Paolo Thaon di Revel, il Duca del Mare della marina militare Italiana

Paolo Thaon di Revel fu un militare e politico italiano. Primo ed unico Grande Ammiraglio nella storia della marina militare italiana

Paolo Thaon di Revel (1859-1948) al secolo Paolo Camillo Margherita Giuseppe Maria Thaon di Revel, è stato uno dei grandi protagonisti della storia militare del regno d’Italia, fu infatti il primo, ed unico, uomo a ricevere, nel maggio del 1924 il titolo di Duca del mare ed è stato anche l’unico ammiraglio, in tutta la storia della marina italiana, monarchica e repubblicana, ad essere promosso al titolo onorifico di Grande Ammiraglio nel novembre del 1924.

Il motivo per cui Paolo Thaon di Revel nel 1924 ottenne queste onorificenze è principalmente politico, l’Italia, più precisamente l’Italia fascista, stava cercando di costruire una propria “mitologia” legata alla prima guerra mondiale, concedendo onorificenze e riconoscimenti a coloro che, durante e dopo il conflitto, si erano distinti in modo particolare, e Paolo Thaon di Revel era, agli occhi dei fascisti, l’eroe che a Parigi si era battuto per il rispetto del patto di Londra, de facto un precursore della teoria della vittoria mutilata, ma a parte questo.

La grande guerra di Thaon di Revel

Quando inizia la grande guerra, nel 1915 Thaon di Revel era capo di stato maggiore, tuttavia, in seguito a diverse controversie con l’allora comandante in capo dell’armata, il vice ammiraglio Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, Duca degli Abruzzi, Thaon di Revel rassegnò le proprie dimissioni al re Vittorio Emanele III al quale sembra si presentò con le seguenti parole

«Maestà devo combattere e guardarmi dagli austriaci, dagli Alleati e dagli ammiragli italiani. Le assicuro che i primi mi danno meno da fare degli altri due».

Non più capo di stato maggiore, Revel ottenne la nomina di comandante in capo del dipartimento militare marittimo di Venezia, dove, con grande lungimiranza, promosse l’utilizzo massiccio di nuove tecnologie belliche, come treni armati e motoscafi armati siluranti, più noti come MAS, praticamente dei mezzi d’incursione marittima, molto agili e veloci. Fu inoltre un grande sostenitore della teoria della supremazia dell’aria, promuovendo il potenziamento dell’aviazione nautica, precursore dell’aereonautica militare italiana.

Questo è un treno armato

Finita la guerra Revel partecipa, insieme al ministro degli esteri Sonnino, in qualità di delegato navale, alla conferenza di Parigi, dove difese i “diritti italiani sulla Dalmazia” e chiese il rispetto del Patto di Londra. La sua battaglia politica a Parigi fu molto apprezzata dai futuri sostenitori della teoria della vittoria mutilata.

Dal ministero della guerra alle controversie con Mussolini

Nel 1922 entrò a far parte del primo governo Mussolini, come Ministro della regia Marina e, insieme al generale Pietro Armando Diaz (Ministro della guerra) e di Giovanni Gronchi, futuro presidente della repubblica, in quel momento, Sottosegretario al Ministero dell’Industria e del Commercio, rappresentava uno degli uomini di fiducia del Re nel “primo governo nazionale”.

Durante il proprio mandato da ministro, Revel promosse la costruzione di due velieri da utilizzare come nave scuola, la Cristoforo Colombo e la Amerigo Vespucci, la prima venne ceduta, dopo la fine della seconda guerra mondiale, all’Unione Sovietica come parte dei pagamenti bellici, la seconda invece è ancora in servizio come nave scuola per la Marina militare italiana.

Revel era uomo di mistica fede monarchica, discendente di un’antica famiglia nobiliare molto vicina alla casa sabauda, e, sul piano politico, la propria fede nella monarchia non cessò mai di esistere, neanche di fronte ai tentativi di persuasione di Mussolini, con il quale, durante il proprio mandato di Ministro della Marina, si scontrò in diverse occasioni, al punto che, nel maggio del 1925, di fronte all’ennesima controversia, non condividendo la riforma dell’ordinamento militare che istituiva un comando supremo di tutte le forze armate, de facto subordinava la Marina all’esercito, Revel, che da tempo chiedeva un sistema di coordinamento delle forze armate, rassegnò nuovamente le proprie dimissioni dal ruolo di capo di stato maggiore.

Revel, un eroe “antifascista” del fascismo.

Durante la seconda guerra mondiale Revel partecipò come uomo di fiducia del Re agli incontri settimanali che si tenevano ogni giovedì al Quirinale, tuttavia sembra che non venne coinvolto direttamente nei negoziati per l’Armistizio probabilmente perché ormai già molto anziano.

Anche se per la propaganda mussoliniana Revel era un “eroe del fascismo” , quando Mussolini, tradì il re e promosse una secessione italiana fondando la RSI, Thaon di Revel rimase fedele alla casa reale rifiutando di aderire alla RSI. La sua inesauribile fede nella monarchia venne “premiata” con la nomina, a presidente del senato e successivamente entrò, in seguito all’abdicazione di Vittorio Emanuele III, entrò a far parte della cerchia ristretta di consiglieri di re Umberto II.

In vista del referendum del giugno del 46, Revel si schierò, per ovvie ragioni, a favore del blocco monarchico, successivamente, con l’avvento della repubblica, Paolo Thaon di Revel si ritirò a vita privata, per poi morire nel 1948 alla veneranda età di 89 anni.

Qualche informazione sulla famiglia Thaon di Revel

La storia di Paolo Thaon di Revel rappresenta solo l’ultimo capitolo della storia di una delle antiche famiglie nobiliari italiane, una famiglia che ha giocato un ruolo importantissimo nella storia italiana, nella storia del regno d’Italia e soprattutto, nella storia della dinastia Sabauda.

Fin dal loro arrivo in Piemonte, avvenuto nel XV secolo, i Thaon, poi Thaon di Revel al seguito della nomina sabauda a signori di Revel, hanno sempre guardato le spalle ai Savoia, furono proprio loro ad elevare i Thaon, da signori della guerra a capo di una compagnia di ventura, al rango nobiliare, prima come signori di Revel e poi come Marchesi, Conti e Duchi.

Per secoli i Revel sono stati dei fedeli servitori e protettori della dinastia sabauda, una piccola ma tenace casa nobiliare italo francese e la loro vicinanza alla casa di Savoia proiettò i Thaon di Revel nel vivo del risorgimento italiano.
Ottavio Thaon di Revel, padre di Paolo Thaon di Revel, fu uno dei più stretti collaboratori e consiglieri di Carlo Alberto di Savoia, fu deputato del regno di sardegna ininterrottamente tra la prima e la sesta legislatura e fu senatore del regno d’Italia, inoltre, nel 1848 fu Ministro delle finanze del regno di Sardegna, sotto i tre governi Bolbo, Alfieri di Sostegno e San Martino che si susseguirono in quell’anno, ma non solo. Sempre nel 1848, Ottavio Thaon di Revel, fu cofirmatario dello Statuto Albertino, la prima “costituzione” italiana, rimasta in vigore fino all’entrata in vigore della costituzione repubblicana.

Bibliografia

Scheda senatore Paolo Thaon di Revel
Grandammiraglio Paolo Thaon di Revel
Patto di Londra su JSTOR

Nell’antica Roma c’erano persone dalla pelle scura ed i contadini erano perennemente “abbronzati”.

Gli abitanti dell’impero romano avevano la pelle scura, in alcuni casi per ragioni etniche, in altri perché trascorrevano molte ore dell’anno, lavorando sotto il sole.

Qualche anno fa, su un libro di storia per bambini è apparsa un immagine in cui era raffigurato un soldato romano con la pelle scura, e questo ha fato scaturire la rabbia e indignazione di molti, soprattutto “puristi della razza”.

Quell’immagine è sbagliata perché i romani erano bianchi? Quell’immagine è giusta?

Per rispondere a queste domande in modo storico, e non di pancia, bisogna soffermarci su due elementi, ovvero distribuzione demografica della popolazione dell’Impero e condizioni di vita degli abitanti dell’Impero.

Prima di inoltrarci nell’analisi del fenomeno e cercare di fare luce sulla questione, vi anticipo che, voglio mostrarvi questa immagine precedente il primo secolo dopo Cristo, identificata come “Medicina dello Stivale e dell’Età Romana: Enea curato da Japige” che è stata ritrovata negli scavi di Pompei.

Notate qualcosa di strano nel colore della pelle di Enea e del medico che lo sta curando?

La pelle di Enea e del medico è molto scura, questo e non è un effetto dovuto all’invecchiamento del pigmento, anche perché nella stessa immagine ci sono altre persone con una tonalità della pelle molto più chiara, e dunque, anche se l’immagine con il tempo si è scurita, ciò non toglie che, chi ha realizzato questo affresco, aveva bene in mente che, la pelle di Enea dovesse essere più scura rispetto a quella di altri soggetti della stessa immagine.

Distribuzione demografica in età romana

Per quanto riguarda la distribuzione demografica, va detto che l’Impero romano si estendeva dalla spagna al medio oriente, dalle isole britanniche al deserto del Sahara, controllava l’intero bacino del mediterraneo, e, entro i suoi confini, nei secoli, sono confluite centinaia di popolazioni diverse e lontane tra loro, sia sul piano culturale che etnico.

