Prada compra Versace: Nuovo capitolo nella storia della moda made in Italy

Prada ha acquistato Versace, dando vita ad un polo italiano del lusso.

Prada è uno degli storici marchi italiani del settore del lusso e insieme a Gucci, Versace, Armani, Dolce & Gabbana e Fendi ha contribuito a scrivere pagine su pagine della storia del costume e della moda, ma non solo. Prada infatti non è più solo un brand di moda e di lusso, ma è anche un importante holding finanziaria, che rivaleggia nel settore con giganti come Louis Vuitton che su carta è la società di moda e di lusso più grande al mondo.

In questo articolo scaveremo nella storia di Prada.

La nascita di Prada

Il marchio Prada ha una storia lunga e complessa che parte dalla Milano del 1913 e arriva fino ai giorni nostri. Nasce a Milano da Mario e Martino Prada, due fratelli la cui azienda inizialmente si chiamava Fratelli Prada.

I Fratelli Prada gestivano una piccola boutique situata nella Galleria Vittorio Emanuele II, posizione che permise loro di specializzarsi in articoli di pelletteria di alta qualità, come borse, bauli da viaggio e accessori di lusso, che in quegli anni iniziavano ad essere sempre più richiesti, grazie alla spinta propulsiva data al settore dai grandi magazzini e da grandi marchi.

Come abbiamo visto, nel 1913 i fratelli Prada aprono la propria boutique e si specializzano in prodotti artigianali realizzati con materiali pregiati, destinati principalmente all’aristocrazia e l’alta borghesia milanese.

Il 1913 è un anno particolare, c’è forte tensione in Europa e meno di un anno dopo l’avvio della boutique, nel 1914 inizia la prima guerra mondiale che causerà una forte contrazione del mercato in diversi settori, e anche l’artigianato di lusso ne risentirà, e ad essere più colpiti saranno soprattutto i grandi marchi del lusso come Louis Vuitton, per i fratelli Prada invece, non cambia quasi nulla.

Finita la guerra, il mondo ricomincia a muoversi, aristocrazia e alta borghesia europea ricominciano a viaggiare e soprattutto e nel 1919, Prada riesce a diventare uno dei fornitori ufficiali della Real Casa Italiana, guadagnandosi il diritto di utilizzare lo stemma della Casa Savoia nel proprio logo.

Da questo momento quella dei fratelli Prada non è più solo una piccola boutique milanese e il nome Prada inizia a diffondersi anche fuori dall’italia.

Evoluzione e gestione familiare

Durante il ventennio Prada subisce una sorta di battuta d’arresto nella propria crescita, soprattutto all’estero. Prada continua a fornire la casa reale, che per tutto il ventennio sarà il suo cliente principale.

Le cose però cambiano nel secondo dopoguerra. Più precisamente nel 1958, con il boom economico.

Come abbiamo visto, la bottega dei Fratelli Prada è inizialmente gestita da Mario e Martino Prada. Da quel che sappiamo Martino Prada non ebbe figli, mentre suo fratello Mario ebbe un unica figlia, Luisa che, per molto tempo, è stata tenuta fuori dagli affari della bottega. Mario inizialmente era restio all’idea che le donne potessero avere un ruolo negli affari, e non voleva che sua figlia si occupasse della bottega, tuttavia Luisa Prada era l’unica erede dei due fratelli e alla fine, ereditò l’intera bottega.

Arriviamo così al 1958, anno in cui figlia Luisa prende le redini dell’azienda, gestendola per circa 20 anni insieme al marito e alla figlia. Tra 1958 e 1978 Prada continua a lavorare come ha sempre fatto, senza brillare particolarmente, ma nel 1978, con il passaggio di consegne tra Luisa e Miuccia Bianchi, figlia di Luisa Prada e Gino Bianchi, l’azienda verrà trasformata radicalmente.

Sotto la guida di Miuccia, Prada inizia a sperimentare nuove tecniche e materiali di produzione, e soprattutto, dopo quasi 50 anni di attività ella bottega, deciderà di inserire l’abbigliamento tra i prodotti dell’azienda di famiglia.

Miuccia non è sola in questa impresa rivoluzionaria che trasformerà non solo l’azienda di famiglia, ma l’intero concetto globale di lusso. Supportata da suo marito, Patrizio Bertelli, Miuccia porterà in Prada una nuova visione minimalista che rinnoverà il concetto stesso di lusso.

Crescita globale e innovazione

Gli anni 80 e 90 sono per Prada un periodo d’oro. L’azienda si afferma in questo periodo come uno dei marchi di moda più influenti al mondo, sia per la sua visione in termini di moda, che per la sua visione in termini di impresa. Prada in questi anni cresce tanto e inizia ad inglobare altre aziende di lusso, come Church’s e Car Shoe, che le permetteranno di diversifica la propria offerta, ma non solo.

Prada è infatti una delle prime aziende di moda ad investire in ricerca di nuovi materiali e tecniche di produzione, e fin dagli anni 90 Prada adotta un approccio sostenibile, investendo sempre di più per ridurre il proprio impatto ambientale. In altri termini Prada è una delle prime aziende di moda al mondo ad adottare, su larga scala, materiali riciclati e pratiche eco-sostenibili.

L’acquisizione di Versace

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Prada, agli inizi del secolo scorso, era solo una piccola boutique di lusso nel centro di Milano, e oggi l’azienda è uno dei giganti mondiali della moda, 17,51 miliardi di dollari è la settima società di moda ala mondo per capitalizzazione.

Il settore è dominato da colossi come LVMH, con un un capitale di mercato di 261,97 miliardi, seguito da Hermès con 239,94 miliardi di capitalizzazione, Dior con 118 miliardi di capitalizzazione, Luxottica, con 106 miliardi di capitalizzazione, Richemont con 87 miliardi di capitalizzazione e Chanel con 60 miliardi di capitalizzazione.

Tuttavia, un dato interessante è che negli anni post Pandemia, Prada è stato uno dei pochi brand del lusso in crescita, con un aumento delle vendite medio del 18% e un incremento del fatturato del 105% nel terzo trimestre del 2023.

Nel 2025 Prada continua a crescere, di più e più velocemente dei competitor, nonostante la crisi del settore, e questa crescita ha permesso a Prada di acquisire Versace da Capri Holdings per 1,3 miliardi di. Un prezzo al ribasso rispetto ai 2,1 miliardi di dollari pagati da Capri Holdings nel 2018 per l’acquisizione di Versace.

Fonti e approfondimenti

Prada. La storia della celebre casa di moda
History of Prada: Celebrating 140 Years of Prada | The Handbag Clinic
The History Of Prada | myGemma | IT
The History of Prada – GLAM OBSERVER
La storia di Prada è la storia della moda italiana
Azionariato Prada

Cosa succede ai Treasury USA? Investitori in fuga, volano i rendimenti.

I titoli di stato statunitensi (Treasury), come ci si aspettava, stanno attraversando un periodo di forte instabilità per effetto della crisi dei mercati innescata dai nuovi dazi USA e i contro dazi che il resto del mondo ha e potrebbe applicare nel breve periodo.

L’effetto più diretto, in questi primi giorni, è un impennata dei rendimenti dei Treasuay conseguente al crollo dei prezzi e per la prima volta dalla crisi del 2008 i Treasury sono percepiti dagli investitori non più come un “porto sicuro”. De facto in questo momento (9 aprile 2025) sono considerati come strumenti che, pur presentando maggiori rischi, offrono potenziali rendimenti più elevati.

Come funzionano i titoli di stato

I titoli di stato sono sostanzialmente dei titoli di debito, quando uno stato li emette, ciò che succede è che chi li “acquista” presta dei soldi all’emittente e alla scadenza, l’emittente rimborserà il titolo, in base alla quotazione che il titolo ha in quel momento. Su questo titolo è applicato un tasso d’interesse che l’emissione è tenuto a pagare, con rate intermedie o al saldo.

Facendo un esempio pratico e banale, “io stato” emetto un titolo a 1000$ con scadenza a 10 anni, con un tasso d’interessi minimo del 2% annuo. “Tu investitore” mi presti 1000$ e tra 10 anni, io ti restituirò 1000$ , più 20$ all’anno, pagato per ognuno dei 10 anni, quindi un totale di 1200$.

Di base il funzionamento è questo, tuttavia, la quotazione il tasso d’interesse, possono variare nel tempo, a seconda della “credibilità” di chi emette il titolo.

Sostanzialmente, ciò che succede è che, se l’emittente gode di buona reputazione, allora il valore dei suoi titoli aumenta, perché sono emessi in maniera controllata e limitata e la domanda eccede l’offerta, quindi, se 10 persone vogliono i titoli di stato di un paese ma questi ne ha emesso solo 1, quel titolo varrà tanto e se tutti lo vogliono il tasso d’interesse rimane al minimo stabilito al momento dell’emissione. Se però quel titolo non lo vuole nessuno, allora l’emittente ne aumenta il tasso d’interesse, al fine di convincere gli investitori a comprarlo.

Rimanendo sull’esempio di poco fa, questo significa che se la quotazione scende, il tasso d’interesse sale dal minimo del 2% fino ad un massimo non definito.

L’aumento del tasso d’interessi rappresenta una buona opportunità per gli investitori, ma non per l’emittente e il paese, perché sostanzialmente significa più debito e debito più costoso da dover pagare agli investitori.

Il crollo del valore dei Treasury USA

Nelle ultime settimane il mercato dei titoli di stato americani ha registrato numerose e significative variazioni, che hanno fatto crollare il valore dei Treasury USA al ridosso dell’annuncio di nuovi Dazi da parte di Trump. Il crollo è causato da un incremento delle vendite dei titoli da parte degli investitori, e come abbiamo visto questo ha spinto l’aumento dei tassi d’interesse e di conseguenza dei rendimenti de Treasury USA, un evento più unico che raro poiché sono generalmente considerati dagli investitori tra i titoli più sicuri al mondo.

I titoli più colpiti sembrano essere i rendimenti dei Treasury a lungo termine, ad esempio i rendimenti dei Treasury trentennali sono passati dal 4,7 della scorsa settimana ad oltre l 5%mentre il decennale ha raggiunto il 4,35%. 

Un andamento di questo tipo non lo si vedeva dalla primavera 2020, con l’inizio della pandemia e il congelamento degli scambi internazionali. Con una significativa differenza rispetto a quella crisi. Diversamente dal 2020, la crisi è innescata da una scelta politica che ha causato una forte perdita di fiducia è degli investitori nell’economia statunitense.

La perdita di fiducia è legata in larga parte al timore che i dazi voluti da Trump possano spingere gli Stati Uniti verso una recessione e, contemporaneamente, alimentare l’inflazione che negli USA è ancora molto alta per gli strascichi post pandemia.

Treasury a breve termine con rendimenti elevati

Volendo cercare un lato positivo in uno scenario di questo tipo, l’elevata volatilità dei Treasury rappresenta una buona opportunità di investimento, soprattutto per quanto riguarda Treasury a breve termine o con scadenza a breve termine.

Ipotizziamo di acquistare un Treasury dal valore di 1000$ da un investitore che lo sta liquidando, e pagarlo 900$ o anche meno, ipotizziamo anche che questo titolo scadrà tra un anno e in quest’anno il titolo pagherà a noi i tassi d’interesse, per assurdo ipotizziamo al 3%.
Tra un anno gli USA, in teoria, dovranno liquidarci 1000$ più il 3% annuo, per un totale di 1130€, che significa un rendimento del 13%.

Sembra tantissimo e in effetti è tantissimo, ma come è possibile? Perché non c’è una corsa a questi titoli? E la risposta sta nel fatto che non sappiamo e non possiamo sapere domani quanto varrà questo titolo, quale sarà il suo rendimento al momento del pagamento e soprattutto, la sfiducia nei confronti dell’emittente fa sì che non abbiamo la certezza che il titolo verrà rimborsato al 100% del proprio valore di emissione. Ed è proprio questo elevato margine di rischio, che rende i rendimenti così alti.

In definitiva quindi, l’attuale contesto di mercato presenta sia rischi che opportunità per gli investitori interessati ai Treasury USA. La volatilità e l’aumento dei rendimenti offrono potenziali guadagni più elevati rispetto al passato, ma con un incremento proporzionale del rischio.

Rischi e opportunità legate ai Treasury USA

L’instabilità del mercato dei Treasury USA come abbiamo più volte ripetuto, è strettamente collegata alle tensioni commerciali e alle potenziali ripercussioni economiche dei dazi voluti da Trump.

