Trump gioca d’azzardo con i risparmi degli americani.

Continua il pressing del presidente Donald Trump sul presidente della Federal Reserve Jerome Powell, per via della gestione dei tassi d’interesse sul dollaro che Donald Trump, vorrebbe venissero ribassati molto e velocemente, mentre il presidente della Federal Reserve preferisce un approccio più cauto.

Il diverso approccio tra i due non è solo questione di temperamento, carattere e visione dei due “presidenti”, ma riflette anche gli interessi dei due individui, il primo in quanto presidente eletto, deve rispondere ai propri elettori e procedere lungo la propria linea politica, il secondo invece, in quanto funzionario federale, ha il compito di preservare gli interessi della nazione, della sua economia e il valore del dollaro.

Trump e Powell hanno ruoli diversi che per quanto interconnessi, si incrociano realmente solo poche volte, e difficilmente questo incontro avviene più volte nella vita di un presidente, e questo perché, per preservare la natura indipendente e non politica della Federal Reserve, il suo presidente, pur essendo nominato dal presidente degli USA, non può essere rimosso dal proprio incarico prima della fine del suo mandato o che avvenga un evento drammatico, come ad esempio l’arresto o la morte del suddetto.

Jerome Powell, attuale presidente della FED è in carica da febbraio 2018, e fu proprio l’allora presidente Trump a nominare il governatore repubblicano, molto vicino alla famiglia Bush, alla carica di presidente della FED.

Tra il 2018 e il 2025, l’approccio conservativo e rigoroso di Powell non è mutato, sono però mutati i mercati globali e più in generale l’economia globale, colpita duramente e messa alla prova prima dalla pandemia e poi da vari conflitti in giro per il mondo.

Divergenze tra USA e UE nella gestione dell’inflazione

Scenari geopolitici complessi che il presidente della FED, così come la dirigenza della BCE in Europa, tengono sott’occhio, non prendono sotto gamba, e che costituiscono un elemento determinante per la strategia monetaria da adottare. Di questo l’Unione Europea, va detto, appare più disciplinata e responsabile degli USA, e si è mossa fin dal 2020 per preservare la propria economia, nonostante le crescenti sfide che hanno visto soprattutto nel 2022, un rapito innalzamento dell’inflazione, ai quali l’Europa ha cercato di rimediare con un innalzamento progressivo dei tassi d’interesse sull’Euro, che, a partire dal 2024 ha iniziato a ridurre.

Gli USA invece, soprattutto durante la presidenza Trump, si è detta meno ricettiva alle indicazioni della propria banca centrale e della propria governance, e, a differenza dell’Europa in cui i vari stati membri e la BCE remavano sostanzialmente nella stessa direzione per favorire una riduzione dell’inflazione, negli USA solo la FED sembra andare in quella direzione, mentre il presidente Trump ha intrapreso una serie di iniziative economiche, particolarmente aggressive, tra cui la nuova politica sui dazi e sui migranti, che hanno contribuito ad un nuovo incremento dell’inflazione, rendendo difficile e pericoloso per la FED ridurre i tassi d’interesse sul dollaro.

Detto più semplicemente, la strategia di Trump per rilanciare l’economia USA passa da un inflazione altissima e la svalutazione del dollaro, così che il costo del debito USA, a parità di dollari emessi, sia virtualmente più “basso”. Dall’altra parte, la FED ha tra le proprie priorità quella di mantenere il dollaro alto, così da preservare il potere d’acquisto degli americani.

Due visioni inconciliabili, dipendenti da due cariche non sovrapponibili, che però, il presidente Trump intende controllare.

Non è una novità che Trump minacci di licenziare Powell, cosa che però, non può fare. La carica del presidente della FED è, come già detto, blindata fino a fine mandato.

Se da un lato Trump non può licenziare Powell, dall’altro in vista della fine imminente del suo mandato, Trump può non rinnovare il mandato, e nominare a Marzo 2026 un nuovo presidente della Federal Reserve.

Come viene nominato il presidente della FED

Sebbene il presidente della FED venga nominato direttamente dal presidente USA, va precisato che, a differenza dei membri del gabinetto presidenziale, nel quale il presidente può nominare chiunque, anche un conduttore TV come segretario della difesa… ed ha solo bisogno dell’approvazione del proprio partito al congresso affinché quella nomina venga confermata. Per la nomina del presidente della Federal Reserve, è più complessa.

Anzitutto Trump non può scegliere arbitrariamente, ma può limitare la propria scelta ad una lista di nomi proposti dal senato, generalmente governatori della Federal Reserve, ma non necessariamente, e una volta fatta la propria scelta, il senato ha il compito di votare e approvare la nomina dopo un audizione del candidato di fronte alla commissione bancaria del senato.

La valutazione della commissione bancaria del senato, pur non essendo vincolante, è di enorme rilievo, se infatti la commissione dovesse ritenere un candidato non idoneo, il voto passerebbe comunque al senato, ma difficilmente verrebbe confermato, a meno che non ci sia una precisa volontà politica di nominare quella specifica persona per la carica di presidente della Federal Reserve.

Chi sono i possibili successori di Powell ?

Nominato per la prima volta, da Trump, il 5 febbraio 2018, Jerome Powell è stato il 16° presidente della Federal Reserve e nel 2022, il presidente Biden ha riconfermato Powell per un secondo manato alla guida della FED, mandato che terminerà nel 2026, e viste le tensioni unilaterali tra Trump e Powell, è molto improbabile che il presidente uscente venga nominato per un terzo mandato.

Interrogati sul futuro della FED e sulle dinamiche politiche all’interno del Board of Governors della FED, alcuni economisti hanno indicato i possibili futuri governatori della FED.

Tra i nomi più quotati figurano quelli del governatore Christopher Waller e di Kevin Hassett.

Nomi che hanno riscosso un grande successo anche in sondaggi come quello condotto dal Clark Center for Global Markets della Booth School of Business dell’Università di Chicago e pubblicato sul Financial Times, dove Waller ha ottenuto l’82% di probabilità di nomina, mentre Hassett il 44%. Oltre i due nomi “promossi” dagli economisti, vi sono anche altri nomi più “politici” come ad esempio Marc Sumerlin.

E l’indirizzo politico del candidato non è da sottovalutare e anzi, mai come in questo caso potrebbe essere determinante.

Il prossimo presidente della FED, con molte probabilità, non sarà un economista di rilievo, con esperienza e competenze invidiabili, ma più probabilmente un fedelissimo di Trump e del MAGA, e che, soprattutto, condivida le idee politiche di Trump in materia economica. Ricordiamo ancora una volta che da mesi Trump sta facendo pressioni affinché il tasso d’interesse sul dollaro torni all’1%. Richiesta che Powell non ha minimamente preso in considerazione, procedendo, solo a settembre 2025, con un primo lieve taglio del tasso d’interesse, portato al 4% dal precedente 4,25%.

Un taglio lieve e cauto, che ovviamente non soddisfa minimamente il presidente Trump, ma che permette al dollaro di continuare a valere intorno agli 0,80€ e non precipitare sotto i 0,70€, cosa che si stima possa accadere in caso di taglio troppo rapido del tasso d’interesse.

Oltre ai nomi già citati, vi è un quarto nome tra i papabili, proposto direttamente da Donald Trump, che sembra incarnare le idee economiche del presidente, ovvero l’ex governatore della Federal Reserve Kevin Warsh.

Warsh, Waller e Hassett sono tutti e tre favorevoli ad un più incisivo e veloce taglio dei tassi d’interesse, Waller ed Hassett tuttavia, pur volendo accelerare, prediligono un approccio più cauto, con piccoli tagli frequenti, Warsh invece, potrebbe sostenere la proposta di Trump per un taglio unico dal 4 all’1%, e questa sua vicinanza al presidente, questa sua “lealtà” come l’ha definita lo stesso Trump, e obbedienza al Presidente, anche nel caso in cui dovesse ricoprire una carica indipendente che non risponde e non deve rispondere al presidente, potrebbe essere determinante per la sua nomna.

Trump in questo è stato molto chiaro, il prossimo presidente della FED deve rispettare 2 requisiti fondamentali, essere leale a Trump (non al presidente), e avere la volontà di tagliare i Tassi, questo secondo requisito tuttavia è subordinato al primo, e se Trump dovesse decidere che non si devono più tagliare i tassi, il presidente leale dovrebbe cambiare idea con lui.

Il dilemma dell’incompetente

Per quella che è la visione di Trump e le sue dichiarazioni, la nomina del prossimo presidente della Federal Reserve sembra quindi essere fortemente legata alla lealtà del candidato al presidente Trump.

Trump sa che una volta nominato alla presidenza, il prossimo presidente della FED rimarrà in carica per non meno di 4 anni, e dovrà condividere con il prossimo presidente FED ciò che rimane del suo mandato presidenziale, ha quindi bisogno di una persona di fiducia, che gli obbedisca e che segua le sue direttive, e al di là dell’interferenza del presidente su una carica indipendente che è già di suo molto allarmante, va assolutamente osservato un altro fattore.

Donald Trump è una delle pochissime persone al mondo ad essere riuscito a far fallire un “Casinò”, se vi interessa scriverò un articolo dedicato al Trump Entertainment Resorts, Inc. e al suo fallimento nel 2004 e la sua chiusura definitiva nel 2017.

Oggi Trump sta giocando d’azzardo e gestendo gli USA, in un certo senso, come gestiva il suo casinò, con la differenza che, se all’epoca del TER i soldi del banco erano i suoi, questa volta il banco rischia di perdere i risparmi di oltre 300 milioni di cittadini americani.

Definizione di Bambino secondo la Convenzione sui diritti dell’Infanzia

Il 20 novembre 1989 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la “Convention on the Rights of the Child” che l’Italia ha ratificato il 27 maggio 1991 con la Legge n. 176.

Ad oggi la convenzione sui diritti del bambino è il trattato in materia di diritti umani con il più alto numero di ratifiche al mondo. Solo un paese membri dell’ONU , pur avendo firmato la convenzione, non l’ha mai ratificato, e per il momento non dirò che paese è.

L’Articolo 1 della convenzione, per ad Eyal Mizrahi che ha chiesto a Iacchetti di “definire un bambino”, fornisce proprio la definizione di bambino, o per meglio dire di “fanciullo”.

“Ai sensi della presente Convenzione si intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile”

All’articolo due invece, “gli Stati parti si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella Convenzione e a garantirli a ogni fanciullo che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza.”

Inoltre, gli Stati parti si impegnano ad adottare “tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari.

Qui il testo integrale della convenzione.

All’articolo 6, “Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto inerente alla vita. Gli Stati parti assicurano in tutta la misura del possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo”

Articolo 11 “Gli Stati parti adottano provvedimenti per impedire gli spostamenti e i non-ritorni illeciti di fanciulli all’estero.

A tal fine, gli Stati parti favoriscono la conclusione di accordi bilaterali o multilaterali oppure l’adesione ad accordi esistenti”

Articolo 16 “Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione.

Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti”

Articolo 22 “Gli Stati parti adottano misure adeguate affinché il fanciullo il quale cerca di ottenere lo statuto di rifugiato, oppure è considerato come rifugiato ai sensi delle regole e delle procedure del diritto internazionale o nazionale applicabile, solo o accompagnato dal padre o dalla madre o da ogni altra persona, possa beneficiare della protezione e della assistenza umanitaria necessarie per consentirgli di usufruire dei diritti che gli sono riconosciuti della presente Convenzione e dagli altri strumenti internazionali relativi ai diritti dell’uomo o di natura umanitaria di cui detti Stati sono parti.

