All’inizio del XVI secolo si formarono tre grandi imperi islamici che subentrarono al posto di piccoli stati islamici. Questi tre grandi regni erano quello in India dei Moghul, quello persiano dei Safawidi e quello turco degli Ottomani. Si trattava di governi profondamente radicati nel medioevo islamico a causa dell’aspetto religioso, ma tutti esposti in primo piano all’epoca moderna europea, caratterizzata da una ripresa dei commerci e dall’espansione coloniale degli stati europei, fattori che porteranno a dei cambiamenti economici anche all’interno di questi imperi.
La Fondazione dell’Impero Moghul in India
La storia della presenza islamica in India è molto antica e si può far risalire almeno al regno di Muhmud di Ghaznì fondato nella provincia di Khurasan nel 999, anche se le prime invasioni islamiche in India avvennero precedentemente dall’ Afghanistan. A partire dall’inizio del XIII secolo dominò il sultanato di Delhi, governato da una dinastia militare afghano-turca. La presenza islamica in India diventò rilevante nel periodo dell’impero dei Moghul.
L’impero fu un grande regno che nel periodo di massima espansione governò su tutto il subcontinente indiano, senza precedenti. Nel periodo che va tra il 1556 e il 1658 l’impero islamico dei Moghul è stato un potente stato centralizzato, organizzato con una capillare burocrazia, un esercito e un impero con una fede aperta e tollerante, dove vi fu una sintesi religiosa tra induismo e islamismo.
La fondazione risale al regno Zahir-ud-Din Muhammad Babur, un condottiero turco erede in linea materna di Gengis Khan, e in linea paterna, da Tamerlano, che riuscì a stabilire un regno nel nord dell’India nel 1526, sfruttando le rivalità tra gli emiri locali e il disordine provocato dalle guerre dei Safavidi con gli Uzbechi. Oltre ad essere un conquistatore insaziabile, fu un grande uomo di cultura: le sue memorie – scritte in prosa – sono considerate un’opera importante dell’intera letteratura turca. Nel 1504 e nel 1506 Babur conquistò rispettivamente Kabul e Kandahar e nel 1526 anche l’intera India del nord, grazie ad una cavalleria e ad una tecnica bellica nettamente superiori. Il regno di Babur durò solo quattro anni a partire dalla conquista della città di Agrae e la proclamazione d’imperatore dell’Hindustan, ma gli eredi riuscirono a consolidare il regno. In particolare due suoi eredi: Humayun e soprattutto Akbar.
L’Era di Akbar: Consolidamento e Apogeo dell’Impero Moghul
Akbar, il terzo padishah, fu il vero creatore della potenza Moghul e regnò dal 1556 al 1605: è considerato il più importante all’interno di una dinastia dove vi erano personaggi straordinari, tanto da essere ricordato come una delle figure più rappresentative della storia indiana.
I primi anni del regno non furono tali da far presagire tale grandezza: fino al 1560 fu governato con durezza dal reggente Bairam Khan. Sotto la sua guida, vennero sconfitti gli ultimi principi Sur e i Moghul occuparono alcuni centri chiave come Lahore, Multhan, Jaunpur che si aggiunsero a Delhi e Agra. Questa espansione si arrestò per i contrasti tra Akbar e Bairam Khan stesso, che si conclusero con la rimozione dall’incarico di quest’ultimo nel 1560. Successivamente a questi avvenimenti la gestione della nuova linea politica venne lasciata ad una fazione capeggiata dalla nutrice di Akbar e da suo figlio Adam Khan. Egli riprese l’espansione con la spedizione contro il sultanato del Malwa. Presto però i rapporti tra il padishah e Adam Khan si deteriorano e le tensioni tra i due esplosero quando Adam Khan uccise il primo ministro, una delle figure più vicini ad Akbar.
Le cronache raccontano che Adam Khan si recò all’ingresso dell’harem sporco di sangue della vittima e l’imperatore lo affrontò a mani nude, stordendolo e poi dando l’ordine di gettarlo da uno dei balconi del palazzo: dopo tale episodio la madre si suicidò. Tutto ciò è descritto nelle cronache dell’epoca e rappresentato anche nelle miniature.
Riorganizzazione dello Stato e Strategie Militari di Akbar
Il dominio Moghul in quella parte dell’India del Nord continuava ad essere quello di un esercito d’ occupazione in un territorio vasto ed ostile: era circondato da una moltitudine di stati in armi e anche la società indiana era fortemente militarizzata. L’esercito in questa fase era poco organizzato e con forti limiti strutturali, formato da 51 distaccamenti al servizio di nobili legati al sovrano da vincoli di fedeltà. La maggior parte di essi, essendo di origine turca e uzbeca, considerava il sovrano un primus inter pares, quindi questo non assicurava la loro fedeltà al sovrano, che doveva essere guadagnata ogni volta.
La minoranza – formata da circa 16 nobili – era di origine persiana, influenzata quindi dall’ideologia imperiale, cui si doveva fedeltà e obbedienza al sovrano. Akbar per modificare questa situazione, attuò una politica che aveva due obbiettivi: il controllo sulla nobiltà e uno stato in grado sbarazzarsi di ogni possibile avversario.
Queste strategie comportarono la possibilità di concentrare tutte le risorse per alcune battaglie rilevanti condotte dal padishah in persona, che si rivelò un ottimo stratega e conquistò prima del 1562 tutta l’India del Nord, l’Afghanistan e il Kandesh. La battaglia di Panipat, per quanto vinta di stretta misura, diede la fama a Akbar di essere invincibile nelle battaglie in campo aperto, mentre la conquista di alcune fortezze importanti tra il 1658 e il 1569 dimostrarono la sua abilità anche nella guerra di posizione. La fama di Akbar – e dell’esercito Moghul – fu di essere invincibili sia nella guerra di posizione che in quella in campo aperto. Ciò è dimostrato anche dal fatto che alcuni nobili e regni accettarono di sottomettersi a lui in cambio della nobiltà Moghul.
La storia di Pozzuoli è una storia lunga almeno 2500 anni e come per molte città antiche, anche le sue origini si perdono nel mito. Pozzuoli sorge infatti in un area di grande rilevanza storica e culturale, totalmente immersa nella mitologia greco romana, ma curiosamente, la sua fondazione, non sembra essere legata a particolari miti e questo perché sorge in “età storica” e tra i primi a parlarci della sua fondazione abbiamo Erodoto in persona, colui che secondo Cicerone fu il “padre della storia”.
Grazie agli scritti di Erodoto sappiamo tantissimo sulla fondazione e le origini di quel piccolo insediamento che sarebbe divenuto nei secolo successivi un elemento chiave dell’economia romana al punto da essere considerata “il porto di Roma” e non solo, sappiamo che Pozzuoli ha maturato una certa importanza simbolica anche nella tradizione cristiana attraverso i vangeli che raccontano Pozzuoli come la città in cui approdò San Paolo, in viaggio verso il martirio a Roma.
Da un certo punto di vista, Pozzuoli è una delle città di cui conosciamo meglio le origini e la sua evoluzione storica, soprattutto in epoca pre-romana, ed è proprio la sua evoluzione che da sempre alimenta alcune domande, come ad esempio, come è possibile che Pozzuoli, una città che sorgeva tra crateri di vulcani attivi, incastrata tra importanti insediamenti greci come Cuma e Napoli, sia diventata così importante e centrale nella storia di Roma? E soprattutto, come è possibile che a differenza della più antica Cuma, Pozzuoli sia sia sopravvissuta fino ad oggi, nonostante innumerevoli terremoti, maremoti, eruzioni vulcaniche e il fenomeno del Bradisismo che da almeno 40.000 anni accompagna le terre dei campi flegrei.
In questo articolo cercheremo di dare una risposta a questa domanda, e andremo alla scoperta delle origini di Pozzuoli, una città particolare, poiché praticamente priva di “miti della fondazione” nonostante sia totalmente immersa in una terra “mistica”, fortemente legata per diverse ragioni alla mitologia greco-romana. Basti pensare che, alle spalle di Pozzuoli sorge il Lago d’Averno, che nell’Eneide è descritto come la porta d’accesso agli inferi in cui Enea, l’eroe greco, è accompagnato dalla Sibilla Cumana, oracolo legato a diversi miti delle origini di roma.
Le origini mitiche di Pozzuoli
Come anticipato, a differenza di molte altre città antiche, nonostante sia totalmente immersa nella mitologia greco-romana, Pozzuoli non ha un vero e proprio mito delle origini, questo perché pochi decenni dopo la sua fondazione, Erodoto, storico, geografo e cartografo greco, ci ha fornito una ricca narrazione delle origini della città.
Secondo la tradizione Pozzuoli venne fondata nel 528 a.c. da esuli di Samo, un isola del Mar Egeo, in quel temo governata dal tiranno Policrate, che si rifugiarono nella Megale Ellas (Magna Grecia) e sappiamo per certo che non furono i soli, durante la tirannide di Policrate infatti, in molti lasciarono Samo per rifugiarsi nelle colonie dell’Italia meridionale. Tra i gli esuli illustri di Samo è importante citare anche Pitagora che trovò ospitalità a Crotone dove fondò la sua scuola.
Come Pitagora, molti degli esuli di Samo trovarono rifugio in varie colonie e altre città greche, altri invece decisero di fondare un nuovo insediamento, che non fosse solo una “colonia” anche perché da esuli i rapporti con la madre patria erano abbastanza compromessi. In ogni caso, secondo la tradizione, una delle nuove città fondate dagli esuli di Samo fu proprio Pozzuoli, o meglio Δικαιάρχεια (Dicearchia), il nome Pozzuoli sarebbe arrivato più tardi. Il nome originale dell’insediamento rifletteva le intenzioni dei suoi fondatori che puntavano a creare un qualcosa di nuovo. Il suo nome significa “luogo in cui regna la giustizia” e almeno in origine è un autentico esperimento politico, non lontano da alcuni importanti centri urbani con cui con molta probabilità intratteneva rapporti commerciali e nutre l’ambizione di diventare un autentica città stato con le proprie leggi e il proprio sistema di governo.
Una delle grandi domande che storici e archeologi si pongono quando si parla di Pozzuoli e le sue origini, è perché lì. L’Italia meridionale, da Crotone a Napoli offriva innumerevoli tratti costieri in cui era possibile insediarsi, con terre fertili, e vicini con cui commerciare, ma per qualche ragione scelsero di stabilirsi proprio lì, in una terra apparentemente non particolarmente ospitale.
Il paesaggio che i fondatori di Pozzuoli si trovarono d’avanti era tutt’altro che ospitale, l’aria sapeva di marcio, la terra trasudava tremava di continuo e trasudava fumi. Ma non solo, le vicine Cuma e Partenope (Napoli) erano impegnate in una guerra commerciale, per l’egemonia sul golfo di Napoli, contro gli Etruschi. Guerra che appena 4 anni dopo la tradizionale fondazione di Pozzuoli confluì in una battaglia nota come Battaglia battaglia di Cuma del 524 che segnò la fine di Partenope da cui i Cumani uscirono sconfitti e presumibilmente Partenope venne distrutta. E in questa furia distruttiva, Pozzuoli appariva come un piccolo insediamento, forse poco più di un villaggio, circondato da giganti in guerra tra loro.
Secondo alcune ipotesi (non confermate, e di natura abbastanza speculative, che riporto solo perché divertenti) è possibile che i fondatori di Pozzuoli non fossero interessati alle lotte di potere e le battaglie commerciali o per il controllo del golfo di Napoli, erano esuli politici desiderosi di un posto tranquillo in cui vivere in pace e armonia, e in questa prospettiva, gli apparentemente poco ospitali Campi Flegrei, offrivano un rifugio ideale, inoltre la presenza di innumerevoli vulcani rendevano la terra estremamente fertile e il mare ricco di pesci, e a chiusura del cerchio, l’area ricca di zolfo era particolarmente adatta alla coltivazione della vigna, permettendo così di produrre vino. Se a questo aggiungiamo la presenza di ricchi vicini con cui commerciare, l’area dei Campi Flegrei in cui venne fondata Pozzuoli si presentava come una realtà idilliaca, un’autentico paradiso terrestre, poco appetibile al resto del mondo a causa delle esalazioni di zolfo che rendevano l’aria non particolarmente gradevole… ma nulla che un paio di boccali di vino non potessero correggere.
Al di la di questa simpatica teoria, sappiamo che almeno nel primo secolo di vita Dicearchia mantenne un forte legame con i cumani prima con Cuma e successivamente, a seguito della rifondazione di Partenope con il nome di Neapolis, Dicearchia si legò molto alla nuova città che governava sul golfo.
Le trasformazioni di Dicearchia: Da città greca a Puteoli romana
Il dominio dei cumani sul golfo di Napoli fino dopo le guerre etrusche durò poco. E già nel V secolo venne messo in discussione dall’avanzata sannitica che dall’area umbro adriatica si era spinta fino al basso Lazio e la Campania. Senza entrare nel merito delle guerre sannitiche, il loro arrivo segnò in un certo senso la fine dell’impero marittimo dei cumani e permise alla piccola Dicearchia di staccarsi dall’influenza cumana per rivendicare la propria autonomia e, secondo alcune ipotesi, in questa fase la città cambiò la propria denominazione adottando il nome di Fistelia (o “Fistlus”/”Fistulis”).
A questa fase della storia di Pozzuoli viene fatta risalire la “Phistluis” una moneta che secondo la tradizione venne coniata dalla città di Pozzuoli in una fase intermedia tra l’influenza cumana e la conquista romana. A proposito di questa moneta ci sono molte leggende e soprattutto molti falsi risalenti ad epoche molto recenti. Ciò che sappiamo di concreto è che, almeno fino al V secolo .a.c. la moneta in uso a Pozzuoli era la dracma cumana, e dal III secolo in poi, dopo la conquista romana, adottò la monetazione Roma. Non sappiamo invece se Pozzuoli abbia mai coniato moneta propria, nè se abbia mai coniato moneta cumana o romana.
Indipendentemente dalla moneta in uso, ciò che ormai è dato per certo è che a seguito dell’avanzata sannitica e con il declino dell’impero cumano, Pozzuoli acquisì una maggiore autonomia, sia politica che commerciale. Questa autonomia venne mantenuta almeno fino alla seconda metà del IV secolo a.c. più precisamente fino al 318 a.c.
Nel 318 a.c. la città di Puteoli, nome latino della città greca di e Dicearchia/Fistelia venne inclusa ufficialmente nel regime giurisdizionale di prefettura, insieme a Capua e Cuma. Non sappiamo per certo quando sia iniziato il processo di latinizzazione di Pozzuoli, ma alcuni studi indicano che potrebbe essere iniziato circa 20 anni prima della sua annessione ufficiale, ovvero nel 338 a.c.
Pozzuoli, ora inglobata nella rete di città, municipi e colonie romane, diventa un importante snodo commerciale, e la sua vicinanza strategica ad una ricca area termale, la renderà particolarmente apprezzata dai romani, ma il vero punto di svolta della città, lo avremo durante la seconda guerra punica quando la sua baia venne utilizzata come presidio navale contro la flotta cartaginese di Annibale.
La guerra aveva evidenziato la posizione strategica di Pozzuoli, e negli anni successivi alla seconda guerra punica la città portuale, divenne uno dei porti porti commerciali più importanti del mediterraneo romano, mentre la flotta militare venne trasferita sul versante opposto del golfo di Pozzuoli, a Capo Miseno, dove sappiamo era ancora stanziata, sotto il comando di Plinio il Vecchio, nel 79 d.c. ma questa è un altra storia.
Napoli e Partenope sono la stessa città o sono città diverse? Nell’epoca dei social non è difficile imbattersi in post che parlano di Napoli e Partenope come se fossero città e realtà diverse, anche se vicine e in un certo senso legate tra loro, così come non è difficile imbattersi in post in cui i due nomi fanno riferimento alla stessa città in momenti differenti, ma qual è la verità? Napoli e Partenope sono la stessa cosa o sono città diverse ma molto vicine tra loro che col tempo si sono fuse insieme?
Per cercare di rispondere a questa andremo alla riscoperta delle origini di Napoli tra archeologia, storia, miti e leggende, e prometto che cercherò di essere il più breve possibile.
Le origini mitiche di Napoli
Come molte città antiche, anche l’origine di Napoli si perde nel mito e tra le tante versioni che si sono susseguite nei secoli in merito alla fondazione di Napoli, il mito di Partenope è forse uno dei più affascinanti che è giunto a noi in varie versioni.
Secondo la tradizione popolare Partenope era una sirena, raffigurata secondo i canoni della mitologia greca, un ibrido con il corpo di uccello e la testa di donna, dal canto melodioso. Molto simile esteticamente alle arpie, ma con caratteristiche differenti, nella mitologia greca infatti le arpie sono più violente e punitive, mentre le sirene sono creature seducenti. Per quanto riguarda Sirene e Arpie nella mitologia greca, va detto che ci sono diverse teorie secondo cui sarebbero la stessa creatura in momenti diversi.