In questo contesto i principali rischi per l’economia USA, ovvero la maggiore volatilità dei prezzi dei Treasury, possibile recessione economica negli Stati Uniti, pressioni inflazionistiche che potrebbero erodere i rendimenti reali e limitata capacità della Federal Reserve di intervenire efficacemente, rendono gli eventuali investimenti in Treasury USA non particolarmente sicuri.

Questi rischi però portano con se anche delle opportunità di Investimento, a patto che si accettino i rischi.

La prima e più visibile opportunità sono i rendimenti superiori al 4% per i Treasury a breve e medio termine, rendimenti assimilabili a quelli di alcuni ETF ETF come l’iShares e iBonds Dec 2025.

Inoltre un mercato volatile rappresenta un opportunità per gli operatori di trading, soprattutto per le transazioni e scambi di breve durata.

Conclusione

I Dazi di Trump hanno causato un vero e proprio terremoto finanziario e il mercato dei Treasury USA ne sta risentendo in modo particolare e sta vivendo una significativa trasformazione. Il tradizionale ruolo di “investimento sicuro” è messo in discussione dalle tensioni commerciali e le incertezze economiche.

Allo stesso tempo però, l’aumento dei rendimenti che hanno superato il 5% offre nuove opportunità per gli investitori disposti ad accettare maggiori rischi.

I Dazi di Trump colpiscono tutti, dalla Cina all’UE ma è salva la Russia

Alla fine i Dazi di Trump sono arrivati come promesso e senza sconti per nessuno, o quasi, tra gli oltre 60 paesi colpiti dai nuovi dazi che vanno da un minimo del 10% ad un massimo del 49% per la Colombia, ci sono ovviamente la Cina, l’India, il Bangladesh, l’UE, Taiwan, c’è persino Israele, ma, con grande sorpresa non ci sono Russia, Corea del Nord e Bieloorussia

Molti si sono chiesti perché mancassero questi paesi, in particolare la Russia e la risposta ufficiale non ha tardato ad arrivare. Ufficialmente, secondo la Casa Bianca, gli USA non hanno innalzato i dazi alla Russia perché le sanzioni imposte alla Russia dagli USA per via della guerra in Ucraina, pregiudicano già gli scambi commerciali in modo significativo. Ma è davvero così?

Scambi tra USA, Russia, Iran e Corea del Nord e Bielorussia

Per quanto riguarda la Corea del Nord, così come per l’Iran, la risposta è si, gli scambi commerciali tra USA e Corea del Nord o Iran, sono praticamente nulli, il discorso si fa invece più complicato per quanto riguarda Russia e Bielorussia.

Non ci sono sanzioni USA contro la Bielorussia, ma neanche grandi scambi commerciali, questo perché sostanzialmente la Bielorussia commerciava solo con i paesi adiacenti e alcuni paesi BRICS, e il suo principale partner commerciale era ed è ancora oggi la Russia le cui esportazioni e importazioni coprono da sole più del 75% del volume degli scambi bielorussi.

Per quanto riguarda gli scambi commerciali tra Russia e USA invece, la situazione è molto più complessa, perché negli ultimi 30 anni tra i due paesi gli scambi sono cresciuti esponenzialmente, in parte perché in epoca sovietica erano prossimi allo zero, e in parte perché la Federazione Russa, la cui economia interna era fortemente indebolita dagli enormi costi dell’URSS, in particolare dall’industria bellica sovietica, aveva necessità di aprire le proprie frontiere commerciali.

Tra le principali esportazioni dalla Russia agli USA abbiamo soprattutto risorse naturali, materie prime e prodotti chimici e, secondo i dati del 2021 gli USA erano il principale mercato di sbocco per i prodotti chimici russi e allo stesso tempo la Russia era il principale mercato estero per l’industria farmaceutica USA.

Nel 2021 gli scambi commerciali tra USA e Russia valgono circa 34,4 miliardi di dollari, rendendo gli USA il quarto partner commerciale non CSI (comunità stati indipendenti), secondo solo a Paesi Bassi (46 miliardi), Germania (57 miliardi) e Cina (140 miliardi). Sappiamo inoltre che nel corso del 2020 (ultimo anno del primo mandato Trump), in piena pandemia, gli scambi tra USA e Russia sono cresciuti più degli scambi tra Russia e Cina, rispettivamente il 143% rispetto al 135%.

Durante il mandato presidenziale Biden, e soprattutto a seguito dell’inizio della guerra in Ucraina, gli scambi commerciali tra Russia e USA sono effettivamente crollati, passando da 35 miliardi nel 2021 a 3,5 miliardi circa nel 2024, di cui, 3 miliardi in esportazioni dagli USA alla Russia e 0,5 miliardi di importazioni dalla Russia.

Sanzioni USA alla Russia

Va detto che il crollo degli scambi commerciali tra USA e Russia non è propriamente legato alle sanzioni imposte dagli USA alla Russia, quanto più alle sanzioni imposte dall’UE alla Russia.

L’UE ha infatti imposto numerose sanzioni, dirette e indirette, alla Russia, sanzioni che hanno compromesso anche gli scambi tra USA e Russia. Dal canto suo, gli USA di Biden non sono rimasti con le mani in mano, e anche loro hanno applicato diverse sanzioni alla Russia, in particolare dazi al 500% sul Gas Naturale e Petrolio, de facto l’unica sanzione.

Ad oggi gli USA continuano ad acquistare materie prime e minerali, in particolare terre rare e uranio, dalla Russia, i cui volumi tuttavia sono sempre stati molto limitati. Non si hanno invece indicazioni chiare sulle importazioni di prodotti chimici, ma sembrano che non ci sia stato un rallentamento significativo.

In sostanza, i rapporti commerciali tra USA e Russia, ad oggi, sono abbastanza unidirezionali, gli USA importano poche risorse minerarie di grande valore ed esportano prodotti lavorati, dall’inizio della guerra in Ucraina tuttavia, le esportazioni dagli USA alla Russia sono crollate per via delle sanzioni USA, mentre le importazioni dalla Russia agli USA non hanno subito molti rallentamenti. E le sole sanzioni USA applicate alla Russia riguardano petrolio e gas naturale.

Di conseguenza, quando Trump dice che le sanzioni compromettono già gli scambi commerciali tra Russia ed USA in parte dice il vero, le sanzioni hanno ridotto ad un decimo gli scambi commerciali tra USA e Russia, tuttavia, quel decimo riguarda una parte di scambi che non ha subito alcuna variazione e anzi, le nuove sanzioni sulle materie prime imposte all’UE potrebbero avere come effetto un incremento delle esportazioni di quelle stesse risorse dalla Russia.

I Dazi sull’UE avvantaggiano la Russia?

In effetti, i nuovi dazi generalizzati degli USA imposti a gran parte del mondo, ma non alla Russia, hanno l’effetto indiretto di limitare l’efficacia delle sanzioni UE contro la Russia e rappresentano un vantaggio strategico soprattutto per la Russia.

Se le increspature commerciali tra USA e UE e la “guerra dei dazi” rischia di danneggiare tanto l’economia UE quanto quella USA, per assurdo, l’economia Russa ne ottiene un vantaggio. Non essendoci infatti sanzioni USA o dazi sulle esportazioni di minerali, ferro, uranio, prodotti chimici, prodotti tessili ecc, dalla Russia agli USA, ed essendo queste risorse che la Russia, fino a qualche anno fa esportava in grande quantità verso l’UE (nel 2021 gli scambi tra Russia ed UE valevano complessivamente circa 200 miliardi, contro i 140 miliardi degli scambi tra Russia e Cina, ed ora sono fermi per effetto delle sanzioni UE, possono ora essere reindirizzate verso il mercato USA per sopperire la carenza di risorse causate dall’incremento dei dazi all’UE.

In definitiva, i dazi USA all’UE potrebbero rilanciare parte delle esportazioni russe verso gli USA.

Fonti

Cosa esporta la Russia e in quali Paesi? – OBICONS
Russia, come sono i rapporti commerciali con Unione europea e Stati Uniti? | Sky TG24
Russia – Esportazioni | 1994-2025 Dati | 2026-2027 Previsione

Google acquisisce Wiz per 32 miliardi: ecco perché

È passato quasi un anno da quando, nel luglio 2024 Google, o meglio Alphabet, la holding proprietaria di Google, ha lanciato la propria offerta da 23 miliardi di dollari per l’acquisizione di Wiz, offerta rifiutata dalla startup che nel frattempo ha iniziato a sondare il terreno in vista di una possibile IPO (offerta pubblica iniziale) ovvero in vista della propria quotazione in borsa.

Era il 22 luglio 2024 quando Wiz annunciava al mondo di aver rifiutato l’offerta di Google, ma nei successivi 8 mesi, Google non ha lasciato correre e anzi, ha più volte rivisto l’offerta, tentato una lunga negoziazione e alla fine, a metà marzo 2025, dopo mesi di corte sfrenata, Wiz ha ceduto.

Il 17 marzo 2025 il Wall Street Journal dava per la prima volta la notizia della possibile acquisizione di Wiz da parte di Google, per circa 30 miliardi di dollari, e nei giorni seguenti la notizia è stata divulgata ufficialmente, la startup israeliana con sede a New York, sembra aver effettivamente accettato l’offerta da 32 miliardi avanzata da Alphabet, ma ai piani alti di Google non possono ancora cantare vittoria, poiché, per ufficializzare l’acquisizione manca ancora uno step, il più delicato di tutti, l’OK definitivo dell’Antitrust, che potrebbe arrivare non prima del 2026.

In questo articolo voglio parlarvi di come è andata la trattativa, del perché Google (Alphabet) ha investito così tanto in una singola società, e cosa implica questa acquisizione.

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Chi è Wiz e cosa fa: sicurezza cloud

Alphabet e Google non hanno bisogno di troppe presentazioni, anche mia nipote di 5 anni conosce Google, discorso diverso invece vale per Wiz, una società che negli ultimi anni è diventata una vera e propria celebrità nel panorama della sicurezza informatica, ben nota agli esperti e professionisti del settore, ma sostanzialmente sconosciuta a chiunque altro.

Molto velocemente, Wiz è una startup relativamente giovane, fondata nel 2020 da Assaf Rappaport, Yinon Costica, Ami Luttwak e Roy Reznik e si occupa di sicurezza informatica e cloud security, che in pochissimo tempo, in meno di un anno, è diventata un vero e proprio punto di riferimento globale nel campo della cybersecurity.

Tra le ragioni a blla base del grande successo di Wiz il suo core business innovativo, l’azienda di sicurezza informatica è specializzata nella sicurezza in cloud, o meglio, nella sicurezza informatica per i sistemi in cloud. Più nel dettaglio l’azienda fornisce ai propri clienti una piattaforma, che Wiz stessa definisce “sicura e facile da usare” che permette di connettere tutti i principali cloud e ambienti di codice, per scansionarli, analizzarli, cercare eventuali falle e vulnerabilità, il tutto supportato da un intelligenza artificiale specifica, progettata e addestrata per rilevare e prevenire minacce in tempo reale.

Wiz ovviamente non è l’unica società a fare ciò, ma senza troppe remore, possiamo dire che è una delle aziende che in questo momento lo fa “meglio” rispetto alla concorrenza. Punto di forza di Wiz è l’analisi in tempo reale che ha già dimostrato in diverse occasioni di essere in grado di rilevare vulnerabilità nelle infrastrutture cloud, identificare falle nel sistema e fornire all’utente finale, una serie di soluzioni per mitigare le minacce.

In pratica un potentissimo antivirus, che lavora in cloud, ed è supportato da una potente intelligenza artificiale.

L’ascesa di Wiz nel settore della cybersicurezza

Wiz è stata fondata nel 2020 e nel 2021 era già una punto di riferimento nel settore. Quattro anni dopo la sua fondazione, nel 2024 Wiz vanava un portafogli clienti di tutto rispetto, poiché includeva più del 50% delle aziende presenti nella classifica Fortune 100, tra queste anche Microsoft, Amazon e Google, che operano attivamente nel settore del cloud computing.

L’ascesa di Wiz nell’olimpo della cybersecurity è legato a due importanti avvenimenti, il primo, è la Pandemia, Wiz è stata nel 2020 una delle tante Startup che hanno fatto fortuna grazie alla Pandemia, poiché il dilagare di servizi in cloud e piattaforme per videoconferenze, condivisione dati e lavoro da remoto a partire dal 2020, ha creato e alimentato una crescente domanda di sicurezza, e in quell’incremento della domanda Wiz è riuscita a insediarsi proponendo una soluzione solida e credibile.