A tal fine, gli Stati parti collaborano, nelle forme giudicate necessarie, a tutti gli sforzi compiuti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite e dalle altre organizzazioni intergovernative o non governative competenti che collaborano con l’Organizzazione delle Nazioni Unite, per proteggere e aiutare i fanciulli che si trovano in tale situazione e per ricercare i genitori o altri familiari di ogni fanciullo rifugiato al fine di ottenere le informazioni necessarie per ricongiungerlo alla sua famiglia. Se il padre, la madre o ogni altro familiare sono irreperibili, al fanciullo sarà concessa, secondo i principi enunciati nella presente Convenzione, la stessa protezione di quella di ogni altro fanciullo definitivamente oppure temporaneamente privato del suo ambiente familiare per qualunque motivo”

Articolo 24 “Gli Stati parti riconoscono il diritto del minore di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione. Essi si sforzano di garantire che nessun minore sia privato del diritto di avere accesso a tali servizi…. [continua]”

Articolo 30 “Negli Stati in cui esistono minoranze etniche, religiose o linguistiche oppure persone di origine autoctona, un fanciullo autoctono o che appartiene a una di tali minoranze non può essere privato del diritto di avere una propria vita culturale, di professare e di praticare la propria religione o di far uso della propria

lingua insieme agli altri membri del suo gruppo… [continua]”

Articolo 35 “Gli Stati parti adottano ogni adeguato provvedimento a livello nazionale, bilaterale e multilaterale per impedire il rapimento, la vendita o la tratta di fanciulli per qualunque fine e sotto qualsiasi forma… [continua]”

Articolo 38 (questo devo riportarlo integralmente “Gli Stati parti si impegnano a rispettare e a far rispettare le regole del diritto umanitario internazionale loro applicabili in caso di conflitto armato, e la cui protezione si estende ai fanciulli.

2. Gli Stati parti adottano ogni misura possibile a livello pratico per vigilare che le persone che non hanno raggiunto l’età di quindici anni non partecipino direttamente alle ostilità.

3. Gli Stati parti si astengono dall’arruolare nelle loro forze armate ogni persona che non ha raggiunto l’età di quindici anni. Nel reclutare persone aventi più di quindici anni ma meno di diciotto anni, gli Stati parti si sforzano di arruolare con precedenza i più anziani.

4. In conformità con l’obbligo che spetta loro in virtù del diritto umanitario internazionale di proteggere la popolazione civile in caso di conflitto armato, gli Stati parti adottano ogni misura possibile a livello pratico affinché i fanciulli coinvolti in un conflitto armato possano beneficiare di cure e di protezione.”

Ho voluto riportare qui tutti gli articolo della convenzione che, nella guerra in Palestina, sono stati largamente, ripetutamente e impunemente violati dallo stato sovrano di Israele, il cui dovere, in quanto paese firmatario che ha ratificato la convenzione il 4 agosto 1991, è di proteggere non solo i cittadini israeliani, ma anche e soprattutto i bambini palestinesi vittime di Hamas tanto quanto i bambini israeliani.

All’inizio del post ho detto che la convenzione per i diritti del bambino è la convenzione per i diritti umani con il più alto numero di ratifiche al mondo, e che un solo paese non l’ha ratificata. Considerato quanto c’è scritto nella convenzione, potremmo pensare che a non ratificarla si stato un paese come la Korea del Nord, la Cina, la Russia o l’Arabia Saudita, eppure, la Korea del Nord, nonostante tutto, ha ratificato la Convenzione il 21 settembre 1990. La Cina l’ha ratificata il 2 marzo 1992, la Russia l’ha ratificata il 16 agosto 1990 e tra gli ultimi ad avervi aderito, gli Emirati Arabi Uniti che hanno ratificato la Convenzione il 3 gennaio 1997.

Gli Stati Uniti d’America invece, ad oggi, 23 settembre 2025, sono l’unico paese al mondo ad aver firmato ma non ratificato la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

La bandiera palestinese in Campidoglio? Per Feltri è indegna. Ma forse è Feltri ad essere Indegno di essere italiano.

Un lettore de Il Giornale ha scritto al quotidiano nello specifico al direttore Vittorio Feltri, chiedendo cosa ne pensasse della bandiera palestinese esposta in campidoglio.

“Caro Donato, ti dirò senza giri di parole quello che penso: vedere sventolare la bandiera palestinese sul Campidoglio, cuore simbolico e istituzionale d’Italia, è stato uno spettacolo indecente. Non è soltanto una provocazione, è un insulto deliberato all’identità, alla storia e ai valori fondanti del nostro Paese.”

In questa prima parte, il direttore Feltri dimostra di non essere degno della cittadinanza Italiana, in quanto non conosce, o forse ignora deliberatamente, la storia della nostra nazione e della nostra repubblica.

Vorrei ricordare infatti al signor Feltri che l’Italia è una repubblica nata e forgiata dalla resistenza al regime nazi-fascista, e che i nostri padri fondatori e costituenti, erano considerati dei terroristi dalle forze di occupazione Naziste, esattamente come oggi, i membri della resistenza palestinese, sono considerati dei terroristi dalle forze di occupazione di Israele.
Tra il 1943 d il 1945 innumerevoli patrioti italiani, fedeli alla nazione, e anche al Re che all’epoca era il capo dello stato, si ritrovarono a combattere contro una forza di occupazione immonda e disumana, che aveva trovato in italia il sostegno dei traditori leali a mussolini e al fascismo.

Quelle persone furono perseguitate massacrate e criminalizzate, e, ancora oggi, soffrono dell’immenso pregiudizio espresso dai nostalgici del fascismo, che per ragioni totalmente infondate, hanno tracciato un parallelismo inesistente tra antifascismo e comunismo.

Feltri continua scrivendo “Il Campidoglio non è un luogo qualsiasi. È Roma. Ed è Roma non solamente in senso geografico, ma culturale, spirituale. È la culla del diritto romano, il fondamento della civiltà giuridica occidentale. È la capitale della cristianità, il centro di irradiazione millenaria dei nostri valori. È il fulcro dell’italianità. E su quel palazzo, in quella sede, deve sventolare solo una bandiera: il tricolore. Tutto il resto è contaminazione ideologica.”

L’idea che Roma sia capitale della cristianità è errata e priva di valore e fondamento storico, al massimo, se proprio vogliamo legare in qualche modo Roma alla religione, possiamo assumere che sia la capitale del cattolicesimo, non della cristianità, vi sono infatti innumerevoli correnti cristiane, dai protestanti ai copti, ecc, che pur credendo in Cristo, negli Apostoli, nell’ascensione e nello spirito santo, non riconoscono l’autorità politica e temporale del pontefice quale capo della chiesa ecumenica, riconoscendo in lui tuttavia, il ruolo prettamente politico di capo dello stato vaticano, ex stato pontificuio.

Va anche detto che per per gran parte della propria storia, oltre 1000 anni, Roma è stata pagana. Roma infatti ha adottato il cristianesimo come religione ufficiale soltanto nel 380 d.c. e tale avvenimento non ha reso Roma la capitale della cristianità, solo con papa Leone I, nel 440, Roma ha visto nascere l’idea della supremazia petrina, ossia che il vescovo di roma fosse il successore di Pietro e in quanto tale dovesse essere il “capo” della chiesa.
In conclusione, Roma è stata una città pagana per oltre 1100 anni, e una città Cattolica per circa 1500 anni.
Sostenere che le radici della civiltà occidentale affondino nella Roma del V secolo dopo cristo è un insulto alla storia di Roma, che per oltre 1000 anni prima di tale momento, ha regnato sul mediterraneo e l’Europa.

Sostenere che le radici di Roma, una civiltà universale che per oltre 1000 anni dalla sua fondazione è stata pagana, siano cristiane, è quanto di più lontano possa esistere dalla realtà. Ancora una volta un insulto alla storia e soprattutto alla storia d’Italia e di Roma.

Feltri continua il suo discorso carico d’odio e di ignoranza sostenendo che “una bandiera straniera in cima ad una sede istituzionale è già di per sé un atto politicamente discutibile.”
In realtà gesto è da sempre un atto di diplomazia e civiltà. Abbiamo sempre affisso bandiere straniere accanto alle nostre, in segno di rispetto e amicizia. Ma comprendo che per Feltri concetti come diplomazia e solidarietà siano evidentementre concetti discutibili…. il che è paradossale se si considera che nell’passaggio precedente rivendicava una tradizione storica “cristiana” per l’Italia. E anche qui dimostra ignoranza e insulta non solo la storia ma anche il cristianesimo e i vangeli. Il messaggio fondamentale del cristianesimo è infatti l’amore, la pace, la solidarietà, il rispetto dell’altro, e non l’odio che Feltri vomita in questo intervento miserabile.

Feltri sostiene che “Esporre la bandiera palestinese, in questo momento storico, è qualcosa di ben peggiore: è uno schiaffo a Israele, Paese democratico, alleato dell’Italia, che ha subito un massacro terroristico il 7 ottobre.”

Non vedo in che modo riconoscere lo stato di palestina, previsto dalla stessa risoluzione dell’ONU del 1947 con cui si riconosce lo stato di Israele possa essere uno schiaffo ad Israele, lo è solo nella misura in cui i due stati non sono visti come entità distinte, ma si escludono a vicenda, ma riconoscere la Palestina, la dignità dei suoi abitanti a vivere liberi, non significa disconoscere Israele, si possono infatti riconoscere entrambe le nazioni, come dovrebbe essere. Va inoltre detto che, il vile attentato subito da Israele il 7 ottobre 2023, non c’entra nulla con la Palestina. Tale attentato è stato compiuto da Hamas, non dall’intero popolo palestinese. E come si condanna, giustamente, quell’attentato, vanno condannati e non giustificati i crimini commessi da israele nei tre anni successivi.
I crimini dell’uno non giustificano i crimini dell’altro, sono entrambi deprecabili, un insulto alla civiltà e alla dignità umana, e nel negare i crimini di una delle parti, è il vero atto di infamia e disumanità.

Feltri continua, dicendo che quella bandiera è “anche uno sberleffo ai cittadini italiani che non ne possono più del fanatismo ideologico, delle solidarietà unilaterali, dell’odio travestito da attivismo.”

Un passaggio che contraddice se stesso poiché lo stesso Feltri in questo video, sostiene il terrorismo travestito da diritto alla difesa, mostra una solidarietà unilaterale nei confronti di Israele, e si fa portavoce di un fanatismo ideologico, carico di odio e privo di qualsiasi forma di umanità e dignità.

Come già detto sostenere i diritti civili del popolo palestinese, la sua dignità ad esistere, non significa negare questi stessi diritti ad Israele, entrambi i popoli devono avere gli stessi diritti, la stessa dignità di esistere. E come va condannato Hamas che vorrebbe negare tale diritto ad Israele, così va fatto per Netanyahu e il suo governo che più volte ha dichiarato di voler negare tale diritto al popolo palestinese.

Feltri si chiede con quale logica si possa giustificare una simile esibizione. Davvero qualcuno crede che issare la bandiera palestinese sia un gesto «di pace»? Ed è imbarazzante che ci si possa chiedere se, sostenere il diritto di esistere di un popolo oppresso da bombardamenti quotidiani, sia o meno un segno di solidarietà.

Mi chiedo piuttosto come possa Feltri essere indifferente alle migliaia di morti civili, agli ospedali in fiamme, ai bambini morti di fame, sete e malattia.

Per lui esporre una bandiera “È un gesto fazioso, divisivo, pericoloso. Perché quella bandiera lo si voglia o no è oggi diventata emblema di un mondo che odia l’Occidente”, questa frase è pura follia, priva di alcun senso. Quella bandiera non esprime odio nei confronti dell’occidente, ma anzi, è l’esatto contrario, è una bandiera che si appella ai valori e i principi dell’occidente. Esporre quella bandiera significa riporre fiducia nelle istituzioni occidentali, nella comunità internazionale, nel diritto internazionale. 

Per Feltri, nella sua fanatica e islamofobica visione del mondo quella bandiera significa disprezza la nostra cultura e giustificare la violenza. Eppure, chi sta giustificando la violenza indiscriminata, è proprio Feltri, che rigirando contro di lui le sue stesse parole, considera il popolo palestinese “un nemico da conquistare o da punire”. 

Feltri continua dicendo “Non tutti i palestinesi sono terroristi, certo. Ma quella bandiera è ormai associata a troppi crimini, troppi massacri, troppi festeggiamenti in piazza per attentati contro civili, donne, bambini, anziani.” Lo stesso si può dire della bandiera di Israele, responsabile di oltre 60mila morti, tra cui innumerevoli volontari occidentali della croce rossa e dell’ONU, ma non c’è repulsione verso la bandiera di Israele, ed è giusto che sia così, perché Israele e il suo popolo, non sono responsabili dei crimini di Netanyahu, tale principio però vale anche per il popolo palestinese che non è responsabile dei crimini di Hamas.

Per Feltri, “chi espone oggi la bandiera palestinese, lo fa contro qualcosa, non per qualcosa. È contro Israele, contro l’Occidente, contro le regole della convivenza civile.” in realtà è esattamente il contrario di ciò che sostiene Feltri, chi oggi espone la bandiera palestinese lo fa perché è perché la comunità internazionale riconosca uno stato e un popolo, e riconosca a quel popolo il suo diritto innegabile di esister. Non è contro di noi, non è contro Israele, non è contro il diritto. Al massimo è contro l’oppressione, la violenza indiscriminata, i crimini di guerra, è contro l’odio che nega ad un popolo la sua dignità..