Tornando alla sirena Partenope, secondo la leggenda questa fu la sirena che tentò di ammaliare Ulisse con il proprio canto, tuttavia, l’eroe, avvertito dalla maga Circe, si era fatto legare all’albero maestro della nave così da resistere al canto delle sirene. Secondo la leggenda napoletana, la sirena Partenope, non riuscendo nel proprio intento, si gettò in mare e il suo corpo fu trasportato dalle onde fino all’isolotto di Megaride, dove oggi sorge il Castel dell’Ovo dando origine alla città di Napoli.
La cosa più interessante di questo mito è che se si immagina la sirena moderna, creatura marina per metà donna e per metà pesce, non ha alcun senso, tuttavia, se si considera la sirena greca, per metà donna e per metà uccello, tutto cambia.
Questa versione prende le battute dalla tradizione omerica e dall’odissea ed è la versione più conosciuta del mito di partenope, soprattutto fuori da Napoli, vi sono tuttavia altre versioni del mito, proprie della tradizione locale.
Una di queste versioni, molto presente nella tradizione popolare napoletana, racconta di una sirena Partenope, che viveva nel golfo di Napoli, innamorata del centauro Vesuvio. Il loro amore è tuttavia ostacolato da Zeus, a sua volta invaghito di Partenope, decise di separarli per sempre. Vesuvio venne così trasformato in un vulcano e Partenope nella città di Napoli. I due amanti sono così condannati ad un supplizio, un amore eterno e impossibile, con il Vesuvio condannato a vegliare costantemente sulla città senza poterla mai raggiungere. La cosa interessante di questo mito è che non sappiamo a quando risalga, e nella tradizione popolare Partenope è generalmente descritta come una sirena “moderna” metà donna e metà pesce, elemento che potrebbe suggerire un origine medievale del mito, probabilmente derivato da un mito più antico.
Ultima versione del mito di Partenope che voglio riportare, ci arriva attraverso la raccolta “Le leggende napoletane” di Matilde Serao, ed è una versione molto particolare, molto legata alla fondazione della città e poco legata al “mito”. In questa leggenda infatti Partenope non è una creatura mitica ma una giovane donna greca innamora dell’eroe ateniese Cimone. Tuttavia, il padre di Partenope avendo promesso sua figlia in sposa ad un altro uomo, cercherà di ostacolare il loro amore. Cimone e Partenope decidono quindi di lasciare la Grecia e dopo un lungo viaggio approdano sulle coste del golfo di Napoli, qui costruiranno il proprio nido d’amore, e la loro discendenza darà vita al popolo napoletano. In questa versione del mito Partenope è sostanzialmente un antica colonizzatrice e madre mitica del popolo napoletano.
Ciò che questi tre miti hanno in comune, ma che in realtà lega insieme tutti i miti della fondazione di Napoli legati a Partenope, è il fatto che Partenope incarna l’essenza stessa di Napoli. La sua bellezza ammaliante, il suo fascino seducente, il suo legame indissolubile con il mare e la sua storia travagliata e appassionata, e solleva una domanda, ci fu davvero una “Partenope” nella storia di Napoli? E la risposta a questa domanda è si.
Cosa sappiamo sulla fondazione di Napoli
Mettendo da parte il mito e rivolgendo lo sguardo verso l’archeologia, noi oggi sappiamo che intorno all’VIII secolo coloni greci arrivarono nel golfo di Napoli, all’epoca chiamato kratèr, e fondarono un importante colonia con il nome di Kýmē (odierna Cuma) legata alla storia e al mito delle origini di Roma. Cuma divenne immediatamente un importante snodo commerciale per altre sub-colonie nella regione, tra cui la colonia mineraria di Πιθηκοῦσσαι (Pithecusa oggi Ischia) e una colonia commerciale tra Vesuvio e Campi flegrei, chiamata Παρθενόπη, ovvero Partenope.
Se Cuma sorge come avamposto, Partenope viene fondata per una ragione differente, la sua posizione strategica sul colle di Pizzofalcone offre il un ampio controllo litoraneo e del traffico marittimo nel golfo. E vista la sua posizione strategica fondamentale verrebbe da chiedersi, perché i greci si insediarono prima a Cuma e solo in seguito nel golfo di Napoli con la fondazione di Partenope?
Non abbiamo una risposta certa a questa domanda, ciò che sappiamo è che nell’area dell’attuale basilica di Santa Maria degli Agnelli a Pizzofalcone, dove sappiamo sorgeva l’acropoli della città greca di Partenope, sono stati rinvenute tracce di insediamenti risalenti al Neolitico e soprattutto all’Età del Bronzo. Questi reperti ci suggeriscono che l’area fosse già occupata prima della colonizzazione greca.
Nei secoli successivi, per almeno due o tre secoli, il nome della città greca che controlla il golfo di Krater (il golfo di Napoli) è Partenope, ed è un avamposto Cumano, estremamente importante per il controllo della regione e che tale espansione non fu esente da conflitti e scontri con gli altri popoli italici, in particolare latini ed etruschi. A tale proposito sappiamo che nel VI secolo, si ipotizza intorno al 524 a.c. le rivalità tra cumani ed etruschi culminarono nella battaglia di Cuma, che vide la sconfitta dei cumani e segnò l’inizio del declino della città di Partenope. In quello stesso periodo, tra Partenope e Cuma , esuli di Samo fondarono l’insediamento di Pozzuoli. Il declino di Partenope che durò circa mezzo secolo e approssimativamente intorno al 474 a.c. ci fu un nuovo scontro navale tra la flotta etrusca e quella cumana guidati da Ierone I di Siracusa. La coalizione delle colonie greche riuscì a sbaragliare le forze etrusche, permettendo alla città di Partenope di risorgere.
Secondo la tradizione il 21 dicembre 475 a.c. (data presumibilmente scelta in maniera simbolica) Partenope venne rifondata sore una Neapolis, adiacente alla Palepolis, ovvero una città nuova accanto alla città vecchia. In cui, il vecchio sito di Partenope rappresentava la Palepolis, mentre la nuova area urbanizzata divenne la Neapolis.
Da fonti del V secolo sappiamo che il nuovo insediamento di Neapolis, che inglobava la vecchia Partenope, non era considerato all’epoca una vera e propria espansione di Partenope, quanto più una nuova città, che sorgeva in qualche modo dalle ceneri di Partenope, motivo per cui la tradizione ci riporta come data di fondazione della città, la “rifondazione” del V secolo, con un nuovo nome, mentre il vecchio nome di Partenope è progressivamente abbandonato.
Perché Napoli ha cambiato nome ed ha abbandonato quello di Partenope?
A questo punto la domanda sorge spontanea, sappiamo che Napoli ha un forte legame con la tradizione e con il mito di Partenope, e sappiamo che i suoi abitanti non hanno mai ufficialmente dismesso il nome di “partenopei” sentendosi in qualche modo discendenti di Partenope. Partenope ancora oggi, lo vediamo nella narrazione di Matilde Serao, è considerata la Madre mitica di Napoli e dei suoi abitanti, ma allora perché Napoli non si chiama più Partenope?
Se avessimo una risposta chiara a questa domanda, sapremmo molte più cose sul nostro passato di quante non ne sappiamo effettivamente, perché purtroppo, una risposta chiara e netta non l’abbiamo, sappiamo che il nome cambia a seguito di una serie di scontri durati più di mezzo secolo, ma non sappiamo se tra la prima e la seconda battaglia di Cuma, la città di Partenope venne abbandonata o meno.
Secondo alcuni storici il motivo per cui il nome Partenope venne dismesso in favore di Neapolis è perché dopo la prima battaglia di Cuma la città di Partenope cadde completamente e solo dopo la vittoria cumana nella seconda battaglia di Cuma, la città venne effettivamente rifondata. Secondo altri il cambio di nome indica un a trasformazione, un cambio al vertice. Partenope era una colonia Cumana, Neapolis esiste grazie all’aiuto dei siracusani. Ma queste sono solo due delle innumerevoli ipotesi e leggende sul perché, nel V secolo Partenope si trasformò in Napoli, mentre i suoi abitanti continuarono a considerarsi “figli di Partenope”.
Se l’articolo è stato interessante ti invito a condividerlo. Facci sapere se vuoi approfondire la storia della fondazione di Cuma e il suo legame con la storia e i miti delle origini di Roma.
Periodicamente l’attenzione dei media globali torna su Taiwan, il conflitto con la Cina per la sua “indipendenza” e gli interessi USA nella regione. MA perché un isola grande appena un decimo dell’Italia, con una popolazione di appena 24 milioni di abitanti e un PIL pari a 2/5 di quello italiano, è così importante per USA e Cina?
Taiwan è per la Cina quello che Fiume fu per l’Italia dopo la prima guerra mondiale. L’emblema di una “vittoria mutilata“, di una promessa tradita da parte degli alleati. O almeno questo è quello che la Cina nazionalista (come l’Italia dell’epoca) racconta a se stessa e ai propri cittadini.
Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, la Cina, al fianco degli alleati, combatte l’impero giapponese al fianco dell’asse. Per la Cina vincere significa riconquistare l’isola di Formosa, persa contro i giapponesi durante l’ultima guerra sino-nipponica (circa 50 anni prima) e garantirsi una maggiore influenza sul pacifico e il traffico tra pacifico e mar cinese meridionale.
La guerra finisce, l’isola è conquistata, ma neanche 5 anni più tardi, la rivoluzione di Mao cambia il volto del paese. La Nuova Repubblica Popolare Cinese controlla il continente, ma a Taiwan, dove la rivoluzione non attecchisce, si stabilisce il vecchio governo della Repubblica di Cina e per vent’anni entrambi i governi rivendicano la propria sovranità sull’intero territorio cinese, (compresa Taiwan), ed è qui , nel 1949 che iniziano i problemi.
Facciamo allora qualche passo indietro, cerchiamo di capire perché le varie versioni, molto diverse tra loro, fornite da Cina, USA e Taiwan, sono così fortemente politicizzate e polarizzate e sostanzialmente appaiono agli occhi della storia come narrazioni distorte di una realtà che in qualche modo si è perduta.
In questo articolo, senza altri giri di parole, voglio andare alla scoperta delle “origini” di Taiwan e delle ragioni che si celano dietro le pretese territoriali di Cina, USA e Taiwan.
Le origini di Taiwan
Storicamente è difficile parlare di Taiwan senza parlare del conflitto con la Cina, poiché le due realtà viaggiano parallelamente e affondano le proprie radici nella Cina moderna e sono il frutto di un articolato intreccio di guerra civile, interessi economici nazionalisti e imperialisti, forze interne e pressioni esterne, in particolare degli Stati Uniti, ma non solo.
Secondo fonti ufficiali, l’Isola di Taiwan, originariamente chiamata Formosa, venne colonizzata dagli esploratori europei nel XVI secolo, tra 1500 e 1600 e secondo annali, registri commerciali e atti diplomatici, l’isola rimase sotto il controllo diretto delle potenze occidentali almeno fino al XIX secolo, quando venne inglobata nella neonata provincia di Fujian-Taiwan, istituita dall’impero cinese intorno al 1887 e rimase sotto il controllo cinese, fino alla guerra sino-giapponese (1894-1895) al cui termine, i giapponesi sottrassero l’Isola al controllo cinese.
Nel mezzo secolo successivo l’isola fa parte dell’impero giapponese e solo i trattati di pace alla fine della seconda guerra mondiale, videro la cessione dell’Isola alla Cina. Ed è proprio in questi anni, tra il 1945 ed il 1949, con la rivoluzione di Mao, che ebbe inizio il “conflitto” diretto tra Taiwan e la Cina continentale.
Più precisamente, mentre nella Cina continentale il partito comunista cinese guidato da Mao Zedong avanzava e trionfava nella guerra civile, ciò che rimaneva dell’altra parte, il governo del Kuomintang, si rifugiarono sull’isola di Formosa a Taiwan ed è questo il momento di rottura.
Le forze militari del Kuomintang, asserragliate sull’isola, riescono a resistere alla rivoluzione maoista, e mentre nella Cina continentale veniva costituita la Repubblica Popolare Cinese (RPC), che rivendicava la propria sovranità su tutto il territorio della Cina continentale e possedimenti extraterritoriali della Cina, dall’altra parte, il governo separatista di Taiwan riconosceva se stesso come legittimo governo della Repubblica di Cina (RPC) istituita nel 1912 e di conseguenza rivendicava la propria autorità sull’intero territorio cinese, sia continentale che extraterritoriale.
Disputa territoriale tra Cina e Taiewan
A questo punto ci sono due istituzioni, la RPC e la ROC, con due governi distinti, che rivendicano entrambe la sovranità sull’intera Cina, la prima controlla effettivamente il paese e governa da Pechino, la seconda in esilio a Taiwan senza alcun controllo diretto o indiretto sul territorio cinese.
Questa disputa viene parzialmente risolta nel 1971 con la risoluzione 2758 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, risoluzione che riconosce la Repubblica Popolare di Cina come l’unico rappresentante legittimo della Cina continentale all’interno delle Nazioni Unite, e di conseguenza riconosce il governo di Pechino come legittimo governo cinese, espellendo i rappresentanti della ROC dall’ONU.
La questione sembra risolta, tuttavia il governo di Taiwan, rivendica il proprio diritto a partecipare alle Nazioni Unite, poiché la risoluzione 2758, non la riconosce ufficialmente come parte del territorio cinese. Dall’altra parte per la Cina continentale, e la stessa ONU, tale riconoscimento non può avvenire in maniera arbitraria, ma deve esserci un istanza di indipendenza da parte di Taiwan, la cui assenza rende de facto Taiwan una regione autonoma della Cina (esattamente come Hong Kong, Macao ecc).
Dal 1971 ad oggi, Taiwan ha presentato diverse richieste all’ONU per essere riconosciuta come stato sovrano, richieste per lo più respinte in favore delle opposizioni della Cina.
Dall’altra parte, va detto che il governo di Pechino è tutt’altro che indulgente con Taiwan, ha sempre considerato Taiwan una parte irrinunciabile del territorio cinese, e de facto considera qualsiasi movimento estero a sostegno dell’indipendenza formale dell’isola come una minaccia diretta all’integrità territoriale della Repubblica Popolare Cinese.
Su questo punto è bene fare un chiarimento aggiuntivo. Le opposizioni della RPC all’indipendenza di Taiwan, sono sia interne che esterne, e si fondano prevalentemente sulla “costituzione” cinese, il diritto cinese e lo stesso statuto dell’ONU.
Si tratta delle stesse opposizioni mosse dal governo spagnolo nei confronti dell’indipendenza catalana, o delle opposizioni Italiane alle richiesta di indipendenza della padania, o degli USA alle recenti richieste di indipendenza di alcuni stati federali.
Sebbene la RPC sia contrario e si opponga fortemente all’indipendenza formale di Taiwan, non ne esclude esclude la possibilità, e in più occasioni il governo di Pechino si è detto disposto ad accettarle a condizione che questa richiesta venga formulata seguendo la prassi riconosciuta dall’ONU e il principio di autodeterminazione dei popoli. Ed è su quest’ultimo punto che sorge il vero problema dell’indipendenza di Taiwan, perché la stessa Taiwan, pur rivendicando insistentemente la propria indipendenza dalla Cina, non ha mai riconosciuto se stessa come un popolo diverso da quello cinese, rigettando de facto l’idea di un nazione diversa.
Ricordate la risoluzione 2758 del 1971 che riconosce al governo di pechino la sovranità sull’intero territorio della Cina? Ecco, Taiwan non ha mai accettato apertamente tale risoluzione e, anche se espulsa dall’ONU, ha continuato e continua tutt’oggi, sostenuta dagli USA a riconoscere se stessa come parte del territorio cinese e continua a rivendicare la propria sovranità sull’intera cina.
Prendete quanto segue molto con le pinze, ma sembra quasi che tra Cina continentale e Taiwan, la vera disputa territoriale, continui ad essere non la sovranità sull’isola di Taiwan, ma la sovranità sulla Cina continentale, o almeno così è stato fino a circa 20 anni fa.
Fino a gli anni 90 anche nei documenti ufficiali, sia Taiwan che USA e Giappone, hanno continuato a definire Taiwan come “Taiwan-Cina”, e solo di recente questo nominativo è scomparso in favore del semplice “Taiwan“.
Tutti vogliono Taiwan
Come abbiamo visto, la questione di Taiwan è molto più che una semplice disputa territoriale per il controllo di un isola, e se per la Cina rappresenta una risorsa strategica, ma soprattutto un importante obbiettivo politico in termini di unità nazionale, per fare un esempio pratico, per la Cina, Taiwan è un po’ quello che Fiume era per l’Italia dopo la prima guerra mondiale. Ma non solo, dal punto di vista geopolitico, Taiwan occupa una posizione strategica estremamente rilevante, l’isola venne colonizzata nel XVI secolo per la sua posizione chiave per il controllo delle rotte e l’accesso l’accesso marittimo tra il Mare della Cina Meridionale e l’Oceano Pacifico.
