Elon Musk prende le distanza dai Dazi di Trump e i Dazi: Rottura o strategia di “Brand Revitalization”?

Nelle ultime settimane non sono passate inosservate le numerose “trasformazioni” (decisamente troppo repentine), i cambi di posizione e atteggiamento di Elon Musk, il tutto magistralmente e sistematicamente giustificato dalla sindrome di asperger.

L’effetto più evidente di questo “nuovo” Musk che si sta mostrando in queste settimane lo abbiamo nelle dinamiche tra il patron di Tesla e il presidente Trump. Il miliardario che fino a qualche settimana fa era pronto a difendere a spada tratta Trump su qualsiasi posizione avesse assunto, dopo la sconfitta in Winsconsin, ha decisamente cambiato marcia ed ha iniziato a contestare punti fermi della politica di Trump, che lo stesso Musk aveva ampiamente sostenuto in campagna elettorale. Si pensi alla politica dei Dazi doganali fortemente voluta da Trump, ampiamente annunciata in campagna elettorale e sulla quale, in passato, lo stesso Musk si era dimostrato totalmente allineato.

Musk cambia rotta?

Questo cambio di rotta non sembra casuale, e non è il primo.

Musk nella sua storia personale, ha cambiato molte volte posizione, allineandosi il più delle volte con temi di tendenza e fortemente sostenuti dall’opinione pubblica, insomma, una vera e propria banderuola che è sempre andato là dove soffia il vento, e che con la discesa in campo, al fianco di Trump, ha tirato troppo l’asticella, assumendo posizioni radicali e ampiamente contestate che gli hanno causato la perdita di diverse centinaia di miliardi di dollari.

In quest’ottica, un cambio di posizione così radicale e repentino appare come una goffa strategia di brand revitalization, da parte di un uomo convinto che il mondo sia popolato da idioti… e su questo forse non ha poi tutti i torti…

Cos’è la “Brand Revitalization”?

Ho parlato di “brand revitalization” (rivitalizzazione del marchio) ma che cos’è? Si tratta di un processo strategico attraverso cui un’azienda, un marchio, o come in questo caso caso una figura pubblica, cerca di rinnovare e rinvigorire l’immagine del proprio brand che ha perso attrattiva, rilevanza o credibilità nel tempo. Insomma , cerca di svecchiare e/o ripulirsi e in questo caso specifico, non sarebbe tanto una questione di svecchiamento, quanto più di “pulizia”. 

Al di là del caso specifico, l’obiettivo della brand revitalization è quello di riposizionare il brand nella mente del pubblico, adattandolo ai cambiamenti del mercato, ai nuovi valori sociali o per correggere errori passati che ne hanno danneggiato la sua reputazione. Questa trasformazione può avvenire attraverso cambiamenti dei valori comunicati, dei messaggi, delle partnership, ecc. 

Il Caso Musk: Politica e Immagine

Come anticipato, non è la prima volta che Musk fa un’operazione di questo tipo, basti pensare che, prima della Pandemia, Musk è stato un acceso sostenitore di temi di inclusività ed ambientalismo, promotore di energie rinnovabili e pulite, tecnologie a basso impatto ambientale ecc. Poi con la pandemia ha cambiato completamente rotta, diventando praticamente un negazionista dei cambiamenti climatici e schierandosi apertamente contro le politiche di inclusione, fino ad arrivare a sostenere personalità con posizioni fortemente xenofobe e intolleranti nei confronti delle minoranze. 

In definitiva, Musk è passato dall’essere uno dei “nemici pubblici” più attaccati e contestati dall’estrema destra USA ed UE nel 2019, secondo solo a Soros e Bill Gates, ad essere nel 2024 il più grande sostenitore dell’estrema destra in USA ed UE, ed ora, a poco più di 2 mesi dall’insediamento di Trump alla White House, Musk ha iniziato una nuova trasformazione.

Come un rettile che cambia pelle con le stagioni, Musk ha iniziato a dismettere i panni del Trupiano, in cerca di una nuova identità più “accettabile” dall’opinione pubblica globale.

Parliamo di una figura estremamente polarizzante che negli anni ha costruito parte del proprio personal brand sull’immagine dell’innovatore visionario, fuori dagli schemi, ribelle e controcorrente, elemento quest’ultimo che spesso lo ha portato ad assumere posizioni forti e radicali su temi estremamente controversi e divisivi. 

E se questa strategia in passato gli ha sempre portato “fortuna” , l’ultima pelle indossata gli ha portato più danni che benefici, alienandogli una parte significativa del pubblico che in passato lo sosteneva, tra cui anche investitori e potenziali partner commerciali.

Le sue uscite pubbliche, spesso impulsive e provocatorie, e le sue prese di posizione politiche hanno iniziato a proiettare diverse ombre sulle sue aziende, causandogli perdite senza eguali nella storia. 

Stando ai diversi report e analisi di mercato, ad oggi la sua immagine personale è considerata un fattore di rischio, ragione per cui diversi fondi di investimento hanno prontamente liquidato i propri investimenti in aziende associate a Musk, causando un crollo nel valore di titoli come Tesla, crollo che è stato amplificato dalla sfiducia dei consumatori.

La Strategia di “Pulizia” del Brand

Il recente, apparente, ammorbidimento delle posizioni di Musk e le prime prese di distanza da Trump, come la volontà di lasciare il DOGE entro qualche mese, o le aperte critiche ai Dazi imposti dal presidente, possono essere facilmente interpretati come un primo tentativo di “ripulire” il proprio brand personale. Prendere le distanze da figure e politiche divisive, come i dazi sostenuti da Trump (che peraltro potrebbero danneggiare le catene di approvvigionamento globali da cui dipendono le sue stesse aziende), potrebbe essere una mossa finalizzata a Riconquistare Credibilità e Appeal, ma soprattutto, potrebbe essere una mossa per proteggere le sue aziende. Si pensi alla fuga massiva di utenti da X (ex Twitter), il cui valore è passato in meno di due anni da 44 miliardi a 12 miliardi, o alle azioni Tesla, il cui valore, fortemente accresciuto dopo l’elezione di Trump, è tornato ad aprile 2025 ai livelli di ottobre 2024 , registrando un calo di oltre il 42,23% negli ultimi 3 mesi. 

Conclusione

Il presunto cambio di rotta di Elon Musk non è necessariamente un’abiura delle sue convinzioni passate, anche perché non abbiamo idea di quali siano realmente le sue convinzioni. Musk negli anni ha cambiato innumerevoli posizioni, rimanendo costante su un unico punto. Il suo primo e unico interesse è tutelare se stesso, ed è pronto ad abbandonare qualsiasi partner in qualsiasi momento pur di salvarsi.

Appare quindi abbastanza evidente come le sue critiche ai dazi di Trump, che lo stesso Musk aveva sostenuto in campagna elettorale, non siano altro che una grottesca strategia di brand revitalization, costruita partendo dall’assunto che l’opinione pubblica mondiale non se ne accorgerà. 

L’obiettivo delle critiche e l’allontanamento da Trump è chiaro e riassumibile nello slogan, MMGA, Make Musk Great Again, rendere il brand “Musk” nuovamente appetibile a consumatori e investitori, così da rendere meno rischiose le collaborazioni e partnership con le sue aziende e iniziative. 

Musk ha puntato sulla stupidità. Resta da vedere quanto questa strategia sarà efficace, e soprattutto se avrà puntato correttamente, o se questa scommessa segnerà definitivamente la sua rovina. Personalmente temo che se non nel breve periodo, nel medio e lungo termine riuscirà a ripulire il proprio brand.

I Dazi di Trump colpiscono tutti, dalla Cina all’UE ma è salva la Russia

Alla fine i Dazi di Trump sono arrivati come promesso e senza sconti per nessuno, o quasi, tra gli oltre 60 paesi colpiti dai nuovi dazi che vanno da un minimo del 10% ad un massimo del 49% per la Colombia, ci sono ovviamente la Cina, l’India, il Bangladesh, l’UE, Taiwan, c’è persino Israele, ma, con grande sorpresa non ci sono Russia, Corea del Nord e Bieloorussia

Molti si sono chiesti perché mancassero questi paesi, in particolare la Russia e la risposta ufficiale non ha tardato ad arrivare. Ufficialmente, secondo la Casa Bianca, gli USA non hanno innalzato i dazi alla Russia perché le sanzioni imposte alla Russia dagli USA per via della guerra in Ucraina, pregiudicano già gli scambi commerciali in modo significativo. Ma è davvero così?

Scambi tra USA, Russia, Iran e Corea del Nord e Bielorussia

Per quanto riguarda la Corea del Nord, così come per l’Iran, la risposta è si, gli scambi commerciali tra USA e Corea del Nord o Iran, sono praticamente nulli, il discorso si fa invece più complicato per quanto riguarda Russia e Bielorussia.

Non ci sono sanzioni USA contro la Bielorussia, ma neanche grandi scambi commerciali, questo perché sostanzialmente la Bielorussia commerciava solo con i paesi adiacenti e alcuni paesi BRICS, e il suo principale partner commerciale era ed è ancora oggi la Russia le cui esportazioni e importazioni coprono da sole più del 75% del volume degli scambi bielorussi.

Per quanto riguarda gli scambi commerciali tra Russia e USA invece, la situazione è molto più complessa, perché negli ultimi 30 anni tra i due paesi gli scambi sono cresciuti esponenzialmente, in parte perché in epoca sovietica erano prossimi allo zero, e in parte perché la Federazione Russa, la cui economia interna era fortemente indebolita dagli enormi costi dell’URSS, in particolare dall’industria bellica sovietica, aveva necessità di aprire le proprie frontiere commerciali.

Tra le principali esportazioni dalla Russia agli USA abbiamo soprattutto risorse naturali, materie prime e prodotti chimici e, secondo i dati del 2021 gli USA erano il principale mercato di sbocco per i prodotti chimici russi e allo stesso tempo la Russia era il principale mercato estero per l’industria farmaceutica USA.

Nel 2021 gli scambi commerciali tra USA e Russia valgono circa 34,4 miliardi di dollari, rendendo gli USA il quarto partner commerciale non CSI (comunità stati indipendenti), secondo solo a Paesi Bassi (46 miliardi), Germania (57 miliardi) e Cina (140 miliardi). Sappiamo inoltre che nel corso del 2020 (ultimo anno del primo mandato Trump), in piena pandemia, gli scambi tra USA e Russia sono cresciuti più degli scambi tra Russia e Cina, rispettivamente il 143% rispetto al 135%.

Durante il mandato presidenziale Biden, e soprattutto a seguito dell’inizio della guerra in Ucraina, gli scambi commerciali tra Russia e USA sono effettivamente crollati, passando da 35 miliardi nel 2021 a 3,5 miliardi circa nel 2024, di cui, 3 miliardi in esportazioni dagli USA alla Russia e 0,5 miliardi di importazioni dalla Russia.

Sanzioni USA alla Russia

Va detto che il crollo degli scambi commerciali tra USA e Russia non è propriamente legato alle sanzioni imposte dagli USA alla Russia, quanto più alle sanzioni imposte dall’UE alla Russia.

L’UE ha infatti imposto numerose sanzioni, dirette e indirette, alla Russia, sanzioni che hanno compromesso anche gli scambi tra USA e Russia. Dal canto suo, gli USA di Biden non sono rimasti con le mani in mano, e anche loro hanno applicato diverse sanzioni alla Russia, in particolare dazi al 500% sul Gas Naturale e Petrolio, de facto l’unica sanzione.

Ad oggi gli USA continuano ad acquistare materie prime e minerali, in particolare terre rare e uranio, dalla Russia, i cui volumi tuttavia sono sempre stati molto limitati. Non si hanno invece indicazioni chiare sulle importazioni di prodotti chimici, ma sembrano che non ci sia stato un rallentamento significativo.

In sostanza, i rapporti commerciali tra USA e Russia, ad oggi, sono abbastanza unidirezionali, gli USA importano poche risorse minerarie di grande valore ed esportano prodotti lavorati, dall’inizio della guerra in Ucraina tuttavia, le esportazioni dagli USA alla Russia sono crollate per via delle sanzioni USA, mentre le importazioni dalla Russia agli USA non hanno subito molti rallentamenti. E le sole sanzioni USA applicate alla Russia riguardano petrolio e gas naturale.

Di conseguenza, quando Trump dice che le sanzioni compromettono già gli scambi commerciali tra Russia ed USA in parte dice il vero, le sanzioni hanno ridotto ad un decimo gli scambi commerciali tra USA e Russia, tuttavia, quel decimo riguarda una parte di scambi che non ha subito alcuna variazione e anzi, le nuove sanzioni sulle materie prime imposte all’UE potrebbero avere come effetto un incremento delle esportazioni di quelle stesse risorse dalla Russia.

I Dazi sull’UE avvantaggiano la Russia?

In effetti, i nuovi dazi generalizzati degli USA imposti a gran parte del mondo, ma non alla Russia, hanno l’effetto indiretto di limitare l’efficacia delle sanzioni UE contro la Russia e rappresentano un vantaggio strategico soprattutto per la Russia.

Se le increspature commerciali tra USA e UE e la “guerra dei dazi” rischia di danneggiare tanto l’economia UE quanto quella USA, per assurdo, l’economia Russa ne ottiene un vantaggio. Non essendoci infatti sanzioni USA o dazi sulle esportazioni di minerali, ferro, uranio, prodotti chimici, prodotti tessili ecc, dalla Russia agli USA, ed essendo queste risorse che la Russia, fino a qualche anno fa esportava in grande quantità verso l’UE (nel 2021 gli scambi tra Russia ed UE valevano complessivamente circa 200 miliardi, contro i 140 miliardi degli scambi tra Russia e Cina, ed ora sono fermi per effetto delle sanzioni UE, possono ora essere reindirizzate verso il mercato USA per sopperire la carenza di risorse causate dall’incremento dei dazi all’UE.

In definitiva, i dazi USA all’UE potrebbero rilanciare parte delle esportazioni russe verso gli USA.

Fonti

Cosa esporta la Russia e in quali Paesi? – OBICONS
Russia, come sono i rapporti commerciali con Unione europea e Stati Uniti? | Sky TG24
Russia – Esportazioni | 1994-2025 Dati | 2026-2027 Previsione

Taiwan : Storia di un’isola contesa tra Cina e Stati Uniti

Periodicamente l’attenzione dei media globali torna su Taiwan, il conflitto con la Cina per la sua “indipendenza” e gli interessi USA nella regione. MA perché un isola grande appena un decimo dell’Italia, con una popolazione di appena 24 milioni di abitanti e un PIL pari a 2/5 di quello italiano, è così importante per USA e Cina?