Qui arriva forse il passaggio peggiore dell’intervento di Feltri, dice “E poi, scusami, provaci tu a portare una bandiera italiana a Gaza, a Beirut, a Teheran. Non ti lascerebbero nemmeno entrare. E allora perché mai noi dovremmo sventolare simboli altrui, soprattutto quando sono i simboli di una causa ambigua, intrisa di fanatismo religioso e odio antisemita?”

Per Feltri il fatto che in alcuni posti del mondo i diritti vengono negati, noi dovremmo fare altrettanto, dovremmo prendere esempio da quelle realtà opprimenti e in cui domina l’intolleranza? Non dovremmo invece essere noi l’esempio, promuovere il rispetto e la tolleranza, anche, garantire diritto di esistere e di esprimere le proprie idee anche a chi vorrebbe negare a noi quei diritti?

Se adottassimo la linea di principio proposta da Feltri, lo stesso feltri non dovrebbe avere diritto di parola, e pure dirige un giornale.

Conclude il direttore, dicendo “che abbiamo perso il lume della ragione. In nome di un «progressismo» malato, abbiamo rinunciato ai nostri simboli, alla nostra identità, alla nostra fierezza nazionale.”

Non so di cosa parli feltri, io sono estremamente fiero di essere Italiano, un paese civile, la cui bandiera è segno di uguaglianza, di libertà, è un memento a persone che sono morte per difendere quei principi che Feltri nega e insulta. Feltri si vergogniamo della solidarietà, dei principi cristiani, dell’umanesimo, che costituiscono i principi fondamentali della nostra costituzione, che sono espressi dal nostro tricolore, e dunque, nel dirsi “disgustato da un italia progressista” veltri si dice disgustato dalla costituzione italiana, dai suoi principi democratici e repubblicani, dalla sua dedizione incondizionata alla pace.

C’è però un passaggio di questo intervento di Feltri, che condivido, ma che per assurdo, contraddice tutto ciò che Feltri ha scritto fino a quel momento. Il direttore scrive “chi vuole la pace deve sostenere chi difende la civiltà, non chi la minaccia. Chi crede nella libertà, nella democrazia, nel diritto…” il passaggio continua dicendo che “… non può mettere sullo stesso piano uno Stato come Israele e una organizzazione terroristica come Hamas. La smettano una volta per tutte con questi gesti di servilismo mascherato da solidarietà. E si ricordino che la bandiera italiana non è un optional: è l’unico simbolo che ha il diritto di sventolare sulla casa degli italiani.”

Ho diviso in due quel passaggio perché, sono totalmente d’accordo con la prima parte, “chi vuole la pace deve sostenere chi difende la civiltà, non chi la minaccia. Chi crede nella libertà, nella democrazia, nel diritto” ma non sono e non posso essere d’accordo con la seconda, perché chi uccide in nome dell’odio, chi nega a qualcuno il diritto di esistere, chi si batte affinché un popolo non venga riconosciuto come tale, chi ha sulla coscienza decine di migliaia di vittime civili, deve essere necessariamente posto sullo stesso piano di qualunque altro criminale regime criminale. 

Non vi è distinzione tra i leader di Hamas e i leader dell’attuale governo Israeliano, così come non c’è differenza tra il popolo palestinese e quello israeliano, negarlo è un insulto alla fingità umana, difendere l’uno e condannare l’altro, riconoscere all’uno il diritto di esistere e negarlo all’altro, è qualcosa di vergognoso, indecoroso, disgustoso e spregevole. Una manifestazione d’odio contro la dignità umana.

BBVA Rilancia l’Offerta su Sabadell: Maxi-Proposta da 19,5 Miliardi

La banca spagnola BBVA torna all’attacco di Banco Sabadell e rilancia la propria offerta d’acquisto con un incremento del 10%.

Con questa proposta che porta il valore totale dell’offerta a 19,5 miliardi di euro, BBVA cerca di superare l’empasse in cui si è ritrovata con la precedente offerta da 12,2 miliardi respinta dal CDA Sabadell lo scorso 12 settembre.

Per essere più precisi BBVA ha proposto uno scambio di azioni per cui verrà offerta 1 azione BBCA per ogni  4,8376 azioni Sabadell, de facto valutando le azioni 3,39€ contro i 3,08€ precedenti.

Si tratta di un’offerta molto vantaggiosa che dovrà essere discussa dal consiglio di amministrazione di banco Sabadell.

Secondo quanto riportato da BBVA se l’operazione di acquisto dovesse essere accettata (e quindi otterrà il voto favorevole del 50%+1 degli aventi diritto di voto), la fusione tramite acquisizione, per gli azionisti di Sabadell, sarà fiscalmente neutra. In altri termini, non ci saranno quindi oneri fiscali per gli azionisti Sabadell che scambieranno le proprie azioni in azioni BBVA.

Se l’operazione di fusione andrà a buon fine, gli azionisti Sabadell acquisiranno una partecipazione del 15,3% nella nuova entità bancaria dal valore complessivo di 127 miliardi di euro. 

Vantaggi per azionisti Sabadell e BBVA

Secondo quanto riportato da BBVA in un comunicato stampa post CDA di lunedì 22 settembre 2025, si stima che questa fusione potrebbe aumentare l’utile per azione di Sabadell del 41%, un incremento che va ben oltre la continuazione come entità indipendente. Il premio offerto, già superiore alla media delle acquisizioni bancarie europee, è stato ulteriormente rafforzato da questa nuova proposta.

Per quanto riguarda invece gli azionisti che avevano già accettato la precedente offerta, nulla di cui preoccuparsi in quanto beneficeranno automaticamente delle condizioni migliorate della nuova offerta. Decisione quest’ultima che mira a rafforzare la fiducia e l’equità del processo di fusione.

Infine, ma non meno importante, l’acquisizione rappresenta un vantaggio anche per gli azionisti BBVA, per i quali si stima un aumento dell’utile per azione di circa il 3% già dal primo anno. BBVA inoltre prevede un rendimento del capitale investito del 17% che dovrebbe avere un impatto limitato sul loro coefficiente di capitale CET1, che a chiusura sarebbe pari a -21 punti base. Si stima che, tale impatto, a seguito della vendita dell’unità britannica TSB di Sabadell e del pagamento di un dividendo straordinario, dovrebbe trasformarsi in un aumento di 40 punti base.

I prossimi passi

Al momento il periodo di accettazione dell’offerta è ancora in fase di approvazione da parte della CNMV, l’autorità di regolamentazione spagnola. Una volta ottenuta l’approvazione tuttavia, il periodo di accettazione riprenderà per i restanti giorni dei 30 originali.

Nuovo attacco di Trump alla FED “Powell dovrebbe dimettersi subito”

Nuovo attacco di Trump alla FED “Powell dovrebbe dimettersi subito”

Continua la pericolosa guerra di Trump alle istituzioni USA. Il presidente torna ad attaccare Jerome Powell per come sta dirigendo la FED e a chiederne le dimissioni.

Secondo il presidente USA, l’attuale presidente della FED dovrebbe dimettersi ma pur essendo una carica nominata dal Presidente USA (e Powell è stato nominato da Trump, poi confermato da Biden), il presidente non ha l’autorità ne il potere di rimuoverlo dall’incarico prima della fine del mandato di 4 anni.

Le dimissioni volontarie sono quindi l’unico modo in cui Powell può essere “rimosso” dalla direzione della FED prima della fine del suo mandato, mandato che terminerà a maggio 2026.

Il motivo per cui il presidente USA può nominare, ma non deporre un presidente della FED è legato a diverse chiamiamole “clausole di sicurezza” che blindano la presidenza della FED e il suo consiglio di amministrazione, in modo che eventuali cambi politici al congresso e alla casa bianca, non influiscano sulla sua direzione, e per separare i due poteri “presidenza USA e presidenza FED” le nomine avvengono in maniera asincrona, entrambe le cariche hanno 4 anni, e il presidente USA nomina un presidente FED, circa un anno dopo l’inizio del proprio mandato. Per quanto riguarda i membri del CDA invece, questi rimangono in carica per 14 anni.

Insomma, la FED e la sua governance sono state progettate proprio per evitare che persone come Donald Trump potessero interferire con il suo funzionamento.

Jerome Powell è presidente della FED dal 2017 e membro del cda dal 2014, ciò significa che il suo mandato da presidente è stato già rinnovato (nel 2021 da Biden) e terminerà nel 2026, mentre il suo mandato da membro del cda terminerà nel 2028, e non può essere rimosso da nessuno dei due incarichi.
Più espressamente, Trump non può licenziare il presidente della FED e i membri del CDA della FED.

Se guardiamo alla carriera “politica” di Powell vengono fuori alcuni passaggi a mio avviso molto interessanti, la sua carriera nelle istituzioni USA inizia nel 2005, secondo mandato di Bush, con la carica di come Segretario del Tesoro e prosegue nel 2011, questa volta presidenza Obama, con la nomina nel consiglio di amministrazione della FED con un mandato triennale, rinnovato nel 2014 per ulteriori 14 anni, nomina confermata in maniera quasi plebiscitaria dal senato che approverà la nomina con una maggioranza assoluta, 84 voti a favore contro 13.

Nel 2017, sotto la presidenza Trump, viene nominato presidente della FED.
La presidenza della FED ha durata quadriennale e a fine mandato, in piena era COVID, il presidente Biden conferma Powell alla guida della FED per altri 4 anni, prolungando il suo mandato fino al 2026.

Sebbene sia stato Trump a nominare per la prima volta Powell alla presidenza della FED, da quando è tornato alla Casa Bianca, il presidente USA ha mostrato una certa reticenza nei confronti del lavoro di Powell, criticandolo e contestandolo in più di un occasione, arrivando spesso a chiederne il ritiro, ma come abbiamo già detto, Trump non ha il potere per rimuovere Powell dall’incarico, e allora Trump scalcia e fa pressione su Powell per ritirarlo a ritirarsi volontariamente dalla guida della FED.

Uno dei motivi di tale ostilità è legato ai tassi d’Interesse sul dollaro, misura anti-inflazione, innescata in epoca Covid e post-covid, e che in altre parti del mondo, come l’UE, ha iniziato ad essere disinnescata, mentre in USA i tassi rimangono “alti”.

Per Trump, mantenendo i tassi alti, Powell starebbe facendo un pessimo lavoro, e per questo ha più volte chiesto di ridurli, ma Trump non ha potere in materia e Powell e la stessa FED l’hanno più volte fatto presente.
In questo scontro unilaterale di Trump contro la FED, Powell non è rimasto in silenzio ed è recentemente intervenuto pubblicamente sottolineando che, l’interesse della FED è mantenere stabile l’economia USA e il Dollaro, e ridurre i tassi d’interesse sul dollaro, è qualcosa di prioritario per la FED, ma tali interventi devono essere rimandati poiché, per via dei Dazi voluti da Trump, la decrescita dell’inflazione è rallentata, di conseguenza, non vi sono più le condizioni per ridurre il tasso d’Interesse in modo sicuro.

Più semplicemente, nonostante i tassi d’interesse alti, il dollaro continua a perdere valore sul mercato, arrivando a valere circa 0,80€ negli ultimi giorni. Ridurre il tasso d’interesse ora, comporterebbe un crollo del dollaro, che potrebbe far collassare l’intera economia USA.

Nei prossimi mesi Trump potrebbe quindi annunciare il successore di Powell, e se si il nome sarà di un membro del CDA della FED, la nomina “prematura” potrebbe minare il peso del Presidente, creando un precedente pericoloso nella storia degli USA.

Cosa ne pensate?

Gli USA attaccano l’Iran | Cause, Effetti e Conseguenze | OP

Mi sono svegliato questa mattina leggendo dell’attacco degli USA all’Iran, l’intervento diretto che il mondo temeva, in parte aspettava e che è segno evidente della volontà USA di alimentare una escalation in Medio Oriente, rovesciare l’Iran e non solo.

In questo articolo voglio presentarvi una mia analisi personale sulla vicenda, senza giudizi morali di sorta.

Attacco USA all’Iran

Il recente attacco (illegale) degli USA all’Iran apre una porta pericolosa per tanti motivi.