Entro i confini dell’impero c’era anche il nord africa, un’area che andava dall’Egitto al Marocco, e che costituiva il “granaio” dell’impero, ovvero una regione prevalentemente agricola e molto fertile, in cui venivano prodotte gran parte delle scorte di grano per tutto l’impero.

Fatta eccezione per le “grandi” città come Roma, l’area del nord africa, era tra le più popolose dell’impero, perché abitata da tanti contadini che lavoravano negli immensi e sterminati campi che producevano e fornivano grano a tutto l’impero.

Gli abitanti di quella regione, per ragioni etniche e per condizioni di vita, avevano la pelle molto scura.

Ora, se la parte più popolosa dell’impero è abitata da persone dalla pelle scura, va da se che… già questo è sufficiente a dire che, non solo, nell’impero c’erano persone con la pelle scura, ma anche che questi era una fetta importante dell’intera popolazione romana.
A questo bisogna aggiungere che, la maggior parte degli abitanti dell’impero e dell’Europa nelle epoche successive, dalle isole britanniche all’Egitto, erano contadini e pescatori.

Cosa c’entra il lavoro con la colorazione della pelle?

Parliamo di un epoca preindustriale in cui il lavoro nei campi era svolto prevalentemente sotto la luce diretta del sole, si lavorava la terra tutto l’anno, giorno dopo giorno, sotto il sole, un epoca in cui ci si sposta a piedi o al massimo al cavallo, e anche l’, si è esposti alla luce del sole, di conseguenza, queste lunghissime ore di esposizione alla luce solare, ai raggi ultravioletti che innescano il processo di abbronzatura, rende la pelle di quelle persone molto scura, mediamente molto più scura di quella di un impiegato odierno che prende il sole 2/3 settimane all’anno, durante weekend estivi e vacanze di ferragosto.

Possiamo dire che gli antichi, e per antichi intendiamo gli abitanti dell’Europa e dai tempi di Roma, fino almeno alla seconda metà del XX secolo, erano perennemente abbronzati.

Beati loro, se non fosse che la loro pelle era letteralmente cotta e rovinata, usurata dal sole e da ogni sorta di malattia della pelle.
Per secoli il colore della pelle ha costituito un elemento di distinzione tra ceti sociali, perché, mentre i contadini, ma anche soldati, pescatori e lavoratori in generale, trascorrevano gran parte della propria esistenza sotto il sole, i nobili, gli aristocratici ed i ceti più agiati, erano molto meno esposti al sole, di conseguenza , fatte rare eccezioni, la loro pelle era mediamente più chiara e liscia, rispetto a quella dei contadini.

Nobili ed aristocratici, per aspetto, erano molto più simili a noi, ma, non dimentichiamoci che nobili ed aristocratici erano una frazione ridotta della popolazione europea.

Questo distinguo basato su colore e stato della pelle è venuto a mancare, parzialmente, con la rivoluzione industriale, al seguito della diffusione di illuminazione elettrica, fabbriche e treni, elementi che hanno spostato gran parte del processo produttivo in Europa al chiuso, limitando quindi l’esposizione al sole e cambiando le abitudini di lavoro.

Si lavora al chiuso, ci si abbronza di meno, quindi l’abbronzatura fa il giro e passa dall’essere indicativa di lavori poveri e manuali, ad essere indicativa dell’appartenenza ad una cerchia sociale più elevata che, nella seconda metà del XX secolo, conduce una vita più agiata… può andare in vacanza.

Questo tipo di abbronzatura limitata nel tempo, si traduce in pelle leggermente più scura, ma comunque liscia, diversa da quella dei contadini, molto più scura e increspata e rovinata, non curata.

Va anche detto che, nel secondo dopoguerra, negli anni 50 del novecento, quando Ernesto de Martino e prima di lui Carlo Levi, durante i propri viaggi e studi, si sono recati nell’Italia meridionale, e sono entrati in contatto con le popolazioni rurali del mezzogiorno, si sono imbattuti in uomini e donne che ancora portavano sul proprio volto il segno del lavoro nei campi, parliamo di uomini e donne con la pelle scura, cotta dal sole in lunghe ore di lavoro nei campi.

Rispondere quindi con un “no secco” quando si chiede se nel mondo antico, in Europa, ci fossero persone con la pelle scura, oltre ad essere stupido è anche anti-storco, perché si guarda a quel mondo, a quell’epoca, non analizzandolo nella propria interezza, ignorando le condizioni di vita della popolazione del tempo e proiettando i nostri ritmi e le nostre abitudini, in un mondo che seguiva ritmi diversi, un mondo il cui tempo era scandito dalla luce del sole e non dalle lancette di un orologio moderno. Un mondo, in cui la pelle delle persone era mediamente più scura, perché, a differenza di noi, viveva e lavorava tutto l’anno sotto il sole, senza crema solare e senza alcun tipo di protezione contro i raggi UV.

Satana, ovvero il Diavolo: le origini cristiane dell’immaginario medievale del male | CM

L’imposizione del cristianesimo come religione ufficiale

Il cristianesimo, caposaldo indiscusso tra le massime religioni di stampo monoteista, presenta origini antiche e una lunga storia connotata da lotte, rivalità, editti e lunghi concilii che lo portarono a rappresentare un simbolo e un’ideologia, oltre che a incarnare il ruolo di una delle religioni più diffuse e affermate al mondo. Ma il percorso è stato lungo. I suoi primi passi verso un’affermazione forte e completa risalgono infatti al IV secolo d.C., periodo storico connotato da significative tensioni religiose.

Con l'”Editto di Milano del 313 d.C. e il “Concilio Ecumenico di Nicea I del 325 d.C.,
l’imperatore Costantino aveva intrapreso una politica reliogiosa esplicitamente rivolta all’impostazione del cristianesimo come sola e unica religione praticabile. Il tutto venne decretato ufficialmente dall'”Editto di Tessalonica del 380 d.C. il quale, per volere di Graziano, Valentiniano e Teodosio I, aveva definitivamente sancito il ruolo del cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero romano, imponendovi così una fedeltà ferrea e assoluta.

Tali eventi rappresentano momenti cruciali per la storia del cristianesimo, il quale, a partire dal IV secolo d.C. circa, venne indiscutibilmente riconosciuto come religione di livello universale. Ciò lo portò non solo a essere ritenuto una religione ufficiale, ma anche superiore, andando così inevitabilmente a ledere nel corso dei secoli numerose altre religioni, come ad esempio accadde per l’ebraismo, a partire da tempi antichissimi. Tale concetto di superiorità era pertanto alimentato da una sorta di disprezzo rivolto verso qualsiasi religione fosse ritenuta “altra”, e quindi diversa. L’idea di cristianesimo si fece dunque sempre più forte, sostenuta da istituzioni clericali altrettanto potenti, fino a raggiungere un apice di ideologie che affonda le sue radici nel periodo alto e, soprattutto, basso medievale.

Il potere della chiesa medievale e il binomio di bene e male

Da secoli l’idea che si ha sul Medioevo viene fortemente associata a un immaginario collettivo connotato da una rigida ambivalenza religiosa fondata sul concetto di bene e male. Abbiamo precedentemente visto come il cristianesimo avesse iniziato a imporsi in un contesto di tensioni religiose a pochi anni dalla caduta dell’Impero romano d’occidente.
Pertanto, con l’inizio del periodo che oggi definiamo “Alto Medioevo”, esso si trovò la “strada spianata” per potersi impostare in modo definitivo come religione cardine di tutto il mondo medievale, portando con sé una vasta serie di concetti che avrebbero avuto una secolare fortuna nel mondo delle religioni monoteiste. Alla base di queste dottrine vigeva il noto binomio contrapposto di bene e male, una rigida ambivalenza impostata e controllata dal cristianesimo nel modo più ferreo possibile.

La società medievale era inoltre fondata su due modelli cardine: la politica e la religione e, nella maggior parte delle occasioni, quest’ultima poteva influenzare, e anzi padroneggiare senza troppe difficoltà la prima. Basti pensare che l’intera gerarchia ecclesiastica era interamente fondata sull’enorme potere esercitato dal papato, il quale, nonostante non fosse in possesso di un esercito personale e non avesse un accesso diretto al potere esecutivo di cui disponevano i sovrani medievali, possedeva il pieno controllo sulla monarchia e la possibilità quasi immediata di destituire a suo piacimento il monarca; pertanto tali privilegi non gli sarebbero affatto stati necessari per esercitare il pieno potere religioso di cui era effettivamente detentore. Inoltre la Chiesa, pur rappresentando una minima percentuale in termini di uomini interessati, possedeva quasi un terzo di tutte le terre del regno, senza contare tasse, offerte, vendite delle indulgenze e delle massime cariche e, ovviamente, il completo esonero verso ogni tipologia di tassazione. Al termine di tali riflessioni risulta dunque quasi scontato affermare che fosse proprio la Chiesa, sulla base interpretativa delle dottrine cattoliche, a decretare cosa rappresentasse il “bene” e cosa invece il “male”.