Taiwan è per la Cina quello che Fiume fu per l’Italia dopo la prima guerra mondiale. L’emblema di una “vittoria mutilata“, di una promessa tradita da parte degli alleati. O almeno questo è quello che la Cina nazionalista (come l’Italia dell’epoca) racconta a se stessa e ai propri cittadini.

Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, la Cina, al fianco degli alleati, combatte l’impero giapponese al fianco dell’asse. Per la Cina vincere significa riconquistare l’isola di Formosa, persa contro i giapponesi durante l’ultima guerra sino-nipponica (circa 50 anni prima) e garantirsi una maggiore influenza sul pacifico e il traffico tra pacifico e mar cinese meridionale.

La guerra finisce, l’isola è conquistata, ma neanche 5 anni più tardi, la rivoluzione di Mao cambia il volto del paese. La Nuova Repubblica Popolare Cinese controlla il continente, ma a Taiwan, dove la rivoluzione non attecchisce, si stabilisce il vecchio governo della Repubblica di Cina e per vent’anni entrambi i governi rivendicano la propria sovranità sull’intero territorio cinese, (compresa Taiwan), ed è qui , nel 1949 che iniziano i problemi.

Facciamo allora qualche passo indietro, cerchiamo di capire perché le varie versioni, molto diverse tra loro, fornite da Cina, USA e Taiwan, sono così fortemente politicizzate e polarizzate e sostanzialmente appaiono agli occhi della storia come narrazioni distorte di una realtà che in qualche modo si è perduta.

In questo articolo, senza altri giri di parole, voglio andare alla scoperta delle “origini” di Taiwan e delle ragioni che si celano dietro le pretese territoriali di Cina, USA e Taiwan.

Le origini di Taiwan

Storicamente è difficile parlare di Taiwan senza parlare del conflitto con la Cina, poiché le due realtà viaggiano parallelamente e affondano le proprie radici nella Cina moderna e sono il frutto di un articolato intreccio di guerra civile, interessi economici nazionalisti e imperialisti, forze interne e pressioni esterne, in particolare degli Stati Uniti, ma non solo. 

Secondo fonti ufficiali, l’Isola di Taiwan, originariamente chiamata Formosa, venne colonizzata dagli esploratori europei nel XVI secolo, tra 1500 e 1600 e secondo annali, registri commerciali e atti diplomatici, l’isola rimase sotto il controllo diretto delle potenze occidentali almeno fino al XIX secolo, quando venne inglobata nella neonata provincia di Fujian-Taiwan, istituita dall’impero cinese intorno al 1887 e rimase sotto il controllo cinese, fino alla guerra sino-giapponese (1894-1895) al cui termine, i giapponesi sottrassero l’Isola al controllo cinese.

Nel mezzo secolo successivo l’isola fa parte dell’impero giapponese e solo i trattati di pace alla fine della seconda guerra mondiale, videro la cessione dell’Isola alla Cina. Ed è proprio in questi anni, tra il 1945 ed il 1949, con la rivoluzione di Mao, che ebbe inizio il “conflitto” diretto tra Taiwan e la Cina continentale.

Più precisamente, mentre nella Cina continentale il partito comunista cinese guidato da Mao Zedong avanzava e trionfava nella guerra civile, ciò che rimaneva dell’altra parte, il governo del Kuomintang, si rifugiarono sull’isola di Formosa a Taiwan ed è questo il momento di rottura.

Le forze militari del Kuomintang, asserragliate sull’isola, riescono a resistere alla rivoluzione maoista, e mentre nella Cina continentale veniva costituita la Repubblica Popolare Cinese (RPC), che rivendicava la propria sovranità su tutto il territorio della Cina continentale e possedimenti extraterritoriali della Cina, dall’altra parte, il governo separatista di Taiwan riconosceva se stesso come legittimo governo della Repubblica di Cina (RPC) istituita nel 1912 e di conseguenza rivendicava la propria autorità sull’intero territorio cinese, sia continentale che extraterritoriale.

Disputa territoriale tra Cina e Taiewan

A questo punto ci sono due istituzioni, la RPC e la ROC, con due governi distinti, che rivendicano entrambe la sovranità sull’intera Cina, la prima controlla effettivamente il paese e governa da Pechino, la seconda in esilio a Taiwan senza alcun controllo diretto o indiretto sul territorio cinese.

Questa disputa viene parzialmente risolta nel 1971 con la risoluzione 2758 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, risoluzione che riconosce la Repubblica Popolare di Cina come l’unico rappresentante legittimo della Cina continentale all’interno delle Nazioni Unite, e di conseguenza riconosce il governo di Pechino come legittimo governo cinese, espellendo i rappresentanti della ROC dall’ONU.

La questione sembra risolta, tuttavia il governo di Taiwan, rivendica il proprio diritto a partecipare alle Nazioni Unite, poiché la risoluzione 2758, non la riconosce ufficialmente come parte del territorio cinese. Dall’altra parte per la Cina continentale, e la stessa ONU, tale riconoscimento non può avvenire in maniera arbitraria, ma deve esserci un istanza di indipendenza da parte di Taiwan, la cui assenza rende de facto Taiwan una regione autonoma della Cina (esattamente come Hong Kong, Macao ecc).

Dal 1971 ad oggi, Taiwan ha presentato diverse richieste all’ONU per essere riconosciuta come stato sovrano, richieste per lo più respinte in favore delle opposizioni della Cina.

Dall’altra parte, va detto che il governo di Pechino è tutt’altro che indulgente con Taiwan, ha sempre considerato Taiwan una parte irrinunciabile del territorio cinese, e de facto considera qualsiasi movimento estero a sostegno dell’indipendenza formale dell’isola come una minaccia diretta all’integrità territoriale della Repubblica Popolare Cinese.

Su questo punto è bene fare un chiarimento aggiuntivo. Le opposizioni della RPC all’indipendenza di Taiwan, sono sia interne che esterne, e si fondano prevalentemente sulla “costituzione” cinese, il diritto cinese e lo stesso statuto dell’ONU.

Si tratta delle stesse opposizioni mosse dal governo spagnolo nei confronti dell’indipendenza catalana, o delle opposizioni Italiane alle richiesta di indipendenza della padania, o degli USA alle recenti richieste di indipendenza di alcuni stati federali.

Sebbene la RPC sia contrario e si opponga fortemente all’indipendenza formale di Taiwan, non ne esclude esclude la possibilità, e in più occasioni il governo di Pechino si è detto disposto ad accettarle a condizione che questa richiesta venga formulata seguendo la prassi riconosciuta dall’ONU e il principio di autodeterminazione dei popoli. Ed è su quest’ultimo punto che sorge il vero problema dell’indipendenza di Taiwan, perché la stessa Taiwan, pur rivendicando insistentemente la propria indipendenza dalla Cina, non ha mai riconosciuto se stessa come un popolo diverso da quello cinese, rigettando de facto l’idea di un nazione diversa.

Ricordate la risoluzione 2758 del 1971 che riconosce al governo di pechino la sovranità sull’intero territorio della Cina? Ecco, Taiwan non ha mai accettato apertamente tale risoluzione e, anche se espulsa dall’ONU, ha continuato e continua tutt’oggi, sostenuta dagli USA a riconoscere se stessa come parte del territorio cinese e continua a rivendicare la propria sovranità sull’intera cina.

Prendete quanto segue molto con le pinze, ma sembra quasi che tra Cina continentale e Taiwan, la vera disputa territoriale, continui ad essere non la sovranità sull’isola di Taiwan, ma la sovranità sulla Cina continentale, o almeno così è stato fino a circa 20 anni fa.

Fino a gli anni 90 anche nei documenti ufficiali, sia Taiwan che USA e Giappone, hanno continuato a definire Taiwan come “Taiwan-Cina”, e solo di recente questo nominativo è scomparso in favore del semplice “Taiwan“.

Tutti vogliono Taiwan

Come abbiamo visto, la questione di Taiwan è molto più che una semplice disputa territoriale per il controllo di un isola, e se per la Cina rappresenta una risorsa strategica, ma soprattutto un importante obbiettivo politico in termini di unità nazionale, per fare un esempio pratico, per la Cina, Taiwan è un po’ quello che Fiume era per l’Italia dopo la prima guerra mondiale. Ma non solo, dal punto di vista geopolitico, Taiwan occupa una posizione strategica estremamente rilevante, l’isola venne colonizzata nel XVI secolo per la sua posizione chiave per il controllo delle rotte e l’accesso l’accesso marittimo tra il Mare della Cina Meridionale e l’Oceano Pacifico.

Per la Cina controllare Taiwan significherebbe permetter alla propria marina di ottenere uno sbocco diretto sul Pacifico, estendendo di conseguenza la propria influenza marittima e mettendo in discussione l’attuale supremazia navale statunitense nelle acque dell’estremo oriente. Supremazia ottenuta a seguito della vittoria sul Giappone nella seconda guerra mondiale e la nascita di Taiwan, che de facto ha “mutilato” la vittoria cinese.

Fonti

Restoration of the lawful rights of the People’s Republic of China in the United Nations.
Taiwan. L’isola nello scacchiere asiatico e mondiale

Nasce l’ufficio della Fede alla Casa Bianca

trump mette in scena l’ultima cena nello studio ovale. Si autoproclama santo e inaugura l’ufficio della Fede, per reprimere i propri oppositori, in una moderna a suo dire, in difesa dei valori del cristianesimo. Tra i suoi obbiettivi, anche il pontefice e la santa sede.

Nel pieno di uno scontro politico senza precedenti tra la Casa Bianca e la Santa Sede, ma soprattutto, mentre si tagliano dipartimenti federali, vitali per la democrazia USA, il presidente Donald Trump sembra abbia attivato l’Ufficio della Fede alla Casa Bianca, al fine di rafforzare il ruolo della religione nella sfera pubblica e politica degli Stati Uniti. In altri termini un tentativo di rendere gli USA una “teocrazia laica“. Trump aveva infatti già espresso in passato la propria volontà di rimettere la religione, non la fede sia chiaro, al centro del Paese, e l’istituzione di questa nuova struttura rappresenta un passo importante e soprattutto concreto verso tale obiettivo.

Ma cosa implica e cosa significa tutto ciò? cerchiamo di capirlo in maniera analitica, e per farlo ci serve qualche informazioni sul ruolo della religione (non la fede) nella politica. Passeremo rapidamente al setaccio i vari utilizzi politici della religione nel corso dei secoli, dall’antichità pre-cristiana, fino alle dittature novecentesche, cercando di individuare gli elementi chiave. Prima però, cosa sta succedendo negli USA?

Contesto e simbolismo

Secondo quanto riportato dai media internazionali, Trump ha di recente organizzato una cerimonia nello Studio Ovale, che i più hanno descritto come una sorta di “ultima cena”, in cui il presidente si mostra al popolo statunitense come una sorta di messia, circondato leader religiosi e dalla telepredicatrice evangelica Paula White, da tempo consigliera spirituale di Trump.

L’evento è stato immortalato una foto è stato poi condiviso su X, dall’account ufficiale della Casa Bianca, accompagnato da una citazione della Bibbia e un messaggio dello stesso presidente Trump, che si augura di lasciare al mondo la sua opera “pacificatrice e unificatrice” come eredità.

Messaggio che per molti è in aperto contrasto con le politiche anti immigratorie, fortemente divisive, xenofobe, e di forte intolleranza etnica e religiosa, promosse da Trump e i suoi sostenitori.

Durante l’evento, la predicatrice e consigliera spirituale di Trump è intervenuta sostenendo che “opporsi a Trump equivale a opporsi a Dio” per poi sostenere di avere “l’autorità per dichiarare la Casa Bianca luogo santo” grazie alla sua presenza dello stesso Trump, qualcosa che forse neanche Napoleone, che si è autoincoronò imperatore dicendo che la corona l’aveva ricevuta da Dio, avrebbe avuto l’ardire di sostenere per se stesso.

Di cosa si occuperà l’ufficio della fede di Trump?

Al momento i dettagli operativi dell’Ufficio della Fede non sono ancora stati ancora resi noti, ma basandosi sui discorsi elettorali e il programma di Trump, l’intenzione del presidente sembrerebbe essere quella di contrastare ciò che Trump definisce “discriminazioni anticristiane” e “attacchi contro la religione”, e in questi attacchi, potrebbero rientrare anche le “aperture” del Vaticano e le critiche mosse da papa Francesco nei confronti di Trump e delle politiche discriminatorie e della sua amministrazione, soprattutto per quanto riguarda la striscia di Gaza, la gestione e deportazione dei Migranti e il trattamento di omosessuali.

In passato Trump aveva anche annunciato la creazione di una task force speciale, il cui obbiettivo sarebbe stato quello di fermare tutte le forme di discriminazione e attacco anticristiano all’interno del governo federale, e l’ufficio della Fede alla casa bianca potrebbe essere direttamente collegato a tale progetto che, sempre secondo le accuse di Trump, potrebbe mobilitarsi contro DOJ (Dipartimento di Giustizia), l’Internal Revenue Service (IRS) e l’FBI, a più riprese accusate da Trump, di qualsiasi cosa, e in questo caso specifico, di aver adottato politiche ostili nei confronti dei valori cristiani.

L’iniziativa ha sollevato dibattiti e critiche, soprattutto tra coloro che vedono in questa mossa un tentativo di favorire una visione religiosa specifica (il cristianesimo) e pretestuosa, a discapito della neutralità dello Stato, al fine unico di perpetuare la vendetta di Trump su coloro che non ha potuto colpire perché in posizioni blindate dalla costituzione. Diversi osservatori hanno inoltre sottolineato come Trump abbia spesso utilizzato il tema della religione come strumento politico, accusando i democratici di essere “contro la religione e contro Dio”. Questo approccio polarizzante rischia di alimentare ulteriori tensioni sociali, specialmente in un contesto caratterizzato da crescenti divisioni culturali e ideologiche, spesso alimentate proprio dallo stesso Trump.

Uso della religione come strumento politico

L’uso della religione come strumento politico è un fenomeno che attraversa tutta la storia umana, e alcuni sociologi particolarmente critici nei confronti della religione, ritengono che essa, si sia diramata dal mito, strumento di comprensione del mondo, proprio per essere uno strumento di controllo politico.

Dal mondo pagano pre-cristiano alle moderne “religioni laiche” dei regimi dittatoriali, la religione ha quasi sempre avuto due funzioni politiche, legittimare il potere dei governanti, generalmente intermediari tra divinità spirituali o laiche, e il popolo.