Il primo è che qualunque sarà la reazione iraniana all’attacco (scegliere di rispondere all’attacco o percorrere la via dei negoziati) per l’Iran inizierà in entrambi i casi una fase turbolenta che porterà ad enormi vittime civili, causate o da una guerra aperta contro USA e Israele (e potenziali altri alleati nella regione, come Cisgiordania ed Arabia Saudita) o da una guerra civile interna, che non sarà affatto pacifica.

Meno diretta come conseguenza, ma comunque reale, è un escalation in Ucraina, e qualcuno dirà, cosa c’entra l’Ucraina, beh, c’entra, perché il messaggio di Trump è chiaro, se “vuole” garantire la sicurezza” di un amico, interviene immediatamente, se non interviene, non interverrà, abbiamo quindi l’ennesimo forte segnale di disinteresse USA per il conflitto in Ucraina, che risuona come un invito alla Russia ad intensificare le ostilità senza conseguenze.

Altra conseguenza diretta, è sulla diplomazia globale, il messaggio qui è che non serve. La linea USA è (oggi più che mai) bellicista, la guerra è per gli USA non uno strumento di risoluzione di conflitti tra stati ma lo strumento di risoluzione, e questo significa preoccupazione crescente per Groenlandia e Panama, dove l’intervento militare USA appare oggi più probabile che mai.
Tornando all’Ucraina la linea d’azione di Trump legittima per gli USA, la linea di Putin in Ucraina, e della Cina nei confronti di Taiwan (e viceversa, Taiwan nei confronti della Cina) perché agli USA di Trump, non serve una minaccia per intervenire, è sufficiente dire che che c’è una possibile minaccia. Ed è la stessa linea di politica estera di Putin e Netanyahou. Penso che potrebbero minacciarmi, e prima che mi minaccino attacco.

Superato il paradigma della guerra preventiva

Siamo oltre la “guerra preventiva” di Bush e Blair, per cui sono minacciato quindi attacco prima di essere attaccato, perché con Trump ora si attacca prima ancora di essere minacciati.

Una condotta sconsiderata e pericolosamente bellicistica, che sceglie la guerra a priori della diplomazia, e che neanche prova a negoziare, poiché il suo concetto di negoziazione, al pari di Putin e Netanyahou, si costituisce di condizioni dettate e innegoziabili, che non è detto porterebbero alla pace se accettate.
Forse aveva ragione Hobbes nel Leviatano sostenendo che la pace è un illusione, che siamo immersi in una guerra permanente, occasionalmente intervallata da alcuni momenti transitori, finalizzati al riarmo tra un conflitto e l’altro.
E andando ancora più indietro, forse aveva ragione Sallustio nel primo secolo a.c. quando sosteneva che il potere corrompe, e avarizia e cieca ambizione, subentrate come valori in una società in piena decadenza morale a causa della perdita del “grande nemico storico”.

In questo mi tornano in mente le parole del professore di storia romana all’università, che scherzosamente ci raccontò le “campagne persiane” come un evergreen della storia romana, la chiave di volta quando non sapevamo cosa dire su un “imperatore”.

Tornando all’Iran, non so cosa succederà, come reagirà il regime, posso solo immaginare alcuni scenari ed in uno degli scenari peggiori, l’Iran potrebbe decidere di utilizzare il materiale radioattivo in suo possesso, non per una bomba atomica, ma per qualcosa di molto peggio, una bomba sporca, che a differenza di un’arma nucleare, non ha bisogno di una ricetta “precisa”, de facto è una normalissima bomba, che disperde materiale radioattivo.

Effetti e conseguenze

Mi auguro di sbagliarmi, e che non si arrivi a tanto, ma non posso negare che la bomba sporca a questo punto rientra tra gli scenari possibili dell’escalation di violenza in medio oriente, voluta, iniziata ed alimentata dagli USA di Donald Trump. Un uomo che la storia in un modo o nell’altro ricorderà come un folle tiranno, protagonista del peggiore periodo della storia USA e dell’occidente moderno.

La storia di Adriano II – L’uomo che disse di no. Costretto a diventare Papa

Quella di Papa Adriano II è una storia affascinante e complessa, fatta di intrighi, tradimenti, cospirazioni, rapimenti e omicidi. Il protagonista è un uomo che per due volte rinunciò ad essere papa, e la terza volta venne costretto a fare il papa, un uomo cha quando diventò Papa aveva una moglie e una figlia adolescente, che vennero rapite e uccise pochi mesi dopo la sua nomina a capo della chiesa cattolica.

Il tutto, nel vivo di una delle fasi più accese dello scontro politico tra papato ed impero, in anni in cui nacque ed è ambientata la leggenda della Papessa.

Sono anni particolarmente complessi dal punto di vista politico, anni in cui l’elezione del papa non avviene ancora attraverso il conclave e la sua nomina era fortemente influenzata da correnti politiche e dall’influenza di alcune famiglie nobiliari romane, dalla corona imperiale, ma anche e soprattutto, dall’approvazione del popolo romano.

L’elezione del papa in effetti, in questa fase, è molto simile alla procedura per l’elezione dell’Imperatore dell’Impero Romano, spesso il futuro papa era scelto dal papa morente, a cui affidava un incarico importante vicino alla curia romana, ma questo non garantiva comunque la sua elezione poiché la nomina effettiva spettava al clero e al popolo romano che lo acclamavano. La nobiltà romana non ha un ruolo attivo, almeno in apparenza, tuttavia aveva l’influenza e il potere di dirigere applausi e i fischi dei romani.

In questo contesto complesso e fumoso avviene la nomina a vescovo di Roma di Adriano II, un uomo sposato, che aveva una figlia e che fu eletto “Papa” per tre volte, ma che rifiutò l’incarico per due volte.

La prima elezione di Adriano II

Nel luglio dell’855 Papa Leone IV morì, e la curia romana fu chiamata ad eleggere un nuovo vescovo di Roma. La scelta delle correnti imperiali cadde sul cardinale di San Marcellino, che in barba ai richiami di Leone IV si era auto insediato ad Aquileia nell’853, insediamento che lo aveva portato ad un passo dalla scomunica, mentre i papisti puntarono su Adriano, membro di una nobile famiglia romana, che prima di prendere i voti era stato sposato ed aveva avuto una figlia.

Parte dei nobili romani, fedeli alle correnti imperiali, spingevano affinché Anastasio diventasse il nuovo papa, dall’altra parte, il resto della nobiltà e del clero romano, puntarono su Adriano e così Adriano divenne centoquattresimo papa della chiesa cattolica, o almeno così è che avremmo scritto se Adriano, all’epoca sessantatreenne avesse accettato. Ma così non fu e Adriano rinunciò all’incarico.

Non sappiamo se per pressioni politiche da parte degli imperiali o per altri motivi, la versione ufficiale e che rinunciò per “umiltà”.

La strada per Anastasio sembra libera da ostacoli, ma così non fu, e conto ogni pronostico, il clero romano nominò Benedetto come nuovo vescovo di Roma, lasciando la corrente imperiale con l’amaro in bocca.

Parte della nobiltà romana a quel punto acclamò comunque Anastasio come nuovo papa, ma trattandosi di un elezione abusiva, Anastasio fu sostanzialmente un antipapa sostenuto dall’impero, considerato dal clero un usurpatore del potere legittimo di Benedetto III.

La seconda elezione di Adriano II

Benedetto III governò la chiesa cattolica romana per soli tre anni, tra 855 ed 858, un triennio particolare in cui, secondo la leggenda, alla guida della chiesa ci sarebbe stata la leggendaria papessa che prese il nome pontificale di Giovanni VIII.

Noi oggi sappiamo che nella chiesa romana, ci effettivamente un papa Giovanni VIII nel nono secolo, un papa di origini longobarde la cui elezione risale al 14 dicembre 872 e fu il 107° papa della chiesa romana.

Tornando ad Adriano, alla morte di Benedetto III avvenuta nel 858, il clero e il popolo romano furono chiamati ad accogliere un nuovo papa, e anche in queste elezioni, la corsa fu tra l’antipapa Anastasio III che ambiva a diventare il legittimo papa, e Adriano, che poco più di tre anni prima aveva rinunciato alla nomina.

Anche questa volta il clero romano sceglierà Adriano e anche questa volta Adriano, ormai sessantacinquenne, rinuncerà all’incarico. Al suo posto venne acclamato Niccolò I.

Le informazioni su Niccolò, prima che diventasse Papa sono poche e fumose, si dibatte sull’anno della sua nascita tra 800 e 820, si ipotizza che fosse membro di una nobile famiglia romana e che suo padre fosse Teodoro, un funzionario della corte pontificia nella prima metà dell’800.

Niccolò I fu un pontefice molto carismatico che regnò in modo energico e in aperta ostilità con l’Impero, riuscendo a conquistare il titolo di “Magno” che prima di lui era stato riconosciuto solo ai papi Leone I e Gregorio I.

Niccolò regnò sulla chiesa per quasi 10 anni e il suo pontificato finisce con la sua morte nel novembre 867.

La terza elezione di Adriano, quella definitiva

Sono passati 12 anni da quando nell’855 per la prima volta il clero romano aveva nominato Adriano papa, e in questi anni la sua fama di uomo buono, giusto e caritatevole erano cresciute ulteriormente. Il popolo romano amava era molto affezionato ad Adriano, l’uomo che per due volte aveva scelto, per umiltà, di non diventare papa, e quando fu il momento di nominare un nuovo vescovo di Roma dopo la morte di Niccolò, il clero ed il popolo romano puntarono ancora una volta su Adriano, ormai 75enne.

Durante il pontificato di Niccolò I, complice anche il modo energico in cui Niccolò esercitò il proprio ministero, le tensioni e rivalità tra le varie correnti politiche interne alla chiesa si erano fortemente intensificate.

I due candidati di punta nel 867 erano Giovanni e Formoso, il primo guidava la corrente imperiale, il secondo si proponeva come continuatore della politica energica di Niccolò.

Entrambi i candidati risultavano inaccettabili all’altra fazione, si rese quindi necessario trovare un nome di compromesso che noto e apprezzato dal popolo romano, che mettesse fine alle lotte politiche e alla fine quel nome arrivò. Era il nome di Adriano, l’uomo che per due volte aveva rinunciato all’incarico. Un candidato ideale sia per l’Impero, che non potendo avere un imperiale come papa, quantomeno si accontentava di un papa che non avesse ambizioni politiche, sia per i continuatori di Niccolò, che non potendo avere come papa uno dei loro, quantomeno si accontentavano di non avere un papa imperiale.

Per la terza volta ad Adriano viene proposto di diventare Papa, ma questa volta ha le mani legate, ed è costretto ad accettare.

Succede così che nel dicembre del 867 Adriano assume il nome pontificale di Adriano II, e al suo insediamento sono presenti anche sua moglie Stefania e si ipotizza sua figlia, di cui però, non ci è pervenuto un nome.

Il pontificato di Adriano II

Adriano II fu eletto pontefice al fine di ricucire uno strappo politico interno alla chiesa, e fin dai primi giorni del proprio pontificato iniziò immediatamente a ricucire. Una delle sue prime azioni politiche fu una sorta di negoziato che portò alla revoca di condanne e scomuniche, di prelati scomunicati da Niccolò I e condannati dall’Imperatore Ludovico II.

Tra i prelati reintegrati tra le fila della chiesa ci fu anche l’Antipapa Anastasio II che venne nominato Bibliotecario della chiesa cattolica. Incarico che gli valse il nome di Anastasio il Bibliotecario.

La leggenda della papessa

Non sappiamo di preciso quando nacque il mito della papessa, sappiamo tuttavia che, nei secoli successivi, il potere temporale francese, in crescente conflitto con il potere temporale del papato, rilanciò in più occasioni questa storia.

Secondo la leggenda, per due anni, tra 855 e 857, a capo della chiesa ci sarebbe stata una donna inglese educata a Magonza, che grazie ai propri travestimenti riuscì ad ingannare sacerdoti, monaci, vescovi e persino papa Leone IV, ai quali si presentò come il monaco Johannes Anglicus, e non solo, riuscì anche a conquistare il favore della curia romana, facendosi eleggere pontefice nel 855.

La leggenda della papessa però non si ferma qui, secondo il mito infatti, la donna non era solita praticare l’astinenza e anzi, si narra che avesse molteplici rapporti sessuali, rimanendo incinta. Secondo la leggenda alla papessa si ruppero le acque durante la processione di pasqua a Laterano, poco dopo la messa celebrata in San Pietro.