E’ un tratto umano di stampo tipicamente medievale l’ispirarsi apertamente alla morale perseguita da Gesù, il quale non solo rappresenta un personaggio storico chiave per la lettura della religione cristiana, ma incarna allo stesso tempo un vero e proprio corpus di leggi spirituali da perseguire ed emulare con estrema cura e attenzione, e sulle quali fondare la propria esistenza che, come insegna proprio la dottrina cattolica, deve essere unicamente rivolta al bene. Gesù è insomma a tutti gli effetti un modello da seguire, un “serbatoio” di etica e morale, e infine una solida base sulla quale impostare i più retti comportamenti umani. Ed è proprio da tali concetti che nasce la vera e propria idea di “bene”, inteso come principio strettamente legato a tutto ciò che la Chiesa decretava, e anzi imponeva, quasi come “legge di rettitudine”. E’ inoltre ovvio affermare che, laddove la Chiesa e i principi cristiani s’imponevano strenuamente come difensori di onestà e virtù, si decretavano in maniera altrettanto accanita come persecutori di tutto ciò che andava contro tali dottrine, fomentando così il concetto di “male”.

Bisogna tuttavia sottolineare come fosse impostata la società medievale, ed evidenziare quanto tale epoca storica fosse permeata di paura e, soprattutto, di superstizione. I due elementi andavano infatti di pari passo in un contesto culturale in cui ogni errore e deviazione da ciò che si riteneva essere il cosiddetto “bene”, veniva severamente punito; e non si tratta affatto solamente di punizioni corporali. La paura era infatti anch’essa saldamente connessa alle dottrine imposte dalla Chiesa cattolica, e la sola idea di allontanarsi da tali principi, avvicinandosi così al tanto temuto concetto di “male”, rendeva la stragrande maggioranza della popolazione medievale tanto religiosa da riversare spesso nella superstizione; senza contare inoltre l’ignoranza e l’analfabetismo che affollava città e campagne, i quali diffondevano ancor più la paura verso il “male”, fomentando una tacita accettazione verso tutto ciò che la Chiesa imponeva in modo quasi dittatoriale.

Gesù, ovvero il bene; Lucifero, ovvero il male

E’ inoltre necessario mettere in rilievo come il concetto di bene e di male non fosse solamente associato a ideali astratti, ma andasse anche a concretizzarsi, o meglio a personificarsi in personaggi ben specifici. Possiamo infatti parlare di “personificazione” come di un fenomeno tipicamente medievale per il marcato attaccamento verso tutto ciò che poteva essere spiegato concretamente, motivo per cui al concetto di “bene” è stata associata dalla Chiesa la figura di Gesù, il quale doveva appunto essere riconosciuto come principale modello d’ispirazione, un vero e proprio esempio morale e spiritualità sul quale fondare il proprio comportamento e il proprio essere.

Seppur risulti scontato a dirsi, la concezione del bene è ovviamente anche delineata dalla figura di Dio, il quale ne è anzi il protagonista indiscusso portando con sé gli esempi biblici del perdono, della misericordia e della benevolenza. Tuttavia il personaggio di Gesù rappresenta una figura storicamente accertata e risulta pertanto molto più semplice associare ad egli una vera e propria personificazione e concretezza del concetto di “bene”. Ma cosa sarà invece a connotare il concetto del “male”?

Partendo sempre da un presupposto prettamente religioso la Chiesa fa riferimento a una vicenda molto nota, nonostante non venga mai citata né dall’Antico Testamento, né dal Nuovo; ovvero la caduta di Lucifero negli inferi. Lucifero, nome dall’etimo altamente significativo, derivante dal latino lux” – “luce” e ferre” – “portare”. Egli veniva infatti soprannominato “il portatore di luce” e rivestiva uno dei ruoli principali tra gli angeli di Dio; ogni angelo aveva infatti una particolare funzione ben specifica assegnatagli direttamente da Dio e non sarebbe dunque esagerato affermare che fosse quasi il suo favorito.

Tuttavia sappiamo dal profeta Isaia che Lucifero possedeva un animo estremamente superbo, tanto da osare perfino sfidare Dio con una schiera di angeli suoi sostenitori per arrivare a essergli pari nel Regno dei Cieli, se non addirittura per sostituirlo definitivamente. L’esito di tale ribellione risultò un fallimento e Lucifero, sconfitto dall’Arcangelo Michele, mandato da Dio, venne gettato giù dal cielo, andando a conficcarsi nel centro della Terra, ovvero nei cosiddetti “inferi”, che da quel momento sarebbero stati abitati da lui come sovrano e da tutti gli altri ribelli. Bisogna però specificare quanto le interpretazioni riguardanti questo mito siano molteplici, e a volte anche discordanti, non garantendo una versione univoca e ufficialmente riconosciuta.

Inferno e paradiso nell’immaginario medievale

Con il delinearsi della figura di Lucifero come principale oppositore di Dio, nascono parallelamente due concetti biblici fondamentali: quello di “inferno” e quello di “diavolo”, entrambi strettamente collegati al più generale e profondo ideale di “male”, inteso come concetto puramente astratto. Per spiegare concretamente l’esistenza di un luogo infernale contrapposto al paradiso, delineato da letizia e beatitudine, ci si appoggia dunque alla vicenda di Lucifero, il quale, cadendo dal cielo, sarebbe andato a conficcarsi nel centro della Terra, dando così origine a un luogo connotato dal peccato (a causa del gesto compiuto dall’angelo ribelle) e abitato da anime dannate. Questo ideale di inferno si sarebbe stanziato all’interno delle dottrine cristiane così a fondo da risultare attuale ancora oggi, se non addirittura molto spesso credibile. Non si tratta dunque di un fenomeno antico e circoscritto a un dato luogo, bensì di un concetto che ha avuto modo di radicarsi nei più svariati luoghi nel corso dei secoli, riscontrando un’enorme fortuna con Dante e con l’epoca medievale.

Nel Medioevo infatti la paura dell’inferno era così diffusa e radicata che il fenomeno delle indulgenze, un pagamento in denaro per ottenere una parziale o completa remissione dai peccati per se stessi o per i propri cari, raggiunse livelli talmente elevati da risultare una delle maggiori entrate per la Chiesa, al pari di tasse e donazioni; una vera e propria fonte di sostentamento. Come precedentemente accennato, il contributo dantesco fu fondamentale non solo per delineare l’immagine di paradiso e inferno che conosciamo tutt’oggi, ma anche quella dei massimi protagonisti che regnano su tali luoghi. E così come Dio occupa un posto primario e indiscusso nel “Cielo Empireo” del paradiso, Lucifero rivestirebbe un ruolo parallelo nell’inferno, come signore del male e delle anime dannate.

Satana o Lucifero?

Il termine “diavolo” comunemente usato oggigiorno deriverebbe dal verbo greco diàballo. Tale termine non è casuale ed è ottenuto dalla particella “dià” – “attraverso” e dal verbo “ballo” – “gettare”, e starebbe dunque a indicare colui che divide e separa, per l’appunto un calunniatore. Ma prima di intraprendere il discorso vero e proprio a proposito della figura del diavolo in ambito medievale, è necessario specificare che, nonostante oggi l’appellativo a esso riferito sia perfettamente intercambiabile, le sue origini lessicali sono assai ben distinte.

Lucifero rappresenterebbe infatti un personaggio strettamente legato alla figura Dio, degli angeli e dei demoni ribelli (potremmo quasi definirlo biblico, nonostante la Bibbia non faccia parola della sua vicenda); é pertanto direttamente connesso al concetto di peccato e tentazione umana, elementi tipicamente biblici e cristiani. Lucifero incarna dunque un modello di deviazione, un totale declino che porta a un crollo morale senza possibilità di riscatto (non bisogna dimenticare che in origine era un angelo).

La figura di Satana, o Beelzebub (in italiano Belzebù), starebbe invece a indicare un vero e proprio demone, un’entità spirituale o sovrannaturale, una figura appunto satanica esclusivamente dotata di istinti maligni e con l’unico scopo di traviare e corrompere l’animo umano. Satana è malvagio, distruttivo, calunniatore, e a differenza di Lucifero non presenta alcun rimando angelico. La sua connotazione demoniaca andrebbe addirittura fatta risalire alle molteplici religioni politeiste dell’antichità, nelle quali era consuetudine la presenza della figura di un antagonista per eccellenza. Basti pensare che nell’antico Egitto il dio Seth incarnava la vera e propria immagine del male, e questo circa 3.000 anni prima della nascita di Cristo.

Pertanto, sebbene la figura di Lucifero sia fortemente connotata nell’immaginario cristiano tanto da risultare addirittura biblica e al pari di Dio come suo principale nemico e oppositore, l’immagine di Satana andrebbe invece fatta risalire a una tradizione pagana politeista affermata e radicata da migliaia di anni e non ancora del tutto soppiantata dal cristianesimo, come potrebbe invece credersi.

Il diavolo nell’arte e nel mondo medievale

A partire dall’Alto Medioevo il diavolo assunse un ruolo dominante nel mondo religioso cristiano, tanto da influenzare l’arte, la letteratura e persino il pensiero e la mentalità della società medievale. A essere permeati di credenze e superstizioni erano inevitabilmente l’iconografia e l’immaginario collettivo, strettamente legati alla componente cattolica fondata sul binomio tanto discusso di bene e male.

Pertanto, se da un lato la figura del diavolo rappresentava una presenza demoniaca costante nella vita dell’uomo, un lampante esempio spirituale di “spinta al peccato”, dall’altra incarnava invece un forte bisogno umano, ovvero conferire un’immagine concreta a tutto ciò che costituisce un mistero per l’occhio, conferendo perciò concretezza e materialità a tale figura; e fu proprio l’arte a rappresentare lo strumento principale per l’incarnazione delle idee (nel corso dei secoli l’immaginazione non ha mai soddisfatto le aspettative umane). Fu così che, come avvenne per la figura di Dio e degli angeli, anche al diavolo si cercò di dare una degna e concreta rappresentazione artistica che desse agli uomini un’immagine reale verso cui rivolgersi.