Nell’antico Egitto, i faraoni erano considerati divinità viventi e qualcosa di analogo avveniva nel mondo romano, l’imperatore era oggetto di culto religioso, il “culto dell’imperatore”, che serviva a consolidare l’unità dell’impero e rafforzare la sua autorità. tale culto è stato ripreso in epoca cristiana, per legittimare e rafforzare l’autorità del Papa, e più di recente, nel XX secolo, da dittature moderne come il Fascismo che elevarono Mussolini a nume vivente, e come lui e dopo di lui anche Hitler e Stalin.

Il cristianesimo rese la religione un elemento cardine delle strutture politiche della tarda antichità e dell’Europa medievale, in particolare il sacro romano impero, provò e in parte riuscì a fondere il potere temporale e quello spirituale, tale fusione, che portò per secoli l’imperatore a ricercare la legittimazione dalla Chiesa cattolica, fu anche ragione e motore di importanti conflitti epocali tra papato ed impero.

In età moderna, Machiavelli teorizzò l’uso politico della religione come strumento strategico per mantenere il controllo e garantire ordine ed obbedienza da parte dei sudditi. Teorie che avrebbero profondamente influenzato il pensiero politico da lì in avanti.

Nel XIX e XX secolo, l’uso della religione come strumento politico si manifestò in forme nuove e più radicali, soprattutto nelle dittature moderne. Mussolini fu il primo nume vivente della storia, e riuscì a costruire attorno a se una vera e propria fede laica che permane tutt’oggi. Un tentativo analogo venne fatto, con altrettanto successo e declinazioni diverse, da Adolf Hitler e Iosif Stalin. I tre dittatori, pur non essendo particolarmente religiosi, utilizzarono elementi del cristianesimo e del paganesimo per costruire una narrazione ideologica che legittimasse il proprio potere, nel caso di Stalin il cristianesimo venne sostituito dal “vangelo secondo Marx” che si tradusse in una repressione sistematica delle religioni in nome di un ateismo di Stato, che altro non era che una religione laica.

Usare la religione per reprimere

Nel mondo in cui viviamo, la religione e la fede hanno preso strade sempre più lontane, da un lato vi è la fede intima e personale di ogni individuo, che trascende le diverse ritualità ed ha una valenza universale, in cui l’uomo che tende al divino ha il dovere di “comportarsi bene” e prendersi cura degli altri, e dall’altro, vi è la religione che si è fusa con la “politica” e le politiche di stato, creando regimi per lo più chiusi e oppressivi.

La maggior parte degli stati in cui la religione è oggi fortemente fusa con il potere politico, fanno un uso sistemico della religione e l’appartenenza religiosa, come strumenti di repressione, guardiamo ad esempio all’Afghanistan, all’Iran, ma anche ad Israele e nella declinazione laica del concetto religioso, alla Cina. Da questo punto di vista gli Stati Uniti non sono nuovi all’uso della religione come strumento di repressione.

Un esempio concreto lo possiamo riscontrare negli anni della caccia alle streghe, che raggiunse il proprio apice durante i processi di Salem (1692-1693). Tale fenomeno fu emblematico di come la religione, in combinazione con paure sociali e politiche, possa essere facilmente strumentalizzata per reprimere il diverso e consolidare il controllo sociale.

Il XVII secolo può sembrare lontanissimo da noi, eppure, il ricorso alla religione, alla fede, per contrastare la paura del diverso, è qualcosa che ci accompagna ancora oggi. Pensiamo alla diffidenza da parte di una fetta enorme dell’opinione pubblica nei confronti di Islamici, o Ebrei, o Comunisti, e in altre parti del mondo, come il mondo islamico, nei confronti di Ebrei, Comunisti e Cristiani.

Il mondo occidentale, soprattutto le destre più radicali, dagli USA all’Europa, criticano aspramente e duramente la repressione basata su canoni religiosi operata dai Talebani in Afghanistan o dalla Guardia rivoluzionaria in Iran, alcuni guardano con diffidenza alla repressione compiuta dalla destra del governo Israeliano, eppure, quella stessa “destra” radicale e conservatrice che trova iniqua la discriminazione religiosa, propone a sua volta, una narrazione politica di esaltazione di una religione da porre al di sopra delle altre e, in nome della tradizione, chiede e in alcuni casi prova a mettere in atto una forte repressione nei confronti di altre religioni.

La censura dei libri negli Stati Uniti

La censura di libri è un abominio culturale, non c’è molto altro da aggiungere a riguardo se non qualche breve cenno storico che lo vede come strumento di controllo per reprimere masse, più o meno in ogni epoca storica. Nell’Europa medievale i copisti “censuravano” attraverso l’abrasione, distruggendo testi antichi, considerati blasfemi e pagani, per poi riutilizzare quelle pergamene per copiare scritti teologici o copie dei vangeli canonici. In età moderna, dal XVI secolo in poi, con l’avvento della stampa si diffuse il famigerato e temuto indice dei libri proibiti, un elenco di testi vietati che non solo era proibito stampare e distribuire, ma anche possedere e leggere, indice la cui ultima edizione, prima dell’abolizione, risale al 1959 ad opera del sant’uffizio, mentre la sua abolizione è datata ufficialmente 1966 per volontà di Papa Paolo V.

La fine dell’indice non significa fine della censura o dei roghi di libri, anzi, la storia ci insegna che anche in regimi non “cristiani” la censura fu ed è tutt’ora largamente usata, è il caso di citare i roghi di libri dei regimi Nazi-Fascista in Italia e Germania, il divieto fascista di pubblicare letteratura scientifica straniera, anche se tradotta, il Samizdat sovietico, una sorta di analogo laico comunista all’indice cristiano, con cui si vietava in URSS la distribuzione e il possesso di innumerevoli libri considerati pericolosi o l’indice islamico, con cui il governo di Tehran vieta innumerevoli libri in Iran, e così via.

Storicamente va detto che la censura non si è abbattuta sui libri solo attraverso il loro divieto integrale, in numerosi casi infatti, essa ha colpito in modo più subdolo, imponendo modifiche trasformazioni o eliminazione di sezioni più o meno ampie del testo. Un caso esemplare arriva sempre dagli USA con la Bibbia, più precisamente una versione della bibbia che era riservata agli schiavi nelle piantagioni da cui erano omesse intere sezioni dell’antico testamento, in particolare tutta la parte del libro della genesi che riguardava la schiavitù in Egitto e la liberazione da parte di Mosè.

In tempi più recenti il divieto di distribuzione e possesso dei libri è parzialmente sfumato, ed oggi interessa per lo più paesi fortemente radicali, esempi lampanti sono la Cina, Iran, Russia e Israele, ma non sono gli unici esempi, anzi, in forme più moderate e circoscritte, la censura dei libri interessa anche l’Unione Europea e gli USA. In USA ad esempio, se bene non ci siano leggi che vietino di possedere o distribuire libri, o leggi che obbligano la distruzione di libri, ci sono numerose leggi, per lo più statali e non federali, che vietano l’uso pubblico di alcuni libri.

Per quanto vorrei parlare di tutti gli “indici” moderni, farlo in un unico articolo richiederebbe un lavoro smisurato, quindi mi concentrerò caso per caso, ed oggi analizzeremo gli ultimi 20 anni circa di censura negli USA, anche perché sono quelli di maggiore intensità.

Il ritorno della censura negli USA

La censura dei libri negli USA non è un fenomeno moderno, già nei secoli scorso è stata ampiamente promossa e praticata, tuttavia, dal secondo dopoguerra in poi, e soprattutto negli anni post guerra fredda, si è respirata un’aria di maggior tolleranza. Tra Regan e Obama gli USA hanno visto la maggior libertà letteraria della propria storia e a darci testimonianza di come negli ultimi anni la libertà di stampa si sia fortemente deteriorata, abbiamo le analisi e i rapporti periodici di American Library Assosation (ALA) e PEN America, due associazioni/organizzazioni che promuovono la libertà di stampa e di espressione e che, almeno dagli anni 60, monitorano l’attività legislativa e i tentativi di censura a livello federale e statale in tutti gli USA.

Come anticipato, fino alla presidenza Obama, gli USA hanno vissuto un periodo fiorente, con grandi libertà editoriali e anche nei programmi scolastici c’era molta “libertà”. Per fare un esempio pratico, durante la presidenza di G.W. Bush, in alcuni libri scolastici si arrivava a parlare, in maniera anche abbastanza critica, della disastrosa fuga dalla Somalia del 94 durante la presidenza Bush senior e durante la presidenza Obama la situazione sostanzialmente non cambia, la censura di libri è ancora relativamente contenuta rispetto a quanto sarebbe successo negli anni successivi. Ciò non significa che sia del tutto assente, anche perché non lo è mai stata. L’ALA documenta, negli 8 anni di presidenza Obama, sporadici casi di divieto di libri, per lo più legati a temi sensibili come la religione, la sessualità e la violenza. Questo divieto non è però assoluto, e in realtà anche negli anni successivi non lo sarà mai.

Il bando è circoscritto alle scuole pubbliche, e all’epoca, soprattutto durante la campagna elettorale del 2012, scaturì in un forte dibattito legato alle politiche di inclusione promosse da Obama e l’apparente contraddizione tra queste e il divieto di usare nelle scuole e nelle biblioteche scolastiche, alcuni libri che affrontavano tematiche LGBTQ+ e riscrivevano la tradizione americana, testi che per inciso, erano fortemente antiscientifici e antistorici.

L’accesa discussione attorno a questi bandi tuttavia, fu significativa, perché spianò la strada a ciò che sarebbe successo nella successiva presidenza Trump.

Polarizzazione culturale e attacchi alla scienza durante la presidenza Trump

Se come abbiamo visto, durante la presidenza Obama, il divieto di utilizzo nelle scuole è “federale” e riguarda soprattutto libri antiscientifici, durante la prima amministrazione Trump si è registrato il vero punto di svolta, ovvero la nomina di Betsy DeVos come Segretaria dell’Istruzione. DeVos è stato una forte promotrice di politiche in favore delle scuole private e di riduzione del controllo federale sui materiali didattici. In altri termini DeVos da una maggiore autonomia alle scuole, soprattutto quelle private, di decidere la forma dei propri programmi scolastici, i libri da utilizzare ecc e allo stesso tempo aumentava indirettamente il potere dei governatori locali che, senza un controllo federale, erano chiamati a regolamentare a livello locale i limiti dell’insegnamento, programmi scolastici e di conseguenza, autorità quasi totale in materia di censura o liberalizzazione di libri antiscientifici nelle scuole.

Nel 2020, sempre l’amministrazione Trump, fa un ulteriore passo in direzione della censura, vietando l’uso scolastico, sempre nella scuola pubblica, di pubblicazioni che includessero termini come “inclusione”, “diversità di genere” e “disabilità”. Questo divieto ha avuto un doppio effetto, sia editoriale che politico scolastico. A livello editoriale sono aumentati, in maniera quasi esponenziale, i tentativi di rimuovere dai testi, le sezioni che trattavano temi sensibili, come la storia razziale americana e l’identità di genere, inoltre, per evitare di incorrere nella censura federale, molti editori hanno ritirato dal mercato numerosi libri e rifiutato innumerevoli nuove proposte. Sul piano politico scolastico invece, i governi locali, già fortemente autonomi, hanno avviato una crescente corsa alla censura vietando sempre di più l’uso di libri che trattavano temi vietati.

ALA e Pen America a tale proposito documentano una delle fasi più cupe della storia editoriale statunitense, e della censura libraria, dai tempi del proibizionismo.

Un’inattesa escalation dei divieti durante la presidenza Biden

Finito il mandato di Trump molti si aspettavano importanti passi indietro da parte del nuovo presidente, e così è stato, i primi mesi di presidenza Biden come sappiamo furono investiti dal presidente democratico, per smantellare gran parte delle politiche trumpiane inaugurate a fine mandato, tuttavia, sulla questione scuola e censura, non troviamo il passo indietro che molti si aspettavano, ma anzi, troviamo un apparente escalation. Secondo quanto riportato dall’ALA, nel primo semestre del 2022 sono stati registrati 681 tentativi di messa al bando che hanno interessato circa 1.651 libri, con un’enfasi particolare su temi razziali, di genere e sessuali. Una tendenza preoccupante che secondo ALA è ulteriormente cresciuta nel 2023, quando il numero di libri banditi nelle scuole pubbliche è triplicato, passando dai 3.362 del 2023 a oltre 10.000 nel 2024.

Diversamente dall’era Obama però, i libri al bando non sono testi anti-scientifici, letteratura scientifica, saggistica e narrativa, e protagonisti di questa escalation sono stati come la Florida, guidati nella maggior parte dei casi da governatori conservatori repubblicani molto vicini a Trump. In florida ad esempio incontriamo diverse leggi statali il cui fine è limitare l’insegnamento di concetti come la “teoria critica della razza” e “l’identità di genere”. L’adozione di queste politiche locali ha portato alla rimozione di oltre 10.000 libri dalle biblioteche scolastiche statunitensi, e come ci si potrebbe aspettare, ha innescato un forte dibattito nazionale sulla libertà di espressione e il ruolo dell’istruzione pubblica.

Colpa di Biden o di Trump?

L’ondata di censura durante la presidenza Biden, come anticipato, ha innescato un forte dibattito pubblico, tutt’ora attivo, sulla responsabilità di tale escalation, da una parte c’è chi incolpa Trump e dall’altra chi incolpa Biden.

I dati di ALA e Pen America mostrano un chiaro aumento della censura di libri negli Stati Uniti, soprattutto durante la presidenza Biden e Trump, con picco esponenziale durante la presidenza Biden, tuttavia, tale incremento è circoscritto a stati repubblicani e guidati da governatori vicini all’ex presidente Trump, mentre, secondo i dati riportati da ALA e Pen America negli stati democratici il ricorso ai divieti è rimasto molto limitato, e in linea con quanto accadeva in passato, ovvero con il bando dalle scuole di testi anti-scientifici e anti-storici. Alla base di questo incremento dei bandi abbiamo le leggi promosse da DeVos e Trump durante la prima amministrazione Trump, leggi che come abbiamo visto in precedenza, hanno creato un clima culturale favorevole alla censura, attraverso l’adozione di politiche anti-scienza e pro-censura e che, durante la successiva amministrazione Biden, non sono state superate, e più precisamente neanche ci ha provato.

Censura fuori dalla scuola?

Finora abbiamo parlato di censura scolastica, di divieto di insegnamento, di bando dalle biblioteche pubbliche, ma fuori dalla sfera pubblica ci sono libri vietati negli USA?