I primi clienti conquistati nel 2020 sono stati testimonial dell’efficienza e delle capacità dell’azienda ma è solo nel 2021 che Wiz ha fatto il grande passo. Grazie ai suoi sistemi automatici è riuscita ad individuare una serie di vulnerabilità e critica nei sistemi Microsoft Azure, vulnerabilità che fino a quel momento erano sfuggite anche agli esperti del settore. L’impresa sensazionale ha posto Wiz sotto i riflettori dei principali media di settore, innescando una reazione a catena che ha amplificato enormemente la fama e la credibilità dell’azienda. Ne consegue non solo un incremento dei clienti, ma anche degli investitori. Wiz attira così a se numerosi e importanti investitori e fondi di investimento della silicon Valley tra cui Sequoia Capital, Index Ventures e Insight Partners, che a loro volta amplificano la fama e credibilità di Wiz, permettendole di acquisire nuovi clienti e di crescere ulteriormente, fino a diventare un gigante valutato nel luglio 2024 circa 16 miliardi di dollari.

Perché Alphabet ha comprato Wiz?

Come anticipato, già nel 2024 Alphabet aveva messo gli occhi su Wiz provato ad acquisire la startup, offrendole molto più del suo valore di mercato, all’epoca infatti l’offerta di Alphabet fu di circa 23 miliardi di dollari, mentre la valutazione di Wiz oscillava tra 12 e 16 miliardi. Wiz ha successivamente tentato la via della quotazione ma a quel punto Alphabet ha offerto ancora di più, arrivando a 32 miliardi di dollari, offerta che ad oggi sembra essere stata accettata.

Ma perché Google ha puntato così tanto su Wiz? Già l’offerta del 2024 rappresentava una supervalutazione, e ad oggi, il valore di Wiz non supera i 16 miliardi di dollari. Inoltre Google, giù nel 2022 aveva investito circa 6 miliardi di dollari in società che operano nel settore.

Uno dei motivi, probabilmente non l’unico, è legato al fatto che, come abbiamo visto Wiz, è all’avanguardia nel settore della sicurezza delle infrastrutture in cloud ed è considerata una delle migliori aziende al mondo per quel tipo di servizi, e banalmente, molti dei servizi di google, in questo momento, da Youtube a Drive, a Gemini, da fogli di lavoro e Workspace ai tool per videoconferenze come Meet, sono sostanzialmente servizi in cloud.

Ad oggi, garantire sicurezza ai propri sistemi e infrastrutture, tutelare i dati di clienti ed utenti, è certamente un tema cruciale per un azienda nella posizione di Google, ed certamente un valido motivo per acquisire un azienda che opera nel settore della sicurezza dei dati, ma sembra sufficiente a giustificare un investimento di questa portata, de facto il più grande nella storia di Google. Per questo scopo infatti, Mandiant e Siemplify, acquistate da Alphabet nel 2022 rispettivamente per 5,4 miliardi e 500 milioni, sarebbero state sufficienti. Eppure Google ha deciso comunque di arrivare ad offrire 32 miliardi di dollari pur di accaparrarsi Wiz. Viene da chiedersi perché?

Ed una delle possibili risposte sta nell’attuale contesto geopolitico globale. Tra crescenti tensioni tra nazioni che sembrano essere sempre più sull’orlo di una nuova guerra mondiale e la previsione che i futuri conflitti verranno combattuti anche e soprattutto sul piano informatico, fa sì che, quello della cybersecurity sia un tema caldo, e prospero, che interessa sia governi che imprese.

In definitiva, ad oggi vi è una costante e crescente richiesta di soluzioni affidabili in termini di sicurezza, sia per l’archiviazione dei dati che per la gestione delle comunicazioni, ed è qui che le cose si fanno interessanti per un azienda come Google che fornisce sia strumenti di comunicazione, che di archiviazione dati.

Va inoltre osservato che, tra computer quantistici, ormai alla portata di tutti e avanzate intelligenze artificiali, in grado di individuare falle nella sicurezza informatica, molto più velocemente di qualsiasi altro operatore umano, è come se stessimo vivendo l’incubo di Turing, per cui solo una macchina può battere un altra macchina.

Fonti:

  1. Fondamenti di Sicurezza informatica eBook : Fausse, Ben: Amazon.it: Kindle Store
  2. https://www.open.online/2025/03/18/google-acquisizione-wiz-cybersicurezza-piattaforma-israele-cosa-fa/
  3. https://www.galaxus.it/it/page/la-pi-grande-acquisizione-nella-storia-dellazienda-google-acquista-la-start-up-di-sicurezza-per-32-miliardi-37230
  4. https://www.wiz.io/it-it/about
  5. https://www.geopop.it/google-compra-wiz-per-32-miliardi-di-dollari-il-perche-della-storica-acquisizione/
  6. https://borsaefinanza.it/wiz-cos-e-cosa-fa-cybersecurity-cloud/
  7. https://www.corriere.it/economia/finanza/25_marzo_18/google-compra-wiz-per-32-miliardi-di-dollari-cosa-sapere-sull-acquisizione-dei-record-per-big-tech-f116da65-ccef-4fbe-9aed-0e6827e73xlk.shtml
  8. https://www.roberto-serra.com/news/google-acquisisce-wiz-cybersecurity/
  9. https://www.ilsole24ore.com/art/alphabet-google-sta-comprare-wiz-piatto-30-miliardi-dollari-AG5pflaD

X è in crisi, di nuovo.

X (ex Twitter), il controverso social network di Elon Musk, l’uomo di fiducia del presidente Trump, chiamato a riequilibrare la spesa federale USA, è in crisi, di nuovo. Come è noto Elon Musk ha acquistato Twitter nel 2022, per circa 44 miliardi di dollari, denaro ricavato dalla liquidazione di una significativa fetta di azioni Tesla, in un momento in cui il social era in crisi. Musk è intervenuto, acquistando Twitter, con non poche irregolarità, ha ribrandizzato il social, e si è adoperato, tra tagli al bilancio e al personale, per salvare la piattaforma, ma, a due anni di distanza, una mail inviata ai dipendenti, il cui contenuto è stato comunicato a The Verge, ci dice che quell’operazione di salvataggio sembra aver funzionato e X, così si chiama oggi Twitter, non solo è ancora in crisi, ma anzi, sembrerebbe immerso in una crisi ancora più profonda rispetto al 2022.

La crisi di Twitter che contagia anche X

Nel 2022 la crisi finanziaria di Twitter era segnata da tre elementi, una crescita stagnante della piattaforma rispetto ai competitor, un eccessiva dipendenza del social dagli annunci pubblicitari, come fonte di entrate, non sufficiente però a ripagare le spese a causa della tensione tra utenti e inserzionisti. Detto più semplicemente, a Twitter servivano inserzionisti, ma a differenza di Mate, gli inserzionisti erano pochi. Vi era poi un significativo problema legato alla presenza di Bot e account Fake, che alteravano i dati sull’utenza e le interazioni.

In quella crisi Elon Musk è entrato a gamba tesa, ha investito 44 miliardi di dollari per acquisire Twitter promettendo agli investitori e inserzionisti di rivoluzionare la piattaforma facendo pulizia di bot e account fake, rilanciando il brand, e soprattutto snellendo twitter, eliminando interi dipartimenti che pesavano sul bilancio dell’azienda, senza però portare nulla di concreto al social. E così è stato, almeno in parte. Musk ha in effetti ribrandizzato immediatamente Twitter, in maniera non proprio regolare, ha provato a rilanciare il brand, ha rivoluzionato l’esperienza d’uso, ha fatto enormi tagli al bilancio, licenziando oltre il 75% dei dipendenti, ma non ha mai risolto il problema dei Bot e account Fake, che in realtà, negli ultimi 2 anni, secondo gli analisti, sono aumentati.

Arriviamo così al 2024, anno in cui Elon Musk smette di essere un semplice provocatore, oltre che imprenditore, e diventa il main sponsor del candidato alle presidenziali USA Donald Trump, investendo su Trump e la sua campagna elettorale, oltre 200 milioni di dollari e Trump dal canto suo annuncia la creazione del DOGE, un dipartimento per l’efficienza governativa, esterno al governo, che sarebbe stato affidato ad Elon Musk, il quale avrebbe fatto con la macchina amministrativa USA quello che aveva fatto nelle sue aziende, in particolare con Twitter, emblema dell’efficientamento che da azienda in crisi ora brillava nuovamente nel firmamento dei social media con il nome di X.

Nel mentre Musk continua a rivoluzionare X, lanciando prima Twitter Blue poi diventato X Premium, ovvero la versione a pagamento di X, con alcune funzionalità esclusive, tra cui l’integrazione con Grok, uno dei modelli più controversi, poiché a differenza di altri modelli linguistici, non sembra avere particolari limitazioni “etiche” , soprattutto per quanto riguarda la creazione di Immagini e deep fake.

La strategia di Musk sembra quindi funzionare, una minore spesa per l’azienda ed entrate diversificate, almeno su carta, perché in realtà, le cose non vanno proprio benissimo. Se da un lato infatti la nuova policy sulla libertà di parola che prevede zero censura, sembra rilanciare la crescita, amplificando un linguaggio politicamente scorretto, sdoganando xenofobia intolleranza e razzismo, e soprattutto, riempiendo il social di porno, dall’altro, gli inserzionisti ed investitori, già pochi, fuggono definitivamente, e gli abbonamenti X Premium, si ritrovano ad essere la principale, se non unica, fonte di entrate di X, apparentemente sufficiente a tenere a galla il social.

X sta sprofondando

Secondo quanto riportato da The Verge, le entrate di X nell’ultimo anno sono state appena sufficienti a coprire le spese, permettendo al social, a fatica, di rimanere a galla. Con l’elezione di Trump e l’incentivarsi di episodi controversi sulla piattaforma, ormai quasi del tutto priva di moderazione, molti utenti privati e istituzionali, hanno deciso di lasciare il social, tra questi anche il comune di Parigi che dal 20 gennaio, e diversi giornali tra cui Le Monde, hanno chiuso i propri account ufficiali su X.

Ma questo poco importa, X alla fine anche se in perdita, non è un peso così grande per l’uomo più ricco del mondo. Falso. In realtà X si sta trasformando sempre di più in una pesante zavorra che potrebbe far affondare Musk e tutto il suo impero.

Il problema del debito di X

Sintetizzando al massimo, prima Twitter e poi X, per finanziarsi hanno contratto enormi debiti finanziari, che normalmente non sarebbero un problema, tuttavia, alcune segnala Verge, che alcune fonti vicine a banche finanziarie e di investimento, sembrerebbero aver confermato che, diverse istituzioni stanno svalutando il valore del debito di X nei propri bilanci, e questo è un problema.

Il debito di X, così come il debito di una qualunque azienda, non necessariamente è un problema, anzi, se l’azienda è in crescita, il suo debito in realtà è una fonte di reddito con un alto valore, nel caso di X invece, il valore del debito è sembrerebbe essere sempre più basso, e questo si traduce in un campanello d’allarme per futuri finanziamenti e investimenti, poiché, con l’avvicinarsi delle scadenze dei prestiti, X potrebbe non essere in grado di ripagare il proprio debito, costringendo Musk a cercare nuovi capitali o cedere asset di valore, in particolare azioni Tesla.

Non è quindi un caso se per molti analisti finanziari, X sia considerata una “trappola di liquidità” e il debito contratto per salvare Twitter ora sembra stia soffocando X e le sue possibili evoluzioni.

Musk è davvero l’uomo giusto alla guida del DOGE?

Mentre l’azienda che doveva “salvare” ed è stata presentata come un esempio di efficientamento, va a fondo, molti si chiedono se Elon Musk sia davvero l’uomo giusto per riorganizzare e rendere più efficiente il governo USA. Se si guarda ad X e i risultati ottenuti in due anni, otteniamo un quadro disastroso, il famoso “sacrificio di pochi per il bene di molti” rievocato dallo stesso Musk quando parlava dei licenziamenti nella pubblica amministrazione USA, sembra essere stato completamente inutile, e anzi, forse anche più deleterio del non far nulla, e questo perché il solo fallimento di Twitter, avrebbe coinvolto sì migliaia di persone dipendenti dell’azienda, ma non i dipendenti di altre aziende. Ora però le cose sono diverse e sul piatto della bilancia ci sono anche Tesla e Space X, e quel buco da qualche milione di dollari, rischia di diventare una voragine da miliardi di dollari. E parliamo solo del Msukverse.