Satana è una presenza angosciante nella quotidianità del Medioevo; è presente sulle facciate delle chiese, negli affreschi, sui capitelli e persino nei mosaici e nelle sculture di corte. Il periodo medievale inizia così a dar forma alla più grande paura che abbia mai ossessionato la comunità cristiana: l’idea di inferno e peccato. Le rappresentazioni artistiche infernali sono numericamente quasi al pari di quelle celesti e, come queste ultime, non tralasciano alcun particolare. Satana è sempre il protagonista indiscusso e, attingendo frequentemente anche a rappresentazioni pagane, i suoi particolari sono di un realismo crudo e impressionante. Si tratta spesso di opere religiose, raffiguranti ad esempio il giudizio universale o la discesa agli inferi, e nessun dettaglio (anche i più truci e cruenti) veniva risparmiato.

La sua figura è stata assai di frequente fonte d’ispirazione per scultori, pittori e artisti di ogni genere, i quali hanno cercato di raffigurare nei più svariati modi possibili questa “ossessione medievale”. Il diavolo è ferino, bestiale, non ha nulla a che vedere con l’angelica figura di Cristo, e rappresentando il suo principale antagonista sul piano biblico, così doveva essere anche dal punto di vista fisico. Spesso non ha nulla di umano, neppure una minima parvenza; può essere dotato di corna, artigli, denti acuminati e una coda serpentina. A lui sono inoltre spesso associati animali come il serpente, che incarna la tentazione (dalla nota vicenda biblica di Adamo ed Eva), il gatto nero (uno degli animali satanici maggiormente associati alla stregoneria) e la capra (legata all’episodio biblico del capro espiatorio, sul quale vengono riversati tutti i peccati del popolo di Israele).

Ma a essere raffigurato non era solo il suo aspetto bestiale, bensì anche il suo temperamento diabolico e la sua natura perfida e sadica. Il diavolo infatti tortura e strazia i peccatori che si trovano negli inferi con i peggiori tormenti che si possano immaginare, e l’arte in questo non tralascia alcun minimo particolare, così come magistralmente raffigura le angeliche figure dei beati che godono dei piaceri del paradiso.

Il diavolo nel Medioevo – Medium Aevum

In un’epoca in cui la stragrande maggioranza della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, l’arte si ritrovava a svolgere una funzione chiave per la società medievale, e tutti gli avvertimenti che i peccatori avrebbero potuto leggere nella Bibbia o su un qualsiasi volume religioso, venivano esplicitamente espressi attraverso le opere artistiche; e se le raffigurazioni del paradiso avrebbero facilmente spinto alla retta via, con altrettanta efficacia le rappresentazioni infernali avrebbero dissuaso dal peccato e dalla tentazione. Inutile pertanto dire quanto la Chiesa sfruttò la rappresentazione artistica di tipo “satanico” a proprio vantaggio, come un vero e proprio mezzo di dissuasione e strumento di persuasione verso la fede cattolica.

La reazione della Chiesa

In parallelo a una diffusione tanto rapida e proficua relativamente alla figura del diavolo nell’immaginario collettivo medievale, non tardò ad arrivare la reazione della Chiesa in relazione a cosa effettivamente rappresentasse Lucifero per la comunità. Si delinea così un forte divario tra coloro che venivano considerati “bravi cittadini”, ligi al dovere e retti praticanti cattolici, e tutti coloro che, andando contro l’deale dell’“onesto popolano”, andavano inevitabilmente a scontrarsi con la dottrina cristiana cedendo alle cosiddette “tentazioni del diavolo”. Pertanto, se da un lato la Chiesa conferiva un’immagine sacra dell’unica possibile retta via da seguire, dall’altro ogni deviazione rappresentava invece un passo in avanti verso Satana e il peccato. E questa concezione raggiunse livelli sempre più estremi, soprattutto a partire dal Basso Medioevo.

Alla figura di Satana venivano infatti associati tutti coloro che potevano in qualche modo disturbare la perfetta aura che aleggiava sulla comunità cristiana medievale, turbando così la quieta pubblica e macchiando la forte religiosità che vi permeava. Erano pertanto considerati adoratori del diavolo tutti coloro che praticavano un culto diverso dal cristianesimo, e il Medioevo è denso di credenze popolari che crebbero nascoste agli occhi della Chiesa. Un esempio di ciò è dato dalla venerazione del “Santo Levriero”, un cane che salvò il bambino di un signore da una vipera, per poi venire ucciso dal padrone, il quale credeva che stesse sbranando il piccolo. Con il passare del tempo la storia si diffuse nei villaggi circostanti al castello in cui era avvenuto tale fatto, e la figura del cane venne sempre più assimilata a quella di un vero e proprio santo, visto come martire e salvatore. La Chiesa si oppose strenuamente e il culto (considerato al pari di un’idolatria) venne proibito, ma resistette ai continui tentativi di soppressione per secoli. E questo è solo uno dei molteplici casi; tali credenze venivano soprattutto associate al paganesimo, il quale era a sua volta il culto associato per eccellenza alla seduzione e al diavolo.

Un altro bersaglio facile per la Chiesa furono le donne. In una società altamente misogina come quella medievale era uso comune rivolgere astio e accanimento verso il sesso letteralmente più debole e, soprattutto verso la fine del Basso Medioevo, nacque così la figura della “strega”, intesa come donna estremamente devota al diavolo e praticante di magia nera. Con l’aumentare del sospetto verso tutto ciò che non si rifaceva fedelmente alla dottrina cattolica, aumentò inevitabilmente anche il timore verso tutte quelle pratiche che non erano sufficientemente conosciute, spesso praticate proprio da donne. A essere accusate erano infatti levatrici o guaritrici, le quali utilizzavano prodotti naturali che spesso potevano rimandare a pratiche magiche; tuttavia a finire nel mirino della Chiesa furono anche prostitute, mendicanti o lebbrose, ovvero tutte quelle donne che non rispondevano correttamente al rigido ideale medievale di “donna cristiana”, ritrovandosi così tra le categorie più deboli della popolazione. Ma la procedura era sempre la stessa e tra le maggiori colpe attribuite alle donne vi era l’accusa di praticare i “sabba”, tipici rituali blasfemi in cui le streghe si sarebbero radunate di notte per praticare orge sataniche con il diavolo.

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A delineare la donna come portatrice di peccato contribuì inoltre in modo molto significativo la figura di Eva, protagonista del peccato originale, e ancora una volta è proprio il cristianesimo, accompagnato dai celebri racconti della Bibbia, a dettare legge su cosa fosse giusto e cosa no. Era dunque inevitabile che la Chiesa posasse la sua attenzione soprattutto sulle donne, dato che colei che aveva mangiato il frutto proibito, ancora una volta sotto tentazione del diavolo sotto forma di un serpente, fosse proprio di quel sesso. Era dunque prassi comune associare la femminilità al peccato, ma soprattutto alla seduzione e alla tentazione, caratteristiche proprie soprattutto di Satana; motivo per cui le streghe vennero considerate le principali servitrici e adoratrici di Lucifero.

La Chiesa fu talmente coinvolta nella famigerata “caccia alle streghe” da istituire un vero e proprio tribunale santo: la “Santa Inquisizione“, con il solo e unico compito di reprimere brutalmente ogni possibile ostacolo alla dottrina cattolica e, ovviamente, ogni elemento che potesse rappresentare un pericolo per il potere della Chiesa come istituzione religiosa.

Ma nel mirino della “Santa Inquisizione” non finirono solo le donne, nonostante dovettero sopportare la stragrande maggioranza delle accuse. Molti uomini furono messi al rogo per la stessa accusa di stregoneria rivolta alle donne, ma quando paura e sospetto divennero insostenibili, molteplici accuse rivolte furono del tutto infondate, frutto di odi e vendette personali. Bastava infatti un semplice astio verso qualcuno, perché chi si voleva accusare venisse direttamente condannato come adoratore di Satana, a volte anche senza processo. Ma il genere non era il connotato principale, poiché in fondo l’accusa era sempre la stessa. Tutto questo per sottolineare quanto ogni accusa, che si trattasse di un culto anomalo, di un sospetto per stregoneria o di una semplice vendetta, fosse costantemente legata alla paura della presenza del diavolo nella vita di tutti i giorni. Una paura fondata su sospetti e fomentata quasi esclusivamente dalla Chiesa cattolica.

La figura del diavolo oggi

Nonostante oggi magia e superstizione siano state superate e soppiantate dalla costante crescita del progresso scientifico, la contemporaneità continua a essere permeata da ciò che caratterizzava la concezione medievale religiosa associata al male quasi settecento anni fa. Le Chiese continuano infatti a essere rivestite da affreschi relativi a una simbologia strettamente associata alla figura di Lucifero o al peccato originale. Inoltre nelle scuole e, più generale, a livello d’istruzione di base, è inevitabile lo studio di Dante, che con la sua accurata descrizione di inferno, paradiso e purgatorio, ha enormemente condizionato la visione antica e moderna del concetto di male e bene. La filmografia poi, uno degli elementi più associati alla contemporaneità, è colma di riferimenti satanici diretti o indiretti, come sette, esorcismi e rappresentazioni del diavolo di ogni genere; tutti concetti che, nonostante sembrino inseriti in modo pieno nella contemporaneità, risalgono invece a origini antichissime. Ancora oggi infatti la figura del diavolo viene inevitabilmente associata a quella che era la concezione medievale del male, e in questo la religione ha avuto un ruolo primario e fondamentale.