La risposta più semplice è, tecnicamente no, ma è una risposta incompleta, perché se da un lato la costituzione garantisce la totale libertà di stampa e quindi è teoricamente consentita la possibilità di pubblicare qualsiasi libro, anche il più controverso, in realtà molte cose, per ragioni politiche e di sicurezza non sono e non possono essere pubblicate. Un editore non può ad esempio pubblicare un libro che divulga documenti classificati, o che insegna a costruire bombe, e più in generale, e se in alcuni casi gli editori non possono, in altri non vogliono. Di conseguenza molti editori, soprattutto quelli più grandi ed esposti, come anche in altre parti del mondo, preferiscono evitare la pubblicazione di libri che affrontino tematiche considerate controverse e problematiche. Religione, sessualità, identità di genere, questioni razziali, sia narrativa che saggistica, difficilmente arrivano al grande pubblico, da grandi editori ed autori alle prime armi. Dall’altro lato però, il fenomeno del self publishing negli USA è ampiamente diffuso, e la possibilità di pubblicare in totale autonomia, consente a molti autori di pubblicare, passatemi il termine, alcune delle peggiori porcherie letterarie di tutti i tempi, con una conseguente abbondanza di letteratura, come mai prima.

Il paradosso è che da un lato la letteratura anti-scientifica e controfattuale sta attraversando una fase fiorente, mentre la letteratura scientifica e narrativa , che affronta alcune tematiche politicamente calde, sessualità religione, orientamento sessuale, identità di genere, ecc è sempre più oscurata.

Conclusioni

La censura di libri negli Stati Uniti è un fenomeno complesso che riflette enormi tensioni culturali e politiche. Abbiamo visto come durante la presidenza Obama, nonostante il dibattito, lo scenario non era dissimile rispetto agli anni precedenti e il resto del mondo occidentale. Successivamente, con l’inizio della prima amministrazione Trump, ha avuto inizio anche quella che molti definiscono epoca oscura per la letteratura, un epoca che è continuata senza particolari tentativi di ammortizzazione sotto la presidenza Biden e che ora, durante il secondo mandato di Trump rischia di vedere la sua massima espressione, alimentata da numerosi membri del congresso che, durante la propria campagna elettorale, hanno portato avanti vere e proprie crociate, con tanto di lanciafiamme e roghi di libri, contro alcune forme di letteratura e temi letterari.

Le guerre civili somale, dagli anni 90 ad oggi

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questo articolo il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende degli anni ’90 con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo dell’ONU e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Le Vicende degli Anni ’90

Gli anni ’90 rappresentano un momento cruciale nella storia della somala, l’inizio del decennio, la fine del secolo e della guerra fredda su scala globale, coincidono in Somalia con la caduta del regime di Siad Barre, il generale somalo e segretario del Partito Socialista Rivoluzionario Somalo, che governò il paese ininterrottamente tra il 1969 ed il gennaio del 1991, da qui una sanguinosa “guerra di successione” meglio nota come guerra civile somala, che dura salvo brevi interruzioni, va avanti da oltre 30 anni.

Alla base del conflitto vi era la frammentazione del potere, la proliferazione dei signori della guerra già negli anni ottanta, sostenuti in maniera più o meno diretta dai diversi attorti internazionali. Sul piano politico la Somalia a cavallo tra anni 80 e 90 era una polveriera pronta ad esplodere, serviva solo qualcuno che accendesse la miccia e la miccia si accese con la fine della guerra fredda e la caduta di Siad Barre.

Il Crollo del Regime di Siad Barre (1991)

Siamo nel 1990, la Somalia è governata da oltre 30 anni dal generale Mohamed Siad Barre, ma il suo governo è attraversato da una profonda crisi politica, il popolo somalo vive un profondo malcontento, alimentato da tensioni etniche e rivolte armate contro il regime, così, il 26 gennaio 1991, il governo cade, ma, come anticipato, l’enorme frammentazione del potere porta ad una lotta per la successione che impedisce una transizione politica e porta il paese a sprofondare nel caos.

Nel gennaio del 1991 le truppe ribelli, guidate dal generale Mohamed Farrah Aidid entrano a Mogadiscio, ormai il dado è tratto, le forze governative vengono sconfitte, il presidente destituito e per Siad Barre non resta altra possibilità che la fuga, il generale lascia la città e cerca rifugio nell’area sudoccidentale del paese, regione governata da Mohamed Said Hers, genero di Siad Barre che lo aiutò, nel corso del 1991 e 92 nel tentativo di riprendere la capitale, ma senza successo e alla fine, nel 1992, Mohamed Farrah Aidid decretò l’esilio di Siad Barre.

L’Anarchia e il Ruolo dei Signori della Guerra

Mohamed Farrah Aidid controlla la capitale, ma non il paese, la frammentazione del potere che aveva messo in crisi il precedente regime sembra impedire la creazione di un nuovo stato unitario, e in assenza di un governo centrale, riconosciuto da tutte le fazioni, il paese si frammentò ulteriormente, dando vita ad in una miriade di territori controllati da signori innumerevoli signori della guerra e le loro milizia. Semplificando moltissimo, nessuno di loro riconosce l’autorità del governo centrale e tutti vogliono assumere il controllo del paese, ne consegue una veloce e sanguinosa escalation di violenze, con attacchi indiscriminati alla popolazione civile e saccheggi diffusi, alimentati da scarsità di cibo e acqua per via di una profonda carestia che colpì il paese tra 1991 e 1992.

La carestia colpì l’intero corno d’africa, e per quanto riguarda la Somalia, interessò soprattutto le regioni meridionali del paese, causando solo in Somalia, secondo le stime dell’ONU, la morte di circa 300.000 persone tra il 1991 e il 1992.

L’Intervento delle Nazioni Unite: UNOSOM e Operazione Restore Hope

La Somalia è devastata da una catastrofe umanitaria, aggravata dalla guerra civile che rende impossibile, alle organizzazioni umanitarie, la distribuzione di aiuti, si rese così necessaria la mobilitazione delle Nazioni Unite con la missione UNOSOM (United Nations Operation in Somalia). I caschi Blu dell’ONU, impegnati nella missione UNOSOM tuttavia, non furono in grado di contenere la violenza tra le fazioni in lotta.

La richiesta di aiuto della Somalia e dell’ONU viene accolta, se così si può dire, dagli Stati Uniti. L’amministrazione Bush aveva infatti necessità di un importante successo politico internazionale, così nel dicembre del 1992, a quasi 2 anni dall’inizio della guerra civile somala, venne lanciata l’Operazione Restore Hope. L’obiettivo era quello di garantire la sicurezza necessaria per la distribuzione degli aiuti umanitari, e a tale scopo venne inviato in Somalia un contingente militare di circa 25.000 soldati statunitensi.

I signori della guerra locali, che ambivano al potere nella regione, non videro di buon occhio la presenza militare straniera e anzi, la interpretarono in larga parte come un atto di ostilità e un nuovo tentativo coloniale. Mohamed Farrah Aidid, che controllava ancora Mogadiscio, fu uno dei principali detrattori della presenza straniera in Somalia e le crescenti tensioni tra le forze dell’ORH, e le milizie del generare Aidid, culminarono con la disastrosa Battaglia di Mogadiscio, avvenuta tra il 3 e il 4 ottobre 1993, durante la quale le forze speciali statunitensi, nel tentarono di catturare i luogotenenti di Aidid, vennero accerchiate e attaccate dalle milizie locali. Il bilancio della battaglia fu disastroso, centinaia di somali morti e 18 soldati USA.

Bush era entrato in Somalia in cerca di un successo politico e militare, ma ciò che aveva ottenuto era un disastro politico, l’opinione pubblica statunitense e internazionale spinsero per un ritiro immediato delle truppe, così, ad un passo dalle elezioni di metà mandato, del secondo mandato Bush, gli Stati Uniti lasciarono la Somalia. Era il 1994, e l’anno seguente, nel 1995 fu la volta dell’ONU.

La Somalia era un teatro bellico estremamente importante per l’ONU, perché si trattava del primo vero conflitto post guerra fredda, e il ritiro delle forze internazionali dal paese segnò quello che è forse il più grande fallimento della comunità internazionale nel tentativo di pacificare un paese devastato dalla guerra civile. La fuga della comunità internazionale lasciò la Somalia in uno stato di totale anarchia, immersa in un conflitto permanente che attraversò tutto il decennio.

Nella restante metà degli anni 90, la guerra civile continuò senza sosta, a spese soprattutto della popolazione civile. Soldati bambino, armi illegali, crimini di guerra, stupri di massa, segnarono una ferita indelebile nella memoria di un paese abbandonato a se stesso. In questo clima di disperazione, la fede divenne una risorsa essenziale per la sopravvivenza, e col tempo, un arma e strumento politico. Sul finire del decennio la Somalia vide un crescente aumento dell’influenza dei movimenti islamici favorita dall’assenza di un governo centrale funzionante. Se l’eredità etnica e culturale, il passato coloniale, e le lotte di potere avevano diviso la popolazione somala, l’Islam per molti, apparve come l’anello di congiunzione che poteva sanare la ferita del paese e portare alla nascita di una Somalia Islamica.

Le Rivolte Islamiche dei Primi Anni 2000

Arriviamo così agli inizi degli anni 2000, momento in cui la Somalia assume i tratti che avrebbe avuto nel successivo quarto di secolo. Il decennio di guerra civile appena trascorso aveva portato ad una crescente sfiducia nei confronti dei leader militari e di conseguenza ad un sostanziale declino dell’influenza dei signori della guerra, il cui potere fu presto ereditato dai movimenti islamici. All’inizio degli anni 2000 emersero in Somalia le prime Corti Islamiche, si trattava di gruppi che applicavano la Sharia e offrivano servizi di giustizia e sicurezza nelle aree sotto il loro controllo.

Queste corti grazie al sostegno della popolazione civile, stanca dell’anarchia e della violenza e desiderosa di una fase di serenità fisica e spirituale, riuscirono in breve tempo a pacificare diverse regioni del paese, e nel 2006, molte di queste Corti si unirono nell’Unione delle Corti Islamiche (UCI) che riuscì a prendere il controllo di Mogadiscio e di gran parte della Somalia meridionale.

Sotto la guida dell’UCI, la Somalia meridionale conobbe un periodo di relativa stabilità. Tuttavia, la loro ascesa di uno stato Islamico nel corno d’africa, fu visto come fonte di preoccupazione dai paesi vicini e dalla comunità internazionale, quella stessa comunità che aveva abbandonato la Somalia a se stessa. Siamo nel 2006, la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, hanno già conosciuto il lato violento e feroce dell’estremismo islamico, e soprattutto, si è ormai affermato il principio di guerra preventiva, coniato da G.W. Bush e Tony Blair. Così, su richiesta dell’Etiopia, altra ex colonia Italiana nel corno d’Africa, e il sostegno degli USA, sul finire del 2006 fu avviata un operazione militare finalizzata a rovesciare l’UCI e sostenere l’instaurazione di un Governo Federale di Transizione.

Ci troviamo in una delle fasi più controverse della storia moderna, la Somalia, che da oltre un decennio è abbandonata a se stessa e vive una profonda guerra civile, è stata, in parte, finalmente pacificata da un movimento Nazionalista Islamico, e la comunità internazionale, temendo possibili evoluzioni di questo movimento che è riuscito là dove gli USA e l’ONU, 10 anni prima hanno fallito fuggendo con la coda tra le gambe, decide di portare nuovamente la guerra e morte in quell’angolo di mondo già martoriato e stanco.

Il Ruolo degli Stati Uniti nel Conflitto

come abbiamo visto, l’UCI si espanse rapidamente in Somalia, sfruttando la fede islamica come elemento comune e di appartenenza in grado di superare le diversità ideologiche, etniche e culturali che invece avevano alimentato i conflitti tra clan degli anni 90. Il suo crescente potere e la sua crescente influenza nel paese però, preoccupava la vicina Etiopia, che mal vedeva la formazione di uno stato islamista radicale ai propri confini, e dall’altra parte del mondo, gli Stati Uniti, impegnati in una guerra su larga scala contro il terrorismo e l’estremismo islamico, e soprattutto, sotto la guida di George W. Bush che era il dell’uomo che 10 anni prima aveva sostanzialmente ordinato “la fuga” degli USA dalla Somalia, e forse cercava una qualche rivalsa storica per il proprio nome, decise di sostenere e spingere l’Etiopia nel conflitto contro la Somalia, così, nel dicembre 2006, l’Etiopia, sostenuta dagli Stati Uniti, lanciarono una prima offensiva su larga scala alla Somalia.

L’invasione della Somalia da parete dell’esercito etiope, meglio equipaggiato e addestrato, grazie al sostegno degli USA, riuscì in poco tempo a sconfiggere le forze dell’UCI che furono costrette a ritirarsi. Diversamente dalla precedente battaglia di Mogadiscio, questa volta per gli USA fu un successo e nel dicembre del 2006 la città era passata sotto il controllo etiope e del governo federale di transizione somalo (TFG), sostenuto dalla comunità internazionale.

La Resistenza Islamista e la Nascita di Al-Shabaab

La sconfitta a Mogadiscio dell’UCI e la fuga dei propri leader segnò la fine del movimento, ma non della guerra civile che anzi, riprese con maggior vigore. Dalle ceneri dello sconfitto UCI, come successo nel 91 con la fine del regime di Siad Barre, nacque una nuova formazione, ancora oggi attiva in Somalia, ovvero Al-Shabaab, un gruppo nazionalista islamico, più radicale delle precedenti corti islamiche, considerate troppo moderate. Fin dal 2007 Al-Shabaab è impegnata in uno scontro diretto contro le le forze etiopi e il governo federale somalo, utilizzando prevalentemente tattiche di guerriglia che hanno portato all’organizzazione il sostegno di numerosi gruppi jihadisti internazionali, tra cui al-Qaeda. Il movimento panislamico somalo si è radicalizzato soprattutto nelle aree rurali del paese dove, per via dei dissesti causati da oltre 20 anni di guerra, il governo federale aveva (ed ha tutt’ora) difficoltà ad imporsi.

Per quanto riguarda l’Etiopia invece, la loro permanenza in Somalia è durata circa 2 anni, tra il 2006 ed il 2008. Nel 2008 le forti pressioni internazionali e il timore che Al-Shabaab potesse portare lo scontro anche in Etiopia, spinsero l’Etiopia a dare inizio al proprio ritiro dalla Somalia, lasciando così il paese nelle mani del governo federale somalo, sostenuto dalla comunità internazionale.