Scoperto il segreto della papessa, la folla romana fece trascinare la donna, legata per i piedi ad un cavallo, tra le strade di Roma e in fine lapidata a morte nei pressi di Ripa Grande e in seguito sepolta tra San Giovanni Laterano e San Pietro in Vaticano, all’incirca nel luogo in cui la folla romana aveva scoperto essere una donna.

Sebbene questa sia la versione più diffusa, probabilmente per via dell’epilogo violento, vi sono anche altre versioni della leggenda, in una delle più note, riportata nelle cronache di Martino Polono, la papessa morì di parte, secondo altre versioni, una volta scoperta venne rinchiusa in un convento di clausura.

La figlia del papa

Adriano II assume il titolo di vescovo di Roma e capo della chiesa romana, diventando il 106° papa della chiesa cattolica. All’epoca, per il diritto canonico, non vi era nessuna norma che impedisse ad un uomo sposato di prendere i voti, a condizione che, una volta fatto si praticasse l’astinenza (che poi venisse praticata o meno lo sa “solo dio”).

Adriano prende i voti in età avanzata, da uomo sposato e, secondo alcune fonti, da padre di una bambina che, si dice fosse ancora viva quando divenne papa. Sappiamo per certo che sua moglie Stefania fu presente al momento dell’insediamento e si ipotizza lo fosse anche sua figlia, ma di questo non vi è traccia.

A differenza di altri papi che ebbero figli e figlie illegittime, frutto di rapporti clandestini consumati dopo l’iniziazione sacerdotale o da pontefici, la figlia di Adriano è una figlia legittima del papa, poiché nata prima che questi prendesse i voti sacerdotali.

La figlia di Adriano è protagonista di una curiosa vicenda che si verificò nel 868, pochi mesi dopo la sua elezione.

Nel marzo del 868 Eleuterio, nipote di Arsenio vescovo di Orte, follemente innamorato della figlia di Adriano, la rapì e con lei rapì anche Stefania, sua madre e moglie di Adriano.

Il papa, che a differenza dei suoi predecessori, stava ricostruendo i rapporti di amicizia tra papato ed impero, chiese immediatamente aiuto all’Imperatore e proprio grazie ai messi imperiali, Eleuterio venne catturato, ma purtroppo era già troppo tardi. Vedendosi perduto e senza speranze, e ossessionato dalla donna, Eleuterio uccise sia la figlia che la moglie del papa.

Secondo alcune teorie, Eleuterio fu istigato da Anastasio e mandante del rapimento e assassinio delle due donne, teoria che tuttavia ha come unico supporto, le dicerie sulle losche amicizie dell’ex antipapa, e il suo profondo odio e rancore nei confronti di Adriano che non solo gli aveva “rubato” il titolo di papa, ma era stato anche il fautore del suo reintegro nella comunità cristiana e nei ranghi della chiesa cattolica.

Qualunque sia la verità dietro il rapimento, aver ucciso moglie e figlia del papa, una volta trovato, Eleuterio fu scomunicato e giustiziato “senza appello” per tramite decapitazione, ma immagino siano cose che capitano quando rapisci moglie e figlia del papa e fai infuriare anche l’imperatore perché le uccidi prima di essere catturato.

Fonti e consigliati:

Claudio Rendina I papi. Storia e segreti
Benedetto III
Niccolo I
Adriano II
Storia medievale
Gesta sanctae ac universalis octavae synodi quae Constantinopoli congregata est Anastasio bibliothecario interprete – C. Leonardi – A. Placanica – Libro – Sismel – Ediz. nazionale dei testi mediolatini | IBS
The Cardinals of the Holy Roman Church – Biographical Dictionary – Cardinals first documented in the Roman Council of 853

Auto elettriche: a inizio 1900 erano più diffuse di quelle a benzina?

Ma, è vero che all’inizio 900, nelle strade c’erano più auto elettriche che auto a benzina?

Mi è capitato spesso di leggere la pittoresca storia secondo cui, le auto elettriche a inizio 900 erano più diffuse di quelle con motore a combustione interna, ma vennero sostituite per volontà delle avide lobby del petrolio.

La verità storica è molto diversa da così, e se da un lato è vero che ad un certo momento le auto a benzina sostituirono quelle elettriche, dall’altro le motivazioni sono profondamente diverse.

La prime automobili

Le prime automobili, intese come mezzi di trasporto, alimentate da un “motore” e non trainate da animali, risalgono alla seconda metà del diciottesimo secolo, in piena rivoluzione industriale.

Sono gli anni in cui il mondo scopre la potenza del vapore e l’ingegnere francese Nicolas Cugnot, progetta il “carro di Cugnot”.

Il brevetto del carro Cugnot risale al 1769, si tratta di un carro alimentato da un motore a vapore. Sostanzialmente c’è una fornace in cui viene bruciata legna o carbone, che fa bollire dell’acqua producendo vapore, che, in pressione, produce energia meccanica con cui si alimentano le ruote.

La potenza del motore a vapore è qualcosa di straordinario, forse addirittura eccessiva per il carro a vapore, e non c’è da sorprendersi se nel 1783, appena 14 anni dopo, viene brevettato il primo battello a vapore e in fine, nel 1803 abbiamo la prima locomotiva.

Tra XVIII e XIX secolo, vengono realizzate diversi veicoli a vapore, ma, esclusi treni e battelli, hanno prevalentemente una funzione dimostrativa.

Le cose iniziano a cambiare nella seconda metà del XIX secolo, quando Thomas Rickett, nel 1858, progettò un veicolo a vapore per utilizzo commerciale, si tratta della prima vera auto a vapore in grado di essere utilizzata sulle strade delle città, con una velocità massima di 30km orari.

Da quel che sappiamo, la carrozza Rickett, nonostante le ambizioni del suo inventore, non riuscì ad affermarsi e sebbene fosse sul mercato, non ci risulta che siano mai stare vendute molte vetture.

Carrozza a vapore di Thomas Rickett, 1860 (1956). Rickett, un fabbricante di attrezzi agricoli di Birmingham, costruì un aratro a vapore nel 1858. Questo spinse il Marchese di Stafford a chiedergli di costruirgli una carrozza a vapore. Un secondo esemplare fu ordinato da James Sinclair, Conte di Caithness (uno dei passeggeri nella fotografia) nel 1860. Sinclair guidò la carrozza per 146 miglia da Inverness al Castello di Barrogill, a nord di Wick. Rickett pubblicizzò le sue carrozze sulla rivista The Engineer a un prezzo di 180-200 sterline, ma si ritiene che non ne siano state ordinate altre. Una stampa tratta da Things, un volume sull’origine e la storia antica di molte cose, comuni e meno comuni, essenziali e non essenziali, pubblicato da Readers Union, The Grosvenor Press, Londra, 1956.

Al di la della fortuna della carrozza Rickett, dagli anni 60 dell’ottocento in poi, abbiamo una sporadica apparizione di auto a vapore, realizzati da diversi produttori europei e nord americani, che nel 1883 riusciranno a raggiungere una velocità massima di 42 km/h.

Le auto elettriche

Tra Cugnot e Rickett, si inserisce l’inventore scozzese Robert Anderson, che tra il 1833 ed il 1839 lavorò ad una carrozza elettrica, il cui primo prototipo è datato 1835, tuttavia, questo veicolo era in grado di percorrere solo pochi metri. Nel 1865 però, dalla Francia arrivano nuovi accumulatori di energia elettriche, batterie.

Le nuove batterie sono una svolta epocale e nel 1867, all’esposizione universale di Parigi, l’inventore Gaston Planté espone quella che è considerata la prima auto elettrica della storia.

I successivi miglioramenti alle batterie, porteranno le auto elettriche a raggiungere nel 1885 un autonomia di circa 30 km e una velocità massima di 35Km/h.

Motori a combustione interna

Come abbiamo visto, tra anni 30 e 80 dell’ottocento, lo scontro è tra auto a vapore ed elettriche, le auto con motore a combustione interna non esistono ancora, e questo è dovuto al fatto che il motore a combustione interna, non esiste ancorta.

Il primo motore a combustione interna della storia è il Barsetti-Matteucci, che venne ultimato nel 1957 ed esibito durante l’Esposizione Nazionale di Firenze del 1861. Nel 1861 in Francia, Alphonse Beau de Rochas, progetta invece il primo motore a gas della storia, anche questo un motore a combustione interna.

I primi motori a combustione interna non sono particolarmente efficienti, ma sono molto promettenti, e iniziano a minacciare il monopolio industriale del vapore (l’energia elettrica è prodotta con impianti a vapore).

Le prime auto a “benzina”

Negli anni 80 dell’ottocento la tecnologia dei motori a combustione è ormai nota, si tratta di una realtà diffusa e affermata, ma il mondo delle automobili è ancora dominato dal “vapore”.

Tutto però cambia nel 1885 quando l’ingegnere tedesco Karl Benz progetta quella che è annoverata come la prima automobile con motore a combustione interna, la Benz Patent-Motorwagen.

Questa nuova tipologia di automobile unisce i “vantaggi” delle auto elettriche e delle auto a vapore, ha un solo “difetto” di progettazione, che sarebbe stato corretto nei modelli successivi. La prima auto infatti non ha un “serbatoio” di carburante, limitando la sua autonomia al carburante presente nel motore.

Problema non osservato dal suo inventore, ma riscontrato da sua moglie, Bertha Benz, quando, durante un viaggio dimostrativo, di circa 100km (l’autonomia stimata partendo a motore pieno, circa 1 Litro), a seguito di alcuni inconvenienti e problemi, si ritrovò senza carburante nei pressi di Wiesloch.

Il problema tuttavia fu immediatamente risolto, Bertha si recò alla farmacia cittadina, acquistò della Ligroina, un solvente derivato dal petrolio, molto diffuso all’epoca, lo versò nel motore e ripartì.

Il viaggio di Bertha fu un incubo, un susseguirsi di incidenti, problemi, guasti, ma alla fine, riuscì a raggiungere la destinazione.

Le auto del nuovo secolo

All’inizio del novecento, su carta, abbiamo auto elettriche, a vapore e a combustione interna.

Molti oggi sostengono che, a inizio 900 le auto elettriche fossero più diffuse delle auto a benzina, sostenendo che in alcuni casi si contendessero il 50% circa del mercato. in realtà le quote di mercato, stando ai dati dei tre principali produttori di automobili del 1900, è molto diversa.

Sappiamo che, tra il 1890 ed il 1906, negli USA erano state immatricolate poco più di 30.000 automobili, circa 33.000 per essere precisi, nel biennio successivo il numero di automobili, tra elettriche, vapore e benzina, raggiunge le 90.000 unità in tutti gli USA, e nel solo 1910, vengono immatricolate negli USA oltre 190.000 automobili.

Quanto ai dati di produzione, sappiamo che le varie società produttrici di automobili a vapore, iniziano a produrre sempre meno, società come Stanley Brothers passa da circa 1000 auto all’anno nel 1900, l’anno di maggiore produzione, a 575 nel 1910.

Sappiamo che produttori di auto elettriche invece registrano un aumento della produzione, Detroit Electric Car, fondata nel 1907, passa da 900 veicoli del 1909 a 1250 del 1910. Producendo in tutto circa 13.000 auto elettriche tra il 1907 ed il 1939 (anno in cui cessò la produzione).

In fine le auto a benzina, il principale produttore mondiale è Ford, che passa da una media di 1600 auto nel 1904, a produrne oltre 10000 nel 1907 (anno di fondazione di Detroit Electric) e chiuderà il decennio con la produzione di circa 32.000 auto nel solo 1910.

Quando è avvenuto il sorpasso tra benzina ed elettrico, se è avvenuto un sorpasso?

Come abbiamo visto, nel 1910 le auto con motore a combustione interna sono decine di volte di più rispetto allea auto elettriche, ma già nel 1900, la produzione di auto a “benzina” era maggiore rispetto alle auto elettriche. Viene allora da chiedersi quando e se è avvenuto un “sorpasso” tra le due tecnologie.

Il sorpasso è effettivamente avvenuto, per una questione puramente anagrafica, le auto elettriche esistevano da circa 20 anni, quando è stata inventata la prima auto a benzina, tuttavia, il fatto che esistessero, non significa che fossero diffuse.

La diffusione di mezzi a “motore” (che fosse elettrico, a benzina, o a vapore) inizia nell’ultimo decennio del secolo, fino agli anni 90 dell’ottocento, le “automobili” erano considerate un alternativa “futuristica” alla tradizionale carrozza a cavallo.