Se il fallimento di X dovesse riflettersi anche sul governo federale, allora si che sarebbe un disastro, parliamo non di poche migliaia, ma di centinaia di migliaia, se non addirittura milioni di cittadini statunitensi, forse non solo statunitensi, senza lavoro. Parliamo di una crisi finanziaria senza precedenti, che potrebbe far impallidire la crisi del 2008 e peggio ancora, potrebbe far più danni della crisi del 29. Crisi che come sappiamo è stata contrastata dal New Deal e da una serie di interventi che, per Trump e Musk sono inattuabili e controproducenti.

Può sembrare un esagerazione catastrofistica, in realtà è estremamente plausibile. Gli USA in questo momento sono interessati da una profonda crisi inflazionistica, molto più grave di quella che ha colpito l’Europa, e la Federal Reserve in primis, insieme al governo federale, negli ultimi quattro anni, ha adottato una serie di contromisure per ridurre progressivamente l’inflazione, attraverso una politica monetaria molto restrittiva. Esattamente come stanno facendo l’UE e la BCE.

Trump e Musk tuttavia sembrano voler abbandonare questa strada che porta ad un lento e stabile miglioramento dell’economia, per puntare tutto su una strategia estremamente rischiosa, che, in caso di successo, porterebbe enormi benefici nel breve periodo agli USA, e farebbe enormi danni, nel medio e lungo termine, se invece non dovesse avere successo, quegli effetti indesiderati sarebbero immediati e accentuati, non solo per gli USA, ma per l’intero pianeta.

Per semplificare tantissimo, la strategia è la stessa che Musk ha adottato per salvare Twitter, ossia, tagli alla spesa, diversificazione delle entrate, totale disinteresse per le leggi vigenti e abbandono delle regole di convivenza internazionale attraverso una politica aggressiva e provocatoria. Con Twitter, anzi, con X, questa ricetta non sembra aver funzionato.

DeepSeek ha fatto scoppiare la bolla IA?

Che prima o poi sarebbe successo, tutto il mondo lo sapeva, ma così presto e così bene nessuno se lo aspettava. Con queste parole si apre Giai Phong, di Eugenio Finardi, una canzone che parla della guerra del Vietnam, inquadrandola per quella che era realmente, una guerra civile alimentata da interessi stranieri. E personalmente trovo che sia un ottima “metafora” per riassumere ciò che è successo negli ultimi giorni nel panorama tech e finanziario, legato alle IA.

La mattina del 20 gennaio 2025 la startup cinese Deepseek, fondata da Liang Wenfeng, classe 1985, ha lanciato il nuovo modello R1, un modello linguistico ad alte prestazioni in grado di competere, e secondo alcuni persino più performante, di ChatGPT 4o di OpenAI, il colosso statunitense leader del settore fondato da Sam Altman.

Le performance di DeepSeek sono state effettivamente sorprendenti e questo è stato visto come un campanello d’allarme per molti investitori, poiché questo modello sembrerebbe essere stato sviluppato, addestrato e attualmente alimentato, con finanziamenti nettamente inferiori a quelli richiesti da ChatGPT.

Da qui due domande: Quello delle IA è davvero, come si temeva, una bolla pronta ad esplodere e DeepSeek ha acceso la miccia?

Il mercato delle IA

Il mercato delle IA si compone di diversi elementi di cui le società IA che stanno monopolizzando il dibattito pubblico, sono in realtà solo la punta dell’Iceberg, mentre più in profondità, ci sono almeno due segmenti di mercato, il primo, forse il più dibattuto, è quello legato all’hardware in particolare aziende produttrici di GPU e più a monte il mercato dei chip logici e microprocessori, che comprende aziende come AMD, Nvidia, e TMSC. L’altro grande segmento invece, forse quello più profondo, è legato ai dataset, i pacchetti di dati, i database, fondamentali per l’addestramento delle IA, in questo senso, coinvolge aziende come Oracle e Snowflake Frasnk Slootman.

Scavando ancora più in profondità emergono almeno altri due segmenti di mercato, quello energetico, fondamentale per il funzionamento dei calcolatori e dei server dati, e quello delle materie prime, fondamentale quest’ultimo per la produzione di Chip. E, visto che le materie prime, le aziende che producono microprocessori e le società che utilizzano GPU su larga scala, non condividono propriamente la stessa collocazione geografica, il settore trasporti viene coinvolto in maniera trasversale, in particolare il trasporto marittimo dall’Asia all’America che quindi rende anche il canale di Panama, un target strategico per il mercato delle IA.

Il lancio di DeepSeek R4 ha causato un vero e proprio terremoto finanziario, facendo crollare diversi titoli quotati a WallStreet, per lo più titoli di aziende vicine ad OpenAI e fortemente interconnesse con il mercato statunitense delle IA, e questo terremoto ha spinto molti a chiedersi se la temuta bolla stesse per esplodere.

Tra i molti che hanno investito, in vari asset legati al settore, vi è anche Warren Buffet, uno dei più celebri e importanti investitori, soprannominato l’Oracolo di Omaha per la sua incredibile abilità nell’intuire e prevedere l’evoluzione dei mercati finanziati, e ad Ottobre 2023, Warren Buffet, o più precisamente la Berkshire Hataway, la sua società di investimento, ha acquisito una quota del 6,46% di Snowflake Frank Slootman, stimando una crescita del 200% entro il 2027.

Snowflake Frank Slootman, come anticipato, è una società che si occupa sostanzialmente di dati, fornendo servizi id archiviazione e analisi basati su cloud, e generalmente definiti data as a service.

Non solo Hatawey, ma anche Morgan Stanley, JPMorgan e altre banche di investimento, nel quarto trimestre del 2023 e nel primo trimestre del 2024, hanno fatto a gara per accaparrarsi una quota di Snowflake e altre società specializzate in archiviazione e analisi dei dati. Il motivo è che queste società gestiscono una materia prima fondamentale per lo sviluppo delle IA, ovvero i dati.

La potenza di calcolo, per quanto anch’essa essenziale, per i grandi modelli linguistici, è invece sempre meno centrale, perché grazie ai nuovi processi di sintesi e distillazione dei dati, è possibile sviluppare modelli estremamente verticali, in grado di performare meglio dei grandi modelli in un caso d’uso specifico, richiedendo una potenza di calcolo nettamente inferiore.

Questo concetto in realtà era già emerso nei mesi scorsi con l’arrivo di modelli più compatti e verticali, in grado di girare localmente, ma DeepSeek ha alzato l’asticella, proponendo R4, un LLM, un grande modello linguistico, che basa il proprio funzionamento sulla distillazione dei dati, realizzando in sostanza un grande modello che è la summa di diversi modelli specializzati, tutti sotto un unico ombrello.

L’effetto, un IA che apparentemente ha stravolto il mercato e fatto tremare wall street, ma se siamo qui a parlarne, evidentemente non è solo questo e sotto c’è dell’altro.

Cosa ha scosso realmente Wall Street?

Un IA cinese, più economica di Chat GPT fa il proprio debutto, e Wall Street va in crisi, almeno in apparenza. Se si guarda ai vari titoli finanziari si osserverà che in realtà ad essere stati colpiti dallo scossone DeepSeek, sono state prevalentemente società di hardware, AMD, Nvidia, TSMC, società che si trovano sotto il fuoco incrociato di Cina e USA. Da un lato col divieto di commercializzare i chip di queste società in Cina, e dall’altro con l’amministrazione Trump, sempre più orientata a premiare chi produce in USA e penalizzare chi importa negli USA, e la maggior parte delle società coinvolte nella “crisi” importano negli USA, producono anche, ma principalmente importano. Società come Snowflake Frank Slootman o Oracle, legate all’archiviazione dei dati invece, non hanno subito alcun contraccolpo.

Non solo, a pochi giorni dalla crisi, tra 27 e 28 gennaio, il presidente Trump, ha annunciato che potrebbe portare i dazi nel settore chip, anche al 100%. Ipotesi che era nell’aria già da tempo e che ora sembra essere stata ufficialmente ufficializzata, segnando un duro colpo a TSMC, la holding di Taiwan, leader del settore chip, che fornisce microprocessori e chip logici all’intero pianeta. Azienda contro la quale Trump si era già scagliato la scorsa estate, in piena campagna elettorale, quando tra le altre cose propose che Taiwan dovesse pagare gli USA per la protezione ricevuta.

è dunque solo una coincidenza? una sovrapposizione di fattori, che ha portato Deepseek a debuttare poche ore prima dell’insediamento di Donald Trump alla casa bianca, e ha portato ad un crollo del mercato IA, a circa una settimana dal suo insediamento? Ovviamente no.

In realtà i due scenari non si escludono a vicenda, e anzi, si completano e rafforzano a vicenda.

Da un lato DeepSeek, ha messo in evidenza l’ondata speculativa legata agli investimenti sulle IA, portando così ad un rallentamento dei finanziamenti globali in un settore che ha assorbito più risorse economiche di quante potesse effettivamente utilizzarle, detto più semplicemente, ha sprecato molte risorse finanziarie, attraverso innumerevoli progetti IA senza alcuna reale utilità e per i quali non c’era alcuna domanda.

La bolla IA è esplosa? Esploderà?

Da quando nel 2022 OpenAI ha presentato al mondo la prima versione di ChatGPT, in molti si chiedono se sia una bolla destinata ad esplodere o se invece rappresenti il prossimo passo per lo sviluppo tecnologico, e come è stato negli anni 90 per la bolla dei “dot com”, un ondata speculativa che vide l’apparizione di innumerevoli siti web, che puntavano ad usare la rete per cambiare il mondo, alla fine, solo pochi di quei siti sono sopravvissuti, solo pochi di quegli investimenti hanno realmente fruttato, mentre milioni di altri andavano in fumo portando con se miliardi di dollari.

Lo stesso sta accadendo per il mercato delle IA, e DeepSeek, non ha fatto altro che spingere sull’acceleratore, mentre dall’altra parte OpenAI (per sua stessa ammissione) procede ancora a rallentatore.

Nell’estate 2024 Sam Altman, founder e CEO di OpenAI aveva infatti annunciato che la tecnologia in loro possesso era molto più avanzata di quanto non sembrasse dai software commercializzati, ma, preferivano rilasciarla per gradi perché il mondo non era pronto, e soprattutto, per evitare un terremoto finanziario. Quello stesso terremoto che Altman ha cercato di evitare tuttavia, alla fine è arrivato comunque, innescato da DeepSeek, uno dei principali rivali asiatici di OpenAI.

Un rivale che lo stesso Sam Altman, considera impressionante, soprattutto per il rapporto qualità prezzo.

MPS punta a Mediobanca con un OPS da oltre 13 miliardi.

Banco Monte dei Paschi di Siena ha annunciato una OPS per l’acquisizione di Mediobanca e creare il terzo polo bancario d’Europa, offerta che prevede un premio del 5,03% sulla quotazione di Mediobanca al 23 gennaio 2025 e che, secondo quanto comunicato da MPS dovrebbe chiudersi entro il terzo trimestre dell’anno.

OPS che tuttavia non è stata ben accolta da Mediobanca, i cui rappresentanti hanno parlato di offerta ostile. Cerchiamo allora di capire cosa sta succedendo nel panorama bancario italiano ed europeo, in particolare tra MPS e Mediobanca, e cosa implica l’OPS del gruppo bancario il cui azionista di maggioranza è ancora il ministero dell’economia e delle finanze italiano.

Cos’è un OPS?

Prima di cominciare è opportuno capire cos’è un OPS, ovvero un offerta pubblica di scambio, da non confondere con un OPA, offerta pubblica di acquisto.

OPA e OPS: Quali sono le differenze?

Quando si parla di mercato finanziario e acquisizioni, due strumenti fondamentali sono l’OPA (Offerta Pubblica di Acquisto) e l’OPS (Offerta Pubblica di Scambio). Si tratta in entrambi i casi di modalità di acquisizione di una società target, in questo caso di un istituto bancario da parte di un altro istituto bancario, con alcune differenze significative, in caso di OPA l’acquirente fa un offerta in liquidità agli azionisti della società target in cambio delle loro azioni, in sostanza quindi, si propone di acquistare con denaro contante le azioni di una società, consentendo all’acquirente di conservare liquidità.