In un contesto laico o religioso che dir si voglia, è pertanto inutile cercare di separare l’idea che oggi abbiamo su Satana, da ciò che la Chiesa e il cattolicesimo hanno involontariamente, ma molto più spesso volontariamente, trasmesso nel corso dei secoli. Ancora ai nostri giorni infatti risulta quasi impossibile citare la figura del diavolo con tutte le sue implicazioni senza accostarsi, con il pensiero o attraverso riferimenti diretti, alla religione. Tutto questo poiché, come abbiamo visto precedentemente, così come la figura di Satana è fortemente influenzata da caratteristiche e tratti relativi al mondo pagano, la nostra contemporaneità è impregnata di concetti cristiani che si rifanno a un’antichissima tradizione, trasmettendoci così una viva cultura popolare legata alla figura del cosiddetto “diavolo” che ha alle sue spalle molto di più di ciò che possiamo vedere a primo impatto attraverso affreschi, film, libri o semplici racconti.


Gladiatori e schiavi nell’antica roma

Gladiatori e schiavi nell’antica Roma. Anche se i gladiatori erano Schiavi, le loro condizioni di vita e il loro status sociale e giuridico era diverso da quello degli schiavi comuni.

I gladiatori erano uno schiavi? Si, No, forse, più o meno?

La risposta a questa domanda sta non solo nel diritto romano ma anche nel concetto romano di schiavo e nel suo inquadramento giuridico. A darci una prima bozza di risposta è Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis, in cui, tra le altre cose, ci parla ampiamente delle condizioni di vita e di lavoro di schiavi e gladiatori, distinguendo nettamente le due categorie, ma non solo, Plinio ci dice anche quali erano gli obblighi legali dei possidenti e proprietari di schiavi e gladiatori, distinguendo le due categorie.

Senza troppi giri di parole, lo schiavo in età romana, non è una proprietà, nel senso “moderno” del termine, lo schiavo romano è infatti profondamente diverso dallo schiavo “americano”, il proprietario ha degli obblighi e doveri nei confronti dello schiavo e soprattutto, non ha l’autorità o il potere di ucciderlo, causarne la morte o mettere la sua vita in pericolo. Questi stessi doveri che il padrone aveva nei confronti dello schiavo, non sempre erano previsti per i gladiatori, la cui vita, banalmente, era messa in pericolo quotidianamente.

Lo schiavo romano secondo Plinio e Catone

La condizione dello schiavo romano era molto particolare e, a tal proposito, Guido Bonelli, in un articolo pubblicato nel 1994 sulla rivista Quaderni Urbinati di Cultura Classica, New Series, Vol. 48, No. 3 (1994), pp. 141-148 ci dice osserva che Plinio il Giovane e la schiavitù: Considerazioni e precisazioni, ci dice che per certi versi, secondo Plinio (e anche Vitruvio), in termini prettamente economici, per un padrone/proprietario terriero, era più “conveniente” avere dei lavoratori dipendenti, uomini liberi, che non degli schiavi perché se lo schiavo rimaneva ferito, menomato, mutilato o si ammalava, il proprietario aveva il dovere , forse legale, di curarlo, in pratica, per un periodo lo schiavo non poteva lavorare, ma doveva comunque essere mantenuto ed aveva diritto a cure mediche, vitto e alloggio, che legalmente non potevano essergli negate.

A tal proposito nella sua de agri cultura, Catone sostiene la necessità per il padrone di dover vendere uno schiavo malato, poiché, durante la malattia esso rappresentava una spesa non produttiva per il padrone.

Su questo tema Plinio e Catone assumono posizioni politiche divergenti, Catone sostiene la vendita dello schiavo, Plinio invece ne sostiene la tutela anche sul piano “morale” e, la sua posizione, è in una lettera che il cronista romano scrive ad un amico di nome Valerio chiedendogli di ospitare nelle proprie terre, in Gallia Nerborense, un suo liberto.

Tornando alla convenienza economica del lavoro dipendente, diversamente dallo schiavo, che, al di la delle posizioni politiche, sia Plinio che Catone, ci dicono godere di certe tutele legali, l’uomo libero che rimaneva ferito sul lavoro, poteva essere sostituito durante la “convalescenza” da un altro lavoratore libero o schiavo, senza che il proprietario della villa o del cantiere o altro, avesse alcun obbligo legale nei confronti dell’ex dipendente, ciò implicava un notevole “risparmio” in termini di denaro. Questa “convenienza” si traduce, all’atto pratico, nell’utilizzo di schiavi e uomini liberi per mansioni differenti, affidando, molto spesso, le mansioni più pericolose ad uomini liberi.

Il padrone, detto molto semplicemente, per il diritto romano, non poteva volontariamente mettere in pericolo di vita lo schiavo, né tantomeno ucciderlo, il padrone dello schiavo romano non aveva quindi autorità sulla vita e la morte dello schiavo, ed è qui che risiede l’enorme differenza tra gladiatore e schiavo.

La vita del gladiatore infatti, sebbene esso fosse uno schiavo a tutti gli effetti, il gladiatore poteva essere acquistato, venduto, affrancato, ecc, e, a differenza dello schiavo comune, poteva rischiare la propria vita. La vita del gladiatore, a quanto ne sappiamo, non era tutelata dal diritto romano come quella di uno schiavo comune, poiché per il ruolo di atleta in competizioni cruente, la sua vita e la sua sicurezza erano messe costantemente in pericolo.

Potremmo dire che lo schiavo comune, quello che lavorava nelle campagne, era “assicurato” per eventuali infortuni sul lavoro, mentre lo schiavo combattente o gladiatore, no.

Il gladiatore non era un manovalante, era invece un atleta, un attore e un combattente e la sua condizione sociale è a metà tra quella di uno schiavo e di un soldato, il cui ruolo prevedeva la possibilità di infortuni e morte.

Le uccisioni di schiavi erano “rare”

Sappiamo che l’uccisione di schiavi in epoca romana è molto rara, salvo rarissime eccezioni, quasi mai i padroni uccidevano o mettevano in pericolo di vita i propri schiavi e lo storico britannico William Smith sosteneva che, le uccisioni di schiavi in epoca romana erano rare perché uccidere uno schiavo implicava una riduzione della manodopera.

In altri termini, le uccisioni erano rare perché economicamente non convenienti, poiché l’uccisione privava di una risorsa che altrimenti poteva essere utilizzata o venduta.

Questa tesi è ancora oggi molto diffusa, tuttavia, gli fa eco, una sempre più accreditata tesi alternativa che, partendo dai sopracitati Plinio e Catone, asserisce che, molto probabilmente le uccisioni erano “rare” perché uccidere uno schiavo non era diverso dall’uccidere un uomo libero, in altri termini, l’assassinio di uno schiavo, al pari dell’assassinio di un uomo libero, era considerato comunque omicidio.

Sappiamo però che i gladiatori morivano, non in numero elevatissimo, ma comunque morivano senza che ci fossero conseguenze per i padroni.

Il discorso della convenienza economica persiste, la morte massiva di gladiatori implicava una spesa continua, eccessiva, per i padroni, e dunque, rimanendo nella teoria di Smith, morivano pochi gladiatori perché la loro morte implicava una perdita di risorse, tuttavia, prendendo in prestito il racconto che Appiano, Sallustio e Plutarco fanno delle tre guerre servili, sappiamo per certo che, anche se rara, la morte dei gladiatori in combattimento ea possibile, sappiamo inoltre che il ferimento dei gladiatori, durante i giochi, durante il combattimento o durante l’addestramento, era molto frequente e non avevano alcuna conseguenza di tipo legale per i proprietari, diversamente da quanto accadeva per gli schiavi rurali che lavoravano nelle campagne.

Questo ci porta a pensare che, sul piano giuridico gladiatore e schiavi non fossero proprio la stessa cosa, ma più probabilmente, che i gladiatori erano una tipologia “speciale” di schiavi, per i quali erano previste tutele e regole differenti e che, anche sul piano sociale, gladiatori e schiavi, fossero due entità distinte, non a caso, sempre nel racconto delle guerre servili, Plinio, Plutarco e Appiano, parlano distintamente di Gladiatori e Schiavi insorti, un distinguo importante perché se sul piano sociale, giuridico e culturale i gladiatori erano schiavi comuni, nei loro racconti i tre autori avrebbero parlato solo di schiavi insorti.

Conclusioni

Purtroppo non sappiamo esattamente in che modo Roma distinguesse gli schiavi comuni dai gladiatori, ne sappiamo se il distinguo fosse culturale o giuridico, quel che è certo è che, per Plinio, Appiano, Plutarco, Catone e Sallustio, per citare gli autori romani alla base di questo articolo, tra gladiatori e schiavi c’erano delle differenze. Banalmente potremmo dire, al di la delle condizioni fisiche e della preparazione atletica, che se è vero che tutti i gladiatori erano schiavi, non tutti gli schiavi erano o potevano essere gladiatori.