Per la Cina controllare Taiwan significherebbe permetter alla propria marina di ottenere uno sbocco diretto sul Pacifico, estendendo di conseguenza la propria influenza marittima e mettendo in discussione l’attuale supremazia navale statunitense nelle acque dell’estremo oriente. Supremazia ottenuta a seguito della vittoria sul Giappone nella seconda guerra mondiale e la nascita di Taiwan, che de facto ha “mutilato” la vittoria cinese.
Dal Movimento Sociale Italiano a Fratelli d’Italia, una parte della destra italiana ha sempre esibito con fierezza e orgoglio un simbolo di partito, la fiamma tricolore, un simbolo che porta con se un eredità storica oltre che politica, si tratta infatti di uno dei simboli politici più longevi nella storia della Repubblica Italiana, secondo solo allo scudo crociato della Democrazia Cristiana, usato anche nel regno d’Italia e la falce e martello comunista, anche questo usato già prima della repubblica.
Fin da quando esiste la repubblica italiana, la fiamma tricolore, emblema della destra e in alcuni momenti estrema destra italiana, ha mantenuto una presenza costante nel panorama politico evolvendo nel tempo insieme alla stessa politica italiana, con risvolti complessi e controversi e soprattutto con diverse interpretazioni legate alle sue origine e al suo significato.
Il simbolo, creato agli albori della Repubblica, da un partito formato da ex fascisti ed esponenti della Repubblica sociale italiana, quasi sempre è stato ricondotto al fascismo italiano, tuttavia, la storia di questo simbolo è molto più ampia e si radica in un Italia che precede il fascismo stesso.
In questo articolo andremo alla scoperta della storia, le origini e le leggende legate alla fiamma tricolore, simbolo storico della destra italiana, e forse sfateremo qualche mito e falsa credenza legati a questo simbolo.
La Fiamma Tricolore
Partiamo dalla sua creazione ufficiale, siamo sul finire degli anni quaranta, più precisamente tra 1946 e 1947, il 26 dicembre 1946 alcuni reduci della Repubblica Sociale Italiana ed ex esponenti del regime fascista, tra cui Giorgio Almirante e Pino Romualdi, si riuniscono per fondare un nuovo partito da inserire nel panorama nazionale, nasce così il Movimento Sociale Italiano, MSI, e nel gennaio del 1947, appare per la prima volta La fiamma tricolore come simbolo di questo nuovo partito, erede e allo stesso tempo distaccato dall’esperienza fascista.
Non sappiamo con precisione chi progettò il simbolo, secondo alcuni fu opera dello stesso Almirante che nel 1946, scrisse “Siamo nati nel nome d’Italia/stretti attorno alla nostra Bandiera/è rinata con noi primavera/si è riaccesa una Fiamma nel cuor/Italia, sorgi a nuova vita, così vuole/Chi per te morì”. Secondo altre versioni invece, la fiamma sarebbe un simbolo preesistente.
Ad oggi non sappiamo con certezza chi abbia concepito la fiamma e la sua simbologia, e sebbene alcuni studi ipotizzino che, questo simbolo sarebbe una derivazione del distintivo del reggimento degli Arditi, corpo speciale del Regio Esercito italiano durante la Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, l’unica fiamma che troviamo tra i simboli del regimento degli arditi è quella del IX reparto d’assalto, ed è una fiamma molto diversa da quella usata dal MSI e molto più simile alla fiamma dei Carabinieri, in uso fin dal 1882, mentre il simbolo ufficiale degli arditi era un teschio con una corona d’alloro e un pugnale tra i denti.
Cercando tra simboli militari e politici in uso negli anni precedenti la nascita del MSI possiamo tuttavia trovare un simbolo, molto simile, alla fiamma tricolore adottata dal MSI, ed è il simbolo del Rassemblement national populaire, RNP, fondato nella Francia di Vichy nel 1941 dall’ex ministro dell’aviazione francese Marcel Déat. Il RNP fu uno dei tre partiti “collaborazionisti” (che collaborarono con i nazisti) della Repubblica di Vichy, e fu sostanzialmente un partito nazionalsocialista e di ideologia fascista, francese.
La fiamma nel simbolo del RNP ci apre una nuova strada alle origini della fiamma tricolore del MSI, e soprattutto smentisce le parole di Fabio Rampelli, secondo il quale “la fiamma è un simbolo del secondo dopoguerra che nulla ha a che vedere con i totalitarismi del Novecento. Il simbolo simmetrico alla falce e martello è la croce uncinata nazista e il fascio littorio e tutti e tre sono stati stigmatizzati dal Parlamento europeo da una risoluzione” poiché è vero che la fiamma tricolore non era il simbolo del fascismo, ma è anche vero che, almeno dal 1941, vari movimenti fascisti e collaborazionisti, adottarono la fiamma.
Va detto che un altra fiamma, prima di quella del MSI e successiva alla fiamma del RNP appare nella simbologia politica italiana nel 1942, e contrariamente a quello che ci potremmo aspettare a questo punto della storia, appare in un partito antifascista, ovvero il Partito d’Azione di Perruccio Parri, Emilio Lussu, Ugo La Malfa e Riccardo Lombardi.
Si tratta, come possiamo vedere, di una fiamma molto diversa da quella del MSI e del RNP francese, che invece sono tra loro molto affini, soprattutto se si considera che il simbolo del Front National del 1972, erede in un certo senso del RNP, è una fiamma tricolore identica alla fiamma del MSI, con la sola differenza che i colori sono Blu, Bianco e Rosso e non Verde, Bianco e Rosso
Anche in Belgio, nel 1985, il Front National di Daniel Féret, ha adottato come simbolo una fiamma tricolore, che sembra incrocio tra la fiamma del MSI e la fiamma del RNP.
Come possiamo osservare molti partiti, con ideologie simile, generalmente partiti di destra, fortemente Nazionalisti, in molte parti d’Europa, hanno adottato, nel corso del tempo il simbolo della fiamma, molto spesso derivato dal simbolo del MSI, che a sua volta sembra essere derivato da simboli precedenti.
Cosa significa la fiamma?
Il simbolo della Fiamma Tricolore viene inizialmente concepito come un trapezio, al cui interno è presente la sigla del MSI. Secondo il Michelangelo Borri dell’Università di Trieste, la Fiamma ha un forte legame con il MSI, e qualunque sia la sua origine, diventa a tutti gli effetti un simbolo politico, nel 1946 grazie al MSI. Secondo Borri infatti, nel 1946 il MSI prende il simbolo della fiamma e lo carica di significato, attraverso il suo utilizzo come logo, come stemma e attraverso il suo racconto trasversale. La fiamma non è solo il logo, è presenta anche nell’inno del partito, il “canto degli Italiani” scritto da Almirante.
Siamo nati un cupo tramonto Di rinuncia, vergogna, dolore: siamo nati in un atto d’amore riscattando l’altrui disonor. Siamo nati nel nome d’Italia, stretti attorno alla nostra Bandiera: è rinata con noi primavera, si è riaccesa una Fiamma nel cuor. Italia, sorgi a nuova vita, così vuole Chi per te morì, chi il suo sangue donò chi il nemico affrontò Giustizia alla Patria darà. Italia, rasserena il volto, abbi fede: nostro è l’avvenir. Rispondi, rispondi, o Italia! Si ridesta la tua gioventù. Noi saremo la vostra avanguardia, Italiani, coraggio: in cammino. Solo ai forti sorride il destino; liberate la Patria, il Lavor. Noi saremo la Fiamma d’Italia, il germoglio di un’alba trionfale, la valanga impetuosa che sale: Italiani, coraggio: con noi! Italia, sorgi a nuova vita.
C’è poi un interpretazione più diretta e audace, fornita da Anna Foa, secondo cui il simbolo della fiamma “sta probabilmente a significare lo spirito fascista che risorge”. Questa interpretazione che collega esplicitamente il simbolo a una continuità ideologica con il fascismo, potrebbe avere un senso, se non fosse che, come abbiamo visto, nel 1941 il simbolo della Fiamma era già in uso a movimenti filofascisti d’oltre alpe, e dunque l’idea di una “rinascita” dello spirito fascista, ha poco senso.
C’è allora da caire cosa vuol dire effettivamente la Fiamma prima della seconda guerra mondiale. Ma prima della guerra non sembrano esserci utilizzi effettivi della fiamma, o meglio, non ci sono utilizzi chiari, forti e carichi di significato. Come già osservato, l’unico utilizzo riconosciuto di una simbologia analoga lo abbiamo con la fiamma del RNP francese del 1941, ed è un caso interessante poiché il contesto storico, politico, culturale, in cui esistette il RNP è analogo all’esperienza vissuta in Italia dal della RSI, tra 1943 e 1945, ovvero una dittatura militare con un governo fantoccio per un regime collaborazionista della Germania nazista. E proprio in quel contesto incontriamo molti dei futuri fondatori del MSI, tra cui lo stesso Giorgio Almirante che nella RSI fu capo di gabinetto del Ministero della Cultura Popolare.
Da un certo punto di vista quindi, più che una continuità diretta tra il “fascismo” e il MSI, potremmo dire che, almeno nel MSI delle origini, ci fu una continuità tra il MSI e la RSI, visto che innumerevoli funzionari della RSI, scampati alla galera per via dell’amnistia, confluirono nel MSI, e questo forse è anche più grave, poiché prendendo per buona l’idea che il Mussolini dittatore d’Italia “ha fatto anche cose buone”, è decisamente più “difficile” individuare qualcosa di positivo nell’esperienza della RSI, de facto una provincia del Reich, complice di rastrellamenti, deportazioni, linciaggi e innumerevoli crimini di guerra. Ma non siamo qui a dare giudizi, siamo qui per individuare le origini del simbolo della fiamma tricolore.
La fiamma tricolore, così come è stata concepita nel 1946, e per come è stata utilizzata dal 47 ad oggi, porta con se una serie di idee, ideologie, e valori, che possono piacere o meno, essere condivisi o meno, alcuni dei quali sono appartenuti anche al fascismo e l’antifascismo italiano degli anni 30 e 40. Principalmente un ideologia nazionalista radicale, generalmente militarista, con elementi di socialismo rivoluzionario e irredentista, e tali principi sono ancora fortemente radicati nella fiamma.
Il simbolo, generalmente rappresentata come una fiamma più o meno stilizzata, colorata con i simboli della bandiera nazionale, ad oggi è utilizzato, non più solo in Italia e Francia, per lo più da partiti, movimenti e forze politiche di forte ispirazione nazionalista e ultranazionalista, antiglobalista, generalmente di destra ed estrema destra, e in alcuni rari casi dichiaratamente di ispirazione “nostalgica”. Tale simbolo è presente nell’iconografia politica Italiana e Francese, ma anche Belga, Portoghese, Spagnola, Greca, Ceca, Romena, Argentina, Cilena, Norvegese e Polacca, e se in Francia e Italia ha avuto origine in epoca fascista, o comunque da uomini che hanno avuto un ruolo attivo nell’esperienza fascista, come Giorgio Almirante e Marcel Déat, nel resto del mondo in realtà stato adottato molto più recentemente. Fatta eccezione per il Belgio che l’ha ereditata dalla Francia negli anni ottanta, il resto del mondo l’ha adottata a partire dalla fine degli anni novanta e inizio anni 2000, e nel complesso, si tratta per lo più di movimenti politici che in momenti differenti hanno manifestato e dichiarato, in maniera più o meno aperta, un desiderio di continuità con l’ideologia fascista e nazional-socialista.
Molti di questi movimenti hanno avuto un evoluzione simile, sono nati con un impronta fortemente radicale e in continuità con un passato, più o meno recente, di ispirazione fascista, e crescendo si sono aperti a correnti più moderate, in sostanza, man mano che i loro consensi crescevano, le posizioni più radicali venivano abbandonate in favore di posizioni più moderate, questo è particolarmente evidente nei casi di maggior rilievo, come il MSI italiano e il Front National francese, la cui continuità con il passato fascista e nazionalsocialista è stata progressivamente abbandonata e in alcuni casi apertamente rinnegato.
Dal MSI ad oggi
Come abbiamo visto, la fiamma tricolore è cambiata negli anni e con essa è cambiato il MSI e i suoi eredi, assumendo col tempo posizioni sempre più moderate. Negli anni sessanta assistiamo ad un vero e proprio rinnovamento del partito che porterà all’allontanamento di individui pericolosi come Juno Valerio Borghese (ex comandante della X-MAS e futuro golpista italiano), evoluzione e ammorbidimento che negli anni 90 porterà allo scioglimento del MSI e la nascita di Alleanza Nazionale sotto la guida di Gianfranco Fini, tra i primi in quell’ambiente politico a prendere ufficialmente le distanze dall’ideologia fascista, fino a quel momento riconosciuta come una parte importante del proprio passato. Fin dal 1948 il MSI aveva adottato come proprio slogan l’idea di “non rinnegare, ne restaurare” il Fascismo, e questa visione, già allontanata da Augusto De Marsanich negli anni 60, venne definitivamente abbandonata con Fini.
L’effetto di questo rinnovamento come sappiamo portò nel 2009 alla fusione di Alleanza Nazionale con Forza Italia nel Popolo della Libertà segnando per la prima volta la sparizione della fiamma tricolore dalla simbologia politica italiana, una sparizione che sarebbe durata solo 5 anni, ovvero fino alla sua riapparizione nel 2014 come parte del simbolo di partito di Fratelli d’Italia in quanto erede di Alleanza Nazionale.
Ad oggi, sebbene la maggior parte degli storici convenga sul fatto che non ci fu un momento unico che segnò le sorti della seconda guerra mondiale, tuttavia, in molti, soprattutto tra i più politicizzati, sostengono varie teorie, i più orientati a sinistra vedono nell’ingresso dell’URSS nella seconda guerra mondiale, un momento cruciale che forzò la mano degli USA ad entrare nel conflitto assicurando così una coalizione URSS+USA abbastanza potente da poter sconfiggere l’asse. Secondo altri il solo ingresso degli USA fu determinante ed è quindi merito esclusivo degli USA se la guerra si è conclusa con la vittoria alleata. Altri ancora sostengono che, se l’Italia non avesse iniziato il conflitto con l’Asse, le forze Naziste non si sarebbero frammentate per sopperire ai disastri bellici dell’Italia, e questo avrebbe reso molto più ostica la vittoria alleata.
La verità è che probabilmente non ci fu un singolo momento o attore decisivo per la seconda guerra mondiale, ma una serie di momenti e attori determinanti, che permisero nel tempo, agli alleati, di ottenere un vantaggio strategico sull’asse, che fu decisivo solo come insieme di una serie di innumerevoli fattori.
E uno di questi fattori vede come protagonista un matematico, l’intelligence britannica, e una macchina che permise agli alleati di sconfiggere Enigma, l’arma segreta dei nazisti.
Siamo nel 1940, la seconda guerra mondiale è iniziata da qualche mese e le comunicazioni naziste sembrano inviolabili agli occhi dei servizi britannici. I nazisti usano infatti Enigma, una sofisticata macchina in grado di cifrare i documenti e solo conoscendo la chiave di decrittazione è possibile decifrare il messaggio, ma c’è un problema, la chiave, i codici nazisti cambiano ogni giorno…
L’Intelligence militare britannica, per contrastare Enigma, avvia il programma Ultra, che raccoglie matematici, ingegneri ed esperti di crittografia, per riuscire nell’epica impresa di decifrare, ogni giorno, i codici di Enigma.
Occasionalmente riescono in tarda serata o dopo la mezzanotte, quando ormai è troppo tardi ed i codici sono già cambiati. Tra di loro c’è un giovane matematico, Alan Turing, di cui ho già parlato in un episodio del mio podcast, con una visione innovativa, una macchina in grado di eseguire migliaia di operazioni complesse e riuscire così ad individuare la chiave di Enigma in tempi rapidi. I suoi colleghi lo considerano un folle ma qualcuno nei servizi gli dà una possibilità. Non sappiamo quando, ma tra il 1940 ed il 1942, Turing riesce, più o meno, nell’impresa, trova una vulnerabilità nelle comunicazioni Naziste, una vulnerabilità che permetterà alla sua macchina Bomba, di decifrare i codici di Enigma in pochi secondi.
Sappiamo che almeno dal 1942 i britannici decriptano migliaia di documenti al giorno, conoscono ogni mossa dei Nazisti, i dettagli delle operazioni prima ancora che queste abbiano inizio, e grazie a loro, grazie al lavoro di Turing, gli Alleati dispongono di informazioni chiave e determinanti per poter vincere la guerra. Decidono però di non usarle, non sempre, non vogliono che i Nazisti sappiano e possano correggere la vulnerabilità.
Finita la guerra Bomba viene distrutta e tutti i documenti relativi al programma insabbiati. Solo nei primi anni 2000 il governo britannico rivela al mondo la verità.
