodo. Ma intendeva gestire un difficile percorso di transizione, che evitasse contrapposizioni frontali in un periodo difficilissimo per il paese, per non far saltare le fragili istituzioni. Dando contemporaneamente una sponda alla continua evoluzione ideologica del Pci, proprio con il coinvolgerlo maggiormente nella dinamica istituzionale e parlamentare. Era certo un percorso complesso e delicato, che i brigatisti non potevano che odiare, perché contribuiva a consolidare la democrazia e a allontanare il sogno ingenuo della “rivoluzione”. Venuto meno il suo più sperimentato registro, la “solidarietà nazionale” avviata con il governo Andreotti del 1976 non doveva durare moltissimo (anche se paradossalmente il rapimento nel breve periodo la consolidò).

 

6- Secondo lei perché non venne mai presa in considerazione la “linea della trattativa”, da parte dei maggiori esponenti della Dc?

 

Per certi versi, la linea della trattativa in pubblico era inammissibile e inoltre fu sabotata dagli stessi brigatisti, che resero nota la prima lettera di Moro a Cossiga, che l’affacciava come ipotesi da gestire in modo segreto e riservato. Il problema non è quindi primariamente il conflitto fermezza-trattativa, che era una contrapposizione piuttosto formale: l’ondivaga tattica di gestione del sequestro da parte delle Br sembrò a un certo punto chiedere il rilascio dei compagni in prigione più che altro come mossa di “propaganda armata”, tesa a convincere l’opinione pubblica che sarebbero stati i capi democristiani a volere Moro morto per non scegliere la trattativa (e questo fu forse uno dei pochi loro successi nel medio periodo…). Del resto, alcuni tentativi di trattativa riservata pure ci furono, anche se tutti molto deboli (ad oggi ne conosciamo uno promosso da Vaticano, uno che fece capo al rapporto tra i socialisti e alcuni militanti dell’Autonomia operaia, forse uno attraverso i palestinesi…). Il punto vero, rispetto all’azione degli apparati dello Stato e dei vertici politici responsabili fu l’incredibile impressione di passività e incapacità a gestire gli aspetti polizieschi del problema.  Tale incapacità a coniugare la fermezza pubblica con l’efficacia poliziesca è difficile dire se sia solo frutto delle debolezze e inefficienze tipiche del momento, oppure fosse anche condizionata dall’azione di gruppi di potere che odiavano Moro (si pensi al fatto che molti dirigenti degli apparati di sicurezza si rivelarono poi iscritti alla centrale politico-affaristica che si chiamava P2)…

 

 

7- Nel memoriale di Moro emergono forti critiche alla Dc e nelle ultime lettere emerge la sua volontà di abbandonare la Dc. Questa scelta era dovuta a come si stava sviluppando il partito, cioè alla volontà della Dc di proseguire con la linea della fermezza, o vi erano dei problemi all’interno della Dc che Moro vedeva ormai come irrisolvibili?

 

Difficile esprimersi con cognizione di causa: possiamo solo ipotizzare cosa passasse per la mente di Moro e le lettere dalla prigione brigatista sono da noi conosciute in forma solo occasionale e incompleta. Oggi non credo sia più possibile dire che non sono moralmente ascrivibili a Moro, come fu fatto nella durezza degli eventi. Ma nemmeno possono essere considerate come frutto sicuro di un ragionamento libero, ovviamente. Erano frutto di uno stato di costrizione, cui lo statista cercava con fatica di sottrarsi. Abbiamo contezza del fatto che ci fosse una sorta di doppia censura brigatista: alcune lettere furono scritte e poi non consegnate al destinatario, altre fatte scrivere e riscrivere più volte con intenzione di usarne versioni diverse. Tra l’altro egli era informato solo parzialmente e surrettiziamente dai brigatisti di quello che succedeva fuori. Perché Moro accettò di scrivere? Era subalterno e indifeso?  Si fece condizionare dalla “sindrome di Stoccolma”? Probabilmente è più facile immaginare che egli tentasse, in condizioni drammatiche, di esercitare per l’ultima volta la sua capacità di fare politica, di persuadere, di muovere gli eventi. Per salvarsi, certo, ma in una logica pienamente coerente con la solidità dello Stato democratico. Appare certo un crescente risentimento di Moro verso i suoi sodali di partito, che probabilmente avvertì come deboli e incapaci di offrirgli una sponda. Sotto questo elemento personale, però, trasparivano bagliori della sua lucida consapevolezza della crisi di un sistema. Erano gli elementi di un dramma interiore che egli stava già vivendo da anni, cogliendo come i partiti e la sua stessa Dc fossero sempre meno in grado di guidare una società che stava diventando articolata, disordinata e complessa, molto più di quella della ricostruzione. Forse, proprio il fallimento dello Stato in via Fani e nella gestione efficiente dell’emergenza costituirono per lui segnali di una crisi e di un logoramento rapidissimi.

 

 

Exit mobile version