In sostanza, in caso di OPA si acquisiscono Azioni di una società con denaro contante, mentre in caso di OPS si acquisiscono Azioni di una società scambiandole con altre azioni.

Che si proceda con OPA o con OPS tuttavia, sono vi sono alcuni passaggi strutturali fondamentali, che un azienda o investitore indipendente è tenuto a rispettare per poter procedere con l’effettiva acquisizione, alcuni di questi passaggi sono formali, altri invece sono vincolanti.

Nello specifico, se un azienda ha intenzione di procedere con una OPS nei confronti di una data azienda, in questo caso specifico MPS nei confronti di Mediobanca, deve anzitutto preparare l’offerta, allocando le risorse da mettere in campo per lo scambio, che possono essere proprie azioni, azioni di cui l’acquirente è in possesso, obbligazioni e altre risorse finanziarie con un rapporto di scambio che possa essere “attraente” per gli azionisti della società target.

Per fare un esempio pratico, se l’intento di MPS è acquisire azioni Mediobanca per un valore X, dovrà offrire agli azionisti asset finanziari il cui valore effettivo è superiore al valore di X e con un potenziale di rendimento superiore. Questa fase apparentemente “formale” è propedeutica alla successiva. Tuttavia nulla vieta ad un azienda di proporre un OPS, offrendo delle Penny Stocks (azioni di poco valore e con un potenziale di rendimento ad alto rischio) in cambio di azioni stabili e di alto valore, ma una simile proposta, con tutta probabilità non verrà ne approvata ne accettata.

Approvazione e accettazione sono istanze diverse che spettano a soggetti diversi, se l’accettazione infatti spetta agli azionisti, l’approvazione spetta al CONSOB ovvero la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa. Se infatti si vuole acquisire una società quotata in borsa in Italia, è fondamentale ottenere l’approvazione dell’autorità di vigilanza CONSOB e per ottenere tale autorizzazione è necessario presentare una precisa documentazione comprensiva di condizioni economiche dell’acquirente, modalità di pagamento, obbiettivi e vantaggi.

Una volta ricevuta luce verde dal CONSOB, l’acquirente ha 20 giorni per rendere pubblicare l’offerta, indipendentemente dal fatto che si tratti di un OPA o un OPS, permettendo agli azionisti della società Target di valutarla in maniera trasparente, per un periodo che va da 14 a 40 giorni.

Quando un offerta pubblica di acquisto o scambio è stata pubblicata, è irrevocabile, significa che l’acquirente non può rinegoziare la proposta di acquisto. In altri termini, in questo caso specifico MPS ha lanciato la propria OPS per Mediobanca, per un valore di 13,3 miliardi di euro. Se il valore di mercato delle azioni Mediobanca dovesse precipitare, portando quelle azioni a valere 1 miliardo, MPS dovrebbe comunque pagare gli azionisti per 13,3 miliardi di euro.

Inoltre, per concludere con successo un operazione di OPS, è necessario che si registri un adesione superiore ad una soglia minima prestabilita, generalmente il 50% del capitale sociale, ma questo in realtà dipende dall’OPS. Se tale soglia non è raggiunta l’OPS può fallire. Raggiungere adesioni pari alla soglia minima è un passaggio formale decisivo per poter formalizzare l’acquisizione e diventare a tutti gli effetti proprietari della società target.

OPS di MPS su Mediobanca

Come anticipato, MPS ha annunciato una OPS su Mediobanca, valutando l’istituto bancario milanese, 13,3 miliardi di euro, e per l’acquisizione dell’istituto è stato proposto uno scambio. Per ogni 10 azioni di Mediobanca, MPS avrebbe dato 23 nuove azioni di MPS, con un premio pari al 5% del valore di mercato delle azioni Mediobanca del 24 gennaio 2025.

Secondo quanto comunicato al CONSOB, l’operazione di MPS è finalizzata alla creazione del terzo polo bancario in Italia, inoltre con l’acquisizione si prevede di generare sinergie e benefici fiscali stimati complessivamente 1,2 miliardi di euro annui.

Come anticipato, per gli azionisti di Mediobanca che decideranno di aderire all’OPS, MPS ha messo sul piatto le nuove azioni MPS, di fatto definendo quella che è a tutti gli effetti una proposta di fusione finalizzata al delisting di Mediobanca da Piazza Affari, ed è qui che iniziano i problemi, poiché quella che è una proposta di fusione, è stata considerata da Mediobanca come un offerta ostile, ovvero un offerta di acquisizione e fusione non concordata e non approvata dal CDA di Mediobanca.

Chi sono gli azionisti di Mediobanca e MPS?

Se si guarda all’azionariato dei due istituti bancari, possiamo osservare come, alcuni partecipanti sono azionisti di entrambi gli istituti, mentre altri sono legati solo all’una o all’altra banca.

Per quanto riguarda l’azionariato MPS, l’azionista di maggioranza è il MEF italiano, con una quota del 11,73%, risultato della liquidazione di una quota del 12,5% in testa al MEF che ha portato la partecipazione del MEF da oltre il 24% al 11,7% circa. Il secondo azionista di MPS è invece Delfin, la holding della famiglia Del Vecchio, che a dicembre 2024 ha acquisito una quota di azioni MPS, passando dal precedente 3,5% all’attuale 9,78%. Altri azionisti di MPS sono Banco BPM con una quota del 5% e Anima Holding con una quota del 3,99%, il restante 64,47% è gestito in mano a piccoli investitori, con quote inferiori all’1%.

Per quanto riguarda l’azionariato di Mediobanca, l’azionista di maggioranza è Delfin, già secondo azionista di MPS, con una quota del 19,81%, mentre il secondo azionista è il gruppo Francesco Gaetano Caltagirone, con una quota del 7,76%, segue il gruppo BlackRock con una quota del 4,23% e il gruppo Mediolanum con una quota del 3,49%. Anche qui, il rimanente 64% è in mano a piccoli investitori con quote di minoranza.

Il ruolo di Delfin

Con l’azionariato sott’occhio l’operazione di acquisizione di Mediobanca da parte di MPS sembra avere un regista non troppo dichiarato, ma neanche occulto, la famiglia Del Vecchio, patron di Delfin, la holding di famiglia. Se infatti Delfin dovesse decidere di muovere le proprie azioni, convertendo la propria quota del 19% in Mediobanca, in azioni MPS, il gruppo passerebbe a controllare, una quota significativa del nuovo polo bancario, de facto superiore alla quota in testa al MEF, in altri termini, Delfin diventerebbe l’azionista di maggioranza di MPS. La banca senese infatti al momento vale meno di un decimo di Mediobanca, ma, a differenza della banca milanese, MPS gode di una risorsa di primaria importanza, una quota dell’11% circa nelle mani del MEF.

Tra gli analisti c’è chi ritiene che la proposta di acquisizione sia una strategia per camuffare un aumento di capitale con cui, sostanzialmente, chiedere ulteriore liquidità allo stato, e chi invece ritiene che si tratti di una strategia della famiglia Del Vecchio per assumere il controllo di quello che punta a diventare il terzo polo bancario d’Italia, dopo Intesa e Unicredit.

In effetti, l’ampliamento della partecipazione in MPS di dicembre da parte di Delfin, momento in cui il gruppo stava presumibilmente discutendo la possibilità di un OPA o già parando la documentazione da presentare al CONSOB, lascia supporre che Delfin potesse avere un certo interesse in tale operazione. Interesse esercitato in maniera legittima e legale, in quanto il gruppo è tra gli azionisti di maggioranza dei due istituti bancari e, come molti stanno ipotizzando, avrebbe tutto l’interesse nell’unificare i due asset bancari, complementari e minoritari nel panorama bancario nazionale, rendendoli un entità di primo piano, seconda solo ai due colossi bancari italiani, ovvero Intesa Sanpaolo e Unicredit, entrambi tra i poli bancari più grandi d’Europa.

Gerry Scotti, da Mediaset a Sanremo senza cachet

Ormai è ufficiale, lo Zio Gerry sarà a Sanremo e con grande sorpresa del pubblico, sarà lì in veste non solo di Co-Conduttore, insieme ad Antonella Clerici e Carlo Conti, ma non verrà pagato.

Come annunciato da Gerry Scotti scotti in persona, il conduttore di punta di Mediaset, sarà co-conduttore, senza cachet, del nuovo Sanremo di Carlo Conti, lo Zio Gerry ha infatti dichiarato che andrà al festival “in amicizia” e “senza percepire alcun cachet”, inoltre, stando alle parole del conduttore milanese, quando ha proposto la cosa a Piersilvio Berlusconi, ha ricevuto luce verde in neanche “30 secondi”, non che Piersilvio potesse fermarlo in qualche modo, in fondo il “divieto” in casa RAI, di far presentare Sanremo a conduttori di Mediaset è stato già infranto nel 2017, dallo stesso Carlo Conti quando al suo fianco, nella prima serata, c’è stata Maria de Filippi.

Va detto che questo festival di Sanremo, sul piano economico sarà molto importante, molto più del solito, se infatti normalmente sono in ballo centinaia di milioni di euro, da introiti diretti e collaterali, in questo festival si giocherà il futuro stesso del festival di Sanremo, e questo lo rende particolarmente interessante.

Andiamo con ordine.

Nel 2024 il Tar ha stabilito che il comune di Sanremo non potrà più assegnare l’esclusiva del festival di Sanremo in maniera automatica alla RAI e dal prossimo anno dovrà essere bandito una gara pubblica alla quale, in teoria può partecipare qualunque emittente internazionale. La sentenza del tar separa inoltre il Festival di Sanremo, dal marchio “Festival della Canzone Italiana” che invece rimane alla RAI. Di conseguenza, il prossimo Festival di Sanremo, se non sarà trasmesso dalla RAI non sarà il “festival della canzone italiana” e la rai, anche se dovesse perdere l’esclusiva del festival di Sanremo, potrebbe comunque organizzare e trasmettere un “Festival della Canzone Italiana” separato dal festival di Sanremo.

In sostanza il Tar ha messo fine al monopolio della Rai rendendo più competitiva (e costosa) l’assegnazione del festival, che per quanto importante in Italia, non ha ancora una rilevanza internazionale degna di tale nome, di conseguenza, gli attori che potrebbero puntare al controllo del festival, avranno prevalentemente una dimensione nazionale o al massimo europea. Difficilmente un colosso mediatico straniero, che non trasmette in Italia, parteciperà alla gara, di conseguenza, gli attori in gioco risultano essere pochi, ma tutti molto interessanti.

Tra i possibili competitor, oltre alla RAI, che ha tutto l’interesse nel mantenere l’esclusiva del Festival di Sanremo e uniti i brand Sanremo e Festival della canzone italiana, abbiamo il gruppo Media For Europe, uno dei gruppi mediatici più grandi d’Europa, di proprietà della famiglia Berlusconi, in pratica Mediaset, che nel 2024, per la prima volta nella storia, ha superato gli ascolti RAI in quasi tutti i settori e fasce orarie. MFE, nella persona di Piersilvio Berlusconi, ha annunciato un 2025 intenso, orientato ad una maggiore crescita e consolidamento in Italia ed Europa, con l’intento di replicare anche in europa il modello e i successi ottenuti in Italia negli ultimi anni, in quest’ottica, ottenere il controllo del più grande evento mediatico italiano, potrebbe essere un occasione imperdibile, non solo per Mediaset ma anche per lo stesso Festival, la dimensione Europea di MFE potrebbe infatti dare al festival quel che gli manca per diventare un evento di rilevanza “globale” per la musica italiana.

Fine del monopolio RAI

All’atto pratico Mediaset è potenzialmente il principale rivale della RAI nella lotta per il controllo del Festival, e potenzialmente quello con la maggiore capacità di negoziazione e peso, ma non l’unico, e al tavolo da gioco ci sono anche, con molta probabilità, il gruppo Warner, proprietario di Nove che nell’ultimo anno ha iniziato uno scontro diretto per il controllo di alcune fasce orarie e target storicamente in mano a Rai e Mediaset, e il gruppo britannico Sky Group Limited, proprietario di Sky e operante in Italia, Regno Unito, Irlanda, Germania, Austria e Svizzera. Dei Quattro Sky è forse l’attore minore, e potenzialmente meno interessato al controllo del festival ma non è ancora detto che sia fuori dai giochi.