Turing aveva trovato una vulnerabilità nelle comunicazioni naziste, non in Enigma, per questo è stato nascosto tutto, perché fino a quel momento, nessuno era riuscito a violare realmente Enigma.
Alan Turing: Il Genio di Bletchley Park
La svolta che Turing diede alla guerra parte da un’intuizione, ovvero che una macchina come enigma poteva essere battuta solo da un altra macchina, ed è proprio sulla base di questa visione e delle altre teorie di Turing che oggi il matematico britannico è considerato uno dei padri dell’informatica moderna, e per certi versi l’uomo che compì il primo cyber attacco della storia, gettando le basi non solo dell’informatica moderna, ma anche di un nuovo modo di fare e concepire la guerra, cerchiamo allora di conoscere meglio Alan Turing.
Alan Mathison Turing nasce a Londra nel 1912 e stando alle sue biografie, mostrò fin da subito uno spiccato acume matematico, si dice che a soli sedici anni fosse già in grado di comprendere gli studi di Einstein. Nel 1939, quando inizia la seconda Guerra Mondiale Turing, all’epoca ventisettenne, venne reclutato dai servizi segreti britannici come crittografo e assegnato alla Stazione X, la base militare segreta di Bletchley Park a circa 75 km a nord ovest da Londra.
In poco tempo viene nominato alla guida di un team di ricercatori il cui obiettivo è quello di decifrare il sofisticato codice Enigma utilizzato dai nazisti nelle loro comunicazioni riservate.
I Britannici sono infatti in grado di intercettare diverse comunicazioni crittografate dell’aviazione tedesca, comunicazioni che però sono inutili se non decifrate e decifrarle significa conoscere i piani segreti ed i dettagli delle operazioni naziste in corso, in termini pratici sarebbe come avere accesso ai centri di comando dell’asse.
Il team di Turing si compone di menti brillanti, matematici, linguisti, egittologi e si ipotizza anche giocatori di scacchi ed esperti di cruciverba, le cui competenze prese singolarmente non erano significative, ma combinate diventavano determinanti nella lotta contro Enigma.
In tutto questo però, Turing è mosso da un idea innovativa e controversa, è fermamente convinto che solo una macchina possa sconfiggere una macchina come Enigma, il dispositivo tedesco usato per cifrare i messaggi nazisti.
Enigma: La Macchina “Impenetrabile”
Enigma era considerata all’epoca l’arma segreta del Reich, un dispositivo complesso, progettato negli anni 20 e perfezionato nel corso di due decenni, dall’aspetto e le dimensioni di una macchina da scrivere dotata di due tastiere: quella inferiore serviva per scrivere, mentre quella superiore componeva il testo cifrato.
Alla base di enigma, un ingegnoso meccanismo di cifratura basato su rotori mobili che, attraverso una complessa griglia elettrica e vari rotori permette di cifrare il messaggio. In sostanza, quando operatore digitava una lettera sulla tastiera inferiore, il meccanismo si attivava e producendo come risultato una lettera completamente diversa. Inoltre, i rotori si attivavano ad ogni input, così che la stessa lettera, se digitata più volte, venisse cifrata in modi differenti.
Dal 1932 prima il governo di Weimar e poi del Reich, autorizzarono l’utilizzo del dispositivo Enigma-I e durante la seconda guerra mondiale, i nazisati introdussero in enigma un sistema a cinque rotori di cui ne venivano utilizzati tre diversi ogni giorno, e la taratura dell’apparecchio (basata sulla scelta dei rotori, dei cavi da connettere e della loro posizione) cambiava ogni 24 ore, a mezzanotte, che aggiungeva un ulteriore livello di difficoltà, un limite tempo che rendeva la decifrazione di Enigma, qualcosa di virtualmente impossibile. Le forze armate naziste erano certe di disporre di un canale di comunicazione assolutamente sicuro motivo per cui non si preoccupavano troppo di possibili intercettazioni. Ed è qui che i nazisti commisero il primo errore.
La Bomba di Turing: Battere una Macchina con un’Altra Macchina
Turing era assolutamente certo che l’unico modo per sconfiggere una macchina come Enigma fosse attraverso l’utilizzo di un altra macchina, fortunatamente per lui, già altri matematici, ben prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, avevano iniziato a lavorare ad una macchina per decifrare Enigma, ed è proprio da questa macchina già esistente, denominata The Bombe, progettata dal matematico polacco Marian Rejewsk dell’università di Poznan, che partirono gli studi di Turing.
The Bombe era sostanzialmente un clone di Enigma, reso “obsoleto” dai miglioramenti adottati dai nazisti negli ultimi anni e il lavoro di Turing consistette principalmente nel potenziare The Bombe, sfruttando complessi circuiti logici che permettevano alla macchina di elaborare una sofisticata catena di deduzioni logiche, attraverso una serie di condizioni “se-allora-altrimenti”, ancora oggi uno dei concetti di base di qualsiasi software informatico, dalla banale calcolatrice alle LLM.
In sostanza, sfruttando vari passaggi logici, la macchina di Turing eliminava velocemente le combinazioni impossibili, riducendo drasticamente il tempo necessario per trovare la configurazione corretta.
Secondo alcune fonti (non confermate), il 14 gennaio 1940 Turing riuscì per la prima volta nella propria impresa decifrando i codici di Enigma. Non sappiamo se questa data è reale perché per anni il governo britannico impose il segreto sull’operazione di intelligence che fornì agli Alleati un vantaggio strategico incalcolabile durante il conflitto. Oggi sappiamo che dal 1942 i britannici furono in grado di decifrare regolarmente e in maniera sistematica i codici nazisti, non abbiamo però informazioni certe sul periodo che va tra il 1940 e il 1942.
La vulnerabilità dietro i codici nazisti
Che i britannici avessero decifrato i codici nazisti è noto fin dagli anni 50, ma il modo in cui i britannici hanno sconfitto enigma, è diventato di pubblico dominio solo nei primi anni 2000, quando il governo britannico ha declassificato le informazioni relative al programma Ultra.
Oggi sappiamo che, nonostante le teorie e gli sforzi tecnologici messi in campo da Turing, in realtà la teoria per cui solo una macchina poteva sconfiggere Enigma, si è rivelata errata. Perché Enigma non è stata sconfitta realmente da una macchina, ma i suoi codici sono stati violati da una vulnerabilità esterna alla macchina, sfruttando un errore umano.
I crittografi di Bletchley Park scoprirono che, nonostante il cambio quotidiano della taratura, esistevano una serie di pattern ricorrenti nei messaggi. Alcune comunicazioni seguivano formati standard, come ad esempio i rapporti meteorologici o i saluti militari formali.
La presenza di questi elementi offriva ai crittografi quello che chiamavano “cribs” (indizi) – frammenti di testo che si supponeva essere presenti nei messaggi cifrati e che era facile decifrare.
Turing intuì che queste vulnerabilità potevano essere sfruttate sistematicamente attraverso un approccio meccanico e logico e di conseguenza calibrò la sua Bombe affinché cercasse all’interno dei messaggi specifici pattern. Non bisognava più “decifrare” l’intero documento, era sufficiente individuare questi pattern, decifrarli e partendo da questi ricavare i codici con cui decifrare qualsiasi altro messaggio della giornata.
L’Arte dell’utilizzo selettivo
Secondo alcuni documenti resi pubblici, il 12 giugno 1940, venne decrittato un messaggio della Luftwaffe nel quale venivano rivelati importanti dettagli sul sistema di navigazione radio utilizzato dai bombardieri tedeschi. Si trattava di un’informazione cruciale, dal valore inestimabile, ma poneva gli Alleati di fronte a un dilemma strategico fondamentale. Usare quelle informazioni significava rivelare ai tedeschi che erano riusciti a superare i codici di Enigma, e questo avrebbe comportato una contromossa da parte dei tedeschi, che potenzialmente avrebbe reso nulla la scoperta di Turing e il vantaggio acquisito dai britannici.
I comandanti alleati si ritrovarono così nella complessa situazione di dover decidere come e quando utilizzare le informazioni acquisite, in modo che i tedeschi non sapessero che il loro sistema era compromesso.
Si rendeva quindi necessario utilizzare le informazioni in maniera selettiva, così da non allertare i nazisti, facendo in modo che questi continuassero a credere Enigma sicuro e inviolabile. Non tutte le informazioni decifrate venivano utilizzate, e quando lo erano, si cercava sempre di mascherarne l’origine, giustificando la loro acquisizione tramite ricognizioni aeree, informatori o intercettazioni radio convenzionali.
Questa cautela, e il sacrificio morale che ne conseguì, fu qualcosa di essenziale per per mantenere il vantaggio strategico per tutta la durata della guerra e non solo. In altri termini, il sacrificio di obiettivi secondari garantiva che il segreto di Ultra rimanesse tale, garantendo agli Alleati un vantaggio strategico nei momenti davvero decisivi del conflitto.
Un po’ come un baro al tavolo che ha in mano un poker d’assi e scarta la mano, rinunciando ad una grossa vincita, per poi vincere una cifra molto minore alla mano successiva, in modo da non destare sospetti. Allo stesso modo gli alleati rinunciarono a molte “battaglie” assicurandosi la vittoria finale.
Conclusioni
Come abbiamo visto la decrittazione di Enigma fu determinante per l’esito della seconda guerra mondiale, forse persino più significativa dell’ingresso nel conflitto di URSS e USA, si stima infatti che il lavoro di Turing abbia contribuito a ridurre la durata della guerra in Europa di circa due anni, salvando così milioni di vite. Non a caso, Churchill ed Eisenhower, sostennero che Ultra rappresentò una vera e propria svolta nel conflitto, e non solo.
Oltre al suo indubbio valore militare, la macchina di Turing fu anche la prima dimostrazione concreta dell’efficacia di un “calcolatore elettronico”, aprendo la strada allo sviluppo dei moderni computer e l’informatica moderna.
Nonostante ciò, per ragioni di sicurezza dovute al fatto che a Bletchley Park avevano sì sconfitto Enigma, ma per una vulnerabilità umana, Turing e gli altri membri del programma Ultra furono costretti a mantenere il segreto su tutto il suo lavoro a Bletchley Park e solo decenni dopo la fine della guerra, all’inizio degli anni 2000, il loro contributi è stato finalmente riconosciuto e celebrato.
Nella notte tra il 27 e 28 febbraio 1933, il palazzo del Reichstag a Berlino, importante edificio della democrazia tedesca dell’epoca, venne avvolto e divorato dalle fiamme. Secondo la versione ufficiale, il responsabile dell’attentato incendiario fu Marinus van der Lubbe, trovato sul posto durante le operazioni di spegnimento. La Germania era in quel tempo guidata dal neoeletto cancelliere Adolf Hitler, alla testa del partito Nazional Socialista dei lavoratori tedeschi (il partito Nazista), e il governo di Hitler trovò nell’incendio un eccellente pretesto per accusare i comunisti di cospirazione e attività sovversive, inaugurando così un epoca di forte repressione politica e sociale legittimata dal Decreto dell’Incendio del Reichstag, con cui sostanzialmente si sospendevano le libertà civili.
L’incendio del Reichstag è considerato il momento culminante della Repubblica di Weimar e l’inizio della trasformazione della Germania nel regime Nazista e ancora oggi, a distanza di quasi un secolo, il dibattito storiografico sull’effettiva responsabilità dell’incendio rimane un tema caldo.
In questo articolo voglio parlare dell’incendio del Reichstag, del contesto storico in cui avvenne, delle sue implicazioni e la sua eredità.
Cos’è il Reichstag
Se parliamo dell’incendio del Reichstag, è importante capire cos’è il Reichstag. In breve, il Reichstag è un edificio che ospitava, fin dal 1894 la camera bassa del parlamento tedesco, costituito nel 1871. Il Reichstag ha accompagnato la politica sia del Deutsches Reich (l’Impero Tedesco) che della Repubblica di Weimar.
L’edificio del Reichstag è stato progettato costruito, tra il 1884 e il 1894, dall’architetto Paul Wallot, e inaugurato nel 1894 dall’imperatore Guglielmo II, che tuttavia, ne criticò l’estetica neorinascimentale, definendo l’edificio un “monumento al cattivo gusto”.
Come anticipato, tra il 1894 ed il 1933 il Reichstag ha ospitato la camera bassa del parlamento tedesco, questa camera era composta da deputati eletti tramite suffragio universale maschile. Il potere esecutivo invece, rimaneva nelle mani dell’imperatore (fino al 1918) e con l’istituzione della Repubblica di Weimar, passava nelle mani del presidente della Repubblica, che de facto sostituiva l’Imperatore.
Il contesto storico dell’incendio del Reichstag
Nel 1918, con la fine della prima guerra mondiale da cui l’Impero tedesco esce sconfitto, viene istituita la Repubblica di Weimar (1919-1933, si tratta sostanzialmente di un esperimento democratico molto fragile sorto in un epoca post bellica, di grande crisi economiche, in un paese contaminato e divorato da conflitti sociali e instabilità politica. Una serie di fattori che rendono la Repubblica di Weimar storicamente un istituzione debole. Alla base della repubblica c’era la Costituzione di Weimar, approvata nel 1919. Questa costituzione garantiva una serie di libertà civili e suffragio universale maschile, tuttavia, il sistema l’estremo militarismo prussiano e le ambizioni rivoluzionarie portarono ad una forte polarizzazione del clima politico tra estremismi di destra e di sinistra, senza troppo margine di manovra per le forze politiche più moderate.
In questo clima, partiti tradizionali come la SPD (socialdemocratici) e la DNVP (conservatori), persero progressivamente consenso, mentre il Partito Nazista (NSDAP), riuscì a crescere e imporsi rapidamente come principale forza antisistema, sfruttò soprattutto il malcontento popolare.
Nei primi anni 20 la dimensione politica del partito Nazista è marginale, tuttavia, sulla fine del decennio, grazie anche ad elementi strutturali come la crisi economica del 1929, una forte ondata inflazionistica e un tasso di disoccupazione crescente, alimentarono una forte sfiducia nei confronti delle istituzioni e, in un clima di forte sfiducia istituzionale, quelle forze politiche che si presentavano alla popolazione come paladini dell’ordine contro la barbarie bolscevica, riuscirono ad aumentare rapidamente i propri consensi.
Così, Hitler e la NSDAP, impostarono una forte campagna propagandistica di matrice antisocialista e anticomunista. I comunisti (KPD) ed i movimenti socialisti vennero accusati di minare l’unità nazionale, di cospirare intenzionalmente contro la nazione ed i tedeschi. La strategia propagandistica è un successo al punto che la propaganda antisocialista e anticomunista divenne una delle colonne portanti della strategia politica nazista.
In un primo momento le tensioni politiche crebbero a dismisura, sfociando in un clima di guerra civile latente, con attentati e scioperi, gli scontri di piazza, amplificati dalla violenza delle SA (squadrismo nazista) divennero una routine. In questo clima di disordine sociale il governo di Heinrich Brüning (1930-1932) fece ricorso ad una serie di decreti d’emergenza, con cui scavalcò sistematicamente il Reichstag, accelerando in questo modo l’erosione della già flebile democrazia tedesca dei primi anni 30.
Alle elezioni del 1932, i nazisti divennero il primo partito del Reichstag, senza però ottenere la maggioranza assoluta, tuttavia, grazie ad una serie di fruttuose e prolifiche alleanze tra élite conservatrici e radicali di destra, nel gennaio del 1933, Adolf Hitler riuscì ad ottenere la nomina di Cancelliere della repubblica di Weimar.
La nomina di un cancelliere come Adolf Hitler, portò ad un ulteriore deterioramento del clima politico e sociale, già devastato da un contesto di crisi e forte polarizzazione e per molti segnò l’inizio della fine per la Repubblica di Weimar.
La notte dell’incendio del Reichstag
A poche settimane dalla nomina di Hitler come nuovo cancelliere tedesco, nella serata del 27 febbraio 1933, alle 21:14, un violento incendio divampò all’interno del palazzo del Reichstag di Berlino. L’incendio divorò in pochi minuti l’aula della plenaria e parte dell’edificio. Stando alle cronache dell’epoca, la presenza nell’edificio di materiali altamente infiammabili come tendaggi e documenti, alimentarono rapidamente le fiamme rendendo l’incendio incontrollabile nonostante l’arrivo repentino e quasi immediato dei pompieri sul posto.
Nelle ore seguenti all’incendio i pompieri impegnati nelle operazioni di spegnimento dell’incendio, ritrovarono all’interno dell’edificio Marinus van der Lubbe, un giovane olandese, con simpatie comuniste, che secondo la versione ufficiale indossava indumenti bruciacchiati e portava con se attrezzi da lavoro. Lubbe era sopravvissuto all’incendio e venne immediatamente arrestato con l’accusa di aver appiccato il fuoco per conto del Partito Comunista Tedesco (KPD). Da quel che sappiamo, Lubbe dichiarò di aver agito da solo, tuttavia, per la propaganda Nazista Lubbe operava per conto del KPD e l’evento venne raccontato come una prova evidente di un complotto comunista che innescò una reazione a catena di responsabilità ed accuse politiche culminate nella fine della democrazia di Weimar e la nascita del terzo Reich.