Le auto elettriche, erano poco pratiche, con poca autonomia, e richiedevano enormi costi di manutenzione, le auto a vapore esistevano, ma il vapore era considerato troppo potente per delle automobili, e i motori a vapore sono relegati inizialmente al settore industriale. Poi ci sono le auto a benzina, potenti quasi come quelle a vapore, ma più versatili e soprattutto, compatte quasi come le auto elettriche. Inoltre, a differenza delle altre due, i costi di manutenzione erano molto più “contenuti”.

Questi più altri fattori permisero ai motori a combustione interna di rendere le automobili un prodotto a buon mercato, e nel momento in cui diventano un prodotto a buon mercato la loro diffusione è esponenziale.

Nel 1885 le auto elettriche erano più numerose delle auto a benzina, fondamentalmente perché nel 1985 esisteva un unica auto a benzina, le auto elettriche poche migliaia in tutto il mondo. Quindici anni più tardi, le auto elettriche sono ancora nell’ordine delle poche migliaia in tutto il mondo, le auto a benzina, soprattutto con la rivoluzione di Ford, diventano decine di migliaia.

LINEA GOTICA. L’offensiva finale. Aprile 1945 – Intervista all’Autore Massimo Turchi

Qualche tempo fa, grazie a Diarkos Editore, ho avuto modo di intervistare Massimo Turchi, autore di una trilogia di libri sulla Linea Gotica, la cui ultima fatica si intitola Linea Gotica – L’offensiva Finale, aprile 1945.

Grazie all’editore ho avuto anche la possibilità di sfogliare il libro in anteprima, ma per questioni di tempo, organizzazione e festività, non sono riuscito a realizzare una guida alla lettura in tempo, ma ho avuto il piacere di scambiare comunque qualche email con l’autore e di seguito riporto la nostra intervista integrale.

Introduzione all’intervista a Massimo Turchi

Buongiorno, come anticipato, ecco alcune domande per l’intervista.
Come potrà notare, ho preferito dare più spazio a lei, alla sua attività di ricerca e di divulgazione che non al libro in sé, da storico e divulgatore, ciò che mi interessava capire e raccontare ai miei lettori è cosa l’ha portata a scrivere questo libro, cosa l’ha spinta a scegliere determinate fonti, e cosa l’ha portata a raccontare determinate storie.

Sono tre domande che avrei potuto porre in modo diretto, secco, ma in quel modo, temo si sarebbe persa una parte importantissima che è la sua storia personale in relazione alla linea gotica, che invece è ciò che mi interessa offrire ai miei lettori.

L’Intervista

Di libri che parlano e raccontano le vicende della linea gotica ce ne sono diversi, alcuni, come credo sia anche il suo, portano con sé un’eredità storica, e non ho potuto resistere alla tentazione di cercare di capire quale eredità desidera lasciare ai suoi lettori.

Partiamo dalla domanda più semplice, che quasi certamente le avranno già posto.

Da quel che ho potuto osservare lei ha dedicato una parte significativa della sua vita allo studio della linea gotica, e quindi, banalmente le chiedo, cosa ha acceso in lei questo interesse così profondo?

Nel farle questa domanda ho in mente la prefazione del testo Peccati di Memoria, la mancata Norimberga italiana, di Michele Battini, che fu mio docente di storia politica all’Università di Pisa.

La trilogia della Linea Gotica nasce dai racconti delle persone che hanno vissuto la guerra. Se devo indicare una data, questa è sicuramente il giugno del 2002, quando con l’associazione “Vecchia Filanda” abbiamo organizzato un convegno sulla battaglia della Riva Ridge, combattuta nel febbraio 1945. Per l’occasione abbiamo invitato soldati americani, tedeschi e i partigiani per parlare delle loro esperienze vissute durante la battaglia. Ascoltare i loro ricordi, vedere negli occhi le emozioni che avevano vissuto sulla Riva Ridge mi ha spinto ad approfondire storicamente le vicende belliche. Da quel momento – per me – il luogo dove questa battaglia è stata combattuta, non più stato lo stesso: è diventato catartico. Quindi con l’associazione abbiamo dato vita all’esperienza della metodologia didattica del “diorama vivente” con lo scopo di far “toccare con mano” agli alunni e agli adulti le storie delle persone che su quei monti hanno intrecciato parte delle loro vite e i traumi vissuti.

La seconda domanda è quasi consequenziale alla prima, da quanto ho potuto leggere, il suo interesse e la sua passione per la storia e le vicende che hanno caratterizzato la linea gotica durante la seconda guerra mondiale, l’hanno nel tempo a raccontarla in vari modi e attraverso vari strumenti, uno tra tutti l’associazione “Linea Gotica – Officina della Memoria” di cui ad oggi è presidente.

L’associazione Linea Gotica – Officina della Memoria, nasce proprio da quell’esperienza, con l’obiettivo di proporre una nuova narrazione dei luoghi della memoria: una narrazione a 360 gradi, ovvero dove sono presenti tutti i diversi punti di vista, tenendo però sempre ben presente cosa significava combattere per una parte o per l’altra. È quindi una narrazione che vuole suscitare domande, rompere la dicotomia buono vs. cattivo.

Con la vostra associazione raccontate la linea gotica mantenendo un contatto diretto con i  luoghi della memoria e questo mi porta alla domanda vera e propria.

Quanto è importante, secondo lei, il legame fisico con il territorio per comprendere appieno gli eventi della Linea Gotica e l’esperienza di chi li ha vissuti?

Sì, per noi il luogo è la componente fondamentale della narrazione, è il mezzo dove si riesce a ri-creare il collegamento con l’evento storico. Uno dei nostri obiettivi, se non il principale, è proprio quello di riportare le esperienze vissute dalle persone nei luoghi dove sono accadute.

Da quel che leggevo nel testo, il suo è un approccio narrativo “bottom up“, che per chi non lo sapesse, parte dalle storie locali e dalle esperienze personali per arrivare a temi più generali. In altri termini la sua narrazione è un ibrido tra la metodologia di rilevazione etnografica e la narrazione micro storica. Non mi ha quindi sorpreso trovare nella bibliografia di riferimento un testo di Mario Alberto Banti, anche lui è stato mio docente, di Storia Culturale, all’Università di Pisa.

Leggi la mia “Recensione” di wonderland di Mario Alberto Banti

Volevo quindi chiederle, quali sono le influenze che l’hanno ispirata, se ci sono autori, storici, saggisti, ricercatori, ecc, che hanno ispirato il suo lavoro sia nella metodologia che nella narrazione?

In breve, l’idea di una narrazione di questo tipo è nata spontaneamente, dopodiché ho letto tantissimi libri di molti autori storici, ma anche di psicologi sociali. Il punto è che la guerra, per chi l’ha vissuta, è un trauma che ha avuto delle conseguenze a livello di relazioni familiari più o meno importanti, ovviamente a seconda del tipo di trauma che la persona ha vissuto. Il focus di questa narrazione è però rivolto al pubblico, soprattutto ai ragazzi, in modo da suscitare in essi un interesse e soprattutto un invito a porsi delle domande. Se devo citare un autore cito James Hillman e il suo testo “Un terribile amore per la guerra”, ma ce ne sono moltissimi altri altrettanto importanti.

La maggior parte dei testi legati alla seconda guerra mondiale, o almeno, quelli che generalmente sono più apprezzati da un pubblico generalista, riguardano soprattutto aspetti militari e politici, lei invece, ha preferito le esperienze umane, e in un contesto complesso e delicato come quella parte di mondo tra il 1943 e il 1945, non è facile da gestire, soprattutto a livello personale. Parliamo di traumi, stragi e sofferenze, raccontata sulla base anche di testimonianze dirette. Personalmente quando per alcuni esami e relazioni all’università, mi sono ritrovato a leggere testimonianze di ciò che accadeva quotidianamente lungo la linea gotica, confesso di aver riscontrato non poche difficoltà, soprattutto sul piano emotivo.

Mi viene quindi quasi naturale chiederle, come ha gestito, a livello personale, il carico emotivo derivante dall’immergersi in queste storie così drammatiche per così tanti anni? 

Guardi, ho iniziato a fare le prime interviste nel 1995, poi, in maniera più sistematica a partire dal 2002. Tutte le persone che ho conosciuto o di cui ho letto le testimonianze le porto con me e quando mi reco sui luoghi di memoria, quelle persone, i loro occhi, le loro storie sono lì.

Comunque non è semplice, anche se, a mio avviso, andava fatto.

Il tempo, mi rendo conto, essere un elemento ricorrente in questa intervista, lei ha iniziato a lavorare, in maniera diretta o indiretta, a questo libro, nel lontano 2002, sono passati 23 anni da allora, e in così tanto tempo, immagino che di storie ne abbia sentite tante, di domande ne abbia fatte e ricevute tante, e, prometto che è l’ultima domanda legata al tempo.

Volevo chiederle se e come è cambiato il suo approccio narrativo e storiografico in questo lungo percorso. 

Sì, col tempo l’approccio è cambiato, si è sempre più affinato, per cercare di rendere più efficace la narrazione, dando un risalto maggiore al testimone, senza mai trasfigurare l’umiltà delle persone.

Non so se ha avuto modo di notare, ma i testimoni che ho riportato nella trilogia sono sempre persone semplici: soldati, partigiani, civili, parroci e altro, difficilmente troverà gli alti comandanti, perché quello che mi interessava, e mi interessa tuttora, è la storia delle persone semplici, umili.

Ogni tanto una domanda sul libro forse dovrei farla. Nella prefazione a cura di Mirco Carrattieri, viene evidenzia la presenza di ben trentotto nazionalità sugli Appennini durante quel periodo.

Nel suo lavoro di ricerca e scrittura, come ha cercato di dare voce o rappresentare questa incredibile diversità di esperienze e provenienze che hanno composto il fronte della Linea Gotica?

L’aspetto della multiculturalità della linea Gotica è un aspetto che non viene quasi mai colto e che invece, a mio avviso, rappresenta un enorme interesse. Nella trilogia ho cercato di puntare molto sulla multiculturalità, cercando testimonianze di soldati delle trentotto nazioni (all’epoca, oggi cinquantadue) e delle minoranze all’interno delle stesse nazioni: penso ai maori della Nuova Zelanda, agli irlandesi del Regno Unito e del Canada, ai nativi americani, così come agli afroamericani o ai Nisei, o alle stesse minoranze presenti nell’esercito indiano, ai brasiliani, alle varie confessioni religiose: cattolici, ebrei e molto altro. Persone quindi che provenivano da società molto diverse da quella italiana con la quale hanno interagito e, comunque, lasciato un segno del loro passaggio. Mi permetto di rimandare all’Introduzione al primo volume dove analizzo proprio la complessità e la “ricchezza” della linea Gotica in questo senso. 

Più in generale, un concetto che traspare è che per lei ogni testimonianza e documento rappresentano solo una parte di una storia enormemente più ampia e complessa. Di storie da raccontare lungo la linea gotica ce ne sono infinite, e di fronte a scenari così grandi, densi di elementi, scegliere un punto di partenza, un punto d’arrivo, e una strada da percorrere, può non essere facile.

Come ha affrontato lei la difficile sfida di ricostruire eventi complessi basandosi su fonti spesso parziali, frammentarie o in alcuni casi contraddittorie?

Sì, ha ragione, sicuramente non è stato un lavoro semplice, ho dovuto privilegiare i territori coinvolti nelle direttrici di sfondamento principale delle armate alleate, da quando è iniziata l’operazione di sfondamento della linea Gotica (fine agosto 1944), fino al raggiungimento del fiume Po (fine aprile 1945). Dichiarato così i confini cronologici e geografici, il resto del lavoro è stato quello di ricercare quegli eventi – non solo bellici – funzionali alle azioni di sfondamento della linea Gotica. Con questo lavoro meticoloso di ricerca alcune volte mi è capitato di evidenziare episodi quasi sconosciuti, a scapito di altri sopravvalutati.

Il confronto tra le tante fonti è stato fondamentale, e questo mi ha permesso di arricchire di particolari la narrazione dell’evento, componendo così la complessità che stavo cercando. A volte è capitato – per fortuna in pochissimi casi – di trovare contraddizioni tra le fonti; comunque leggendo a fondo, leggendo anche tra le righe, quelle contraddizioni si sono via via sfumate.