La gara per il controllo del Festival 2026 vedrà con molta probabilità uno scontro a tre tra Rai, Mediaset e Warner, con Carlo Conti (Rai), Gerry Scotti (Mediaset) e Amadeus (Warner) nei panni di campioni designati, per la conduzione di Sanremo 2026.

Letta in questi termini, il via libera dato quasi senza esitazione da Piersilvio Berlusconi, AD di MFE a Gerry Scotty, conduttore di punta dei Mediaset, potrebbe essere un interessante mossa strategica, volta a sondare il terreno per il 2026, la presenza di Gerry sul palco dell’Ariston al fianco di Carlo Conti, permetterà agli analisti Mediaset di raccogliere un infinità di dati e informazioni al fine di proporre o meno un offerta. Il dato più immediato ed evidente che possiamo osservare è la reazione del pubblico nei confronti dello Zio Gerry, una reazione positiva alla performance e l’indice di gradimento del conduttore potrebbe infatti spingere Mediaset a puntare al rialzo nell’offerta per l’acquisizione del festival 2026, allo stesso tempo, RAI e Warner non staranno con le mani in mano, e una comparazione diretta dei risultati di Conti 2025 e Amadeus 2024, potrebbe essere un buon metro entrambe le aziende.

Se infatti i dati e le proiezioni suggeriranno a Warner che un Amadeus 2026 potenzialmente avrebbe una raccolta significativa, Nove potrebbe rischiare il tutto per tutto al fine di accaparrarsi il festival.

Conclusioni

Per sapere chi sarà a gestire e condurre Sanremo 2026 abbiamo quindi bisogno di almeno alcune informazioni chiave, tra queste, il bando pubblico che verrà emesso dal comune di Sanremo, dopo la conclusione di Sanremo 2025 e tutti i parametri per la partecipazione indicati, l’indice di gradimento di Conti e Scotti, e ovviamente, l’annuncio ufficiale di assegnazione, che verrà comunicato in teoria entro giugno 2025.

In questo festival di Sanremo si annida quindi un “meta concorso” a mio avviso molto più interessante della gara musicale, e non vedo l’ora di scoprire chi, tra RAI, Mediaset e Nove, si aggiudicherà la vittoria, ma se dovessi “puntare” su qualcuno, probabilmente punterei su Mediaset, principalmente per la maggiore potenza economica di MFE rispetto ai competitor, ma anche per la maggiore ambizione, dei tre, MFE è infatti l’unico possibile “giocatore” ad avere tra i propri obbiettivi, il consolidamento a livello europeo.

$TRUMP, il token crypto di Donald Trump, quanto vale? Opportunità e rischi

Il 17 gennaio 2015, a 3 giorni dal proprio insediamento alla Casa Bianca, il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, sostenuto dal miliardario Elon Musk, ha lanciato sul mercato la propria cryptovaluta, un vero e proprio meme-coin che in pochi giorni è arrivato a valere circa 40 miliardi di dollari.

Andiamo per gradi e definiamo, per chi non lo sapesse, cos’è un meme coin e da cosa dipende il suo valore e quanto Trump ha da guadagnare o perdere dallo $Trump.

Memecoin, cosa sono e quanto valgono?

Un memecoin una cryptovaluta, generalmente ispirato ad un meme o temi virali, generalmente ironici, parodistici e con più o meno diretti riferimenti culturali che, in alcune rare occasioni, hanno raggiunto un elevata capitalizzazione di mercato, mentre, per la maggior parte dei memecoin, il loro valore è rimasto irrisorio.

Sebbene siano cryptovalute, i memecoin non sono cryptovalute tradizionali come Bitcoin ed Ethereum, nel senso che, i loro obbiettivi, le loro funzioni, e le tecnologie su cui si basano, sono diverse.

Basandoci sulla “storia del web” il primo “memecoin” degno di tale nome fu Dogecoin, il cui debutto nel mercato crypoto risale al 2013, da allora il suo valore è mutato innumerevoli volte, con picchi di capitalizzazione quando il più ricco e influente alleato di Donald Trump, ovvero Elon Musk, ha acquistato ingenti quantità di Dogecoin ed ha sponsorizzato la valuta, suggerendo possibili utilizzi sul suo social X.

Ad oggi sul mercato ci sono circa 146.615.606.383,705 Doge coin, dal valore di circa 0,15€ ciascuno, dando alla valuta un valore complessivo di circa 20 miliardi di euro. Non male per un memecoin, ma del resto, parliamo del più popolare e fortunato tra i meme coin, almeno, fino ad oggi.

Come per la maggior parte delle cryptovalute, i memecoin sono particolarmente volatili, e la loro volatilità è accentuata proprio dal loro legame con meme e fenomeni virali. Per quanto riguarda lo $trump quindi possiamo facilmente intuire come il token avrà un valore fintanto che trump avrà un valore, una rilevanza, e degli “sponsor” facoltosi. Il coin quindi può essere un arma a doppio taglio per il presidente, perché in parte, riflette l’effettivo apprezzamento globale nei confronti di Trump.

$trump, opportunità e rischi

Come ogni cryptovaluta, anche lo $trump si porta dietro numerose opportunità e rischi che, in questo caso specifico, sono accentuati dal fatto che questo token è legato al presidente degli stati uniti, alle sue mosse politiche, alle sue decisioni e, più di tutto, alle sue provocazioni.

Banalmente, più Trump farà parlare di se, più il suo coin acquisterà valore, e questo rappresenta allo stesso tempo un incredibile opportunità per gli investitori, ma anche un terrificante rischio per gli Stati Uniti e il mondo in generale.

Il secondo mandato di Trump parte in maniera bellicosa e belligerante, con minacce di intervento diretto in medio oriente al fianco di Israele, in America Latina per il controllo del canale di Panama, oltre che in un conflitto economico e non solo contro Europa, in particolare la Danimarca, Canada e ovviamente l’evergreen asiatico, la Cina. E ognuna di queste mosse, estremamente destabilizzanti per la pace globale, potrebbero portare a Trump un enorme fortuna privata legata proprio al valore di $trump.

Investire in $trump significa investire su Trump, e come anticipato, questa è sia un opportunità di investimento, che un rischio, perché il token, per la sua natura decentralizzata e libera, è uno strumento incredibilmente potente per aggirare qualsiasi limitazione su eventuali investimenti e finanziamenti.

Faccio un esempio per assurdo, Bytedance, la holding cinese proprietaria di TikTok, potrebbe investire miliardi di Yuan cinesi in $Trum, a seguito della dichiarazione di Trump di sbloccare TikTok in USA. Questo investimento porterebbe ad un incremento immediato e visibile del valore di $Trump, il cui valore dipende esclusivamente da domanda ed offerta, e potrebbe essere utilizzato per influenzare, indirettamente, le scelte del presidente.

Ora, l’esempio fatto è estremo, ma più in generale, Trump può usare come strumento e indice di gradimento delle proprie dichiarazioni, il valore dello $trump, e allo stesso tempo, quell’indice può essere facilmente influenzato da chi dispone di ingenti capitali, dando così una percezione falsata del gradimento nei confronti delle decisioni di Trump.

Lo $Trump in effetti nasce proprio con questa finalità, è infatti un token che si pone principalmente due obbiettivi, consolidare il personal Brand “Donald Trump” e finanziare direttamente Trump. Trump infatti dispone di una significativa quota di mercato dello $trump, e questo significa che, variazioni positive del valore dello $trump possono tradursi in una monetizzazione immediata e diretta per il presidente.

Inoltre, la criptovaluta punta ad essere un punto di contatto tra il presidente e la sua base, di fatto, chi possiede lo $trump possiede una “quota” di Trump, e questo riguarda sia elettori, che investitori, che governi stranieri.

Possiamo quindi asserire, senza troppe difficoltà, che, lo $trump, non è una semplice criptovaluta, si tratta invero di una mossa strategica, in un contesto geopolitico molto più ampio e che unisce obiettivi economici, politici e mediatici.

Criticità della crypto presidenziale

Il principale problema legato allo $trump è il suo legame estremamente forte e diretto con il presidente degli USA, che, come abbiamo visto, spiana la strada ad innumerevoli rischi e problematiche legate a conflitti d’interesse. Le leggi USA impongono al presidente di prendere le distanze dalle proprie aziende e investimenti privati, tuttavia, il segmento Crypto negli USA si trova ancora in un limbo normativo, de facto permettendo al presidente di continuare ad operare con lo $trump senza infrangere le leggi attualmente esistenti. Vi sono poi enormi rischi legati a ingerenze straniere, influenza su mercati finanziari, violazione delle norme sulla finanza pubblica, donazioni e finanziamenti, riciclaggio di denaro, implicazioni sull’imparzialità, per non parlare dei rischi per la sicurezza nazionale e cybersecurity.

Tutte problematiche che affondano nella mancanza di una regolamentazione chiara delle criptovalute.

Un precedente pericoloso per la democrazia

C’è dell’altro, l’adozione del presidente di una crypto personale il memecoin $trump, a cui ha fatto eco lo $melania, lanciato da Melania Trump, rappresenta un precedente pericolosamente inquietante, che permette di investire concretamente sul leader degli USA, e in quanto investitori, avere indirettamente voce in capitolo sulle decisioni del presidente.

Qualcuno potrebbe dire che ciò non è dissimile dalle donazioni elettorali e il sistema lobbistico statunitense, che tuttavia, sono regolamentati a differenza delle cryptovalute in questo momento, il cui valore di mercato è soggetto esclusivamente alla differenza tra domanda ed offerta. Le Crypto in questo senso sono espressione pura del libero mercato, privo di qualsivoglia forma di regola e regolamentazione, e se questo può rappresentare un “pregio” per gli investitori, se si parla di democrazia, si va verso un terreno oscuro e pericoloso.

Il BAN di TikTok, un semplice Redirect 301

il 19 Gennaio 2025 è scaduto l’ultimatum dato dalla corte suprema a ByteDance per la vendita di TikTok, e questo ha portato al “ban” della piattaforma dagli USA, così, al loro risveglio, milioni di utenti statunitensi, provando ad accedere al social cinese si sono ritrovati di fronte questa pagina.

Alcuni hanno provato ad aggirare il Ban di TikTok utilizzando una VPN, ma senza successo, e su internet, reddit e altri social, si trovano numerosi messaggi di utenti che lamentano di non essere riusciti ad accedere, anche con l’ausilio di una VPN. Abbiamo quindi fatti alcuni test. Ci siamo recati su TikTok tramite Opera, senza usare la VPN integrata e come ovvio che sia, dall’Italia nessun problema, abbiamo quindi attivato la VPN sugli Stati Uniti e il social ci ha detto “TikTok is temporarily unavailable. We’re working hard to resolve this issue. Thank you for your patience.” impedendoci la navigazione.

Ok, quindi, il ban c’è, la VPN funziona e quando accediamo dagli USA ci dice che non possiamo. A questo punto abbiamo provato a disattivare la VPN, ipotizzando che avremmo potuto utilizzare normalmente TikTok, ma ciò che ci siamo trovati di fronte era questo.

Come è possibile? Nonostante la VPN disattivata, TikTok continuava a risultare inaccessibile.

Prestando attenzione alla pagina, abbiamo notato che, l’URL di destinazione era il seguente https://www.tiktok.com/us-landing e non https://www.tiktok.com abbiamo quindi cliccato sulla barra degli indirizzi, rimosso “/us-landing” dall’URL e TikTok ha ripreso a funzionare regolarmente.

Come funziona (in questo momento) il ban di TikTok negli USA?

In questo momento, al 19 gennaio 2025, il ban da tiktok dagli USA è un semplice redirect 301, che si attiva quando la piattaforma rileva un IP statunitense, reindirizzando così gli utenti, qualunque sia l’indirizzo di tiktok, sulla pagina https://www.tiktok.com/us-landing.

Se si accede da PC o da Browser quindi, aggirare il ban con una VPN è relativamente semplice, è sufficiente attivare una VPN su una località diversa dagli USA e accedere a TikTok, se per qualche motivo viene mostrata la pagina us landing, è sufficiente cancellarla per poter navigare liberamente sul social.

Per quanto riguarda l’app di tiktok invece, è leggermente più complesso. L’app del social è infatti una Web App, semplificando tantissimo (informatici e sviluppatori mi perdoneranno) si tratta di una pagina web “camuffata” da applicazione che però, non permette di modificare liberamente l’URL.

Cosa è successo agli utenti USA?