Non troppo tempo dopo l’identificazione di van der Lubbe giunsero sul posto anche Adolf Hitler ed Hermann Göring e fu quest’ultimo a dichiarare, dopo aver appreso delle simpatie del giovane olandese per il comunismo, che l’incendio era stato orchestrato dai comunisti.
Il Decreto dell’Incendio del Reichstag (28 febbraio 1933)
Il vero momento di svolta per la democrazia tedesca fu il giorno successivo all’incendio del Reichstag, il 28 febbraio 1933. In quella data il presidente della repubblica di Weimar, Paul von Hindenburg firmò un decreto d’emergenza, detto “Reichstagsbrandverordnung” proposto da Hitler e i Nazisti, con cui si sospendeva parte della Costituzione di Weimar, in altri termini, numerose libertà civili garantite dalla costituzione vennero sospese.
Con la promulgazione del “Decreto per la protezione del Popolo e dello Stato” il governo ottenne il potere di limitare la libertà di stampa, di espressione e di riunione, inoltre poté legalizzare perquisizioni domiciliari e arresti arbitrari. Grazie a questo decreto, fu possibile avviare un imponente campagna repressiva ai danni di comunisti e socialdemocratici, accusati da Hermann Göring di aver attentato al Reichstag. In pochi giorni ci furono migliaia di arrestati e molti intellettuali, sindacalisti, giornalisti e politici furono costretti alla clandestinità.
Non è tutto, con questo decreto, in nome della sicurezza del popolo e lo stato, si conferivano al cancelliere tedesco, in quel momento Adolf Hitler, una serie di poteri straordinari, che rendevano superfluo il parlamento tedesco accelerando la trasformazione della Germania in uno stato autoritario e totalitario. Il Reichstagsbrandverordnung, prodotto come decreto d’emergenza, rimase in vigore per tutta la durata del Terzo Reich.
Teorie e dibattiti storiografici
Come abbiamo visto, secondo la versione ufficiale, sostenuta dalle autorità naziste, l’incendio del Reichstag fu un attentato di matrice comunista per destabilizzare il governo e di tale attentato uno degli esecutori materiali fu il giovane olandese Marinus van der Lubbe, il quale ha sempre dichiarato di aver agito da solo.
Questa versione della storia tuttavia non sembra convincere del tutto, e nel tempo ci sono state varie revisioni da parte di numerosi storici che mettono in discussione alcuni punti della narrazione. Uno degli aspetti maggiormente criticati della versione ufficiale è il ruolo di Lubbe nell’intera vicenda, secondo diversi autori infatti, la velocità e la portata dell’incendio non sembrano compatibili con la possibilità che un giovane abbia agito da solo. Molti ipotizzano che l’incendio possa essere stato organizzato e attuato dagli stessi Nazisti e che van der Lubbe non sia altro che un capro espiatorio finalizzato alla repressione politica.
A sostegno di questa tesi, l’estrema rapidità con cui è stato scritto, presentato e approvato il Decreto per la protezione del Popolo e dello Stato. Secondo alcuni storici, un altra prova a sostegno di questa tesi, sono testimonianze di chi assistette all’incendio. Molti infatti hanno sostenuto la presenza di squadre delle SA (le milizie naziste) all’interno del Reichstag prima dell’incendio, e alcuni sostengono l’esistenza di documenti mostrerebbero una pianificazione preventiva di misure repressive. Tali documenti tuttavia potrebbero non avere alcun legame diretto con l’attentato e potrebbero essere scollegati da un articolato piano eversivo e limitarsi ad una mera strategia repressiva da attuare in caso di ascesa al potere.
Conseguenze politiche e ascesa della dittatura
Il 5 marzo 1933 si tennero nuove elezioni parlamentari, quelle che ad oggi sono ufficialmente le ultime elezioni della Repubblica di Weimar. Quelle elezioni furono profondamente influenzate dall’incendio del Reichstag e dalla successiva repressione nazista che costò al Partito Comunista Tedesco oltre il 4,6% dei consensi rispetto alle elezioni di Novembre, mentre il Partito Nazionalsocialista di Hitler guadagnò oltre il 10%, conquistando il 43,9% dei consensi, imponendosi nuovamente come primo partito, senza però ottenere, ancora una volta, la maggioranza assoluta di seggi (288/647).
Pur non avendo la maggioranza assoluta, Hitler riuscì ad ottenere l’incarico di cancelliere, sostenuto dai conservatori del DNVP e il 23 marzo 1933, il Reichstag approvò la Ermächtigungsgesetz, una legge che conferì al cancelliere il potere di emanare leggi senza il consenso del parlamento, una legge che sostanzialmente conferiva ad Hitler pieni poteri, segnando de facto la fine della democrazia tedesca.
Il Papa non è solo il capo della chiesa cattolica, ma è anche il sovrano assoluto dello stato Vaticano, uno stato che sorge nel cuore di Roma entro le mura di “città del vaticano”, ed è l’unica e ultima monarchia assoluta al mondo.
Il governo dello stato vaticano è affidato a diversi funzionari, principalmente cardinali, scelti e nominati dal Papa e generalmente risiedenti al Vaticano. Nella gerarchia della Chiesa, il Papa nomina Cardinali, Arcivescovi e Vescovi, questi invece ordinano i sacerdoti.
Il Papa, la cui carica è a vita, ma può dimettersi, è a sua volta eletto dai Cardinali riuniti nel Conclave, quest’ultimo ovvero è un organo collegiale che si riunisce esclusivamente per l’elezione del nuovo papa a circa 15 giorni dall’inizio della sede vacante. La sede vacante inizia con la morte o dimissione del pontefice.
Il collegio cardinalizio, ovvero l’insieme di tutti i cardinali, può essere convocato dal pontefice per definire l’andamento spirituale e politico della chiesa, e tale convocazione può avere forma più o meno estesa, a seconda delle decisioni e della rilevanza delle decisioni che verranno prese.
Il concistoro
Come anticipato, il collegio Cardinalizio può essere convocato dal papa in vari momenti e modalità ed una di queste modalità è detta concistoro, si tratta di un’assemblea solenne della Chiesa Cattolica Romana, presieduta dal Papa e composta dai cardinali del Collegio Cardinalizio e rappresenta uno dei momenti più antichi e significativi del governo ecclesiastico.
Il termine concistoro deriva dal latino consistorium che significa luogo di riunione o assemblea. L’oggetto di questa assemblea è solitamente relativo a questiono dottrinali, disciplinari o per la creazione di nuovi cardinali, vi sono tuttavia anche altre possibili “motivazioni”.
In effetti l’evoluzione storica del Concistoro è estremamente ampia e complessa, i primi esempi di concistoro di cui abbiamo traccia risalgono al IV secolo. All’epoca i vescovi si riunivano intorno al Papa per discutere questioni dottrinali. A partire dal XII secolo tuttavia, il concistoro divenne un organo amministrativo, molto strutturato e dal 1215, a seguito del Concilio Lateranense IV, il ruolo del concistoro venne formalizzò. Da quel momento il concistoro gode di potere decisionale in materia di fede, elezione dei vescovi (e cardinali) e riforme legislative.
In epoca più moderna, a partire dal Rinascimento, il concistoro ha visto aumentare la propria valenza politica, ed è diventato uno strumento estremamente importante nel determinare gli equilibri tra Santa Sede prima e lo stato vaticano poi, e le varie potenze europee. A partire dal 1870, con il Concilio Vaticano I, in cui si definì il dogma dell’infallibilità papale, il concistoro si è fortemente ridimensionato, ed ha perso gran parte del potere e peso decisionale acquisito in precedenza, diventando tuttavia, un momento chiave nella selezione dei cardinali e nella preparazione dei conclavi.
Struttura e Partecipanti
Esistono diverse forme di Concistoro di cui siamo a conoscenza, tutte presiedute dal Papa. Tra questi abbiamo il Concistoro Ordinario, generalmente convocato per questioni routine, come la canonizzazione di santi o nomine episcopali. Il Concistoro Straordinario, riservato a temi urgenti o complessi, come crisi dottrinali o riforme istituzionali, abbiamo poi il Concistoro Pubblico, una cerimonia aperta ai fedeli, spesso per la creazione di nuovi cardinali e in fine, il Concistoro Segreto, una sessione riservata ai cardinali per discutere argomenti delicati, tra cui le possibili dimissioni del pontefice.
Concistoro e dimissioni
Nel proprio pontificato, Papa Francesco ha convocato diversi concistori tra cui un concistoro straordinario nel 2014, per discutere la famiglia, in preparazione al Sinodo del 2015 o il concistoro del dicembre 2024, cui ha creato 21 nuovi cardinali. Nel 2013 invece, il predecessore di Bergoglio, Papa Benedetto XVI ha convocato un concistoro segreto, alla cui conclusione ha annunciato le proprie dimissioni, l’inizio della sede vacante e il successivo conclave in cui come sappiamo, venne eletto Papa Francesco.
Conclusione
In definitiva quindi, il concistoro rappresenta una delle colonne portanti del governo ecclesiastico, sintetizza in esso tradizione e adattamento ai contesti storici. Durante il Concistoro il Papa esercita quello che è detto munus petrinum (compito di Pietro), garantendo continuità dottrinale e rispondendo alle sfide contemporanee e la sua convocazione segnala sempre un momento di svolta, sia per la vita interna della Chiesa sia per il suo rapporto con il mondo.
Sul finire di febbraio 2025, più precisamente il 26 febbraio, durante la propria degenza in ospedale, e il susseguirsi di bollettini clinici complessi che hanno messo in agitazione milioni di fedeli, Papa Francesco ha convocato un concistoro. Non si conosce ancora l’oggetto di tale vertice ecclesiastico, ciò che sappiamo è che il Collegio dei Cardinali Elettori è al momento composto da 138 cardinali, 21 dei quali nominati a dicembre 2024, e al massimo possono esserci 150 cardinali elettori. È quindi improbabile che il concistoro convocato d’urgenza da papa francesco presso l’ospedale gemelli di Roma, serva per la nomina di nuovi cardinali, siamo inoltre in pieno giubileo ed è quindi da ritenersi altamente improbabile un grande dibattito dottrinale, anche perché il policlinico gemelli non è proprio il luogo più adatto per dibattiti dottrinali.
Molti ipotizzano ad un possibile passo in dietro di Papa Francesco, che come il proprio predecessore, in un momento di grande sofferenza, scelse le dimissioni rimettendo la guida della chiesa cattolica nelle mani di un nuovo papa, più “giovane” e in salute.
Un Viaggio nella Storia, nell’Architettura e nel Simbolismo
Nel cuore antico di Pechino, sorge la Città Proibita, uno dei monumenti più iconici della storia cinese che, per quasi mezzo millennio è stata il cuore pulsante della politica Cinese. Tra il 1420 e il 1912, la Città Proibita ha ospitato il centro politico e cerimoniale dell’Impero cinese, e tra i suoi edifici hanno camminato 24 imperatori delle dinastie Ming e Qing.
Il suo nome, “Città Proibita” è estremamente evocativo e affonda le proprie origini nel corso dei secoli. In questo articolo andremo alla ricerca delle sue origini ed esploreremo la sua funzione nel periodo in cui è stata il centro di potere più importante dell’Impero Cinese e dell’intera Asia.
Le Origini della Città Proibita
La storia della Città Proibita inizia in tempi relativamente recenti, siamo nel XV, la Cina è governata dalla dinastia Ming, e sul trono imperiale siede l’imperatore Yongle, terzo sovrano della suddetta dinastia Ming. Il regno di Yongle durerà tra il 1402 e il 1424 e rappresenta un punto di svolta nella politica cinese. Yongle decise di trasferire la capitale imperiale dalla tradizionale Nanchino a Pechino. La scelta è di natura politica, Trasferire la capitale, e con essa l’intera corte imperiale a Pechino, significa consolidare il controllo imperiale nella regione settentrionale dell’impero, che in quel periodo era oggetto di diverse incursioni mongole.
Portare la capitale a Pechino permette all’imperatore di controllare meglio l’esercito impegnato al nord, e quindi respingere con maggiore efficacia lee incursioni mongole. Qualcosa di analogo è stato fatto più di un millennio prima, anche nel mediterraneo, da diversi imperatori Romani, che spostarono la corte militare da Roma alle regioni più bellicose, come l’area germanica e l’oriente. Pensiamo a Costantino. Ecco Yongle è una sorta di Costantino dell’impero cinese dei Ming, e Pechino in un certo senso la sua Costantinopoli.
Per trasferire la capitale, e costruire per l’intera corte imperiale palazzi ed edifici che permettessero di amministrare il paese, furono impiegati, secondo la tradizione, oltre un milione di operai e artigiani, e nel 1420 venne inaugurata, nel cuore di Pechino, la “città proibita”.
Un complesso edilizio senza eguali, che si estendeva su una superficie di circa 72 ettari interamente circondato da mura alte 10 metri e profondi fossati. All’interno delle mura sorgevano oltre 1.000 edifici, la maggior parte dei quali adibiti a palazzi residenziali per funzionari e ospiti, ma non mancano templi, giardini e cortili. L’intera città proibita è stata progettata, sia dal punto di vista architettonico che organizzativo, secondo i principi del feng shui riflettendo così la cosmologica cinese e ponendo l’accento sull’armonia tra cielo, terra e uomo.
Il Significato del Nome: Perché “Proibita”?
Per quanto riguarda il nome, questa in origine si chiama Zǐjìn Chéng, un termine composto da tre parole, ovvero Zǐ, Jìn e Chéng che insieme formano appunto 紫禁城 (Zǐjìn Chéng), il cui significato può essere tradotto letteralmente in Città Proibita della Porpora Celeste, questo perché il termine 紫 (Zǐ) significa “porpora” o “viola”. Tale colore, secondo la tradizione cinese, era associato alla Stella Polare, stella che, nella cosmologia cinese rappresentava il centro celeste dell’universo. Il colore porpora è associato anche all’Imperatore, questo perché secondo la tradizione, l’Imperatore era il “Figlio del Cielo” e la sua residenza rappresentava la dimora terrena del potere divino.
Il termine 禁 (Jìn) invece significa “proibito” o “vietato”. Questo è esplicativo del fatto che l’accesso alla Città riservato solo a pochi privilegiati, per lo più nobili, funzionari, o al più, ospiti dell’imperatore. Pertanto, l’accesso alla città era rigidamente controllato e alla maggior parte della popolazione non solo non era consentito accedervi, ma era proprio vietato l’accesso.
In fine, il termine 城 (Chéng) significa semplicemente “città” o “fortezza”.
Come anticipato, Zǐjìn Chéng significa “letteralmente” Città Proibita della Porpora Celeste, mentre una traduzione più “concettuale”, un adattamento del nome, potrebbe essere Fortezza/Città Proibita dell’Imperatore, e in effetti, Zǐjìn Chéng non è altro che la “fortezza dell’Imperatore” e nell’uso comune col tempo è diventata la Città Proibita.
La Funzione della Città Proibita
La Città Proibita è un centro di potere a tutti gli effetti, un po’ come lo è ad oggi il “Vaticano” o Washington DC, e volendo fare un parallelismo con Washington la città proibita in senso stretto, è un po’ come se fosse la Casa Bianca. Ma la città proibita non è solo la residenza imperiale, è appunto una città, ed ospita anche il centro amministrativo e cerimoniale dell’Impero, e si articola in due grandi aree interne alle mura.
L’area più interna, è detta Nèicháo ed era riservata alla vita privata della famiglia imperiale, analogamente al giardino e il secondo piano della Casa Bianca. Questa parte della città comprendeva i quartieri dell’imperatore, della sua consorte e del suo harem. Non mancano giardini, biblioteche e sale per la meditazione.
L’area più esterna invece, è detta Wàicháo ed ospitava amministrativi, e quelli dedicati alle attività ufficiali, un esempio noto è la Sala della Suprema Armonia (Taihe Dian), che ospitava le cerimonie più importanti, come l’incoronazione degli imperatori e la nomina dei funzionari di corte. Volendo sempre mantenere il parallelismo con la White House e Washington, è come se la Taihe Dian fosse lo studio ovale dell’imperatore cinese mentre altri edifici nella Wàicháo assumevano altre funzioni che possiamo associare ai vari dipartimenti, al congresso e al pentagono.
La Città proibita però non è solo una residenza e luogo amministrativo, ma è anche un un simbolo del potere assoluto dell’imperatore. E in questo possiamo associarla ad altri edifici che nella storia occidentale abbiamo imparato a conoscere meglio, pensiamo alla Domus Aurea di Nerone, alla città del Vaticano, alla Reggia di Versailles di Luigi XIV o la White House.