Non ho potuto fare a meno di notare che negli “Aggiornamenti” lei presenta nuove scoperte e, cosa più importante, corregge errori precedenti. Questo ammetto che mi ha colpito, perché dimostra un impegno notevole e costante che ha come fine quello di raccontare gli eventi della linea gotica per ciò che furono, con distacco e professionalità storiografica. Ma mostra anche un evidente desiderio di trasparenza nei confronti del lettore.

La ringrazio per averlo notato. Sì, ho voluto una sezione “Aggiornamenti” per il secondo e per il terzo volume perché dalla pubblicazione dei primi due la ricerca storica è proseguita e mi sembrava doveroso tenerne conto. L’editore poi mi ha concesso di creare una pagina internet gratuita, dove i lettori possono scaricare strumenti utili alla consultazione dei tre volumi e gli ulteriori Aggiornamenti dei libri che verranno pubblicati in futuro.

La domanda che segue a queste osservazioni quindi, non può che essere una. Al di là della ricostruzione storica, qual è il messaggio o l’eredità principale che spera di lasciare ai lettori con questa monumentale opera sulla Linea Gotica? Che per inciso, non mi riferisco al libro, ma all’interezza della sua attività di ricerca e divulgazione della linea gotica.

Cosa vorrebbe che rimanesse, in particolare alle nuove generazioni, di queste “Storie”?

I messaggi sono due. L’invito a visitare i luoghi di memoria e i piccoli musei sparsi che custodiscono le memorie locali degli eventi. Il secondo è di provare a mettersi nei panni delle persone che hanno vissuto – forse sarebbe più appropriato dire subìto – la guerra, per evitare che accada di nuovo.

Considerazioni finali 

L’intervista con Massimo Turchi è stata molto interessante, almeno per me, e spero anche per voi. Parlando e confrontandomi con lui ho potuto notare una reale e autentica passione nel raccontare un angolo di mondo, vicende storiche e storie di persone che di quel mondo e quelle vicende ne sono stati testimoni più o meno diretti.

Si tratta di un sentimento comune che ho riscontrato spesso lungo le vie della linea gotica, il più acceso e caldo fronte della seconda guerra mondiale, un luogo di memoria che fu testimone di massacri indicibili e crimini atroci, dettati dalla più feroce crudeltà umana, camuffata da ideologia politica.

Come saprete ho vissuto per molti anni a La Spezia e i luoghi e memoriali della linea gotica e della guerra civile italiana, ho avuto modo di esplorarli e vederli con i miei occhi, ho avuto modo di conoscere tante persone per le quali quella guerra ufficialmente conclusa 80 anni fa, non è mai finita del tutto. E ancora oggi portano con se le ferite legate alla perdita dei propri cari.

Camerlengo: Funzioni e Significato nella Chiesa

La morte di papa Francesco apre discussioni sulla successione papale. Il Camerlengo, figura chiave, svolge ruoli cruciali durante la sede vacante.

La recente scomparsa di papa Francesco, dopo mesi di sofferenza e agonia che hanno lasciato il mondo cristiano con il fiato sospeso, riaccende il dibattito sulla successione del pontefice e le varie speculazioni su chi sarà il prossimo papa.

Lo scenario politico vaticano non ha subito molte trasformazioni rispetto a Febbraio e anche sul piano internazionale, le cose non sono cambiate, pertanto, i ragionamenti e le ipotesi avanzate durante il periodo di degenza del pontefice, rimangono invariate.

Con molta probabilità il prossimo Conclave vedrà l’elezione di un papa appartenente alla corrente politica di Papa Francesco e Benedetto XVI, con posizioni progressiste, ma non radicali, sarà quasi certamente un papa con posizioni più moderate e con una lieve apertura alle correnti più conservatrici.

Tutto avrà luogo nel segreto del conclave, sotto l’occhio vigile del Camerlengo della Santa Sede.

In questo articolo cercheremo di capire chi è e cosa fa il camerlengo durante il conclave, in cosa consiste questa carica.

Chi è il Camerlengo

Cominciamo col dire che quella del camerlengo è una delle figure più antiche e significative nell’amministrazione della Chiesa cattolica romana, il cui ruolo è cruciale durante il periodo di sede vacante e le votazioni in conclave.

La sede vacante inizia con la morte o le dimissioni del pontefice e dura fino alla nomina di un nuovo pontefice, in questo periodo la chiesa cattolica romana e lo stato vaticano sono retti da un reggente, appunto il camerlengo, che combina responsabilità amministrative, in quanto sovorano ad interim della monarchia vaticana, ma anche cerimoniali, poiché è il camerlengo è anche il reggente della Santa Romana Chiesa.

L’attuale camerlengo è il cardinale Kevin Joseph Farrell, nominato da Papa Francesco il 14 febbraio 2019. Generalmente il Camerlengo è una figura di fiducia del papa e da un certo punto di vista è il suo “vice”.

Questa carica è una delle più antiche per quanto riguarda il comparto amministrativo della chiesa, la sua istituzione risale al medioevo ed ha mantenuto un ruolo centrale nella struttura di governo vaticana in tutta la storia politica della chiesa romana, soprattutto nei momenti di transizione papale.

Origine Storica e Etimologia

Come molta della terminologia ecclesiastica, anche il termine “Camerlengo” deriva dal latino medievale, più precisamente da camarlingus, che a sua volta deriva dal germanico kamerling, il cui significato letterale è “addetto alla camera del sovrano“.

Le prime attestazioni di tale figura nel contesto ecclesiastico risalgono al XII secolo, da quel che sappiamo in quel tempo il camerarius svolgeva diverse funzioni legate alla camera thesauraria, ovvero all’organo responsabile dell’amministrazione finanziaria della Curia romana e dei beni temporali della Santa Sede. Una sorta di tesoriere del papa.

Nel corso del medioevo tuttavia la struttura organizzativa e amministrativa della chiesa evolve e la stessa amministrazione papale si sviluppa in modo significativo, consolidando sempre di più il potere temporale oltre che spirituale del papa.

È interessante notare come la creazione di questa carica si inserisaca in un contesto storico di trasformazione della chiesa, più precisamente si inserisce in un contesto in cui la chiesa iniziava a dotarsi di strutture amministrative più complesse e articolate e regolemantate, fondamentali per un istituzione che è sempre più temporale e gestisce un patrimonio materiale di grandi dimensioni.

Tra medioevo, età moderna e contemporanea, molte cariche ecclesiastiche, soprattutto amministrative, hanno subito profonde trasformazioni, molte sono state abolite altre sono state rimpiazzate, mentre il ruolo del Camerlengo è rimasto sostanzialmente invariato.

Responsabilità del Camerlengo tra pontificato e sede vacante

Le funzioni del camerlengo cambiano duranbte il pontificato sono diverse dalle funzioni del camerlengo durante la sede vacante.

Durante il pontificato, il camerlengo dirige l’amministrazione finanziaria della Santa Sede e amministra i beni temporali della chiesa quando il pontefice è in viaggio o temporaneamente assente. Per tali ragioni, è fondamentale che il camerlengo sia una figura di fiducia del Papa, anche perché in un certo senso è il suo vice, il suo più stretto collaboratore

Anche se il Camerlengo è una sorta di “vice papa”, va precisato che, durante situazioni come la temporanea indisposizione del Papa (ad esempio durante un ricovero ospedaliero), il Camerlengo non subentra automaticamente nella governance della Chiesa. Più precisamente, il camerlengo subentra in automatico solo in caso di sede impedita, condizione che si verifica solo in casi eccezionali come durante la sedazione per un’operazione chirurgica.

Se durante il pontificato il Camerlengo non ha “potere di iniziativa“, ed è sostanzialmente una sorta di commissario prefettizio della santa sede, le sue funzioni e le sue responsabilità cambiano durante la sede vacante.

In caso di sede vacante (per decesso del pontefice) il primo compito speciale del Camerlengo è accertare il decesso.

Tradizionalmente, questa verifica avvene attraverso un rituale simbolico in cui il Camerlengo chiama il Papa tre volte con il suo nome di battesimo mentre gli percuote lievemente la fronte con un martelletto d’argento. Se il camerlengo non riceve alcuna risposta, ne dichiara ufficialmente la morte con la formula latina “Vere Papa mortuus est” (Veramente il Papa è morto).

Questo passaggio rituale è in realtà un vero e proprio atto giuridico, poiché secondo il diritto canonico, il Camerlengo è l’unico a possedere l’habilitas (capacità giuridica) richiesta per accertare ufficialmente la morte del Papa.

Questo rituale di accertamento non è privato, e avviene di fronte al Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, dei Prelati Chierici e del Segretario e Cancelliere della stessa Camera Apostolica, che fungono sostanzialmente da testimoni. 

Una volta accertato il decesso del pontefice, la Cancelliere della Camera apostolica ha il compito di compilare il documento o atto autentico di morte, mentre il Camerlengo deve comunicarla al Cardinale Vicario per l’Urbe, il quale ne darà notizia al popolo romano. 

A questo punto il Camerlengo assume la presidenza della sede vacante, durante il quale ha il diritto e il dovere di “curare e amministrare i beni e i diritti temporali della Santa Sede“.

Chi può diventare Camerlengo?

Quella del Camerlengo è una carica estremamente importante, è l’equivalente del maestro di palazzo delle costi medievali, è la figura politica, amministrativa e religiosa più vicina al papa. Nella gerarchia ecclesiastica è la seconda istituzione della Santa Romana Chiesa, per questo deve necessariamente essere un cardinale. Non sono previsti altri requisiti, ma esperienza e vicinanza al pontefice risultano elementi impliciti.

La nomina del Camerlengo, così come la nomina di altre importanti figure del governo della Chiesa, è prerogativa esclusiva del Papa, tuttavia, diversamente dalla maggior parte delle cariche ecclesiastiche, non esistono limitazioni temporali al mandato del Camerlengo che quindi rimane in carica fino a quando il Papa non decide diversamente o fino alla sua morte o rinuncia.

Il ruolo del Camerlengo è generalmente legato al Pontefice e non è rato che, dopo l’elezione di un nuovo Papa, questi nomini un nuovo Camerlengo.

Camerlengo e Conclave

Diventare Camerlengo è una grande responsabilità, un grande onore, ma comporta anche importanti rinunce.

Il Camerlengo come abbiamo visto durante la sede vacante è sostanzialmente il reggente della Santa Romana Chiesa, ma allo stesso tempo, non ha potere di iniziativa, non può produrre iniziative o innovazione, questa limitazione in vero è molto “recente” ed è stata introdotta con la costituzione apostolica Universi Dominici Gregis (1996) e la Praedicate Evangelium (2022).

Durante la sede vacante comunque, il Camerlengo ha numerose responsabilità, tra cui il coordinamento del colleggio cardinalizio, la convocazione del concistoro e la convocazione dei cardinali per il Conclave ed ha un ruolo di rilievo durante lo stesso Conclave.

Meta IA addestrata con dati di utenti UE | Cosa significa?

Meta inizia a utilizzare dati pubblici per addestrare la sua intelligenza artificiale, suscitando preoccupazioni su privacy e qualità dei dati.

Meta ha annunciato l’inizio dell’addestramento della propria intelligenza artificiale, Meta IA, utilizzando dati pubblici degli utenti delle sue piattaforme social nell’Unione Europea, ma cosa significa e quali implicazioni ha questa decisione per il futuro dell’IA e per la nostra Privacy?

Cerchiamo di capire che differenza c’è tra dati pubblici e privati, e cosa può effettivamente usare Meta senza violare le leggi UE.

Cosa sono i dati pubblici di Meta?

Partiamo dai dati pubblici, ovvero i dati che teoricamente Meta può utilizzare per l’addestramento delle proprie IA.

L’Unione Europea, a differenza degli USA, è molto restrittiva in merito all’utilizzo che si può fare dei dati degli utenti, soprattutto per quanto riguarda i dati privati. In teoria l’addestramento dell’IA tramite i dati pubblici, è possibile proprio perché quei dati sono “pubblici” e quindi possono essere utilizzati da chiunque, ma quali sono i dati pubblici?

Per quanto riguarda Facebook i dati pubblici sono sostanzialmente quei dati visibili da chiunque, quindi alcuni dati del profilo (indipendentemente dal fatto che il profilo sia pubblico o privato) ed i post contrassegnati come “visibili a tutti”. Questi post sotto il nome dell’utente, mostrano un mappamondo.

Su facebook esistono tre tipologie di post, ovvero post pubblici, come quello mostrato sopra, post non pubblici, ma comunque visibili ai propri amici, e post privati.