Nel 2007, l’Unione Africana entrò in Somalia a sostegno del Governo Federale, e nell’ottica della pacificazione del paese e la lotta ad Al-Shabaab, dispiegò nel paese le forze della missione African Union Mission in Somalia (AMISOM). La missione AMISON ottenne quasi immediatamente il sostegno della comunità internazionale, soprattutto deli Stati Uniti e riuscì ad ottenere, alcuni importanti successi, senza però mai riuscire ad eliminare completamente la minaccia islamista.

Da Al-Shabaab all’ISIS

La parabola islamista della Somalia è stata in un certo senso discendente, i primi movimenti erano fortemente nazionalisti, e, per quanto radicali erano abbastanza moderati, se infatti l’UCI da un lato applicava la Sharia, dall’altro tollerava e permetteva la convivenza con altre religioni, e fondava la propria politica sulla pacificazione attraverso l’Islam, dall’UCI si passa però al più radicale Al-Shabaab, che a differenza dell’UCI è un gruppo jihadista nazionalista somalo, affiliato ad al-Qaeda, ma il cui interesse è circoscritto alla sola Somalia, tale movimento nel corso degli anni ha subito numerose trasformazioni e, come molti dei gruppi affiliati ad al-Qaeda, ha visto, soprattutto a partire dal 2015, una progressiva radicalizzazione e trasformazione che ha avvicinato sempre di più, alcune frange del movimento, al califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.

Il 2015 in effetti, per la Somalia è un altro momento di rottura. L’ascesa e avanzata in Iraq e Siria dell’ISIS, e la sua rapida diffusione in gran parte del mondo Islamico, attrae alcuni esponenti di Al-Shabaab, il movimento fino a quel momento era stato legato ad al-Qaeda, con cui condivideva ideologia, strategie e supporto logistico. Strategie che però non avevano mai avuto l’impatto e soprattutto portato i risultati che invece stava ottenendo l’ISIS, così, diversi comandanti di al-Shabaab videro nell’ISIS il futuro della propria jihad e considerando il califfato più dinamico e influente rispetto a quanto non fosse in quel momento al-Qaeda, decisero di staccarsi al-Shabaab e giurare fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi.

Nasce così, nella regione settentrionale della Somalia, Abnaa ul-Calipha, il gruppo che in sintesi rappresenta la costola somala dell’ISIS. Il leader di questo nuovo schieramento, che entra a gamba tesa nella guerra civile somala, è Abdul Qadir Mumin. Si tratta di un un ex predicatore e ideologo del gruppo che in pochissimo tempo farà della regione del Puntland la propria roccaforte. Si tratta di un area geograficamente e politicamente lontana dalle regioni controllate da Al-Shabaab, ben radicato nel sud del paese, ma anche lontano dal governo federale.

Dal 2015 in poi la Somalia è sostanzialmente divisa tra tre fazioni. Abbiamo un governo federale, sostenuto dalla comunità internazionale, che controlla la capitale Mogadiscio, nelle aree rurali del sud del paese si è radicato Al-Shabaab, erede dell’UCI, e fortemente nazionalista, mentre nelle aree rurali del nord del paese c’è Abnaa ul-Calipha, la costola somala dell’ISIS, staccatasi da Al-Shabaab, con ambizioni transnazionali.

Questa nuova configurazione della Somalia non lascia molto spazio al dialogo, soprattutto tra le due fazioni islamiste la cui rivalità si intensificò rapidamente. Al-Shabaab avviò immediatamente una campagna di epurazione, eliminando tutti i possibili sostenitori dell’ISIS e giustiziando numerosi militanti sospettati di un possibile tradimento. Lanciò inoltre numerosi attacchi contro le basi e i villaggi controllati dalla fazione rivale e lo stesso fece l’ISIS. La lotta intestina tra i due movimenti islamici portò in Somalia una nuova e forse più devastante ondata di morte e violenza, ma riuscì, in parte, a limitare l’efficacia operativa dei due gruppi jihadisti, permettendo, se pur in maniera limitata, un avanzata delle forze governative nelle aree rurali.

Nel contesto generale della guerra civile somala, la scissione di Al-Shabaab e la nascita di una fazione affiliata all’ISIS non ha fatto altro che complicare ulteriormente un quadro già disastroso, a tutto danno della popolazione civile. Il governo somalo e le forze internazionali, già impegnate nella lotta contro Al-Shabaab, hanno dovuto affrontare una nuova minaccia rappresentata dal più aggressivo gruppo affiliato all’ISIS. Mentre L’AMISOM e le forze speciali statunitensi hanno intensificato le operazioni contro entrambe le fazioni, cercando di prevenire un’ulteriore diffusione del jihadismo nella regione.

Gli Interventi degli USA in Somalia (2012-2025)

Dopo il disastro di Mogadiscio nel dicembre del 1994, gli Stati Uniti sono sempre stati molto cauti nell’intervenire in Somalia, e, per oltre un decennio, si sono tenuti a distanza dalla regione. L’ascesa dell’UCI nel 2006 ha portato ad un rinnovato interesse statunitense per la Somalia, e sebbene abbiano fornito un ampio sostegno, tra il 2006 ed il 2008 alle forze Etiopi e successivamente al governo federale somalo e dell’AMISOM, ma solo nel 2012, con l’inizio del secondo mandato di Barack Obama e l’elezione di Hassan Sheikh Mohamud, gli USA sono rientrati direttamente nel conflitto.

Con l’elezione id Hassan Sheikh Mohamud nel settembre 2012, gli Stati Uniti hanno intensificato la propria presenza militare in Somalia nel paese, iniziando una collaborazione diretta con l’AMISOM e le forze governative. Fino a quel momento gli USA si erano limitati ad addestrare e fornire armi alla Somalia e AMISOM, ma dal 2012 in poi, le forze amate USA, iniziarono ad intervenire direttamente contro Al-Shabaab. Il secondo mandato presidenziale di Obama fu caratterizzato da un massiccio utilizzo dei droni in operazioni belliche, sia in medio oriente e Afghanistan, ma anche in Somalia.

La partecipazione attiva degli USA alla guerra contro i movimenti islamici somali, portò nel 2014 all’uccisione di Ahmed Abdi Godane, leader di Al-Shabaab, causando una temporanea disorganizzazione all’interno del gruppo. Il suo successore, Ahmad Umar è tuttavia riuscito a riorganizzare e rafforzare Al-Shabaab portando a una ripresa delle offensive jihadiste.

Nel 2016 inizia l’era Trump, promuovendo un approccio più aggressivo nei confronti del terrorismo islamico. L’effetto della nuova politica è che dal 2017, il Pentagono ha ampliato l’autorizzazione all’uso della forza letale, aumentando in modo esponenziale il numero di raid aerei e operazioni speciali colpendo decine di obiettivi strategici, che però, spesso, come successo anche in epoca Obama, coinvolsero obbiettivi civili.

Sul finire del primo mandato presidenziale, nell’autunno del 2020, l’amministrazione Trump ha ordinato il ritiro della maggior parte delle truppe statunitensi dalla Somalia, pur mantenendo la capacità di eseguire attacchi aerei e operazioni di intelligence dalla vicina Kenya e da basi nel Golfo.

Il cambio della guardia tra Trump e Biden portò gli USA a riconsiderare la propria strategia militare in Somalia e nel 2022, il presidente ha approvato la reintroduzione di truppe speciali nel paese per rafforzare le forze locali e continuare le operazioni contro Al-Shabaab.

Tra il 2022 e il 2023 gli USA i raid aerei ed attacchi mirati da parte degli USA contro obiettivi strategici legati ad Al-Shabaab sono continuati senza alcun tipo di rallentamento, e anzi, con una certa intensificazione rispetto al 2021 quando il ritiro delle forze speciali dal paese voluto da Trump, aveva ridotto notevolmente la capacità operativa degli USA.

Nel gioco delle parti tra ISIS e al-Shabaab, la diminuzione della capacità operativa e logistica di al-Shabaab porta ad una nuova fase di crescita dell’ISIS che, nel 2024 è tornato ad essere oggetto d’interesse prioritario per le forze militari somale e statunitensi, richiedendo un coordinamento più stretto tra Washington e Mogadiscio e nel 2025, la nuova amministrazione Trump, a inaugurato la propria stagione militare, con un raid aereo che tra gennaio e febbraio, secondo quanto comunicato dallo stesso Trump, ha portato alla capitolazione di alcuni leader dell’ISIS somalo.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

Storia personale della guerra in Somalia – Igiaba Scego – Internazionale
Italia e Somalia – Ambasciata d’Italia Mogadiscio
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Le guerre civili somale, USAx Somalia (parte 3)

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questa serie di 3 articoli il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende della guerra civile somala, dagli anni 90 ad oggi, con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo della comunità internazionale e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Gli Interventi degli USA in Somalia (2012-2025)

Dopo il disastro di Mogadiscio nel dicembre del 1994, gli Stati Uniti sono sempre stati molto cauti nell’intervenire in Somalia, e, per oltre un decennio, si sono tenuti a distanza dalla regione. L’ascesa dell’UCI nel 2006 ha portato ad un rinnovato interesse statunitense per la Somalia, e sebbene abbiano fornito un ampio sostegno, tra il 2006 ed il 2008 alle forze Etiopi e successivamente al governo federale somalo e dell’AMISOM, ma solo nel 2012, con l’inizio del secondo mandato di Barack Obama e l’elezione di Hassan Sheikh Mohamud, gli USA sono rientrati direttamente nel conflitto.

Con l’elezione id Hassan Sheikh Mohamud nel settembre 2012, gli Stati Uniti hanno intensificato la propria presenza militare in Somalia nel paese, iniziando una collaborazione diretta con l’AMISOM e le forze governative. Fino a quel momento gli USA si erano limitati ad addestrare e fornire armi alla Somalia e AMISOM, ma dal 2012 in poi, le forze amate USA, iniziarono ad intervenire direttamente contro Al-Shabaab. Il secondo mandato presidenziale di Obama fu caratterizzato da un massiccio utilizzo dei droni in operazioni belliche, sia in medio oriente e Afghanistan, ma anche in Somalia.

La partecipazione attiva degli USA alla guerra contro i movimenti islamici somali, portò nel 2014 all’uccisione di Ahmed Abdi Godane, leader di Al-Shabaab, causando una temporanea disorganizzazione all’interno del gruppo. Il suo successore, Ahmad Umar è tuttavia riuscito a riorganizzare e rafforzare Al-Shabaab portando a una ripresa delle offensive jihadiste.

Nel 2016 inizia l’era Trump, promuovendo un approccio più aggressivo nei confronti del terrorismo islamico. L’effetto della nuova politica è che dal 2017, il Pentagono ha ampliato l’autorizzazione all’uso della forza letale, aumentando in modo esponenziale il numero di raid aerei e operazioni speciali colpendo decine di obiettivi strategici, che però, spesso, come successo anche in epoca Obama, coinvolsero obbiettivi civili.

Sul finire del primo mandato presidenziale, nell’autunno del 2020, l’amministrazione Trump ha ordinato il ritiro della maggior parte delle truppe statunitensi dalla Somalia, pur mantenendo la capacità di eseguire attacchi aerei e operazioni di intelligence dalla vicina Kenya e da basi nel Golfo.

Il cambio della guardia tra Trump e Biden portò gli USA a riconsiderare la propria strategia militare in Somalia e nel 2022, il presidente ha approvato la reintroduzione di truppe speciali nel paese per rafforzare le forze locali e continuare le operazioni contro Al-Shabaab.

Tra il 2022 e il 2023 gli USA i raid aerei ed attacchi mirati da parte degli USA contro obiettivi strategici legati ad Al-Shabaab sono continuati senza alcun tipo di rallentamento, e anzi, con una certa intensificazione rispetto al 2021 quando il ritiro delle forze speciali dal paese voluto da Trump, aveva ridotto notevolmente la capacità operativa degli USA.

Nel gioco delle parti tra ISIS e al-Shabaab, la diminuzione della capacità operativa e logistica di al-Shabaab porta ad una nuova fase di crescita dell’ISIS che, nel 2024 è tornato ad essere oggetto d’interesse prioritario per le forze militari somale e statunitensi, richiedendo un coordinamento più stretto tra Washington e Mogadiscio e nel 2025, la nuova amministrazione Trump, a inaugurato la propria stagione militare, con un raid aereo che tra gennaio e febbraio, secondo quanto comunicato dallo stesso Trump, ha portato alla capitolazione di alcuni leader dell’ISIS somalo.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

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DeepSeek ha fatto scoppiare la bolla IA?

Che prima o poi sarebbe successo, tutto il mondo lo sapeva, ma così presto e così bene nessuno se lo aspettava. Con queste parole si apre Giai Phong, di Eugenio Finardi, una canzone che parla della guerra del Vietnam, inquadrandola per quella che era realmente, una guerra civile alimentata da interessi stranieri. E personalmente trovo che sia un ottima “metafora” per riassumere ciò che è successo negli ultimi giorni nel panorama tech e finanziario, legato alle IA.

La mattina del 20 gennaio 2025 la startup cinese Deepseek, fondata da Liang Wenfeng, classe 1985, ha lanciato il nuovo modello R1, un modello linguistico ad alte prestazioni in grado di competere, e secondo alcuni persino più performante, di ChatGPT 4o di OpenAI, il colosso statunitense leader del settore fondato da Sam Altman.

Le performance di DeepSeek sono state effettivamente sorprendenti e questo è stato visto come un campanello d’allarme per molti investitori, poiché questo modello sembrerebbe essere stato sviluppato, addestrato e attualmente alimentato, con finanziamenti nettamente inferiori a quelli richiesti da ChatGPT.

Da qui due domande: Quello delle IA è davvero, come si temeva, una bolla pronta ad esplodere e DeepSeek ha acceso la miccia?

Il mercato delle IA

Il mercato delle IA si compone di diversi elementi di cui le società IA che stanno monopolizzando il dibattito pubblico, sono in realtà solo la punta dell’Iceberg, mentre più in profondità, ci sono almeno due segmenti di mercato, il primo, forse il più dibattuto, è quello legato all’hardware in particolare aziende produttrici di GPU e più a monte il mercato dei chip logici e microprocessori, che comprende aziende come AMD, Nvidia, e TMSC. L’altro grande segmento invece, forse quello più profondo, è legato ai dataset, i pacchetti di dati, i database, fondamentali per l’addestramento delle IA, in questo senso, coinvolge aziende come Oracle e Snowflake Frasnk Slootman.