Declino e Rinascita
La città proibita è stata il centro del potere imperiale tra il 1420 ed il 1912. Nel 1912 la Città Proibita il proprio ruolo politico, simbolico e la sua funzione di sede del potere imperiale a seguito della caduta dell’imperatore Puyi, l’ultimo imperatore cinese della dinastia Qing.
Sebbene la città non fosse più sede del governo, Pu Yi e molti dei suoi funzionari, rimasero “prigionieri” nella Città Proibita fino al 1924, quando Feng Yuxiang prese il controllo di Pechino con un colpo di Stato e negli anni seguenti, la città proibita è stata progressivamente abbandonata. Nel complesso, guerre e rivoluzioni del XX secolo hanno contributo a danneggiare enormemente la città proibita, almeno fino agli anni 80.
Nel 1987 l’UNESCO ha inserito il “palazzo imperiale delle dinastie Ming e Qing” tra i siti patrimonio dell’umanità, e da quel momento la città Proibita ha visto una seconda vita questa volta come città museo, non più aperta ad una cerchia ristretta di funzionari imperiali, ma totalmente aperta al pubblico e si stima che ogni anno attiri milioni di visitatori da tutto il mondo.
Conclusione
La Città Proibita è molto più di un semplice palazzo imperiale: è un libro di storia scritto in pietra, legno e oro. Attraverso la sua architettura e il suo simbolismo, racconta la storia di un impero, delle sue tradizioni e del suo rapporto con il divino. Oggi, mentre camminiamo tra le sue sale e cortili, possiamo immaginare la vita di imperatori, cortigiani e servitori che hanno plasmato il destino della Cina per secoli. La Città Proibita, con il suo fascino senza tempo, continua a ispirare e a stupire, offrendoci una finestra sul passato glorioso di una delle civiltà più antiche del mondo.
Il Piano Solo rappresenta uno dei capitoli più controversi dell’Italia Repubblicana, che ancora oggi è oggetto di dibattito e discussione sulla sua natura. Contestato e considerato da molti come un tentativo di golpe e giustificato da altri come un piano “anti-golpe”, la sua natura è stata valutata e scrutinata nel dettaglio da una commissione d’inchiesta parlamentare.
Elaborato durante la prima crisi di governo della IV legislatura, a pochi mesi dalla nascita del primo governo di centrosinistra dell’Italia repubblicana, il piano, mai messo in atto, prevedeva il monitoraggio e l’arresto di politici e sindacalisti, soprattutto in area di sinistra, in caso di grave crisi politica e sociale, ad opera dell’Arma dei Carabinieri.
Protagonista di primo piano dell’intera vicenda il generale, medaglia d’argento della resistenza e comandante dell’arma dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo.
A distanza di oltre 60 anni dalla progettazione di quel piano segreto, oggi disponiamo di un gran numero di informazioni e documenti, preclusi a chi se ne occupò e ne parlò tra anni 60 e 70, in particolare noi oggi disponiamo dell’intera documentazione analizzata e prodotta dalla commissione commissione d’inchiesta parlamentare sugli eventi del giugno-luglio 1964 (“SIFAR”), documenti che per molto tempo sono stati classificati e solo di recente sono stati declassificati.
Tra i documenti sono presenti anche le liste dei “sorvegliati” del SID, ovvero i soggetti sensibili, potenzialmente sovversivi, che l’intelligence aveva attenzionato ed era pronta a sorvegliare o arrestare in caso di crisi politica o sociale.
Col tempo avrò modo di leggere tutta la documentazione e produrre sempre più materiale a riguardo, per il momento voglio limitarmi ad un articolo che abbia le seguenti finalità, definire il Piano Solo, contestualizzarlo storicamente ed esporre le valutazioni finali della commissione d’inchiesta, poiché questa fu attiva fino al 15 dicembre 1970, un momento storico molto particolare, poiché successivo, di 7 giorni al “Golpe Borghese“.
Il contesto storico in cui venne sviluppato il Piano Solo
Il piano Solo venne pianificato presumibilmente nell’estate del 1964, indicativamente tra Giugno e Luglio, nel pieno di una crisi di governo. Da quel che sappiamo, a sollecitare la pianificazione del generale Giovanni de Lorenzo, fu l’allora capo dello stato Antonio Segni, o almeno questa è la narrazione comune, come vedremo, le cose sono più complesse di così.
Ci troviamo in un momento storico di grande fermento politico e soprattutto grande preoccupazione politica, poiché l’Italia in quegli stessi mesi stava sperimentando il primo governo di centro-sinistra dell’età repubblicana, nonché il primo governo di centro-sinistra dai tempi di Bonomi, risalente agli anni venti, appena prima dell’avvento del Fascismo e l’ascesa di Mussolini.
Fatta eccezione per l’assemblea costituente, erano passati più di 40 anni dall’ultima volta la sinistra in Italia era stata in area di governo e da allora il mondo, e soprattutto l’Italia, erano profondamente cambiati, non solo perché c’era stato il regime fascista e la seconda guerra mondiale di mezzo, ma anche e soprattutto perché ci trovavamo in piena guerra fredda e uno sbilanciamento dell’Italia, troppo a sinistra poteva risultare come un qualche avvicinamento all’Unione Sovietica e questo era considerato una possibile minaccia non solo in Italia e per l’Italia, ma anche per l’Europa e la NATO.
Nel dicembre del 1963 nasce il primo governo Moro, un governo di centro sinistra, sostenuto dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialista Italiano, personalità chiave di questo governo furono Aldo Moro (DC) in quanto presidente del consiglio e Pietro Nenni (PSI) in quanto vicepresidente. Oltre questi due partiti principali, la coalizione di governo contava anche rappresentanti del Partito Socialista Democratico Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Questa coalizione sarebbe rimasta al governo per tutta la legislazione, fino al 1968, con i tre governi Moro.
Tra il governo Moro I e Moro II cambiano pochissimi funzionari, o meglio, diversi funzionari del PSI cambiarono posizione, segno di una tensione interna al PSI e di riflesso nella Coalizione. Più nel dettaglio, Umberto delle Fave (DC) ai rapporti con il parlamento del governo Moro I lasciò il posto a Giovanni Battista Scaglia (DC) del governo Moro II, il ministro al Bilancio Antonio Giolitti (PSI) venne sostituito da Giovanni Pieraccini (PSI), il ministro ai lavori pubblici Giovanni Pieraccini (PSI) venne sostituito da Giacomo Mancini (PSI), il Ministro alla Sanità Giacomo Mancini (PSI) venne sostituito da Luigi Mariotti (PSI) e il ministro del Lavoro e Previdenza sociale Giacinto Bosco (DC) venne sostituito da Umberto delle Fave (DC).
Da quel che sappiamo, nel pieno della crisi di governo, il 15 luglio 1964, il Presidente della Repubblica Antonio Segni convocò al Quirinale il generale dello stato maggiore e comandante dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, si trattò di un incontro ufficiale, non segreto ma a porte chiuse, la notizia della convocazione e dell’incontro venne data anche dai quotidiani e telegiornali dell’epoca.
In quel momento le tensioni all’interno del governo erano palpabili e indubbiamente c’era una forte preoccupazione istituzionale, come normale che sia nel pieno di una crisi di governo (anche se queste, nella prima repubblica erano molto più comuni e in realtà meno gravi di quanto non siano percepite oggi). Non c’è quindi da sorprendersi troppo se il capo dello stato, durante una crisi di governo, ha convocato ed incontrato diversi funzionari.
Uno di quei funzionari come già detto fu proprio il generale De Lorenzo e, in seguito avremmo scoperto, ricevette da Segni un incarico molto delicato, ovvero l’elaborazione di un piano d’emergenza per l’ordine pubblico, tale piano è oggi noto come Piano Solo, e avrebbe fatto dell’arma dei carabinieri l’esecutore e garante dell’ordine sociale in caso di grave crisi politica e sociale in Italia.
Il motivo per cui Segni si rivolse a De Lorenzo e l’arma dei carabinieri può avere diverse ragioni, sia strategiche che politiche, sul piano strategico, come apprendiamo dalle audizioni di De Lorenzo, è legato al regolamento dell’Arma dei carabinieri, inoltre, l’Arma gode di una diffusione capillare nel territorio italiano che non è seconda a nessun altro apparato militare o di polizia, di conseguenza può operare in situazioni d’emergenza con maggiore efficienza rispetto ad altri come esercito o polizia. Inoltre, pur essendo in quel momento un ramo dell’Esercito Italiano, i carabinieri dipendevano da due ministeri, quello dell’Interno e quello della Difesa, mentre il suo comandante, in questo caso specifico Giovanni de Lorenzo, rispondeva direttamente al Capo dello Stato. L’insieme di questi fattori rappresentava un elemento di primaria importanza nell’ottica in cui si fosse resa necessaria una mobilitazione totale in caso d’emergenza.
Il ruolo “esclusivo” e privilegiato dell’Arma dei carabinieri nel programma di mobilitazione generale, fu emblematico del nome con cui sarebbe diventato noto il Piano ovvero “Piano Solo” nel senso che il piano prevedeva l’intervento dei “soli” carabinieri.
Il 23 luglio 1964, a meno di 10 giorni dalla convocazione di De Lorenzo al Quirinale, Aldo Moro, Pietro Nenni e gli altri membri del secondo governo Moro II prestano, la crisi è rientrata e come abbiamo visto, fatta eccezione per alcuni cambi di posizione, il nuovo governo ha una composizione pressocché identica al precedente.
Appena un giorno prima del giuramento, il 22 luglio 1964, Pietro Nenni, ancora e nuovamente vicepresidente del consiglio, pubblica sull’avanti un proprio commento sulla crisi.
Le destre sapevano ciò che volevano e bisogna dire che sono state a un passo dall’ottenere ciò che volevano. Se il centro-sinistra avesse lanciato la spugna sul ring, il governo della Confindustria e della Confagricoltura era pronto per essere varato. Aveva un suo capo, anche se non è certo se sarebbe arrivato primo al traguardo senza essere sopravanzato da un qualche notabile democristiano. Aveva per sé la più vasta orchestrazione di stampa quotidiana e periodica che mai abbia operato in Italia. Aveva punti solidi di appoggio in ogni parte del Paese. Aveva un suo disegno strategico: la umiliazione del Parlamento dei partiti e delle organizzazioni sindacali a cui dava forza la minaccia, puramente tattica, delle elezioni immediate.
Pietro Nenni, L’Avanti, 22/07/1964
Lo scandalo del Piano Solo
Passata la crisi, nell’estate del 64, la mobilitazione prevista dal piano Solo non fu più necessaria, e l’esistenza stessa del Piano Solo rimase abbastanza segreta. Nota per lo più a funzionari istituzionali e vertici di governo e delle opposizioni. Sarebbe stata però rivelata all’Italia e agli italiani, in maniera estremamente fragorosa, nel maggio del 1967 quando, su L’Espresso, Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi pubblicarono alcuni documenti relativi al Piano Solo, tra cui anche alcune controverse dichiarazioni attribuite al generale De Lorenzo.
Come possiamo vedere, in copertina viene attribuita la seguente frase al generale De Lorenzo «Stiamo per vivere ore decisive. La nazione, tramite la più alta autorità, ha bisogno di noi. Dobbiamo tenerci pronti per gli obiettivi che ci verranno indicati».
Si tratta di parole forti e di impatto che esplosero in uno scandalo politico senza eguali, e il dibattito pubblico che ne conseguì, ebbe come effetto la rimozione quasi immediata di De Lorenzo dalla carica di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, allo stesso tempo, il generale rispose alle accuse querelando per diffamazione i due giornalisti. Ne segue un lungo e tortuoso, molto controverso e complesso poiché, che nel frattempo è cambiato ancora ed ora siamo al governo Moro III, anche questo sostenuto dal PSI e con Pietro Nenni Vicepresidente, negò alla magistratura l’accesso alla documentazione necessaria per accertare e verificare le informazioni riportate da Scalfari e Jannuzzi, e senza possibilità di verificare tali documenti, il processo si concluse con una sentenza di colpevolezza per i due giornalisti.
All’epoca in molti si chiesero, e si chiedono tutt’ora, perché il governo Moro III negò alla magistratura l’accesso alla documentazione di quello che veniva dipinto come un piano di golpe che aveva nel mirino proprio il governo Moro e una parte delle forze politiche che lo sostenevano. La risposta a queste domande forse risiede nelle oltre 45.000 pagine di documenti dalla una commissione d’inchiesta, ma al momento risulta senza una risposta chiara.
Nel 1969, l’ex generale De Lorenzo, ora parlamentare, querelò altri due giornalisti, Gianni Corbi e Carlo Gregoretti, per articoli analoghi a quelli pubblicati da Scalfari e Jannuzzi nel 67, ma, a differenza dei loro predecessori loro vennero assolti con formula piena, pertanto, Scalfari e Jannuzzi fecero ricorso per richiedere la propria assoluzione. A questo punto sembra che il generale De Lorenzo decise di rimettere le querele, e le parti coinvolte accettarono la remissione.
Come dicevamo, nel frattempo De Lorenzo era passato dallo stato maggiore al parlamento, questo passaggio avviene nel 1968 con l’inizio della V legislatura, durante la quale De Lorenzo entrò in Parlamento tra le fila del Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica. De Lorenzo non rimane a lungo nel PDIUM e nel 1971 aderisce al Movimento Sociale Italiano, che in quel momento è presieduto da Augusto De Marsanich, politico attivo, quasi senza interruzioni fin dal 1929. Tra gli “ex fascisti” attivi nell’Italia repubblicana, fu uno dei promotori della linea moderata del MSI che portarono all’allontanamento di individui più radicali come Juno Valerio Borghese.
La commissione di inchiesta sul piano solo
La commissione d’inchiesta sul Piano Solo fu istituita il 15 aprile 1969 e rimase in attività fino al 15 dicembre 1970, ci troviamo agli inizi della V legislatura e in questo periodo l’Italia vide il susseguirsi di quattro governi, Rumor I, II, III e Colombo.
Come anticipato, la commissione acquisì un quantitativo enorme di documenti, testimonianze, e produsse una mole di documenti altrettanto imponente. Tra i primi ad essere ascoltati, ci fu il deputato Giovanni De Lorenzo, considerato l’attore principale del Piano Solo, a lui vengono dedicate 4 audizioni tenutesi il 23, 27 e 40 maggio 1969.
La prima audizione ebbe luogo il 23 maggio alle ore 09:20, fu presieduta dal deputato (ex senatore) e presidente della commissione Giuseppe Alessi, ed fu strutturata in sette gruppi di domande.
Il primo gruppo, come si legge nel verbale della seduta riguarda l’attività svolta dal generale dell’arma in materia di ordine pubblico, nel giugno-luglio 1964.
Il secondo gruppo di domande fu in riferimento al tema specifico della costituzione, dell’origine, della struttura e dell’impiego della Brigata meccanizzata dell’Arma dei carabinieri.
Il terzo gruppo fu in riferimento a quello che venne definito “piano solo”.
Il quarto gruppo fu in riferimento alle liste del SIFAR, alla loro trasmissione e alle misure prese o predisposte per l’eventuale esecuzione di provvedimenti in ordine a tali liste.
Il quinto gruppo di domande fu invece in riferimento alle situazioni dell’ordine pubblico nel giugno-luglio 1964.
Il sesto gruppo di domande fu in riferimento ad eventuali visite con il presidente della Repubblica.
Il settimo ed ultimo gruppo di domande invece, interessava i rapporti tra il generale e la loro natura, in quel periodo (estate 1964) con personalità politiche o partiti. Fu inoltre posta una domanda conclusiva circa l’installazione di dispositivi tecnologici al quirinale.
Dopo quasi 20 mesi di audizioni, dibattiti e valutazioni, la commissione d’inchiesta parlamentare, ha prodotto delle valutazioni finali che accertavano e testimoniavano l’esistenza del piano Solo e ne definivano la natura.
Per la commissione il Piano Solo esiste, o meglio, esisteva un piano segreto predisposto dal generale De Lorenzo, che prevedeva l’impiego esclusivo dell’arma dei carabinieri in situazioni di emergenza politica o sociale. Tale piano era nato in risposta all’eventualità di scioperi generali, manifestazioni di massa o altre forme di agitazione ritenute “destabilizzanti” per l’ordine pubblico.
Il piano, una volta esposto nella sua interezza, emerse agli occhi della commissione d’inchiesta come uno strumento preventivo, per garantire il mantenimento dell’ordine pubblico in scenari di grave tensione sociale o politica e non sembra esserci alcun fine eversivo o sovversivo, né sembra esserci l’intenzione nel rovesciare il governo o di instaurare un regime autoritario.
Quanto al ruolo del generale De Lorenzo, la commissione ha individuato nel generale Giovanni De Lorenzo il principale artefice del Piano Solo. Inoltre, il piano venne elaborato nel merito delle funzioni istituzionali del comandante dei Carabinieri, pertanto, non emersero responsabilità penali direttamente imputabili al generale.