TikTok, una volta loggato, mantiene in memoria l’ultimo url visitato, questo fa sì che, ogni volta che avviamo l’app, ci ritroviamo sull’ultimo video, o sul video successivo, all’ultimo video visualizzato. Una funzione di utility e quality of life, che in questo caso però, sembra bloccare TikTok anche a chi ha una VPN attiva. Se infatti l’app di tiktok si trova sulla pagina us-landing che ci comunica la temporanea disattivazione dagli USA, anche aggiornando l’app, rimarremo su quella pagina, dando così agli utenti USA l’impressione che TikTok non sia utilizzabile dagli USA neanche utilizzando una VPN.

In realtà non è così, semplicemente si sta aggiornando una pagina web in cui ci viene detto che non è possibile, ma, modificando l’URL, se si ha una VPN attiva, è possibile navigare liberamente sul social.

Ma come fare a modificare l’URL dall’app?

Come anticipato, l’app non permette una modifica “diretta” dell’url, ma ci sono alcune soluzioni alternative.

La più “brutale” consiste nell’attivare la VPN, disinstallare TikTok, reinstallare TikTok ed effettuare il login. In questo modo, accederete dal paese indicato dalla VPN, ma bisognerà stare attenti a non andare su TikTok senza VPN attiva, o, ogni volta, bisognerà disinstallare e reinstallare l’applicazione.

Una soluzione decisamente più semplice è attivare la VPN, aprire il browser dello smartphone, andare su un video qualsiasi di TikTok, e aprirlo tramite app. A quel punto si verrà reindirizzati sul link del vide, e non sulla pagina “us landing” , e da lì, si potrà navigare senza problemi, almeno in questa versione del ban, e utilizzando una VPN.

Se per qualche motivo non volete cercare video di tiktok su google o altri motori di ricerca, c’è un ulteriore soluzione ,è infatti sufficiente inviarsi un link ad un video di tiktok con una qualsiasi app di messaggistica, e il gioco è fatto, a patto di avere una VPN attiva.

Ban e Redirect

Per quanto riguarda la soluzione trovata da TikTok per disattivare la piattaforma negli USA, va detto che non c’è nulla di anomalo, la maggior parte dei web tool e portali localizzati, il cui utilizzo è consentito solo in determinati paesi, generalmente effettua un redirect, da qualunque indirizzo, per gli utenti che accedono al portale tramite IP di paesi in cui il servizio non è attivo. Altri servizi invece operano al contrario, reindirizzando verso la pagina di utilizzo, solo gli IP degli utenti che accedono da paesi in cui il servizio è attivo. Come ad esempio Google Whisk, di Google Labs, un tool IA per la generazione di immagini, disponibile solo negli USA e che mostra a chiunque altro il seguente URL e messaggio.

E invece si dispone di una VPN attiva sugli USA ci viene mostrata questa pagina.

Bando di TikTok dagli USA, chi decide?

Qualche giorno fa ho scritto un articolo in cui parlavo dei rumors relativi alla possibile vendita dei servizi USA di TikTok ad Elon Musk da parte di ByteDance, come ancora di salvataggio per rimanere attiva sul mercato USA, e oggi torniamo sul possibile bando di Tik Tok dagli USA, bando che è sempre più vicino a meno che ByteDance non venda ad una società con sede in USA.

Il 19 gennaio infatti, l’ultimo giorno di presidenza Biden, potrebbe anche essere l’ultimo giorno in cui si potrà accedere a TikTok dagli USA , senza una VPN, questo perché la corte suprema, il 17 gennaio 20925 ha confermato la validità della legge, varata nell’aprile 2024, con cui si impone a Bytedance la vendita di TikTok, pena il bando dagli USA.

Questa legge, che nasce nel timore che il governo cinese possa sfruttare TikTok per spiare i cittadini USA è stata contestata da Bytedance, la holding cinese proprietaria di TikTok, secondo la Holding, questa legge violerebbe il primo emendamento, con cui si sancisce la libertà di parola, di stampa, di religione, ecc, e in quanto piattaforma mediatica, TikTok secondo Bytedance godrebbe della libertà di parola e di stampa, e sostiene che, il governo statunitense, voglia limitare questa libertà, impedendo di utilizzare una piattaforma “libera” e non sotto il controllo degli USA.

La corte suprema tuttavia ha respinto il ricorso di Bytedance, sostenendo la legittimità e la costituzionalità della legge, poiché questa non vuole limitare la libertà di espressione, ma evitare il possibile utilizzo dei dati dei cittadini USA da parte di un governo straniero. La legge in soldoni, si fonda sulla necessità di garantire e tutelare la sicurezza nazionale, che, grazie all’articolo II sezione 2, in cui sono elencati i poteri e le responsabilità del presidente, si conferisce al presidente USA il ruolo di comandante in capo delle forze armate, nonché il potere di gestire crisi che minacciano la sicurezza nazionale. Inoltre, il presidente può adottare misure urgenti per proteggere il paese e i suoi cittadini. L’articolo I della sezione 8 invece consente al congresso di approvare leggi necessarie per la difesa nazionale e il potere di regolare il commercio con nazioni straniere.

Ed è proprio in questi poteri del congresso che si fonda il RESTRICT Act del 2023, ancora in discussione al congresso e non completamene approvato, si tratta di una legge finalizzata a regolamentare e mitigare eventuali rischi derivanti dalla tecnologia e da piattaforme digitali, una legge che, senza girarci troppo attorno, è stata costruita ad hoc, per mettere un freno a Tik Tok e altre piattaforme digitali non statunitensi, e che ha portato all’ordine esecutivo e la sentenza che dal 20 gennaio 2025 mettono al bando, proprio TikTok, se questi non venderà i servizi USA ad una società statunitense.

Il presidente eletto Donald Trump tuttavia, non sembra essere d’accordo al bando, è molto legato alla piattaforma e alla propria cerimonia di insediamento che avrà luogo il 20 gennaio 2025 e alla quale è stato invitato anche Shou Zi Chew, il CEO di TikTok.

Con la sentenza del 17 gennaio 2025 la corte suprema ha ribadito il bando, a partire dal 20 gennaio, per Tik tok se questi non venderà i propri servizi USA ad una società statunitense e a questa sentenza, ha fatto immediatamente eco una dichiarazione dello stesso Trump, che sostiene il congresso gli ha dato il potere di decisione, e quindi sarò lui a decidere sul bando di tik tok, lasciando quindi intendere che cercherà di evitarlo, ma cosa può effettivamente fare? Vediamo cosa dice il RESTRICT Act.

Cosa dice il Restrict Act?

Il RESTRICT Act ha come obbiettivo quello di identificare, valutare e mitigare rischi legati alla tecnologia straniera su suolo USA, questi rischi includono la compromissione di dati personali e sensibili dei cittadini USA, l’utilizzo dei suddetti dati al fine di manipolare l’informazione o per fini di spionaggio e analisi, e, più di tutti, creare vulnerabilità nelle infrastrutture.

Prendiamo ad esempio Tik Tok, che, se installato su un dispositivo, può fornire dati sulla posizione, o raccogliere dati personali dell’utente, esattamente come fanno Google, Apple, Meta, X, Microsoft, Amazon, ecc, ma a differenza di queste big tech statunitensi, essendo controllata da una società vicina ad un governo straniero, può rappresentare un rischio alla sicurezza nazionale. Motivo per cui, molti dei servizi delle big tech sopracitate sono bandite dalla Cina, e al contrario, molti fornitori di tecnologia cinesi sono banditi dagli USA.

Tornando al RESTRICT Act, questi punta a sorvegliare le tecnologie straniere conferendo al Segretario al Commercio, il potere di esaminare e intervenire su Applicazioni, Software, Hardware, ecc. Dal 20 gennaio, il segretario al commercio USA sarà Howard Lutnick, a capo dei Cantor Fitzgerald e grande sostenitore dei dazi alla Cina, che potrebbero arrivare al 60%, e all’Europa. Il RESTRICT Act stabilisce inoltre che il segretario al commercio debba collaborare con il dipartimento di sicurezza nazionale e l’ufficio del direttore della National Intelligence, per valutare eventuali minacce.

Possibile revoca del bando?

Allo stato attuale, TikTok è stata considerata una possibile minaccia per la sicurezza nazionale dal governo federale guidato da Joe Biden, e il futuro presidente Trump, una volta in carica, potrà procedere su diverse strade per annullare l’ordine esecutivo di Biden.

Più precisamente, in quanto presidente in carica, Trump potrà emettere un nuovo ordine esecutivo e annullare o modificare il precedente. Questa procedura può tuttavia portare a dei controlli da parte delle autorità federali.

Vi è però una seconda strada, più lenta, meno diretta, ma più sicura per il presidente, che passa per il CFIUS, il Comitato sugli Investimenti Esteri negli Stati Uniti. Il presidente può autorizzare un riesame di una data tecnologia al CFIUS per una nuova valutazione, e la nuova valutazione potrebbe confermare o ribaltare il precedente status di minaccia alla sicurezza nazionale.

In entrambi i casi comunque, la revoca dello status di minaccia deve basarsi su una documentazione chiara e dati che attestino tale circostanza, in caso contrario, sia il congresso che la corte suprema, possono bloccare la revoca, mantenendo il bando.

TikTok verrà bandita dagli USA?

In questo momento, al 17 gennaio 2025, la corte suprema si è espressa a favore del bando di Tik Tok dagli USA, mentre il presidente eletto Trump sembra essere intenzionato a revocare tale bando, ed è molto probabile che, uno sei suoi primi ordini esecutivi andrà proprio in quella direzione, tuttavia, come osservato poco sopra, l’ultima parola non spetta al presidente. Spetterebbe al Presidente se si dovesse decidere di bandire tik tok, ma, visto che il bando è già stato autorizzato e bisogna autorizzare la revoca del bando, il presidente potrebbe avere le mani legate, anche in vista della sua posizione conflittuale nei confronti della corte suprema. Di fatto, il congresso ha dato al presidente il potere per bandire, TikTok, ma non il potere di riammetterlo. Potrà farlo, quasi certamente lo farà, ma non nei primi giorni di mandato e non con un ordine esecutivo.

Cina valuta cessione di TikTok USA ad Elon Musk

Secondo voci non ufficializzate, la Cina, più precisamente ByteDance, la holding partecipata dal governo cinese e proprietaria di Tik Tok starebbe valutando un accordo per la cessione dei servizi di Tik Tok in USA ad Elon Musk, già proprietario del social X (ex Twitter). A tale proposito, sembrerebbe che dalla Cina siano arrivate delle smentite, su tale accordo, ma anche questa smentita non è propriamente ufficiale in quanto non parte da ByteDance. In altri termini al momento si sta parlando di una vendita che non è stata ne confermata ne smentita dai diretti interessati.

Secondo voci non ufficializzate, la Cina, più precisamente ByteDance, la holding partecipata dal governo cinese e proprietaria di Tik Tok starebbe valutando un accordo per la cessione dei servizi di Tik Tok in USA ad Elon Musk, già proprietario del social X (ex Twitter). A tale proposito, sembrerebbe che dalla Cina siano arrivate delle smentite, su tale accordo, ma anche questa smentita non è propriamente ufficiale in quanto non parte da ByteDance. In altri termini al momento si sta parlando di una vendita che non è stata ne confermata ne smentita dai diretti interessati.

Cerchiamo allora di capire cosa c’è dietro e se potrebbe avere un senso un accordo di tale natura, ossia il trasferimento dei servizi in USA di Tik Tok ad una società USA di proprietà di un uomo estremamente vicino al presidente Trump, al punto da essere definito da molto un “presidente ombra” o se si tratta di una bufala volta ad alimentare le preoccupazioni di chi vede in Musk un monopolista e spietato capitalista, con tratti sempre più vicini a quelli delle grandi corporazioni dei romanzi distopici.

Tik Tok e il possibile bando dagli USA

Il popolare social cinese, che ha rivoluzionato il modo di fare video e di comunicare, già da qualche anno si trova in una posizione controversa, e molti governi hanno bandito la piattaforma dai rispettivi paesi poiché fortemente compromessa con il governo cinese, sollevando dubbi sulla sicurezza e l’utilizzo dei dati che vengono raccolti dalla piattaforma, perché si sa, se i dati vengono raccolti e analizzati dai cinesi è un pericolo, se a farlo è una società statunitense, in quel caso non c’è nessun pericolo.