Scavando ancora più in profondità emergono almeno altri due segmenti di mercato, quello energetico, fondamentale per il funzionamento dei calcolatori e dei server dati, e quello delle materie prime, fondamentale quest’ultimo per la produzione di Chip. E, visto che le materie prime, le aziende che producono microprocessori e le società che utilizzano GPU su larga scala, non condividono propriamente la stessa collocazione geografica, il settore trasporti viene coinvolto in maniera trasversale, in particolare il trasporto marittimo dall’Asia all’America che quindi rende anche il canale di Panama, un target strategico per il mercato delle IA.

Il lancio di DeepSeek R4 ha causato un vero e proprio terremoto finanziario, facendo crollare diversi titoli quotati a WallStreet, per lo più titoli di aziende vicine ad OpenAI e fortemente interconnesse con il mercato statunitense delle IA, e questo terremoto ha spinto molti a chiedersi se la temuta bolla stesse per esplodere.

Tra i molti che hanno investito, in vari asset legati al settore, vi è anche Warren Buffet, uno dei più celebri e importanti investitori, soprannominato l’Oracolo di Omaha per la sua incredibile abilità nell’intuire e prevedere l’evoluzione dei mercati finanziati, e ad Ottobre 2023, Warren Buffet, o più precisamente la Berkshire Hataway, la sua società di investimento, ha acquisito una quota del 6,46% di Snowflake Frank Slootman, stimando una crescita del 200% entro il 2027.

Snowflake Frank Slootman, come anticipato, è una società che si occupa sostanzialmente di dati, fornendo servizi id archiviazione e analisi basati su cloud, e generalmente definiti data as a service.

Non solo Hatawey, ma anche Morgan Stanley, JPMorgan e altre banche di investimento, nel quarto trimestre del 2023 e nel primo trimestre del 2024, hanno fatto a gara per accaparrarsi una quota di Snowflake e altre società specializzate in archiviazione e analisi dei dati. Il motivo è che queste società gestiscono una materia prima fondamentale per lo sviluppo delle IA, ovvero i dati.

La potenza di calcolo, per quanto anch’essa essenziale, per i grandi modelli linguistici, è invece sempre meno centrale, perché grazie ai nuovi processi di sintesi e distillazione dei dati, è possibile sviluppare modelli estremamente verticali, in grado di performare meglio dei grandi modelli in un caso d’uso specifico, richiedendo una potenza di calcolo nettamente inferiore.

Questo concetto in realtà era già emerso nei mesi scorsi con l’arrivo di modelli più compatti e verticali, in grado di girare localmente, ma DeepSeek ha alzato l’asticella, proponendo R4, un LLM, un grande modello linguistico, che basa il proprio funzionamento sulla distillazione dei dati, realizzando in sostanza un grande modello che è la summa di diversi modelli specializzati, tutti sotto un unico ombrello.

L’effetto, un IA che apparentemente ha stravolto il mercato e fatto tremare wall street, ma se siamo qui a parlarne, evidentemente non è solo questo e sotto c’è dell’altro.

Cosa ha scosso realmente Wall Street?

Un IA cinese, più economica di Chat GPT fa il proprio debutto, e Wall Street va in crisi, almeno in apparenza. Se si guarda ai vari titoli finanziari si osserverà che in realtà ad essere stati colpiti dallo scossone DeepSeek, sono state prevalentemente società di hardware, AMD, Nvidia, TSMC, società che si trovano sotto il fuoco incrociato di Cina e USA. Da un lato col divieto di commercializzare i chip di queste società in Cina, e dall’altro con l’amministrazione Trump, sempre più orientata a premiare chi produce in USA e penalizzare chi importa negli USA, e la maggior parte delle società coinvolte nella “crisi” importano negli USA, producono anche, ma principalmente importano. Società come Snowflake Frank Slootman o Oracle, legate all’archiviazione dei dati invece, non hanno subito alcun contraccolpo.

Non solo, a pochi giorni dalla crisi, tra 27 e 28 gennaio, il presidente Trump, ha annunciato che potrebbe portare i dazi nel settore chip, anche al 100%. Ipotesi che era nell’aria già da tempo e che ora sembra essere stata ufficialmente ufficializzata, segnando un duro colpo a TSMC, la holding di Taiwan, leader del settore chip, che fornisce microprocessori e chip logici all’intero pianeta. Azienda contro la quale Trump si era già scagliato la scorsa estate, in piena campagna elettorale, quando tra le altre cose propose che Taiwan dovesse pagare gli USA per la protezione ricevuta.

è dunque solo una coincidenza? una sovrapposizione di fattori, che ha portato Deepseek a debuttare poche ore prima dell’insediamento di Donald Trump alla casa bianca, e ha portato ad un crollo del mercato IA, a circa una settimana dal suo insediamento? Ovviamente no.

In realtà i due scenari non si escludono a vicenda, e anzi, si completano e rafforzano a vicenda.

Da un lato DeepSeek, ha messo in evidenza l’ondata speculativa legata agli investimenti sulle IA, portando così ad un rallentamento dei finanziamenti globali in un settore che ha assorbito più risorse economiche di quante potesse effettivamente utilizzarle, detto più semplicemente, ha sprecato molte risorse finanziarie, attraverso innumerevoli progetti IA senza alcuna reale utilità e per i quali non c’era alcuna domanda.

La bolla IA è esplosa? Esploderà?

Da quando nel 2022 OpenAI ha presentato al mondo la prima versione di ChatGPT, in molti si chiedono se sia una bolla destinata ad esplodere o se invece rappresenti il prossimo passo per lo sviluppo tecnologico, e come è stato negli anni 90 per la bolla dei “dot com”, un ondata speculativa che vide l’apparizione di innumerevoli siti web, che puntavano ad usare la rete per cambiare il mondo, alla fine, solo pochi di quei siti sono sopravvissuti, solo pochi di quegli investimenti hanno realmente fruttato, mentre milioni di altri andavano in fumo portando con se miliardi di dollari.

Lo stesso sta accadendo per il mercato delle IA, e DeepSeek, non ha fatto altro che spingere sull’acceleratore, mentre dall’altra parte OpenAI (per sua stessa ammissione) procede ancora a rallentatore.

Nell’estate 2024 Sam Altman, founder e CEO di OpenAI aveva infatti annunciato che la tecnologia in loro possesso era molto più avanzata di quanto non sembrasse dai software commercializzati, ma, preferivano rilasciarla per gradi perché il mondo non era pronto, e soprattutto, per evitare un terremoto finanziario. Quello stesso terremoto che Altman ha cercato di evitare tuttavia, alla fine è arrivato comunque, innescato da DeepSeek, uno dei principali rivali asiatici di OpenAI.

Un rivale che lo stesso Sam Altman, considera impressionante, soprattutto per il rapporto qualità prezzo.

Cina valuta cessione di TikTok USA ad Elon Musk

Secondo voci non ufficializzate, la Cina, più precisamente ByteDance, la holding partecipata dal governo cinese e proprietaria di Tik Tok starebbe valutando un accordo per la cessione dei servizi di Tik Tok in USA ad Elon Musk, già proprietario del social X (ex Twitter). A tale proposito, sembrerebbe che dalla Cina siano arrivate delle smentite, su tale accordo, ma anche questa smentita non è propriamente ufficiale in quanto non parte da ByteDance. In altri termini al momento si sta parlando di una vendita che non è stata ne confermata ne smentita dai diretti interessati.

Secondo voci non ufficializzate, la Cina, più precisamente ByteDance, la holding partecipata dal governo cinese e proprietaria di Tik Tok starebbe valutando un accordo per la cessione dei servizi di Tik Tok in USA ad Elon Musk, già proprietario del social X (ex Twitter). A tale proposito, sembrerebbe che dalla Cina siano arrivate delle smentite, su tale accordo, ma anche questa smentita non è propriamente ufficiale in quanto non parte da ByteDance. In altri termini al momento si sta parlando di una vendita che non è stata ne confermata ne smentita dai diretti interessati.

Cerchiamo allora di capire cosa c’è dietro e se potrebbe avere un senso un accordo di tale natura, ossia il trasferimento dei servizi in USA di Tik Tok ad una società USA di proprietà di un uomo estremamente vicino al presidente Trump, al punto da essere definito da molto un “presidente ombra” o se si tratta di una bufala volta ad alimentare le preoccupazioni di chi vede in Musk un monopolista e spietato capitalista, con tratti sempre più vicini a quelli delle grandi corporazioni dei romanzi distopici.

Tik Tok e il possibile bando dagli USA

Il popolare social cinese, che ha rivoluzionato il modo di fare video e di comunicare, già da qualche anno si trova in una posizione controversa, e molti governi hanno bandito la piattaforma dai rispettivi paesi poiché fortemente compromessa con il governo cinese, sollevando dubbi sulla sicurezza e l’utilizzo dei dati che vengono raccolti dalla piattaforma, perché si sa, se i dati vengono raccolti e analizzati dai cinesi è un pericolo, se a farlo è una società statunitense, in quel caso non c’è nessun pericolo.

Il bando di Tik Tok dal mercato cinese, è sul tavolo dal2’agosto 2020, quando, l’allora presidente uscente Donald Trump, emise un ordine esecutivo con cui richiedeva la vendita delle operazioni statunitensi di Tik Tok e WeChat, rispettivamente popolare piattaforma di video sharing e di messaggistica, di proprietà di colossi cinesi. Se TikTok è di proprietà di ByteDance, WeChat è invece di proprietà di Tencent, holding cinese quotata in borsa ad Hong Kong, con un valore di circa 449 Milioni di dollari USA.

Secondo l’allora presidente uscente, c’era il timore che tali piattaforme potessero condividere dati degli utenti USA con il governo Cinese, rappresentando pertanto una pericolosa minaccia alla sicurezza nazionale. L’ordine esecutivo di Trump è stato possibile sulla base dell’International Emergency Economic Powers Act, tuttavia, la successiva elezione di Joe Biden alla presidenza, ha portato ad un rallentamento della vicenda, di fatto nel giugno 2021, l’allora presidente eletto Biden, ha revocato l’ordine esecutivo del suo predecessore, affidando allo stesso tempo, la verifica dei rischi legati a suddette applicazioni al Dipartimento per il commercio.

Dal 2021 al 2024 il bando di Tik Tok è stato sospeso e nel frattempo la posizione di Trump sulla piattaforma cinese è fortemente cambiata, dopo il Ban da Facebook e il Ban da Twitter, salvo poi reintegrazione dopo l’acquisizione di Twitter da parte di Musk, l’allora ex presidente Donald Trump, è diventato un assiduo e regolare utilizzatore della piattaforma cinese, emulato in questa linea dalle destre di tutto il mondo che ci hanno deliziato con la magia degli italici Berlusconi e Salvini in live su Tik Tok.

Tik Tok si è rivelata, soprattutto negli anni della pandemia, una straordinaria piattaforma di comunicazione, nonché terreno fertile per la proliferazione di fake news e deep fake.

RESTRICT Act

Se il bando politico di Tik Tok dagli USA, nel 2021 sembra essere sfumato, o comunque ridimensionato, nel 2023 la piattaforma di Video Sharing ha iniziato una nuova trafila, questa volta giudiziaria, legata al RESTRICT Act (Restricting the Emergence of Security Threats that Risk Information and Communications Technology), una legge che conferiva al governo federale degli USA ampi poteri in termini di limitazione e bando di tecnologie straniere dagli USA, se queste rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale.

Tale legge si applica anche a piattaforme social, come X, Meta e ovviamente TikTok, e se le prime due sono statunitensi, la terza era ed ancora oggi di proprietà di una multinazionale Cinese, e per molti è stata costruita ad hoc per permettere al governo di intervenire e limitare la crescente popolarità di TikTok in USA.

Per quanto riguarda la sicurezza nazionale, molti governatori USA hanno vietato, nei propri stati, l’utilizzo di TikTok, e altre applicazioni social e di messaggistica, come ad esempio Telegram, dai dispositivi governativi, ovvero tablet, pc e smartphone di funzionari pubblici. Quindi si, in quanto ex presidente, ed ora presidente eletto, in alcuni stati, Trump non potrebbe usare Tik Tok, poiché il suo utilizzo rappresenterebbe una possibile minaccia alla sicurezza nazionale. Tik Tok infatti si teme possa registrare e condividere una serie di informazioni aggiuntive, dette metadata, come ad esempio le informazioni sulla posizione, che potrebbero rendere nota la posizione del presidente. Non proprio il massimo della sicurezza se il presidente è per qualsiasi ragione, per ragioni di sicurezza, in una località segreta.

La reazione di Tik Tok

Fin dal 2022 ByteDance, ha cercato di dissipare le preoccupazioni del governo statunitense, e non solo, sulla sicurezza di Tik Tok, annunciando prima il Project Texas, un progetto che trasferiva i dati degli utenti statunitensi negli stati uniti, in server gestiti da Oracle, società statunitense fondata nel 1977 e quotata in borsa al NYSE con sede a Santa Clara. Ha avviato un centro di trasparenza che permette ai funzionari USA di esaminare ogni operazione di TikTok in USA.

Insomma, ByteDance affidava, con il progetto Texas ed il centro trasparenza, i dati sensibili ad una società USA, dava al governo USA libero accesso a quei dati e le operazioni di TikTok, precludendosi l’accesso a quegli stessi dati. Ma questo agli USA non sembra bastare e al congresso si è continuato a discutere di un possibile bando di TikTok dal mercato USA.

Interesse nazionale o sicurezza?

Sulla base dei dati e le informazioni note, viene quindi da chiedersi se tale dibattito abbia una rilevanza in termini di sicurezza nazionale o di interesse nazionale, possono sembrare concetti analoghi, ma sono profondamente diversi, se infatti, come è “dimostrato” dall’analisi dei dati e delle operazioni di Tik Tok, non sembra esserci un rischio reale di trasferimento dei dati sensibili al governo cinese, vi è invece un serio rischio di manipolazione, inquinamento e alterazione dell’informazione, che può indirizzare l’opinione pubblica su strade estremamente pericolose.

A tale proposito, TikTok è uno dei social mediaticamente più potenti in circolazione, con poche limitazioni in merito a tematiche delicate, ed è già ampiamente avviato su una strada che, da qualche anno è stata percorsa da X e si appresta ad essere percorrere anche Meta, che di recente ha annunciato lo stop al fact-checking e alle policy di inclusività, garantendo maggiore “libertà” anche a contenuti controversi, di natura politica e sociale.

Tornando ai dati, essi hanno un valore immenso e se risultano estremamente pericolosi se gestiti da una società cinese, una società di uno stato con cui gli usa sono in pino conflitto commerciale, diventano estremamente preziosi se gestiti dagli stessi USA, soprattutto se vicina al governo.