Stando a ciò che emerge dalla commissione, oltre al capo dello stato e i vertici militari coinvolti, sembra che anche diverse figure politiche, membri del governo e delle opposizioni, nell’estate del 64, furono messe a conoscenza del Piano
Durante le indagini sembrerebbe essere emerso anche un forte coinvolgimento del SID (Servizio Informazioni Difesa) di cui lo stesso De Lorenzo è stato direttore tra il 55 ed il 62. Il coinvolgimento dei servizi segreti militari sembra sia stato determinante nella raccolta di informazioni e nella redazione di elenchi contenenti persone considerate potenzialmente pericolose per l’ordine pubblico. Questi individui sarebbero stati posti sotto controllo o fermate in caso di attuazione del piano.
Sebbene il Piano Solo non avesse ufficialmente un “colore politico”, i documenti esaminati dalla commissione, in particolare gli elenchi redatti dal SID, sembrano contenere principalmente cittadini legati alle sinistre, ai sindacati e ad altre organizzazioni politiche o sociali, che, in caso di attuazione, sarebbero stati oggetto di misure restrittive.
Gli elenchi oggi sono stati declassificati, pertanto sono pubblici e consultabili presso l’archivio della camera e molti di essi sono disponibili in forma digitale, per scaricarli è sufficiente fare richiesta con lo SPID.
Conclusioni
Nell’estate del 64, durante la crisi del primo governo Moro, il generale Giovanni De Lorenzo, su sollecitazione del presidente Segni, produsse un piano teorico da attuare in caso di gravi disordini sociali e politici, una sorta di piano d’emergenza anti-golpe, che prevedeva monitoraggio ed arresto di diverse centinaia di soggetti attenzionati dal servizio di sicurezza militare. L’intera operazione sarebbe stata gestita, se necessario, in maniera esclusiva dall’Arma dei Carabinieri. Di questo piano segreto furono messi al corrente vertici politici, militari ed esponenti di governo ed opposizioni.
Anni dopo, una commissione d’inchiesta ha analizzato e valutato il piano segreto, ritenendo che non fosse un piano di matrice sovversiva, e che anzi, si trattava di un piano d’emergenza, per far fronte ad un ipotetica crisi politica, sociale o golpe.
Situazione che in realtà si sarebbe verificata, qualche anno più tardi, nella notte tra il 7 e 8 dicembre del 1970, appena una settimana prima che la commissione terminasse i propri lavori, quando l’ex comandante della X Mas, e criminale di guerra Juno Valerio Borghese, tentò un vero e proprio colpo di stato, occupando RAI, Ministeri e diversi obbiettivi strategici, per poi ritirarsi poche ore dopo, quasi senza un apparente ragione, creando un casuale intreccio tra due eventi molto particolari e controversi.
Immersa nel cuore di Roma e separata dai sette colli di Roma dal Tevere, sorge Città del Vaticano, un’anomalia politica, culturale e filosofica unica al mondo. Il Vaticano è infatti l’unica monarchia assoluta elettiva al mondo, il cui capo dello stato, un sovrano assoluto, è eletto in una cerimonia segreta e ricca di mistero, che risale al XIII secolo, ovvero il Conclave.
Il Conclave è un momento decisivo non solo per le sorti del Vaticano, ma anche per la cristianità, esso infatti elegge il capo della chiesa cristiana, che è anche il monarca assoluto a capo dello stato Vaticano. Tale figura, se epurata del suo significato spirituale, può essere visto come una sorta “re-filosofo” platonico, che incarna l’ideale classico di un governante illuminato che guida non solo con il potere, ma soprattutto con saggezza, virtù e visione etica, che nel caso del Papa è una visione “cristiana”.
Secondo il filosofo greco, il migliore dei governanti è colui che possiede una profonda conoscenza della verità e del bene, ed è capace di orientare la società verso il bene comune.
In questa chiave di lettura, nella figura odierna del Papa, coesistono due istituzioni, la prima è il capo politico di uno stato di modestissime dimensioni, appena 44 ettari, la seconda, in quanto capo di una confessione religiosa tra le più diffuse al mondo, esercita un’influenza globale sull’intero mondo cattolico, e una parte significativa del più ampio mondo cristiano. Nel complesso, come anticipato, si configura come una sorta di “filosofo-re” che, almeno su carta, non governa per ambizione personale, ma per servizio del bene comune, impegnandosi a promuovere valori universali come giustizia, pace e solidarietà (ovviamente con un interpretazione cattolica).
L’elezione del Papa
L’elezione del Papa avviene attraverso una cerimonia elettiva a porte chiuse nota come Conclave, ad oggi regolato dalla Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis, promulgata da Giovanni Paolo II nel 1996.
Secondo il Codice di Diritto Canonico, il conclave può essere convocato dopo un periodo di Sede Vacante, al seguito della morte o delle dimissioni del pontefice precedente, non prima di 15 e i 20 giorni successivi all’inizio della vacanza papale. Questo arco temporale è fondamentale per consentire ai cardinali elettori, di raggiungere Roma e partecipare alle Congregazioni Generali. Si tratta di incontri preliminari di carattere politico, volti a discutere lo stato della Chiesa e prepararsi spiritualmente al voto.
I cardinali elettori sono membri del Collegio Cardinalizio, l’organo elettivo del Vaticano, e si compone di tutti i cardinali che, alla data di inizio della sede vacante, avevano meno di 80 anni. Questa soglia anagrafica è stata introdotta nel 1970 da papa Paolo VI con la Costituzione Apostolica Ingravescentem Aetatem. È importante precisare che I cardinali ultraottantenni, pur non potendo partecipare al voto, possono prendere parte alle cerimonie liturgiche e alle Congregazioni Generali, fungendo da consulenti informali.
Durante il Conclave, tutti i partecipanti sono tenuti a osservare il giuramento di segretezza, pena sanzioni canoniche severe in caso di violazione.
La segretezza è un elemento fondamentale per l’elezione del papa, per questo motivo, le votazioni si svolgono presso la Cappella Sistina e prima dell’inizio del Conclave, la cappella viene sottoposta a rigorosi controlli tecnici e bonifica da dispositivi elettronici o sistemi di comunicazione. Lo stesso per gli ambienti residenziali dove alloggeranno i cardinali durante il periodo elettorale, la Domus Sanctae Marthae, e gli stessi cardinali. Non è infatti consentito utilizzare o disporre di qualsivoglia dispositivo di comunicazione con l’esterno. In altri termini i cardinali sono completamente isolati dal mondo esterno.
La votazione segue un protocollo rigoroso: ogni cardinale scrive il nome del candidato prescelto su una scheda anonima, utilizzando la formula latina “Eligo in Summum Pontificem” (“Eleggo come Sommo Pontefice”). Le schede vengono quindi piegate e inserite in un’urna d’argento. Per essere eletto, un candidato deve ottenere una maggioranza qualificata di due terzi nei primi scrutini. Se, dopo 33 votazioni infruttuose, nessun candidato raggiunge tale soglia, si procede a una votazione a maggioranza semplice tra i due candidati più votati.
Una volta eletto, il cardinale che ha assunto l’incarico di decano ha il compito di chiedere al cardinale eletto se accetta l’incarico e quale nome desidera assumere come pontefice. Se il cardinale accetta, questi viene fatto vestito con gli abiti papali e successivamente si procede con la comunicazione al mondo esterno.
Le schede “elettorali” vengono bruciate in una stufa collegata a un camino visibile dall’esterno. Se il voto non produce un vincitore, viene aggiunta una sostanza chimica che genera del fumo nero (fumata nera), se invece è stato eletto un papa, la fumata è bianca.
A questo punto, il cardinale protodiacono annuncia pubblicamente l’elezione dal balcone della Basilica di San Pietro, pronunciando la frase rituale: “Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam!” (“Vi annuncio una grande gioia: abbiamo un Papa!”).
Questa cerimonia è mutata ed evoluta nel corso del tempo e, secondo la tradizione, ha origine da un evento molto particolare datato 1270.
Il primo Conclave
Il primo Conclave, inteso come elezione papale con i cardinali riuniti in clausura risale al 1198, mentre la formalizzazione ufficiale della procedura che prevede la messa sotto chiave dei cardinali durante l’elezione del pontefice, risale al 1274 con il Concilio di Lione e la Costituzione Apostolica Ubi Periculum di Papa Gregorio X, con cui si istituiva il “conclave” per impedire ritardi nelle elezioni e interferenze politiche esterne.
Siamo in anni in cui l’elezione del papa significa eleggere uno degli uomini più potenti d’Europa, il potere del papa non è solo spirituale, ma anche temporale, ma soprattutto, siamo nel vivo degli scontri tra papato ed impero. Eleggere il papa è una questione economica, politica e geopolitica, determinante per le sorti d’Europa, in pochi possono permettersi di sfidare il potere del papa e in molti vogliono assicurarsi l’amicizia del papa, spingendo quindi per l’elezione di un papa “di famiglia” o comunque “amico”.
In questo contesto, l’elezione di papa Gregorio X fu una delle più complesse della storia pontificia. Gregorio X viene incoronato papa il 1 settembre 1271, e succede alla morte di papa Clemente IV, avvenuta 19 mesi prima, il 29 novembre 1268. Per questa elezione i cardinali si erano riuniti a Viterbo, presso il palazzo papale, ma per interessi politici e influenze e interferenze esterne, non riuscivano a trovare un accordo. Fu così che, secondo la tradizione , la città di Viterbo in un certo senso insorse, mise letteralmente sotto chiave i cardinali, chiudendoli nel palazzo, li mise a pane e acqua, (soprattutto tolse loro il vino), e scoperchiò il tetto. La pressione cui furono sottoposti fu tale che, in pochi giorni riuscirono ad eleggere il nuovo pontefice.
Questo racconto ci è arrivato attraverso varie fonti, attribuisce l’iniziativa a diversi individui, ciò che è certo è che nel 1274, tre anni dopo la propria traumatica elezione, Gregorio X convocò il secondo concilio di Lione, e il 16 luglio 1274 venne promulgata la costituzione apostolica Ubi Periculum, con cui si introduce e istituisce il Conclave, dal latino “cum clave” che deriva appunto dalla locuzione “clausura cum clave“.
È è il 19 febbraio 1937, ci troviamo in Etiopia, più precisamente ad Addis Abeba, quel giorno il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani e parte delle autorità italiane presenti in Etiopia stanno partecipando ad una cerimonia presso il recinto del Piccolo Ghebì del Palazzo Guenete Leul. La cerimonia però, viene brutalmente interrotta dall’esplosione di alcune bombe a mano lanciate dalla folla contro le autorità.
Si tratta di un attentato compiuto da due giovani ribelli etiopi che avrebbe innescato il più grande massacro di civili, ad opera dei fascisti nella storia d’Italia, noto come strage di Addis Abeba o massacro di Graziani, sintetizzabile in una rappresaglia di tre giorni di violenze assoluta e indiscriminata ad opera delle milizie fasciste tra il 19 e 21 febbraio 1937. Questa sintesi tuttavia è fin troppo benevola nei confronti dei coloni, poiché non tiene traccia di alcuni tratti peculiari che rendono questa strage molto più di una semplice rappresaglia durata tre giorni.
La violenza sistemica è infatti un tassello importante della strategia coloniale fascista, ed episodi analoghi, se pur di intensità e portata minore, hanno accompagnato l’intera esperienza coloniale dell’Italia degli anni 30.
Ho voluto quindi produrre un racconto, il più possibile ricco di documenti e testimonianze, per inquadrare e contestualizzare al meglio ciò che accadde durante i tre giorni (e non solo) della strage di Addis Abeba. L’analisi di questa tragedia, si basa prevalentemente su documenti ufficiali italiani oltre a testimonianze dirette, lettere e telegrammi, e le più ampie narrazioni di questi eccidi, magistralmente raccontato in “Il massacro di Abbis Ababa, una vergogna italiana” di Ian Campbel, edito in Italia da Rizzoli, e l’opera monumentale di Angelo del Boca, “Italiani Brava Gente?” che a differenza del saggio di Campbell, fornisce un quadro generale sull’italiano nuovo concepito e prodotto dal regime fascista e i suoi crimini dentro e soprattutto fuori dall’Italia geografica e imperiale.
L’attentato a Graziani e la strage di Addis Abeba
Come anticipato, la strage di Addis Abeba di base è una rappresaglia innescata da un attentato al viceré Rodolfo Graziani. Da quel che sappiamo sull’attentato i responsabili furono due giovani etiopi, membri della resistenza e affiliati ad un gruppo noto come Yechebooch Tarik, letteralmente Giovani Etiopi, un movimento costituito prevalentemente da intellettuali, studenti e religiosi, che si opponevano al dominio coloniale italiano. Tra di loro militano anche, Abraha Deboch, un giovane etiope che aveva studiato in Italia e Moges Asgedom, anch’egli educato in istituti italiani e secondo le fonti ufficiali, questi due giovani furono gli organizzatori ed esecutori dell’attentato al viceré Graziani.
La narrazione ufficiale vuole che i due attentatori riuscirono ad infiltrarsi tra la folla, portando con sé alcune bombe a mano nascoste nei cesti della frutta e durante la cerimonia, lanciarono quegli ordigni verso il palco riuscendo a ferire gravemente Graziani e altri cinque ufficiali italiani.
Sempre secondo la narrazione ufficiale, unica testimonianza che abbiamo sull’attentato, poiché tutti i partecipanti non fascisti alla cerimonia non sono sopravvissuti alla strage, il caos scaturito dalle esplosioni offrì ai due attentatori la possibilità di lasciare la piazza, fuggire e nascondersi temporaneamente. Nonostante la fuga, le fonti ufficiali ci dicono che gli attentatori vennero individuati e catturati la stessa mattina del 19 febbraio, e senza troppe cerimonie e indagini, immediatamente giustiziati e i loro corpi esposti pubblicamente come monito per la popolazione.
Si potrebbe discutere ampiamente su questa narrazione che propone una straordinaria efficacia delle autorità fasciste nell’individuare e catturare i due attentatori, ma non è da escludere che sia vera, anzi, è probabile che molti etiopi, pur di evitare rappresaglie, collaborarono con le milizie fasciste. Certo, una collaborazione che col senno del poi fu totalmente inutile visto che le rappresaglie iniziarono ugualmente dopo la cattura dei presunti attentatori, ma questa è un altra storia.
L’esibizione pubblica dei corpi degli attentatori, giocava un ruolo politico, era un messaggio aperto e diretto alla popolazione, stava a significare “questa è la fine di tutti i ribelli”, e non fu un caso unico, l’esposizione in pubblica piazza dei corpi dei ribelli uccisi, era in vero una prassi nel regime fascista che fu presto importata anche dal regime nazista, che fu ampiamente usato dall’Italia in Etiopia, durante l’occupazione dell’Istria e Dalmazia e durante la guerra civile italiana, dove ad essere esibiti erano i corpi dei partigiani italiani.
Esibire i corpi senza vita degli attentatori serviva a diffondere paura e terrore e reprimere la resistenza nell’orrore di quello scempio, tuttavia, quell’esibizione di violenza, incendiò lo spirito dei coloni fascisti, che videro in quell’attentato al viceré Graziani un pretesto per dare libero sfogo a tutto l’odio che provavano nei confronti degli indigeni e così, fin dalla mattina del 19 febbraio, i coloni italiani in Etiopia massacrarono migliaia di persone, i più fortunati vennero passati per le armi, altri vennero bastonati a morte, altri ancora, bruciati vivi insieme alle proprie abitazione, e si stima inoltre che interi villaggi, alle porte di Addis Abeba, vennero sterminatiti con armi chimiche. E sulle armi chimiche usate dall’Italia in Etiopia si potrebbe parlare ancora a lungo, ma non è questo il luogo.
L’insieme di questi elementi rende la strage di Addis Abeba del 1937 uno dei capitoli più oscuri della storia italiana, un episodio caratterizzato da una brutalità e una disumanità senza eguali ne precedenti nella storia, al cui confronto le mutilazioni attuate da Leopoldo del Congo sembrano un trattamento quasi umano. I documenti ufficiali, le lettere, i telegrammi dell’epoca e le testimonianze, ci dicono che, contrariamente a quanto sostenuto da Montanelli, quella rappresaglia non fu un atto isolato, ma era parte di una strategia deliberata per annientare e reprimere nel sangue ogni qualsivoglia forma di resistenza da parte della popolazione etiope.
Contesto storico del massacro
La strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 ed il 21 febbraio 1937, si colloca come anticipato nel contesto generale del colonialismo fascista. L’Italia ha iniziato la propria avventura coloniale nel corno d’africa da poco più di un anno, la campagna di Etiopia è iniziata nell’ottobre del 35 e si è rapidamente conclusa nel maggio del 36, e Graziani è viceré di Etiopia da appena otto mesi, ha ricevuto l’incarico nel 36.