Bibliografia

E. Lo Cascio, Antologia delle fonti
G.Bonelli, Plinio il Giovane e la schiavitù: Considerazioni e precisazioni
Plinio il Giovane, Epistola V19
Catone, De agri cultura

D.A.F. de Sade: Justine o le disavventure della virtù. Un innovativo fabliaux del ‘700 | CM

Chi era il Marquis de Sade

Nato nel 1740, Donatien-Alphonse-François de Sade fu probabilmente uno dei personaggi più discussi e criticati del XVIII secolo. Appartenente a una famiglia dell’antica nobiltà francese, fu signore di Saumane, di La Coste e di Mazan, oltre che conte e marchese. Era infatti il discendente di una delle più antiche dinastie della Provenza, nonchè figlio del conte Jean Baptiste François Joseph de Sade e di Marie Eléonore de Maillé de Carman, nipote di Richelieu e dama di compagnia di Carolina d’Assia-Rotenburg, principessa di Condé.

Nonostante gli svariati titoli e l’agiata condizione da cui proveniva, si guadagnò ben presto una fama tutt’altro che rispettabile, a causa di numerosi crimini commessi tra cui svariati stupri, sodomia, tentativi di avvelenamento, anticlericalismo e depravazione. Infatti, in seguito a svariati momenti di incarcerazione, arrivò persino alla reclusione nella prigione della Bastiglia, perseguitato dal regime monarchico che aveva tanto disprezzato aderendo alla Rivoluzione Francese come nobile rivoluzionario, e lì vi rimase per diversi anni, scrivendo alcune delle sue opere più celebri. Finì la sua vita in carcere dopo un lungo periodo in manicomio, probabilmente a causa dell’eccessivo sadismo, estremamente mal visto dalla società del tempo. Morì nel 1800 per gravi problemi cardiaci e polmonari, da cui era affetto da tempo.

A caratterizzare il suo stile decisamente al di fuori dai canoni del suo tempo contribuiscono un forte spirito rivoluzionario, accompagnato da una ferrea condanna verso ogni forma di potere, come schiavismo, nobiltà, monarchia e persino clericalismo. De Sade condannava inoltre con grande fermezza tutti i tipi tabù e le ferree restrizioni sessuali del suo tempo, venendo etichettato come uno dei massimi esponenti di un estremo libertinismo di fine ‘700. Proprio dal suo nome infatti deriverà la parola “sadismo”, poichè egli stesso era solito appagare i suoi sfrenati desideri sessuali attraverso pratiche estreme e spesso anche dolorose, seducendo donne o ingaggiando prostitute.

“Donatien-Alphonse-Françoia, marchese de Sade, famoso per le sue disgrazie e per il suo genio, che avrà l’onore di illustrare l’antica casata con il più nobile dei titoli, quello delle lettere e del pensiero, e che lascerà ai suoi discendenti un nome veramente insigne.”

Gilbert Lely, “Il profeta dell’erotismo. Vita del marchese de Sade
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Justine: vittima innocente o fautrice del proprio destino?

Una delle massime opere del marchese, nonché la prima di tutte le sue pubblicazioni, fu Justine o le disavventure della virtù, pubblicata nel 1791. Si tratta di un romanzo a sfondo erotico, per questo molto simile ai fabliaux medievali, ma differente nella particolare cura e attenzione rivolta alla psicologia della protagonista, e non solo al mero tema sessuale. Justine, protagonista appunto del racconto, è una nobile fanciulla divenuta orfana e cresciuta in un orfanotrofio con la sorella, la quale possiede una morale completamente opposta alla sua; è infatti scaltra, astuta e manipolatrice, disposta a tutto pur di ottenere fama e ricchezza. Il completo opposto della giovane protagonista, la quale è dotata di una profonda nobiltà d’animo e di alti valori rigidamente legati alla dottrina cattolica.

Tuttavia la sorte dividerà la strada delle due fanciulle e mentre la sorella riuscirà ad effettuare una notevole scalata sociale tra omicidi e adulteri, Justine si ritroverà sempre senza soldi e costantemente nelle mani dei peggiori depravati. L’opera è infatti incentrata, come suggerisce il titolo stesso, sulle disavventure di Justine, la quale, pur essendo sempre accompagnata da una ferrea morale, non riesce in nessun modo a sottrarsi dalle grinfie di uomini dediti alle peggiori perversioni. Le sue vicende sembrano quasi seguire un climax che va costantemente peggiorando negli incontri compiuti dalla ragazza; ogni “mostro” a cui deve sottomettersi sembra essere sempre peggio di quello precedente. Ma allora perché il personaggio di Justine può quasi non sembrare una vittima?

Spesso e volentieri la protagonista in momenti di estrema difficoltà non fa altro che appellarsi alla propria virtù, peggiorando così inevitabilmente le già drammatiche situazioni in cui si trova, senza provare effettivamente a trovare una via di fuga o un modo per ribellarsi. Altre volte invece appare sveglia e risoluta, e in alcuni casi riesce quasi a salvarsi, portando il lettore a tifare per la rivalsa di un personaggio che nella maggior parte dei casi sembra essere perduto per sempre. Ma ovviamente Justine é la protagonista destinata a soccombere e le sventure continuano a perseguitarla, non lasciandola mai del tutto in pace. Il suo è comunque un personaggio molto ben riuscito; quante ragazzine come lei riuscirebbero a perseguire rigidamente una morale così alta senza cercare di ricorrere a qualsiasi losco escamotage pur di risparmiarsi a situazioni tanto drammatiche? Ebbene Jusine ce la fa, e fino alla fine della storia, senza mai abbandonare i devoti insegnamenti cristiani e mantenendo costanti i tratti del suo personaggio. Tuttavia leggendo l’opera una domanda sorge spontanea: Justine, pur essendo una vittima innocente, non è lei la fonte principale di tutti i suoi mali, l’unica vera fautrice del proprio destino?

Lieto fine o dramma senza fine?

Al termine di una serie di sventure che sembrano non finire mai, sorge spontaneo al lettore chiedersi come andrà a finire la storia di questa povera ragazza, e sorge altrettanto spontaneo pensare, o meglio, sperare in un riscatto finale della fanciulla. Ma de Sade non riserva alcuna pietà per la povera Justine. L’opera incarna infatti un perfetto manifesto di pessimismo e corruzione senza fine, e lo stesso de Sade nell’introduzione mostra una ben manifesta irritazione verso i romanzi “classici”, dove il bene e la virtù alla fine trionfano sempre sui mali e sui vizi, regalando ai lettori un perenne, nonchè scontato, lieto fine. Tuttavia, al posto di questo schema classico, qui viene portato sulla scena un modello tutt’altro che “classico”.

“…Una sfortunata errante di disgrazia in disgrazia; giocattolo di ogni scelleratezza; bersaglio di tutti i vizi…”.

Da “Justine o le disavventure della virtù”

Tuttavia, nonostante sembri aprirsi una minuscola luce alla fine di un tunner che pareva infinito, la sorte mette nuovamente i bastoni tra le ruote alla povera Justine senza porre così una fine ai suoi drammi. Sebbene Justine rappresenti una protagonista più che virtuosa nella sua alta moralità, non fa che imbattersi nella peggior specie di individui, per la maggior parte perversi libertini, i quali utilizzano dei sofismi e complicati meccanismi per tentare di convincerla dell’inutilità della sua virtù. Il lieto fine pertanto è del tutto inesistente, così come per la ragazza è inesistente qualsiasi forma di riscatto. Tuttavia non si presenta come un’opera del tutto priva di momenti lieti o di piccole “risalite” in superficie; tali elementi ci sono, ma si tratta inevitabilmente di momentanee illusioni della ragazza, e dunque anche del lettore stesso.

L’erotismo come sfondo

Justine o le disavventure della virtù, nonostante venga etichettato come un romanzo erotico, svela più un dramma personale, che segue appunto meticolosamente tutte le continue sciagure di Justine. Sebbene ci sia una certa insistenza sul tema dell’erotismo, il quale funge da protagonista per ogni evento in cui si imbatte la ragazza, esso rappresenta in realtà solamente uno “sfondo”, una base sulla quale sviluppare le drammatiche vicende che si susseguono lungo la storia.

L’opera è in sé piuttosto cruda, e talvolta anche molto violenta. Tuttavia nonostante ciò in alcuni punti può addirittura risultare lenta e quasi “noiosa”; questo perchè lo scopo principale dell’autore non è quello di trasmettere un qualsiasi romanzo erotico “di piacere”, così come sarebbe stato per ogni fabliaux di epoca medievale, bensì quello di analizzare il più accuratamente possibile l’evoluzione e soprattutto la psicologia della protagonista attraverso una serie di peripezie dalle quali riesce sempre ad uscirne illesa, per poi ricadere nuovamente di volta in volta in una disgrazia ancora peggiore rispetto a quella precedente. Infatti la salda virtù di Justine non cede mai, fedele ai suoi principi, nonostante le disgrazie la perseguitino in un crescendo infinito, tanto che sarà proprio una fine agghiacciante ad attendere la protagonista, che non ha voluto piegarsi alla traviata morale del mondo.

Proprio per tutte queste motivazioni prevalgono lunghe riflessioni della ragazza, monologhi e lunghe narrazioni molto dettagliate rispetto alle sue condizioni psicologiche, piuttosto che fisiche; come ci si potrebbe invece aspettare. L’erotismo è dunque solamente un mezzo narrativo, tipico del “divin marchese”, per poter mostrare il più concretamente possibile qualcosa di molto più profondo, come ad esempio sottolineare quanto la bigotta devozione dell’epoca potesse anche risultare dannosa, se non letale; e Justine ne rappresenta la prova.