Vi è quindi una forte attenzione per la piattaforma estremamente rilevante in termini di interesse nazionale, e allo stesso tempo si può osservare come, a parità di attività, la piattaforma cinese sia maggiormente controllata e tenuta di analoghe statunitensi. Differenza di trattamento che potrebbe essere alla base dell’ipotesi di trasferire ad una società statunitense i servizi USA, e, tra le tante, quale società migliore della media company dell’uomo più potente e influente d’America?

Il paradosso di Trump

Va riconosciuto a Trump il merito, se così lo si può definire, di aver compreso per primo, il potenziale politico dei dati in possesso delle media company, e di essere stato tra i primi, nel 2020 a causa anche della trasformazione dei contenuti avvenuti durante la prima fase della pandemia, a vedere in TikTok una possibile minaccia, e, terminato il mandato presidenziale, una straordinaria risorsa.

Oggi Trump gode di un enorme seguito su TikTok, e molti analisti ritengono che è stato proprio tale seguito a permettere all’ex presidente di tornare alla casa bianca con le elezioni di novembre 2024, grazie a Tik Tok, Trump mantiene un contatto continuo e costante con il proprio elettorato, in particolare le frange più radicali che nel tempo sono state o si sono allontanate da altri social.

Per Trump quindi è di vitale importanza mantenere TikTok negli USA, ma il processo avviato nell’agosto del 2020 con il suo stesso ordine esecutivo, anche se rallentato, non si è fermato, ed ora il presidente si ritrova, ad inizio mandato, nella condizione di dover trovare una soluzione ad un problema creato da lui stesso alla fine del suo precedente mandato.

L’ipotesi Musk

L’insieme di questi fattori ed elementi, potrebbe essere alla base dell’ipotesi di una cessione dei servizi USA di TikTok ad Elon Musk, come anticipato, il patron di X e Tesla è estremamente vicino al presidente, qualcuno direbbe troppo vicino al presidente, inoltre avrà un ruolo chiave nel prossimo governo Trump, ed è proprio quella vicinanza una possibile scappatoia per TikTok di evitare il bando dagli USA.

Tale soluzione tornerebbe sicuramente vantaggiosa per Bytedance, che comunque dalle operazioni negli USA ha un notevole guadagno, su scala globale, secondo i dati annuali pubblicati da Bytredance, Tik Tok nel 2023 ha registrato ricavi superiori ai 120 miliardi di dollari, in crescita dispetto agli 80 miliardi del 2022 e secondo le proiezioni, nel 2024 potrebbero essere superiori ai 200 miliardi. Gli analisti concordano nell’osservare che tale crescita è legata soprattutto alla sempre maggiore presenza della piattaforma in occidente, in USA ed Europa.

L’accordo sarebbe vantaggioso anche per Musk, il cui social X nonostante la forte riduzione dei costi, continua ad avere profonde difficoltà economiche, principalmente per la fuga di numerosi investitori a seguito dell’acquisizione di twitter da parte proprio di Musk e una partnership tra X e Tik Tok, potrebbe riportare ad X parte degli investitori e colmare il divario tra X e il gruppo Meta.

Inoltre sarebbe vantaggiosa per Trump, che non perderebbe il suo principale strumento di comunicazione con gli elettori, e no, il suo social “truthsocial” non fa testo, l’utenza di Truth, oltre ad essere “poca” è anche poco attiva, inoltre è formata per lo più da sostenitori di Trump, è quindi sicuramente utile per mantenere i contatti con la propria base, ma totalmente inutile se si parla di espandere il consenso. Cosa che invece con TikTok è molto più semplice.

I vantaggi però non finiscono qui, oltre alla possibilità di evitare il bando dal mercato USA per TikTok, Bytedance potrebbe sfruttare la partnership con Musk per un ulteriore slancio in caso di quotazione in borsa. La holding cinese al momento non è quotata anche se nel 2022 prima sembrava essere pronta al debutto sul mercato.

I problemi di Musk pigliatutto

La possibile cessione dei servizi USA di TikTok ad Elon Musk se da un lato presenta numerosi vantaggi per tutti gli attori coinvolti, in realtà presenta anche diverse problematiche. E nessuna di queste riguarda il ruolo da monopolista di Musk, a tale riguardo l’acquisizione di Instagram e l’avvio di Threads da parte di Meta, rappresentano un significativo precedente. Musk potrebbe acquisire “TikTok USA” senza aver alcun problema con l’antitrust, tuttavia, come osservano i critici e detrattori del miliardario, sempre più simile ad un “Charles Foster Kane” dei nostri tempi, si ritroverebbe nella posizione di poter influenzare ancora di più l’opinione pubblica, almeno negli USA.

Ed è questo il problema forse più grande di un possibile accordo tra Musk e Bytedance, ma non solo. Se l’accordo dovesse rivelarsi reale e Bytedance riuscisse con questo accordo ad evitare il bando di TikTok dagli USA, ci verrebbe rivelata una grande e terribile verità, ossia il presidente Trump è irrilevante, se si vogliono fare affari negli e con gli USA bisogna negoziare con Musk, e negoziare per Musk ha un significato particolare, poiché in un negoziato ognuna delle due parti cede qualcosa finché non si giunge ad un punto d’accordo, un compromesso, ma Musk non è tipo da compromesso, la sua carriera e la sua storia sono segnati da soluzioni radicali, tutto o niente. C’è allora da chiedersi quanto è esteso questo tutto.

Tutta fuffa o …

Per quanto riguarda la possibile cessione o acquisizione, che dir si voglia, dei servizi USA di TikTok, ad Elon Musk, al momento c’è un fitto velo di incertezza, con dichiarazioni vaghe, informazioni non ufficiali e smentite più o meno ufficiali.

In un intervento rilasciato da TikTok a Bbc News, la società ha dichiarato di “non poter commentare pura fantasia”. Una smentita quindi, che però, purtroppo, vale poco o nulla, visto che eventuali negoziati relativi al futuro di TikTok in USA, in realtà, non riguardano TikTok, ma ByteDance.

Come è stato anche per il Project Texas infatti, la decisione di delocalizzare i dati degli utenti USA nei server Oracle, non è stata presa da Tik Tok, ma dalla holding che la controlla al 100%, ovvero ByteDance, che sulla vicenda dei servizi USA di TikTok, non si è ancora espressa, e probabilmente non lo farà.

Sorprende anche il grande silenzio di Musk, che solitamente non lascia trascorrere troppo tempo prima di dire la sua, soprattutto su un qualcosa che lo riguarda in prima persona. Guardiamo ad esempio all’ipotesi di accordo tra Starlink e il governo italiano, a poche ore dalla circolazione delle prime indiscrezioni sono intervenuti tutti gli attori coinvolti, in questo caso invece, Musk tace. Che questo silenzio sia indicativo di un accordo effettivamente in lavorazione? O forse il miliardario sta finalmente recuperando qualche ora di sonno? Per il momento è difficile a dirlo.

Trump dichiara ANTIFA un organizzazione terroristica, da non confondere con l’Antifascismo.

Washington DC erano le 18:23, (ora italiana) quando il presidente della prima democrazia al mondo, ha dichiarato che “Gli Stati Uniti d’America designeranno ANTIFA come organizzazione terroristica”, un tweet di Donald Trump che non lascia molto spazio all’immaginazione, ma che può può facilmente essere frainteso.

The United States of America will be designating ANTIFA as a Terrorist Organization.
-Donald Trump, 31 Maggio 2020…

Washington DC erano le 18:23, (ora italiana) quando il presidente della prima democrazia al mondo, ha dichiarato che “Gli Stati Uniti d’America designeranno ANTIFA come organizzazione terroristica”, un tweet di Donald Trump che non lascia molto spazio all’immaginazione, ma che può può facilmente essere frainteso.

Chiariamo una cosa quindi, Trump, non ha detto che gli USA tratteranno l’antifascismo come un organizzazione terroristica, ma ha ha scritto che gli USA tratteranno ANTIFA come un organizzazione terroristica.

Può sembrare la stessa cosa, ma non è assolutamente così, ANTIFA sta all’antifascismo come Al Qaeda sta all’Islam o come il KKK stava alla chiesa cattolica, sono cose diverse, sono cose diverse, la prima, ANTIFA, è una rete spontanea, la seconda, l’antifascismo, un Ideologia, e in quella rete spontanea, ci sono dei terroristi che, già in passato hanno compiuto attentati, così come ci sono persone con un ideale.

In ogni caso, Trump, non ha reso e non intende rendere l’antifascismo illegale, o considerare gli antifascisti dei terroristi, i soli che verranno considerati terroristi saranno coloro che, in nome dell’antifascismo, piazzeranno progetteranno o compiranno attentati.

Cerchiamo allora di mettere un po’ di ordine e capire cosa volesse dire Trump con quelle parole e perché le ha dette.

Che cos’è ANTIFA?

Qualcuno potrebbe giustamente chiedersi, cos’è ANTIFA? e la risposta più semplice è che ANTIFA, abbreviazione di anti fascist action o meglio si tratta di un movimento politico, apartitico, che quindi non si identifica in nessun partito politico, generalmente associata a valori di sinistra o anarchici, anche se tra padri del movimento vi erano numerosi uomini appartenenti anche e soprattutto ad altri ambienti politici, come la destra liberale.

L’intento di ANTIFA questo movimento di ispirazione antifascista è fondamentalmente uno, impedire, denunciare e opporsi alla nascita di movimenti di estrema destra di ispirazione fascista, che, al di la del nome del partito politico italiano degli anni venti, identifica una ben precisa ideologia politica di estrema destra sovranista e conservatrice che presenta al proprio interno alcuni elementi di socialismo nazionalista.

ANTIFA e Antifascismo

ANTIFA è un organizzazione di matrice antifascista, che quindi si ispira al manifesto politico dell’antifascismo scritto in italia nel 1925, redatto da Benedetto Croce e firmato, tra gli altri, da uomini del calibro di Giovanni Gentile.

Tuttavia, tra l’ispirazione antifascista e ciò che ANTIFA è effettivamente, c’è un intero mondo. Insomma, ANTIFA non è l’antifascismo, così come il partito comunista dell’unione sovietica non è il comunismo. All’atto pratico ANTIFA è un organizzazione spontanea, un collettivo, riconosciuto ufficialmente in alcuni paesi, come gli USA, ma che non ha un proprio organico o una propria sede ufficiale e in particolare, negli USA, già dal 2017, ANTIFA è sotto l’attenzione di diverse agenzie federali.

ANTIFA negli USA

Negli USA il movimento ANTIFA ha tratti molto radicali, e vede tra i propri militanti numerosi simpatizzanti dell’estrema sinistra ed anarchici, uomini e donne mossi da precise idee politiche antifasciste, anticapitaliste e anticlassiste che, non trovano spazio nella politica ufficiale fortemente centrista incarnata dai due grandi partiti Democratico e Repubblicano.

Negli ultimi anni, in particolare dall’elezione di Donald Trump, il movimento ANTIFA negli USA ha denunciato uno slittamento della politica nazionale, soprattutto negli ambienti repubblicani, verso l’estrema destra, slittamento incarnato dal trionfo del sovranismo di Trump e una politica federale ed estera sempre più protezionista e aggressiva. Questo spostamento ha fatto si che il movimento di ispirazione antifascista aumentasse la propria attività e il proprio attivismo, organizzando numerose manifestazioni, e in alcuni casi ricorrendo ad azioni violente, che hanno attirato l’attenzione delle agenzie federali per la sicurezza interna, in particolare l’FBI.

All’apice dei disordini partiti da Minneapolis dopo la morte dell’afroamericano George Floyd, causata da un agente di polizia, il movimento ANTIFA di Minneapolis, già noto ai federali per il proprio temperamento, si è reso protagonista delle manifestazioni, e degli scontri con le forze dell’ordine, provocando, tra le altre cose, atti vandalici e criminali, il tutto elevando una dialettica per cui la violenza della polizia contro le rappresaglie succedute all’omicidio di George Floyd, venivano associate al fascismo.

My 2 Cent

Ho voluto riassumere eventi e concetti così da gettare le basi per quelle che saranno le mie personali conclusioni.

Appena ho letto la notizia ho subito pensato “ok, Trump ha reso illegale l’antifascismo negli USA” in realtà non è proprio così, ANTIFA e Antifascismo, come specificato, sono cose diverse, anche se, spesso associate impropriamente, per intenderci, ANTIFA sta all’Antifascismo come Al Qaeda sta all’Islam e in teoria, condannare ANTIFA non significa condannare l’Antifascismo.

In teoria, all’atto pratico ANTIFA è percepito come l’incarnazione stessa dell’antifascismo e dunque, dichiarare ANTIFA un organizzazione terroristica, significa puntare il dito contro l’antifascismo in generale. Questo non significherà che chiunque si dichiarerà antifascista negli USA verrà arrestato e portato in prigioni come Guantanamo, o che si ricorrerà al Patrioct ACT per arrestare antifascisti e organizzazioni antifasciste nel paese, del resto, negli USA non si viene arrestati perché islamici, ma, e c’è un enorme ma, se a livello giuridico ANTIFA e Antifascismo sono cose separate, per l’opinione pubblica non è così, per l’opinione pubblica ANTIFA è l’Antifascismo, e questo è un grosso problema.

Apro una parentesi sul patrioct act, per chi non sapesse di cosa si tratta, è una legge speciale varata dopo l'11 settembre 2001 che attribuisce alle forze dell'ordine poteri speciali in caso di terrorismo o minacce alla sicurezza nazionale, e per poteri speciali si intende che i sospettati possono essere interrogati senza un avvocato, possono essere arrestati senza mandato, possono essere trattenuti in cella per più di 24 ore, inoltre, le forze dell'ordine non hanno limiti nell'uso della forza. 

Parlando di problemi, forse per i Democratici statunitensi è una fortuna che Bernie Sanders abbia scelto di ritirarsi dalla corsa alle presidenziali, poiché da giovane e ha lo ha ribadito di recente, Sanders si è dichiarato Antifascista, e vista l’impropria associazione tra ANTIFA e antifascismo… ma questa è un altra storia.

Parlando dell’impatto di queste dichiarazioni sull’opinione pubblica, in un momento di grande tensione come questo, in cui ANTIFA si è reso protagonista degli scontri con la polizia a Minneapolis, e numerosi movimenti antifascisti stanno guidando manifestazioni, pacifiche e non, il rischio che queste manifestazioni d’ora in avanti assumano tratti più violenti, non è da escludersi.

Cito i fatti di Minneapolis perché c’è una connessione diretta tra le cose, qualcuno potrebbe pensare che è curioso che, questa dichiarazione di Trump, cada proprio in questo momento, ma la verità è che non è un caso, guardiamo allora al quadro generale.