I post non pubblici, sono contrassegnati dall’icona di due omini, mentre i post privati sono contrassegnati da un lucchetto. I post privati sono visibili solo ed esclusivamente all’utente che li ha pubblicati.

Facebook, mette a disposizione altre modalità di pubblicazione, come ad esempio la possibilità di creare delle liste di contatti specifici (persone che si hanno tra gli amici), che sostanzialmente vanno a limitare ulteriormente le persone che possono vedere quei post, in un numero compreso tra tutti gli amici e solo il creatore del post.

Questo discorso tuttavia, vale solo per i post degli utente, non si applica invece alle pagine facebook.

A differenza dei profili utente, i post delle pagine sono sempre “visibili a tutti” e non è possibile limitare la visibilità dei post.

Oltre ai post delle pagine, anche i commenti ai post di una pagina, sono sempre pubblici, mentre la condivisione di un post di una pagina, è sostanzialmente un post sul proprio profilo utente, e può non essere pubblico.

Per Instagram il discorso è più semplice, un profilo Instagram può essere “pubblico” o “privato”, se è pubblico, tutti i suoi post saranno pubblici, a meno che non si scelga di condividerli solo con la lista di “amici stretti” in quel caso, saranno condivisi solo con una lista ristretta di contatti e non saranno pubblici. Se il profilo è provato, tutti i suoi post saranno privati, e lo stesso vale per Threads.

La visibilità di un post, ovvero se questi è pubblico o privato, può essere modificata dall’utente, in qualsiasi momento, ogni volta che lo desidera.

I post pubblici, come abbiamo visto sono visibili a tutti, e per tutti si intende proprio tutti, sono infatti post che possono essere visti anche da chi non è iscritto al social.

Non c’è alcuna differenza tra post testuali, immagini o video, qualunque tipo di post può infatti essere pubblico, non pubblico o privato. Questo stesso discorso vale anche per le Stories di Facebook e Instagram

Per quanto riguarda Whatsapp?

A differenza di Facebook, Instagram e Threads, che sono veri e propri social network, Whatsapp è in realtà un app di messaggistica, con elementi social, motivo per cui ho preferito separare Whatsapp (e in realtà anche Messenger) da Facebook, Instagram e Threads.

Come sappiamo anche Whatsapp permette di pubblicare stories come aggiornamento di status e, come possiamo vedere, possiamo scegliere di condividerle con i propri contatti, con alcuni contatti o escludendo alcuni contatti.

Tecnicamente non ci sono “post pubblici” su Instagram, e requisito fondamentale per poter vedere una “stories” di un utente, è avere il suo numero di telefono. Lo stesso vale per i canali whatsapp o Broadcast, si tratta di “canali” uno a molti, in cui solo chi lo gestisce può inviare messaggi, mentre gli altri utenti possono solo leggerli. Tecnicamente anche i canali Broadcast non sono pubblici.

All’atto pratico su Whatsapp non ci sono dati pubblici che Meta può utilizzare per l’addestramento di MetaIA.

Perché a Meta servono i dati degli utenti per addestrare Meta IA?

L’addestramento delle IA al momento, è una combinazione di due fattori, dati e potenza di calcolo, la potenza di calcolo è data dall’uso massivo di GPU, mentre i dati sono forniti da importanti datacenter, tuttavia, secondo quanto riportato da diversi sviluppatori di IA tra cui OpenAI, Xai e lo stesso Meta, sostanzialmente le proprie IA hanno già acquisito tutti i dati presenti nei grandi dataset, in pratica quindi, non hanno altri dati da fornire ai modelli IA per l’addestramento.

La carenza di dati è un enorme problema che i diversi sviluppatori hanno cercato e stanno cercando di superare in diversi modi, e una delle vie per acquisire nuovi dati è sfruttare quelle risorse che producono la maggior quantità di dati digitali, ovvero gli utenti dei social media.

Non sorprende quindi se Bytedance usa i dati dei video di TikTok per addestrare le proprie IA, xAI usa i dati degli utenti di X, e Meta usa i dati dei propri social, per addestrare i propri modelli linguistici di grandi dimensioni.

Questa strada potrebbe in effetti fornire un vantaggio competitivo nel futuro delle IA a chi possiede tali piattaforme (la vendita di X ad xAI da parte di Elon Musk, in quest’ottica acquista un altro significato), tuttavia, è anche vero che questi dati per quanto possano essere in costante aumento, non è detto che siano dati utili o di qualità.

Si pensi al contenuto medio di Facebook, fortemente influenzato da ideologie politiche, teorie cospirazioniste e generalmente non formulato correttamente. Questi dati, nel lungo periodo, potrebbero infatti compromettere il background di conoscenze di una IA. Del resto si sa, la quantità non è detto che significhi qualità.

Il futuro delle IA

Potremmo essere giunti ad un momento cruciale nello sviluppo di IA, e la decisione di Meta di acquisire i dati pubblici dei propri utenti, per l’addestramento delle proprie IA ci fornisce un segnale importante.

Il futuro della competizione in campo di IA passa anche, ma non solo, dalla disponibilità di dati, ma quei dati sono sia una risorsa che una minaccia al futuro delle IA.

Le future generazioni di IA dovranno affinare la propria capacità di analisi e di elaborazione, sarà necessaria una sempre maggiore compressione dei modelli linguistici, in modo da avere IA sempre più compatte, leggere e performanti, anche senza internet. Bisognerà rivedere il modo in cui si archiviano i dati, e il modo in cui quei dati vengono elaborati, e non è detto che la maggiore potenza di calcolo data dall’utilizzo di tante GPU sarà una risorsa fondamentale per l’addestramento nel lungo periodo (non fraintendetemi, la potenza e velocità di calcolo sarà sempre una risorsa essenziale).

Leggi anche Chat GPT e LLama hanno superato il Test di Turing? No, ancora nessuna IA ha superato il Test di Turing (Aggiornato ad aprile 2025)

Prada compra Versace: Nuovo capitolo nella storia della moda made in Italy

Prada ha acquistato Versace, dando vita ad un polo italiano del lusso.

Prada è uno degli storici marchi italiani del settore del lusso e insieme a Gucci, Versace, Armani, Dolce & Gabbana e Fendi ha contribuito a scrivere pagine su pagine della storia del costume e della moda, ma non solo. Prada infatti non è più solo un brand di moda e di lusso, ma è anche un importante holding finanziaria, che rivaleggia nel settore con giganti come Louis Vuitton che su carta è la società di moda e di lusso più grande al mondo.

In questo articolo scaveremo nella storia di Prada.

La nascita di Prada

Il marchio Prada ha una storia lunga e complessa che parte dalla Milano del 1913 e arriva fino ai giorni nostri. Nasce a Milano da Mario e Martino Prada, due fratelli la cui azienda inizialmente si chiamava Fratelli Prada.

I Fratelli Prada gestivano una piccola boutique situata nella Galleria Vittorio Emanuele II, posizione che permise loro di specializzarsi in articoli di pelletteria di alta qualità, come borse, bauli da viaggio e accessori di lusso, che in quegli anni iniziavano ad essere sempre più richiesti, grazie alla spinta propulsiva data al settore dai grandi magazzini e da grandi marchi.

Come abbiamo visto, nel 1913 i fratelli Prada aprono la propria boutique e si specializzano in prodotti artigianali realizzati con materiali pregiati, destinati principalmente all’aristocrazia e l’alta borghesia milanese.

Il 1913 è un anno particolare, c’è forte tensione in Europa e meno di un anno dopo l’avvio della boutique, nel 1914 inizia la prima guerra mondiale che causerà una forte contrazione del mercato in diversi settori, e anche l’artigianato di lusso ne risentirà, e ad essere più colpiti saranno soprattutto i grandi marchi del lusso come Louis Vuitton, per i fratelli Prada invece, non cambia quasi nulla.

Finita la guerra, il mondo ricomincia a muoversi, aristocrazia e alta borghesia europea ricominciano a viaggiare e soprattutto e nel 1919, Prada riesce a diventare uno dei fornitori ufficiali della Real Casa Italiana, guadagnandosi il diritto di utilizzare lo stemma della Casa Savoia nel proprio logo.

Da questo momento quella dei fratelli Prada non è più solo una piccola boutique milanese e il nome Prada inizia a diffondersi anche fuori dall’italia.

Evoluzione e gestione familiare

Durante il ventennio Prada subisce una sorta di battuta d’arresto nella propria crescita, soprattutto all’estero. Prada continua a fornire la casa reale, che per tutto il ventennio sarà il suo cliente principale.

Le cose però cambiano nel secondo dopoguerra. Più precisamente nel 1958, con il boom economico.

Come abbiamo visto, la bottega dei Fratelli Prada è inizialmente gestita da Mario e Martino Prada. Da quel che sappiamo Martino Prada non ebbe figli, mentre suo fratello Mario ebbe un unica figlia, Luisa che, per molto tempo, è stata tenuta fuori dagli affari della bottega. Mario inizialmente era restio all’idea che le donne potessero avere un ruolo negli affari, e non voleva che sua figlia si occupasse della bottega, tuttavia Luisa Prada era l’unica erede dei due fratelli e alla fine, ereditò l’intera bottega.

Arriviamo così al 1958, anno in cui figlia Luisa prende le redini dell’azienda, gestendola per circa 20 anni insieme al marito e alla figlia. Tra 1958 e 1978 Prada continua a lavorare come ha sempre fatto, senza brillare particolarmente, ma nel 1978, con il passaggio di consegne tra Luisa e Miuccia Bianchi, figlia di Luisa Prada e Gino Bianchi, l’azienda verrà trasformata radicalmente.

Sotto la guida di Miuccia, Prada inizia a sperimentare nuove tecniche e materiali di produzione, e soprattutto, dopo quasi 50 anni di attività ella bottega, deciderà di inserire l’abbigliamento tra i prodotti dell’azienda di famiglia.

Miuccia non è sola in questa impresa rivoluzionaria che trasformerà non solo l’azienda di famiglia, ma l’intero concetto globale di lusso. Supportata da suo marito, Patrizio Bertelli, Miuccia porterà in Prada una nuova visione minimalista che rinnoverà il concetto stesso di lusso.

Crescita globale e innovazione

Gli anni 80 e 90 sono per Prada un periodo d’oro. L’azienda si afferma in questo periodo come uno dei marchi di moda più influenti al mondo, sia per la sua visione in termini di moda, che per la sua visione in termini di impresa. Prada in questi anni cresce tanto e inizia ad inglobare altre aziende di lusso, come Church’s e Car Shoe, che le permetteranno di diversifica la propria offerta, ma non solo.

Prada è infatti una delle prime aziende di moda ad investire in ricerca di nuovi materiali e tecniche di produzione, e fin dagli anni 90 Prada adotta un approccio sostenibile, investendo sempre di più per ridurre il proprio impatto ambientale. In altri termini Prada è una delle prime aziende di moda al mondo ad adottare, su larga scala, materiali riciclati e pratiche eco-sostenibili.

L’acquisizione di Versace

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Prada, agli inizi del secolo scorso, era solo una piccola boutique di lusso nel centro di Milano, e oggi l’azienda è uno dei giganti mondiali della moda, 17,51 miliardi di dollari è la settima società di moda ala mondo per capitalizzazione.

Il settore è dominato da colossi come LVMH, con un un capitale di mercato di 261,97 miliardi, seguito da Hermès con 239,94 miliardi di capitalizzazione, Dior con 118 miliardi di capitalizzazione, Luxottica, con 106 miliardi di capitalizzazione, Richemont con 87 miliardi di capitalizzazione e Chanel con 60 miliardi di capitalizzazione.

Tuttavia, un dato interessante è che negli anni post Pandemia, Prada è stato uno dei pochi brand del lusso in crescita, con un aumento delle vendite medio del 18% e un incremento del fatturato del 105% nel terzo trimestre del 2023.

Nel 2025 Prada continua a crescere, di più e più velocemente dei competitor, nonostante la crisi del settore, e questa crescita ha permesso a Prada di acquisire Versace da Capri Holdings per 1,3 miliardi di. Un prezzo al ribasso rispetto ai 2,1 miliardi di dollari pagati da Capri Holdings nel 2018 per l’acquisizione di Versace.

Fonti e approfondimenti

Prada. La storia della celebre casa di moda
History of Prada: Celebrating 140 Years of Prada | The Handbag Clinic
The History Of Prada | myGemma | IT
The History of Prada – GLAM OBSERVER
La storia di Prada è la storia della moda italiana
Azionariato Prada

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