L’opera come condanna sociale

Non si tratta pertanto di un’opera leggera e scorrevole, e per molti punti di vista può anche risultare appunto spesso pesante o quasi “noiosa”, ma se si ha un po’ di pazienza e tanta voglia di leggere oltre le righe, si potranno scorgere, oltre ai numerosi riferimenti sessuali, delle profonde riflessioni psicologiche, se non addirittura filosofiche e sociali. De Sade infatti non scrive unicamente per puro diletto; le sue sono spesso e volentieri delle vere e proprie critiche dirette contro i numerosi tabù che rispecchiano la società della sua epoca, le quali vogliono appunto inneggiare a un aperto libertinismo che in realtà molti praticavano, seppur velatamente, ma nessuno aveva davvero il coraggio di declamare.

Egli rappresenta infatti l’altra faccia di una società bigotta e corrotta com’era quella del ‘700, e incarna la ribellione e la condanna nei confronti di questa società, la quale gli ha unicamente procurato il carcere e il manicomio. De Sade pertanto non utilizza la sessualità come mezzo letterario di piacere, bensì come vero e proprio strumento di condanna sociale verso tale comunità tanto rivolta al perbenismo, quanto alla comune pratica di “nascondere tutto il marcio sotto un semplice tappeto”. Questo emerge duramente nelle sue opere.

«Questi sono i sentimenti che dirigeranno il mio lavoro, ed è in considerazioni di questi motivi che chiedo indulgenza al lettore per i filosofemi erronei che sono messi in bocca a più di un personaggio, e per le situazioni talvolta un po’ forti che, per amore della verità, ho ritenuto di mettere sotto i suoi occhi ».

Da “Justine o le disavventure della virtù”

L’ascesa politica di Cesare: da miles a dictator | CM

L’Impero romano nel I secolo a.C.

Durante il corso del I secolo a.C. l’Impero romano era sulla via di un successo senza precedenti, in quanto reduce dagli immensi trionfi ottenuti grazie alle vittorie conseguite durante le tre guerre puniche, le quali Roma poterono garantire a Roma un’ingente quantità di oro e ricchezze. Tuttavia l’Urbs, nonostante l’evidente condizione di splendore e ricchezza in cui si trovava, era all’epoca teatro di innumerevoli giochi di potere per il controllo del quadro politico della Repubblica e, sempre in questi anni, assisteva tacita alla lotta intestina tra due importanti ceti sociali: gli optimates, fazione più conservatrice e favorevole all’aristocrazia, e i populares, sostenitori delle istanze popolari nonchè “base” dell’autorità dei Tribuni della Plebe. Pertanto continue tensioni sociali e violenti scontri armati erano all’ordine del giorno, come il celebre conflitto tra Clodio (fazione dei populares) e Milone (fazione degli optimates).

In questo clima estremo di avversità, rivolte e scandali, a Roma spicca un uomo che avrà un ruolo tutt’altro che indifferente negli equilibri politici e sociali dell’Urbe. Tale personaggio era, come il padre, un accanito sostenitore del celebre condottiero Gaio Mario (157-86 a.C.), militare e politico romano, eletto per sette volte consecutive console della Repubblica, nonchè abile riformatore per quanto riguarda la leva militare e l’esercito, oltrechè Tribuno della Plebe. Apparteneva infatti anch’egli alla fazione dei populares e rappresenterà uno dei massimi esempi da seguire per il protagonista di questa vicenda, destinato a ribaltare per sempre la scena storica e politica di quello che sarà il più glorioso impero che il mondo antico abbia mai conosciuto. Quest’uomo compie una delle sue prime apparizioni in una piccola casa popolare nella Suburra romana, uno dei quartieri più malfamati di tutta Roma.

Gaio Giulio Cesare - Wikipedia

L’entrata cesariana in politica

Gaio Giulio Cesare nasce il 12 Luglio del 100 a.C., figlio del pretore e senatore Gaio Giulio Cesare e della nota matrona appartenente alla gens Aurelii, Aurelia Cotta. Egli pertanto apparteneva per discendenza all’illustrissima gens Julia, così chiamata perchè direttamente originata da Julo, il figlio di Enea e, stando a quanto viene riportato da miti e leggende, della dea Venere. Apparteneva dunque a una genealogia che potremmo definire “divina”. Cesare divenne fin da subito un personaggio molto popolare a Roma, schierandosi come lo zio Gaio Mario al fianco della factiones dei populares, nonostante provenisse da una nobile famiglia, e crebbe in una situazione di tensioni e fazioni contrapposte. Tutti questi elementi contribuirono con ottime probabilità a sviluppare il suo carisma e la sua marcata intraprendenza non solo in campo politico, ma anche militare.

Cesare infatti trascorse la sua gioventù sotto la spietata dittatura esercitata da Silla (colui che aveva precedentemente sconfitto Gaio Mario), il quale non perdeva occasioni per lanciare “frecciatine” al ragazzo sulla sua eccessiva effeminatezza. Per queste ragioni egli non si sentiva al sicuro nel rimanere a Roma, e decise pertanto di partire volontario verso l’Asia dove, sotto al comando del propretore Marco Minucio Termo, partecipò direttamente nella guerra contro Mitridate VI del Ponto, insorto ancora una volta contro Roma. Questa fu probabilmente una delle prime vicende che permisero a Cesare si distinguersi militarmente. Egli infatti nell’assedio di Mitilene ottenne anche la corona civica, una delle ricompense militari più importanti, concessa come premio solamente a chi salvava cittadini romani in battaglia.

Tuttavia, ciò che maggiormente gravava sullo status di Cesare, erano gli ingenti debiti nei quali si ritrovava da tempo. Infatti, sebbene la sua famiglia avesse origini aristocratiche di un certo livello, non era affatto ricca per gli standard della nobiltà romana, e questo certamente lo motivò ad avvicinarsi rapidamente a illustri e abbienti personaggi che potessero aiutarlo, come Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso (entrambi consoli nel 70 a.C.). Egli riuscì infatti ad avviare la sua celebre carriera politica grazie al sostegno di questi due rinomati cittadini e uomini politici. Schierato appunto con i populares e dotato di un eccelso carisma, riuscì rapidamente a convincere la Repubblica riguardo l’urgente bisogno di riforme radicali, che per essere realizzate necessitavano di un forte potere pubblico al comando, capace di superare le ricchezze e il grande potere degli ottimati.

Il suo percorso politico-militare inizia, come precedentemente citato, in Asia, dove prese parte alla guerra contro Mitridate VI del Ponto, combattendo nella provincia orientale e arruolando navi e milizie ausiliarie. Nel 73 a.C., mentre si trovava ancora a Oriente, venne eletto nel collegio dei pontefici. Una volta tornato a Roma, nel 72 a.C., Cesare fu anche eletto tribuno militare, risultando persino il primo degli eletti. I suoi rapporti erano particolarmente stretti con Crasso, il quale lo aiutò più volte a finanziare le sue campagne elettorali e a estinguere i suoi numerosi debiti, fino a quando venne non eletto questore nel 69 a.C., un anno dopo il consolato di Pompeo e Crasso. Un ulteriore evento particolarmente significativo fu la sua elezione, nel 65 a.C., a edile curule, carica che lo portò a diventare in modo più che definitivo come il nuovo e massimo leader del movimento popolare.

Tuttavia l’apice della sua carriera politica è da ricollegarsi a un celebre evento che toccò profondamente la storia di Roma del I secolo a.C., ovvero il primo triumvirato. Nel 60 a.C. Cesare infatti stipulò, di comune accordo insieme a Crasso e Pompeo (i maggiori capi politici del tempo), un accordo privato e segreto che, pur non trattandosi di una vera e propria magistratura ma per la notevole influenza dei firmatari, ebbe poi grandissime ripercussioni sulla vita politica e sociale dell’epoca, dettandone gli sviluppi per quasi dieci anni. Gli accordi nati da tale alleanza, fissati a Lucca, prevedevano il proconsolato di Cesare in Gallia e nell’Illirico con il relativo comando di quattro legioni, l’affidamento di Africa e Spagna a Pompeo e infine la provincia di Siria e l’ambita campagna contro i Parti per Crasso che, non avendo ancora conseguito glorie militari, mirava a eguagliare il successo dei compagni. Spartiti i territori e affidati i relativi comandi, Cesare era pronto a lasciare la Repubblica.

Cesare in Gallia: l’ascesa militare

Nel 59 a.C., a un anno dalla stipulazione del triumvirato, Cesare avrebbe dovuto ottenere il consolato, una delle più alte cariche del cursus honorum romano, carica che riuscì a raggiungere grazie all’appoggio di Pompeo e al cospicuo finanziamento di Crasso. Per consolidare ulteriormente questa triplice alleanza, nello stesso anno Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare. Pertanto, grazie alla lex Vatinia, nel 58 a.C. Cesare era finalmente partito, dopo aver ottenuto il proconsolato dell’Illirico (si trattava di una regione dislocata, in cui Cesare si sarebbe voluto recare per accrescere il suo successo militare direttamente sul campo di battaglia) e della Gallia Narbonense (a seguito della morte del precedente proconsole morto all’improvviso, Quinto Cecilio Metello Celere) e Cisalpina per ben cinque anni. Sebbene si trattasse di province nettamente inferiori rispetto alle eccelse conquiste orientali dell’Impero, riuscì ugualmente a operare una serie interminabile di sconfitte tra le popolazioni celtiche, compresi Elvezi, Aquitani, Veneti, Belgi e Svevi.