Mentre il popolo USA protesta contro gli abusi delle forze dell’ordine e della polizia e i manifestanti definiscono Fascisti i poliziotti USA e la polizia reprime le manifestazioni in USA quasi peggio di quanto la non stia facendo la polizia Cinese ad Hong Kong, il presidente Trump, amico dei Sovranisti dichiari di voler trattare ANTIFA come un organizzazione terroristica.

La realtà è che questa dichiarazione, all’atto pratico, non significa nulla, ci sono collettivi ANTIFA negli USA che già ora sono monitorati dall’FBI sospettati di essere terroristi e sovversivi, così come ci sono associazioni di supremachisti bianchi sotto la lente dell’FBI, ma ci sono anche collettivi ANTIFA in cui militano poliziotti, figli di poliziotti, nipoti di militari veterani della seconda guerra mondiale che il fascismo, quello vero, lo hanno combattuto.

Ciò che credo accadrà in seguito a queste dichiarazioni, ha un carattere soprattutto politico, non necessariamente negativo, ma certamente non positivo. Molto probabilmente seguiranno distorte dichiarazioni da parte di politici statunitensi e stranieri, che fingendo di non capire la differenza tra ANTIFA e Antifascismo, punteranno il dito contro l’antifascismo, e questo lo vedo molto probabile soprattutto in paesi come l’Italia. Credo ci sarà maggiore disordine sociale e credo che le manifestazioni negli USA si inaspriranno, soprattutto da parte della polizia.

Per quanto riguarda ANITFA in generale, se i suoi militanti piazzano bombe carta, distruggono e saccheggiano negozi e assaltano centrali della polizia, non serve che il presidente li dichiari pubblicamente terroristici, perché neanche negli USA il presidente è il giudice supremo dello stato, chi commette dei crimini deve essere arrestato e giudicato di fronte alla legge, e nel rispetto della legge. Non dovrebbero esistere eccezioni, o distinzioni, come le eccezioni per i terroristi o presunti tali, ne dovrebbero essere fatti dei distinguo tra le varie organizzazioni criminali di estremisti religiosi o politici.

Con questo cosa voglio dire?

Voglio dire che se un uomo, bianco, entra in una moschea e urla “make america great again” prima di aprire il fuoco e fare una strage, non può essere trattato diversamente da un uomo, di colore, che entra in una chiesa e urla “allah akbar” prima di aprire il fuoco e fare una strage, purtroppo però, queste differenze, soprattutto negli USA ci sono, il colore della pelle o l’orientamento politico, fanno la differenza tra un attentato terroristico e il gesto di un folle.

Conclusioni

In conclusione Trump non ha reso illegale l’antifascismo, ne ha dichiarato di voler rendere illegale l’antifascismo, il dito di Trump è puntato contro un organizzazione, che già ora, e da diversi anni, è sotto l’occhio delle agenzie federali, e che ha compiuto diversi attentati terroristici. ANTIFA non è un organizzazione terroristica, e Trump non ha il potere di trasformare arbitrariamente un movimento politico in un organizzazione terroristica.

Tra l’altro, la propaganda statunitense durante la seconda guerra mondiale, era di matrice antifascista, la missione degli USA era quella di liberare l’europa dal fascismo e dal nazismo, dichiarare illegale l’Antifascismo, significherebbe screditare gli eroi americani che hanno combattuto e sono caduti durante la seconda guerra mondiale e legittimare il nome di Hitler e Mussolini.

Persino Trump, nella sua follia, sa perfettamente che una cosa del genere, probabilmente gli costerebbe una condanna per tradimento.

Chruščëv e la Scarpa all’ONU: Il Giorno che Cambiò la Storia

Nikita Chruščëv ha davvero battuto la scarpa sui banchi dell’ONU? se si, cosa lo ha spinto a tanto e se non è andata così, cosa è successo davvero il 12 ottobre 1960?

Nikita Chruščëv ha davvero battuto la scarpa sui banchi dell’ONU? Sse si, cosa lo ha spinto a tanto e se non è andata così, cosa è successo davvero il 12 ottobre 1960?

Il Contesto: L’assemblea ONU del 12 ottobre 1960 e l’intervento di Sumulong

Era un mercoledì quel 12 ottobre del 1960, quando al palazzo dell’ONU di New York, era in corso la 902a riunione planetaria dell’assemblea generale delle nazioni unite.

Durante questa storica riunione, tra i punti all’ordine del giorno, vi era un intervento del delegato filippino Lorenzo Sumulong, nel quale, si denunciava la condizione sociale e politica dei popoli dell’Europa orientale, che, stando alle dichiarazioni del delegato filippino, riportate fedelmente nei dattiloscritti ufficiali della seduta, erano stati “privati del libero esercizio dei loro diritti civili e politici e che sono stati inghiottiti, per così dire, dall’Unione Sovietica”.

Il delegato filippino non ha scelto casualmente questa riunione per denunciare questi fatti, avrebbe potuto parlarne in qualunque riunione planetaria, ma, la 902a riunione planetaria dell’ONU aveva un qualcosa di unico rispetto a qualsiasi riunione precedente, poiché in sala, quel 12 ottobre, era presente il primo segretario del partito comunista dell’unione sovietica, nonché presidente del consiglio dei ministri dell’unione sovietica, Nikita Sergeevič Chruščëv.

La replica accesa di Chruščëv: Difesa dell’URSS e scontro di visioni

L’intervento del delegato filippino attirò inevitabilmente l’attenzione della delegazione sovietica e di Chruščëv, e, al termine dell’intervento, lo stesso Chruščëv riuscì a conquistare il podio e prendere la parola.

Questo è il momento decisivo, il momento in cui il mito incontra la realtà, che segnò l’inizio dello spettacolo internazionale dai toni decisamente sopra le righe e noto al mondo come l’incidente di battitura della scarpa.

Durante il lungo intervento, il leader sovietico provò in ogni modo a lui consentito di giustificare e definire la politica “interna” dell’unione sovietica, ed è importante sottolineare il termine interna, poiché agli occhi della leadership sovietica si trattava di politica interna, mentre, agli occhi del delegato filippino, i rapporti tra Mosca e altri paesi dell’Unione, erano una questione di politica estera, de facto, Sumulong, e come lui numerosi altri delegati delle nazioni unite, non riconoscevano totalmente l’Unione Sovietica come un unico stato, ma come un insieme di stati autonomi e indipendenti, se pur legati strettamente tra loro da accordi internazionali.

Per Sumulong, l’Unione Sovietica non era diversa nella sostanza dalle Nazioni Unite, tuttavia, questo parallelismo era soltanto teorico e nella pratica, l’Unione Sovietica era un Impero guidato da Mosca, in cui la Russia era una potenza centrale che esercitava il proprio potere in maniera arbitraria su tutte le altre nazioni (non libere) dell’Unione.

Queste argomentazioni, molto forti, provocatorie e in larga parte condivise, sia da quella fetta di mondo non allineata con l’unione sovietica, che da parte delle popolazioni “sottomesse” dall’unione sovietica (e che, alcune parti, totalmente disallineate sia dagli USA che dall’URSS, vedevano come una versione più incisiva e meno subdola dell’analogo imperialismo statunitense) ebbero come effetto, l’escandescenza di Nikita Sergeevič Chruščëv che, in prima battuta osservò che non vi era alcuna limitazione nelle libertà civili e politiche dei cittadini sovietici, rimarcando l’unità dell’Unione Sovietica come nazione, e non come entità sovranazionale, osservando poi che, le diverse realtà che componevano l’unione sovietica, avevano visioni politiche non necessariamente identiche e anzi, in alcuni casi in contrasto tra loro, rimarcando più volte che, la propria corrente politica di appartenenza era in aperto contrasto con la corrente stalinista che lo aveva preceduto alla guida dell’unione.
Insomma, Chruščëv, nel proprio intervento, ricordò al mondo che l’Unione Sovietica era uno stato, con al proprio interno tante nazioni e altrettante correnti politiche, tutte libere anche se inserite all’interno del grande calderone del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, un partito che, aveva al proprio interno correnti più legate all’estrema sinistra, correnti più moderate e persino correnti liberali e di destra, del resto, egli stesso si era fatto promotore nell’URSS di una politica di destatalizzazione che potremmo interpretare come espressione di un comunismo sovietico più liberale e moderato.

Il gesto controverso: Chruščëv si sfila la scarpa

Durante l’intervento molto partecipato, Chruščëv si lasciò trasportare, forse un po’ troppo dalle emozioni, scaldandosi particolarmente e, nell’esprimere in maniera molto forte i propri concetti, le proprie posizioni, e le proprie emozioni, durante le battute finali dell’intervento, Chruščëv iniziò ad agitare violentemente il pugno per poi sfilarsi una scarpa e appoggiarla sul bancone.

In tutto l’intervento, stando a quanto asserisce William Taubman, giornalista statunitense, laureato ad Harvard e vincitore del premio Pulizer, se bene Chruščëv abbia effettivamente sfilato la scarpa e l’abbia poggiata sul bancone, non vi è alcuna prova video, non vi è alcuna immagine o testimone che possa confermare che Chruščëv abbia agitato la scarpa e che l’abbia battuta con forza sul bancone.

Secondo Taubman, la foto storica di Chruščëv che agita la scarpa è un artefatto ed è curioso come quella foto sia effettivamente l’unica foto, non ve ne sono altre, o almeno non ne sono mai state divulgate, pubblicate o distribuite altre, ed è curioso, osserva Taubman, che esiste, una foto identica, che mostra la stessa scena, lo stesso istante, dalla stessa angolazione, un immagine perfettamente sovrapponibile all’immagine della scarpa, in cui, tuttavia, non vi è alcuna scarpa, ma un semplice pugno.

Mistero e Iconicità

L’immagine di Chruščëv che batte la scarpa all’ONU è forse una delle immagini più iconiche e rappresentative del XX secolo, ed è un immagine che porta dietro di se un alone di mistero, poiché letteralmente unica.

Qualcuno ha ipotizzato che in quei pochi istanti altri fotografi erano distratti e che per qualche motivo, le telecamere non erano puntate su Chruščëv, cosa curiosa e abbastanza anomala visto che in quel momento, Chruščëv, leader dell’Unione Sovietica, che era insieme agli USA una delle due super potenze mondiali in quel momento storico, era in piedi, di fronte all’assemblea planetaria delle nazioni unite, impegnato a difendere l’immagine dell’Unione Sovietica.

Va però detto che, secondo la RAI esiste un video che mostra Chruščëv intento ad agitare la scarpa, tuttavia, quel video, dal quale si ipotizza sia stato estrapolato il celebre fotogramma non è di pubblico dominio, ma è nascosto e custodito in gran segreto negli archivi RAI, emittente radiotelevisiva italiana che per qualche motivo, sembrerebbe avere l’unica prova video dell’incidente della scarpa di Chruščëv all’ONU, mentre, in tutti gli altri filmati, Chruščëv agita e poi batte il pungo, e non la scarpa, sul bancone.

Fonti e approfondimento

Kruscev Ricorda
Atti XX convegno partito comunista URSS
Dialogo sulla distensione

NOBUO FUJITA || Il pilota giapponese che bombardò la California

Oggi vi racconterò una storia, la storia di Nobuto Fujita, un pilota giapponese che nel 1942 riuscì a portare a termine due bombardamenti due incursioni aeree sul suolo degli Stati Uniti, riuscendo a colpire la California e l’Oregon, ma andiamo con ordine.

Nel settembre del 1942, nel vivo della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone lanciò un audace attacco sul suolo degli Stati Uniti (meno famoso dell’attacco a Pearl Harbor) in cui riuscirono a bombardare la parte continentale degli USA. Fu l’unico attacco in tutta la guerra in cui gli la parte continentale degli USA fu colpita colpiti dalle forze nemiche.

Le incursioni (due) sono state lanciate da un sottomarino che si trovava a pochi chilometri dal confine tra gli stati di Oregon e California ed ebbero come obbiettivo principale non le città ma i boschi… si avete letto bene, i giapponesi bombardarono i boschi tra California ed Oregon, causando danni alla terra e provocando disagio alla popolazione americana senza però coinvolgere direttamente la popolazione civile, l’attacco era un messaggio, quasi a voler dire “siamo qui e possiamo colpirvi quando vogliamo … paura eh?”.

L’attacco riuscì, almeno sulla carta, ma in termini pratici fu probabilmente il più grande flop mai registrato dall’aviazione giapponese, anche se il panico si diffuse (anche se solo minimamente) e le incursioni furono riportate su alcune testate nazionali, tuttavia, sfortuna volle che i giapponesi non prestarono molta attenzione alle previsioni meteo lanciando l’attacco con condizioni meteorologiche decisamente sfavorevoli ai loro piani.

Detto in soldoni, quel giorno c’era poco vento e questo limitò tantissimo la diffusione degli incendi, inoltre la rapida risposta dal servizio antincendio e gli erronei calcoli sull’altezza da cui sganciare le bombe, ridussero al minimo i danni (un piromane con un accendino e una tanica di benzina probabilmente avrebbe fatto più danni delle due incursioni aeree).

E in effetti, in altre occasioni riuscirono a provocare molti più danni utilizzando la strategia del “palloncino a fuoco”, in pratica si lanciavano migliaia di palloncini che trasportano esplosivi e sfruttando i venti, molti di questi palloncini riuscirono effettivamente a raggiungere l’America del Nord, partendo addirittura dal Giappone.

Nel 1962, molti anni dopo la seconda guerra mondiale, Nobuo Fujita (il pilota giapponese che aveva condotto le due incursioni) fu invitato a visitare la città di Brookings “colpita dai bombardamenti”.
Nobuo Fujita si recò effettivamente a Brookings dopo che il governo USA aveva assicurato al governo giapponese che non sarebbe stato giudicato come un criminale di guerra.

Quando Fujita è arrivato a Brookings ha portato con se l’antica spada da samurai della sua famiglia (circa 400 anni) promettendo seppuku (gettarsi sulla sua spada) come segno di pentimento per gli attacchi che aveva compiuto per la gloria dell’Impero giapponese.

Fortunatamente per Fujita la città di Brookings non ha richiesto Seppuku ma anzi, Fujita ha ricevuto un accoglienza estremamente calorosa da parte dei locali di Brookings. Addirittura nel 1997 ha ricevuto la cittadinanza onoraria della città di Brookins, sfortunatamente per lui, non ha potuto godere a lungo di questo onore perché morì nel 1998 e le sue ceneri furono disperse dalla sua famiglia, tra i boschi vicino Brookins, proprio dove erano cadute le bombe incendiarie sganciate da Fujita nel 1942.

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