Il bando di Tik Tok dal mercato cinese, è sul tavolo dal2’agosto 2020, quando, l’allora presidente uscente Donald Trump, emise un ordine esecutivo con cui richiedeva la vendita delle operazioni statunitensi di Tik Tok e WeChat, rispettivamente popolare piattaforma di video sharing e di messaggistica, di proprietà di colossi cinesi. Se TikTok è di proprietà di ByteDance, WeChat è invece di proprietà di Tencent, holding cinese quotata in borsa ad Hong Kong, con un valore di circa 449 Milioni di dollari USA.

Secondo l’allora presidente uscente, c’era il timore che tali piattaforme potessero condividere dati degli utenti USA con il governo Cinese, rappresentando pertanto una pericolosa minaccia alla sicurezza nazionale. L’ordine esecutivo di Trump è stato possibile sulla base dell’International Emergency Economic Powers Act, tuttavia, la successiva elezione di Joe Biden alla presidenza, ha portato ad un rallentamento della vicenda, di fatto nel giugno 2021, l’allora presidente eletto Biden, ha revocato l’ordine esecutivo del suo predecessore, affidando allo stesso tempo, la verifica dei rischi legati a suddette applicazioni al Dipartimento per il commercio.

Dal 2021 al 2024 il bando di Tik Tok è stato sospeso e nel frattempo la posizione di Trump sulla piattaforma cinese è fortemente cambiata, dopo il Ban da Facebook e il Ban da Twitter, salvo poi reintegrazione dopo l’acquisizione di Twitter da parte di Musk, l’allora ex presidente Donald Trump, è diventato un assiduo e regolare utilizzatore della piattaforma cinese, emulato in questa linea dalle destre di tutto il mondo che ci hanno deliziato con la magia degli italici Berlusconi e Salvini in live su Tik Tok.

Tik Tok si è rivelata, soprattutto negli anni della pandemia, una straordinaria piattaforma di comunicazione, nonché terreno fertile per la proliferazione di fake news e deep fake.

RESTRICT Act

Se il bando politico di Tik Tok dagli USA, nel 2021 sembra essere sfumato, o comunque ridimensionato, nel 2023 la piattaforma di Video Sharing ha iniziato una nuova trafila, questa volta giudiziaria, legata al RESTRICT Act (Restricting the Emergence of Security Threats that Risk Information and Communications Technology), una legge che conferiva al governo federale degli USA ampi poteri in termini di limitazione e bando di tecnologie straniere dagli USA, se queste rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale.

Tale legge si applica anche a piattaforme social, come X, Meta e ovviamente TikTok, e se le prime due sono statunitensi, la terza era ed ancora oggi di proprietà di una multinazionale Cinese, e per molti è stata costruita ad hoc per permettere al governo di intervenire e limitare la crescente popolarità di TikTok in USA.

Per quanto riguarda la sicurezza nazionale, molti governatori USA hanno vietato, nei propri stati, l’utilizzo di TikTok, e altre applicazioni social e di messaggistica, come ad esempio Telegram, dai dispositivi governativi, ovvero tablet, pc e smartphone di funzionari pubblici. Quindi si, in quanto ex presidente, ed ora presidente eletto, in alcuni stati, Trump non potrebbe usare Tik Tok, poiché il suo utilizzo rappresenterebbe una possibile minaccia alla sicurezza nazionale. Tik Tok infatti si teme possa registrare e condividere una serie di informazioni aggiuntive, dette metadata, come ad esempio le informazioni sulla posizione, che potrebbero rendere nota la posizione del presidente. Non proprio il massimo della sicurezza se il presidente è per qualsiasi ragione, per ragioni di sicurezza, in una località segreta.

La reazione di Tik Tok

Fin dal 2022 ByteDance, ha cercato di dissipare le preoccupazioni del governo statunitense, e non solo, sulla sicurezza di Tik Tok, annunciando prima il Project Texas, un progetto che trasferiva i dati degli utenti statunitensi negli stati uniti, in server gestiti da Oracle, società statunitense fondata nel 1977 e quotata in borsa al NYSE con sede a Santa Clara. Ha avviato un centro di trasparenza che permette ai funzionari USA di esaminare ogni operazione di TikTok in USA.

Insomma, ByteDance affidava, con il progetto Texas ed il centro trasparenza, i dati sensibili ad una società USA, dava al governo USA libero accesso a quei dati e le operazioni di TikTok, precludendosi l’accesso a quegli stessi dati. Ma questo agli USA non sembra bastare e al congresso si è continuato a discutere di un possibile bando di TikTok dal mercato USA.

Interesse nazionale o sicurezza?

Sulla base dei dati e le informazioni note, viene quindi da chiedersi se tale dibattito abbia una rilevanza in termini di sicurezza nazionale o di interesse nazionale, possono sembrare concetti analoghi, ma sono profondamente diversi, se infatti, come è “dimostrato” dall’analisi dei dati e delle operazioni di Tik Tok, non sembra esserci un rischio reale di trasferimento dei dati sensibili al governo cinese, vi è invece un serio rischio di manipolazione, inquinamento e alterazione dell’informazione, che può indirizzare l’opinione pubblica su strade estremamente pericolose.

A tale proposito, TikTok è uno dei social mediaticamente più potenti in circolazione, con poche limitazioni in merito a tematiche delicate, ed è già ampiamente avviato su una strada che, da qualche anno è stata percorsa da X e si appresta ad essere percorrere anche Meta, che di recente ha annunciato lo stop al fact-checking e alle policy di inclusività, garantendo maggiore “libertà” anche a contenuti controversi, di natura politica e sociale.

Tornando ai dati, essi hanno un valore immenso e se risultano estremamente pericolosi se gestiti da una società cinese, una società di uno stato con cui gli usa sono in pino conflitto commerciale, diventano estremamente preziosi se gestiti dagli stessi USA, soprattutto se vicina al governo.

Vi è quindi una forte attenzione per la piattaforma estremamente rilevante in termini di interesse nazionale, e allo stesso tempo si può osservare come, a parità di attività, la piattaforma cinese sia maggiormente controllata e tenuta di analoghe statunitensi. Differenza di trattamento che potrebbe essere alla base dell’ipotesi di trasferire ad una società statunitense i servizi USA, e, tra le tante, quale società migliore della media company dell’uomo più potente e influente d’America?

Il paradosso di Trump

Va riconosciuto a Trump il merito, se così lo si può definire, di aver compreso per primo, il potenziale politico dei dati in possesso delle media company, e di essere stato tra i primi, nel 2020 a causa anche della trasformazione dei contenuti avvenuti durante la prima fase della pandemia, a vedere in TikTok una possibile minaccia, e, terminato il mandato presidenziale, una straordinaria risorsa.

Oggi Trump gode di un enorme seguito su TikTok, e molti analisti ritengono che è stato proprio tale seguito a permettere all’ex presidente di tornare alla casa bianca con le elezioni di novembre 2024, grazie a Tik Tok, Trump mantiene un contatto continuo e costante con il proprio elettorato, in particolare le frange più radicali che nel tempo sono state o si sono allontanate da altri social.

Per Trump quindi è di vitale importanza mantenere TikTok negli USA, ma il processo avviato nell’agosto del 2020 con il suo stesso ordine esecutivo, anche se rallentato, non si è fermato, ed ora il presidente si ritrova, ad inizio mandato, nella condizione di dover trovare una soluzione ad un problema creato da lui stesso alla fine del suo precedente mandato.

L’ipotesi Musk

L’insieme di questi fattori ed elementi, potrebbe essere alla base dell’ipotesi di una cessione dei servizi USA di TikTok ad Elon Musk, come anticipato, il patron di X e Tesla è estremamente vicino al presidente, qualcuno direbbe troppo vicino al presidente, inoltre avrà un ruolo chiave nel prossimo governo Trump, ed è proprio quella vicinanza una possibile scappatoia per TikTok di evitare il bando dagli USA.

Tale soluzione tornerebbe sicuramente vantaggiosa per Bytedance, che comunque dalle operazioni negli USA ha un notevole guadagno, su scala globale, secondo i dati annuali pubblicati da Bytredance, Tik Tok nel 2023 ha registrato ricavi superiori ai 120 miliardi di dollari, in crescita dispetto agli 80 miliardi del 2022 e secondo le proiezioni, nel 2024 potrebbero essere superiori ai 200 miliardi. Gli analisti concordano nell’osservare che tale crescita è legata soprattutto alla sempre maggiore presenza della piattaforma in occidente, in USA ed Europa.

L’accordo sarebbe vantaggioso anche per Musk, il cui social X nonostante la forte riduzione dei costi, continua ad avere profonde difficoltà economiche, principalmente per la fuga di numerosi investitori a seguito dell’acquisizione di twitter da parte proprio di Musk e una partnership tra X e Tik Tok, potrebbe riportare ad X parte degli investitori e colmare il divario tra X e il gruppo Meta.

Inoltre sarebbe vantaggiosa per Trump, che non perderebbe il suo principale strumento di comunicazione con gli elettori, e no, il suo social “truthsocial” non fa testo, l’utenza di Truth, oltre ad essere “poca” è anche poco attiva, inoltre è formata per lo più da sostenitori di Trump, è quindi sicuramente utile per mantenere i contatti con la propria base, ma totalmente inutile se si parla di espandere il consenso. Cosa che invece con TikTok è molto più semplice.

I vantaggi però non finiscono qui, oltre alla possibilità di evitare il bando dal mercato USA per TikTok, Bytedance potrebbe sfruttare la partnership con Musk per un ulteriore slancio in caso di quotazione in borsa. La holding cinese al momento non è quotata anche se nel 2022 prima sembrava essere pronta al debutto sul mercato.

I problemi di Musk pigliatutto

La possibile cessione dei servizi USA di TikTok ad Elon Musk se da un lato presenta numerosi vantaggi per tutti gli attori coinvolti, in realtà presenta anche diverse problematiche. E nessuna di queste riguarda il ruolo da monopolista di Musk, a tale riguardo l’acquisizione di Instagram e l’avvio di Threads da parte di Meta, rappresentano un significativo precedente. Musk potrebbe acquisire “TikTok USA” senza aver alcun problema con l’antitrust, tuttavia, come osservano i critici e detrattori del miliardario, sempre più simile ad un “Charles Foster Kane” dei nostri tempi, si ritroverebbe nella posizione di poter influenzare ancora di più l’opinione pubblica, almeno negli USA.

Ed è questo il problema forse più grande di un possibile accordo tra Musk e Bytedance, ma non solo. Se l’accordo dovesse rivelarsi reale e Bytedance riuscisse con questo accordo ad evitare il bando di TikTok dagli USA, ci verrebbe rivelata una grande e terribile verità, ossia il presidente Trump è irrilevante, se si vogliono fare affari negli e con gli USA bisogna negoziare con Musk, e negoziare per Musk ha un significato particolare, poiché in un negoziato ognuna delle due parti cede qualcosa finché non si giunge ad un punto d’accordo, un compromesso, ma Musk non è tipo da compromesso, la sua carriera e la sua storia sono segnati da soluzioni radicali, tutto o niente. C’è allora da chiedersi quanto è esteso questo tutto.

Tutta fuffa o …

Per quanto riguarda la possibile cessione o acquisizione, che dir si voglia, dei servizi USA di TikTok, ad Elon Musk, al momento c’è un fitto velo di incertezza, con dichiarazioni vaghe, informazioni non ufficiali e smentite più o meno ufficiali.

In un intervento rilasciato da TikTok a Bbc News, la società ha dichiarato di “non poter commentare pura fantasia”. Una smentita quindi, che però, purtroppo, vale poco o nulla, visto che eventuali negoziati relativi al futuro di TikTok in USA, in realtà, non riguardano TikTok, ma ByteDance.

Come è stato anche per il Project Texas infatti, la decisione di delocalizzare i dati degli utenti USA nei server Oracle, non è stata presa da Tik Tok, ma dalla holding che la controlla al 100%, ovvero ByteDance, che sulla vicenda dei servizi USA di TikTok, non si è ancora espressa, e probabilmente non lo farà.

Sorprende anche il grande silenzio di Musk, che solitamente non lascia trascorrere troppo tempo prima di dire la sua, soprattutto su un qualcosa che lo riguarda in prima persona. Guardiamo ad esempio all’ipotesi di accordo tra Starlink e il governo italiano, a poche ore dalla circolazione delle prime indiscrezioni sono intervenuti tutti gli attori coinvolti, in questo caso invece, Musk tace. Che questo silenzio sia indicativo di un accordo effettivamente in lavorazione? O forse il miliardario sta finalmente recuperando qualche ora di sonno? Per il momento è difficile a dirlo.