L’attentato non è letale, Graziani sopravvive all’attentato, in effetti Graziani sopravvive anche al Fascismo visto che nel 1953 succede alla guida del Movimento Sociale Italiano, ma anche questa è un altra storia, e sebbene gli attentatori, come abbiamo visto, furono prontamente catturati e giustiziati, la reazione italiana, anzi, la reazione fascista, fu immediata, violenta e soprattutto sproporzionata.
Le rappresaglie dei tre giorni successivi produssero circa 19.000 vittime etiopi nella sola Addis Abeba, numeri che superano i 30.000 se si tiene conto anche delle vittime nei villaggi limitrofi e cresce esponenzialmente se si tiene traccia anche di altre rappresaglie, successive al 21 febbraio, giustificate dalla possibile collaborazione con gli attentatori del 19 febbraio.
Restando ad Addis Abeba, le strade si tinsero di rosso, il cielo fu fu quasi oscurato dalle fiamme delle capanne, al cui interno erano bloccati gli indigeni e sui cui tetti venne versata benzina uccidendo i più fortunati per asfissia mentre altri bruciarono vivi e in preda al terrore. Nella corrispondenza e nei diari dei coloni troviamo un racconto macabro di quei giorni e di quei massacri, alcuni di loro vanno fieri di aver bruciato capanne con dentro intere famiglie, altri ancora di aver bastonato a morte uomini donne e bambini, prima di bruciare i loro corpi. Qualcun’o dichiara di aver stuprato donne di fronte ai mariti e figli prima di ucciderli ‘altro va anche oltre.
Paradossalmente però, nonostante abbiamo una vasta documentazione su tali crimini, e nella maggior parte dei casi sono gli stessi coloni fascisti ad ammettere di aver massacrato civili etiopi, nessuno di loro, durante e dopo il regime fascista, è stato processato. Lo stesso Rodolfo Graziani, che ha ordinato le rappresaglie ed ha chiesto al ministero delle colonie l’autorizzazione ad usare armi chimiche contro la popolazione civile, come forma di rappresaglia per l’attentato subito, non verrà punito e anzi, in età repubblicana grazie alla “grande amnistia” per la pacificazione nazionale, voluta un po’ dalla P2 un pò da pressioni USA, avrà modo di tornare a fare politica e nel 53 succede a Juno Valerio Borghese alla guida del Movimento Sociale Italiano, ma anche questa è un altra storia.
Tornando alla strage di Addis Abeba, in termini puramente numerici essa rappresenta una delle più ampie rappresaglie coloniale di cui abbiamo traccia nella storia italiana, e in termini più ampi intesa come un massacro su larga scala, pochi eventi nella storia hanno fatto più vittime in così poco tempo, vi lascio immaginare quali.
Come già detto, quella strage non fu l’unica, ne la prima o l’ultima. Episodi analoghi, seppur di portata minore, accompagnano l’intera esperienza coloniale dell’Italia fascista poiché, come vedremo a breve, la violenza era una delle colonne portanti del regime. Nel solo contesto coloniale le autorità fasciste cercarono, ovunque si insediarono, di consolidare il proprio potere ed il controllo sulla popolazione civile attraverso l’uso sistemico della violenza.
Documenti Ufficiali e Fonti Primarie
Ciò che sappiamo della strage di Addis Abeba ci arriva prevalentemente da documenti ufficiali, in particolare documenti dell’allora Ministero delle Colonie, tra questi documenti anche lettere e telegrammi, ma anche diari privati. Tra i documenti più importanti che possiamo consultare una serie di telegrammi tra gli uffici di Graziani ad Addis Abeba e il ministero delle colonie, in cui il viceré chiede l’autorizzazione a reprimere la rivolta, usando anche armi chimiche, e le rispettive risposte da parte di funzionari di Roma tra cui lo stesso Mussolini. Tra questi documenti spicca un telegramma datato 19 febbraio 1937, si tratta di una risposta inviata da Mussolini in persona, in cui si diceva che “Tuitti i civili e religiosi, comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi.”
Questo telegramma fa parte di un più ampio scambio di comunicazioni, di cui però non abbiamo traccia nella sua interezza. Sappiamo però che una delle risposte, datata 20 febbraio, è un telegramma inviato dal generale Pietro Maletti al ministero delle colonie, con cui il generale fornisce un resoconto dettagliato delle misure adottate per “punire esemplarmente” la popolazione locale, ed è importante sottolineare che Maletti parla di punire la popolazione, non i ribelli.
Altri documenti ci forniscono una panoramica più ampia sulla strage, fornendo una serie di dettagli macabri sulle atrocità commesse, prima, dopo e durante i tre giorni di rappresaglia. Particolarmente significativa alcune lettere del capitano Luigi Frusci inviate al comando centrale, lettere in cui scriveva che “La lezione deve essere severa affinché nessuno osi più sfidare la potenza dell’Italia“, si confermano poi esecuzioni sommarie e la distruzione di interi villaggi.
Scavando tra questi documenti è possibile imbattersi in testimonianze estremamente crude e raccapriccianti, alcuni di essi ad esempio ci raccontano la metodologia, estremamente efficiente e crudele, con cui si giustiziavano i ribelli. Angelo del Boca in Italiani brava gente? Riporta alcuni di questi episodi, uno dei quali è così riducibile. Decine di uomini in catena venivano condotti in una cava, lì, un telo copriva le loro teste e uno alla volta venivano scoperti e passati per le armi. Uno dopo l’altro tutti i prigionieri venivano giustiziati, tuttavia, essi incatenati tra loro, non avevano modo di sapere quando sarebbe stato il proprio turno per morire.
La maggior parte dei documenti che abbiamo a testimonianza della strage di Addis Abeba e degli eccidi sistemici nell’Italia coloniale, sono diventati di pubblico dominio solo molti anni dopo la fine del regime fascista e la fine della prima repubblica. Basti pensare che per un ammissione del Ministero degli Esteri sull’uso di armi chimiche in Etiopia durante la guerra coloniale, tra 1935 e 1936, abbiamo dovuto aspettare il 1996. In effetti la maggior parte di questi documenti sono diventati “accessibili intorno alla metà degli anni novanta.
Oggi telegrammi e lettere tra funzionari al seguito del viceré Graziani e il ministero delle colonie e le varie corrispondenze tra governo e le cancellerie estere, sono conservati principalmente presso l’archivio di stato diplomatico, altri documenti, come ordini operativi e rapporti sono invece conservati presso l’archivio centrale dello stato, per quanto riguarda lettere private e diari, alcuni di questi sono relativamente di pubblico dominio e fanno parte di fondi e collezioni private aperte al pubblico, altre invece sono completamente blindate.
La reazione internazionale alla strage
Un avvenimento così violento e incisivo, come la strage di Addis Abeba, non poteva passare inosservato alle cancellerie estere o alla Società delle Nazioni. Sappiamo a tale proposito che il regime cercò di minimizzare l’avvenimento, mettendo in funzione a pieno regime la macchina della censura ma alcune informazioni riuscirono comunque fuoriuscire dall’Etiopia causando alcune critiche, che tuttavia si risolsero in un nulla di fatto.
All’atto pratico abbiamo tanto fumo ma poca sostanza, dovuta soprattutto alla debolezza della Società delle Nazioni, l’organo internazionale più significativo dell’epoca, il cui potere tuttavia era pressocché nulla. La società era in effetti già intervenuta nel 1935 ammonendo l’Italia per la propria iniziativa coloniale, ammonizione che tuttavia non scosse minimamente il regime e non ebbe nessun effetto, così, nel 37, all’indomani della strage di Addis Abeba, la società delle nazioni, scelse il silenzio e la neutralità.
Come dicevamo, nonostante i tentativi di censura di Graziani e del Regime in Italia, qualche notizia sulla gestione delle rappresaglie trapelò e negli uffici diplomatici di Francia e Regno Unito troviamo traccia di queste informazioni, iniziarono infatti a circolare numerosi rapporti che rivelavano una crescente preoccupazione per le violenze perpetrate dal regime fascista in Etiopia. In un documento del Foreign Office Britannico la repressione italiana viene descritta come “una campagna di terrore senza precedenti”. Nonostante queste partole però, ciò che preoccupava realmente Francia e Regno Unito era altro, è il febbraio del 1937 e da lì a qualche mese il ministro degli esteri britannico, Lord Halifax, avrebbe rassicurato persino Hitler, considerando la Germania Nazista l’ultimo baluardo dell’Europa civilizzata contro la barbarie bolscevica.
Lo stesso vale per l’Italia, la brutale repressione dei “ribelli” etiopi passa in secondo piano rispetto all’ombra più minacciosa e imminente che aleggia sull’Europa, ovvero la minaccia Sovietica che il fascismo aveva sradicato dall’Italia come si fa con una pianta infestante, di conseguenza, temendo di compromettere i buoni rapporti con Mussolini, in vista di un possibile scontro con i sovietici, si decise di per il non intervento.
L’unica potenza estera che espresse formalmente la propria preoccupazione, pur rimanendo comunque neutrale nei confronti dell’Italia, furono gli Stati Uniti. Sappiamo infatti che alcuni diplomatici statunitensi, non direttamente presenti in Etiopia, inviarono a Washington diversi rapporti basati su testimonianze indirette con cui documentavano in modo dettagliato le atrocità commesse dalle truppe italiane in Etiopia. Questi resoconti sono conservati presso gli archivi del dipartimento di stato e sono pubblicamente consultabili.
C’è in sostanza una marginale preoccupazione internazionale per le violenze italiane in Etiopia, ma siamo sul finire degli anni 30 del novecento, e l’opinione pubblica mondiale non è più solo l’opinione e la posizione ufficiale dei governi. Esistono in quel tempo e si stanno diffondendo su scala globale i primi movimenti anticoloniali, e questi, appresa la notizia della strage di Addis Abeba, ne fecero un simbolo, un evento emblematico delle ingiustizie del dominio coloniale.
Tali movimenti, va detto che nel 37 erano poco più che delle voci minori e con poco seguito ed ebbero maggior successo dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma già nel 37 provarono a far sentire la propria voce, coinvolgendo intellettuali e attivisti di tutto il mondo, denunciarono pubblicamente le violenze italiane con pamphlet e articoli sui propri giornali indipendenti che mettevano in evidenza la sistematicità delle rappresaglie italiane e chiedevano giustizia per le vittime. Tale mobilitazione però, non ebbe molto successo.
Anche in Italia, nonostante il tentativo di censura voluto dal regime, qualche notizia trapelò, suscitando qualche critica nei confronti delle politiche coloniali del regime stesso, considerato promotore e mandante di tali violenze, critiche che tuttavia venne etichettate quasi immediatamente come propaganda del Partito Comunista Italiano che attraverso i propri pamphlet e articoli pubblicati soprattutto all’estero, cercava di mettere in cattiva luce l’opera civilizzatrice del governo fascista e dell’impresa coloniale italiana in Etiopia.
L’emblematico caso di Debre Libanos e la testimonianza diretta
Scavando tra le lievi voci fuori dal coro, che sopravvissero alla macchina della censura del fascismo, troviamo una delle testimonianze più agghiacciante degli eventi di quei giorni, si tratta della testimonianza diretta di un monaco del monastero di Debre Libanos, dove settimane dopo la fine delle rappresaglie da parte dei civili, i soldati italiani massacrarono oltre 2000 persone tra monaci e pellegrini accusati di aver partecipato e sostenuto la resistenza. Il monaco, in un intervista degli anni 60 ha raccontato dettagliatamente cosa accadde agli inizi di maggio del 1937 nel monastero di Debre Libanos e la sua testimonianza integrale è riportata nel libro di Ian Campbell, Il Massacro di Addis Abeba, una vergogna italiana, qui lascio solo un breve estratto.
“Le truppe arrivarono all’alba, bruciarono le case e uccisero chiunque cercasse di fermarli. Molti furono costretti a scavare le proprie fosse prima di essere fucilati”
Ciò che emerge dalle testimonianze dei superstiti di Debre Libanos, oltre all’inaudita violenza di quelle ore, è il modo surreale e pretestuoso con cui i gli le milizie fasciste giustificarono quelle azioni. Nel monastero di Debre Libanos i soldati italiani giunsero alle prime luci dell’alba, mesi dopo la fine della strage e accusarono i monaci di aver partecipato o sostenuto attivamente la resistenza etiope, accuse infondate e pretestuose, finalizzate esclusivamente a legittimare un massacro di innocenti, ma che partono dal telegramma di Mussolini del 19 febbraio. Quello in cui dice di passare per le armi tutti i civili e religiosi, sospettati di un coinvolgimento con la resistenza.
Non era importante che ci fosse un collegamento reale, era sufficiente un pretesto, per giustiziare decine, centinaia, migliaia di persone. L’episodio di Debre Libanos è collegato solo indirettamente agli eccidi del 19-21 febbraio 1937, poiché fu una delle innumerevoli rappresaglie scaturite dall’attentato a Graziani, rappresaglie che continuarono per mesi e che ci permettono di comprendere la reale dimensione, portata e natura di quanto accadde in quei giorni di fine febbraio 1937, una strage che uno fu solo una rappresaglia, ma un autentico crimine d’odio.
Conclusione
La strage di Addis Abeba del 1937 non si limita ai soli 3 giorni di violenza indiscriminata intercorsi tra il 19 ed il 21 febbraio e rappresenta uno dei capitoli più bui del colonialismo italiano e della storia italiana.
Si tratta di un evento la cui la brutalità senza eguali e precedenti svela una metodologia sistematica, con cui il regime fascista cercò di consolidare il proprio dominio assoluto sull’Etiopia.
Le dimensioni della violenza furono immense, si contano migliaia di vittime civili in soli tre giorni di rappresaglie, le stime ufficiali parlano di un numero di vittime civili che oscilla tra le 19.000 e le 30.000 ma è probabile che siano molte di più. La maggior parte delle vittime tra il 19 ed il 21 febbraio non furono causate dai soldati fascisti, ma dai coloni italiani, fascisti convinti che cercavano solo un pretesto per dar sfogo alla propria crudeltà, e quel pretesto arrivò con l’attentato al viceré Rodolfo Graziani. Questo massacro come abbiamo visto, non fu un atto isolato ma faceva parte di una più ampia strategia, o forse sarebbe meglio dire, di una consolidata metodologia, per reprimere nel terrore ogni forma di resistenza. E si protrasse nel tempo e lo spazio ben oltre i limiti temporali del colonialismo fascista.
La portata di questa strage va infatti ben oltre il numero delle vittime. Essa fu un espressione del reale volto del fascismo, Rodolfo Graziani era agli occhi di Mussolini uno dei migliori esempi di Italianità, era un “fascista ideale” il prototipo di un fascista esemplare che il regime stava cercando di costruire. Questa strage va oltre il colonialismo fascista e simboleggia la natura brutale che muoveva lo stesso fascismo, evidenzia quella logica di violenza indiscriminata usata come strumento di controllo politico e sociale e che rendeva la colonia d’Africa, lontana da occhi indesiderati, un perfetto laboratorio per testare la propria efficacia, del resto, la popolazione indigena era agli occhi dei colonizzatori una popolazione sostanzialmente priva di diritti, considerata sporca e selvaggia, da civilizzare o eliminare.
L’Italia fascista era impegnata in una campagna “civilizzatrice” concetto che nella sua applicazione assomiglia più a quello di “pulizia etnica” che ad altro. Poiché il rango di “civilizzato” spettava unicamente alla popolazione bianca. La strage di Addis Abeba ci dice chiaramente che la maggior parte dei coloni italiani in Etiopia erano razzisti e che il razzismo e le teorie sulla superiorità della razza non furono importate dalla Germania nazista. Va infatti ricordato che siamo nel febbraio del 1937 e in Italia le leggi raziali verranno introdotte solo nel novembre del 1938. Questa strage nel complesso porta con se un significato storico profondo e complesso, essa è un monito sulla natura distruttiva del colonialismo e del fascismo, della violenza politica e delle conseguenze devastanti delle teorie sulla supremazia razziale e militare.
È una strage che nella sua crudeltà ha qualcosa da insegnarci e la memoria di questo evento nefasto è qualcosa che andrebbe protetto e conservato nel patrimonio culturale dell’intera umanità, tuttavia, il suo ricordo, soprattutto in Italia, è ancora fortemente ostacolato, è come se gli italiani avessero cercato di rimuovere e dimenticare questo capitolo di inaudita violenza e crudeltà dalla propria memoria. Tuttavia, sempre più studi a partire dagli anni 90, stanno contribuendo a riportare alla luce la verità su quanto accadde ad Addis Abeba tra il 19 ed il 21 febbraio 1937.
Mi permetto una piccola considerazione personale, quella strage è una ferita aperta, forse più per gli italiani che per gli Etiopi, poiché ricordare quei momenti, quella strage, significa fare i conti con un passato nefasto che abbiamo chiuso in un vergognoso armadietto di Roma, più di 75 anni fa, e lì lo abbiamo abbandonato sperando che prima o poi svanisse dalla storia.
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