Tuttavia, più aumentava il potere di Cesare e più cresceva l’inevitabile timore di Pompeo a Roma, per il fatidico momento in cui il suo ormai temuto avversario delle Gallie sarebbe dovuto rientrare in patria. Cesare sarebbe infatti stato certamente acclamato dai numerosi populares di cui era a capo per i suoi molteplici successi militari e per aver inoltre portato il numero delle sue legioni a dieci, un dato non indifferente, simbolo del nuovo potere e prestigio che stava acquisendo. Nel frattempo il triumvirato si stava lentamente sgretolando e, intorno al 53 a.C. Crasso, privo di adeguate esperienze militari, era stato sconfitto nella battaglia di Carre, aveva perso le insegne romane (immane disonore per un comandante romano) ed era stato ucciso dai Parti. Cesare e Pompeo erano ora dunque i padroni indiscussi della scena politica romana.

Le Radici Degli Alberi: LE GALLIE!

Intorno all’anno 50-49 a.C., il carismatico condottiero Gaio Giulio Cesare aveva infatti ormai conquistato quasi tutta la Gallia (territorio comprendente oggi Francia e particolari zone di confine tra Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e nord Italia. Compì inoltre numerose incursioni in Britannia e in Germania) ed era di ritorno da una campagna militare durata quasi dieci anni che lo aveva visto coinvolto in numerose vittorie, come la battaglia di Alesia, e indiscutibili successi, tra cui la sconfitta del grande condottiero Vercingetorige. Tuttavia, le imprese svoltesi in Gallia non furono affatto una passeggiata per Cesare e le sue truppe, poiché i galli opposero una strenua resistenza, sconfiggendo anche i romani in molteplici occasioni; si trattava di popolazioni fiere e bellicose, che difficilmente accettarono una resa pacifica. La lotta contro i galli rappresentò infatti un’enorme sfida militare, che rese evidente il motivo per cui l’esercito romano fu il più potente ed efficace dell’antichità.

Le ricchezze, la gloria e la fiducia di un esercito che lo ammirava e rispettava per il suo grande carisma, erano solo alcuni dei principali obbiettivi che Cesare si era prefissato per poter contrastare a Roma il crescente potere politico di Pompeo. La sua inimitabile leadership fu certamente una delle chiavi del trionfo romano in Gallia, poichè lo stesso Cesare riuscì a spingere più volte il suo esercito a compiere imprese che per altri generali sarebbero state inaccettabili, come le due spedizioni dirette verso l’Isola della Britannia. Inoltre Cesare sapeva che il risultato finale delle sue campagne dipendeva in primo luogo dalle sue truppe, per questo motivo questo s’impose come un eccellente motivatore, capace di far sì che i suoi uomini si dedicassero interamente a qualsiasi impegno. A contribuire ad accrescere il suo enorme successo militare furono anche l’aggressività e la velocità con cui condusse le sue numerose campagne.

La “tensione” politica a Roma: Pompeo e il senato

Tuttavia Crasso era ormai uscito dalla scena politica, determinando così il definitivo scioglimento del triumvirato, e Pompeo, nettamente più avanti con gli anni rispetto al giovane conquistatore delle Gallie, aveva ottime ragioni per temere il crescente successo e carisma di Cesare a Roma. Pompeo infatti, sebbene avesse da poco ottenuto la carica di proconsole in Spagna, si trovava ancora a Roma e, nel 52 a.C., venne eletto dal senato consule sine collega (ovvero “console senza collega”). Tuttavia Cesare possedeva un grande numero di legioni a lui ciecamente fedeli, le quali a loro volta non facevano altro che accrescere la sua già elevatissima ambizione bellica e politica. La situazione a Roma era pertanto molto tesa e la guerra civile quasi inevitabile; il casus belli infatti non tardò molto ad arrivare.

Il senato infatti era estremamente preoccupato per gli innumerevoli successi conseguiti da Cesare, il cui mandato in Gallia stava ormai per giungere al termine. Pompeo e il senato infatti, da tempo alleati contro l’imminente pericolo, stavano dunque disperatamente tentando di tenere le redini di un contesto politico in pieno fermento, quando giunse la notizia che Cesare avrebbe voluto, una volta rientrato in patria, candidarsi per il consolato. Tale carica era infatti tra le più ambite del cursus honorum romano, poiché garantiva l’immunità e, dato il crescente numero di sostenitori cesariani, sarebbe quasi certamente riuscito a ottenerla. Tuttavia Pompeo, per colpirlo nel vivo, in piena alleanza con il senato che temeva anch’esso la sua ascesa, promulgò una legge che non gli avrebbe permesso di candidarsi, se non da privato cittadino. Questo avrebbe significato per lui entrare a Roma senza l’esercito al seguito, in balia di un uomo che aveva il pieno potere sulla Repubblica e il completo appoggio dei senatori romani.

La trappola escogitata con l’aiuto dei senatori si sarebbe dunque inevitabilmente conclusa con l’arresto di Cesare e la sua definitiva eliminazione dalla scena politica, garantendo così l’esclusivo consolato a Pompeo, che si sarebbe poi tradotto in una dittatura. Cesare accettò dunque di tornare nell’Urbe senza le sue truppe, a patto che Pompeo accettasse di sciogliere il suo di esercito e tutte le sue truppe. Data la precarietà e la pericolosità della situazione, poichè Cesare pur senza l’appoggio delle sue truppe avrebbe comunque avuto un enorme sostegno popolare (l’opinione pubblica era molto importante, poichè costituiva la stragrande maggioranza della popolazione, e le rivolte erano all’ordine del giorno), Pompeo e il senato non accettarono in nessuna maniera possibile l’ultimatum del generale.

Tuttavia il senato, con la scusa di dover proteggere la Siria dai continui attacchi dei Parti, richiese che fossero aggiunte due legioni alla provincia orientale; Pompeo a questo punto non esitò a richiedere a Cesare le due legioni che, nel 53 a.C., gli aveva concesso in prestito per la sua impresa in Gallia. Cesare pertanto fu costretto a piegarsi a tali richieste, rinunciando così a due delle sue legioni. Fu solo a questo punto che il generale delle Gallie si rese conto che il conflitto era inevitabile e si recò allora con la XIII legione a Ravenna dove fu da quest’ultima acclamato imperator. A questo punto Cesare era completamente esposto e sul punto di diventare ufficialmente un nemico della res publica.

L’attraversamento del Rubicone e la guerra civile romana

La situazione, già gravemente incerta prima, si trovava ora a un bivio: Cesare avrebbe infatti potuto congedare l’esercito, scelta di per sè estremamente pericolosa essendo lui pienamente consapevole delle forze politiche e militari che possedevano Pompeo e il senato, o ribellarsi completamente alle imposizioni di Pompeo e senatori, preparando così le legioni in modo da poter oltrepassare il più importante confine politico della penisola italica, il fiume Rubicone. Tale fiume, pur non vantando notevoli dimensioni, rappresentava un limite inviolabile e attraversarlo in armi significava per i generali romani una vera e propria violazione delle leggi, oltrechè una sfacciata sfida posta nei confronti l’Urbe. Il Rubicone infatti segnò per un breve periodo (tra il 59 a.C. e il 42 a.C.) il “sacro” confine tra l’Italia, considerata come una parte integrante del territorio di Roma, e la provincia non da molto annessa della Gallia Cisalpina. Risultava pertanto severamente vietato a tutti i generali romani attraversarlo con l’esercito in armi.

Rubicone - Wikipedia

Ma l’ambizione e la salda tenacia di Cesare non si sarebbero arrestate, infatti l’ultimo disperato tentativo del senato (il 7 Gennaio) di arrestare la sua avanzata, si tradusse in un estremo ultimatum che gli intimava severamente di restituire l’intero comando militare, ultimatum a cui Cesare non cedette mai. Pochi giorni dopo infatti, il 10 Gennaio del 49 a.C., prese una decisione che avrebbe cambiato per sempre il corso degli eventi storici, politici e sociali di Roma e, armate le truppe, scelse di attraversare il fiume presentandosi nella città armato e prossimo a sfidare Pompeo in una guerra civile che si sarebbe inevitabilmente scatenata da tale gesto. Cesare riuscì a entrare a Roma senza incontrare alcun tipo di resistenza, e tale guerra (49-45 a.C.) non tardò ad arrivare. Pompeo venne colto totalmente alla sprovvista, e si ritrovò costretto a fuggire il più rapidamente possibile da Roma, rifugiandosi in Macedonia, dove sperava di radunare un vasto esercito da contrapporre a Cesare.

La guerra civile romana vede Cesare come protagonista indiscusso accrescere senza fine il suo potere politico e militare in pochissimo tempo. Lo stesso anno infatti, sempre nel 49 a.C., Cesare riuscì a conquistare interamente la penisola italiana e a sbaragliare in Spagna tutte le legioni ancora fedeli a Pompeo. Un anno dopo poi, nel 48 a.C., ottenne la nomina di console e partì verso la Grecia, dove, in Tessaglia, precisamente a Farsalo, sconfisse clamorosamente l’esercito di Pompeo, che si rifugiò in Egitto presso il faraone Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra, il quale lo fece assassinare a tradimento. Figli e seguaci di Pompero proseguirono ancora per qualche anno il conflitto contro Cesare fino a quando, nel 45 a.C., i pompeiani supersiti guidati da Sesto Pompeo (comandante militare e figlio di Pompeo) vennero sbaragliati definitivamente a Munda, in territorio spagnolo.

Pertanto, il termine della guerra civile romana rappresenta un momento fondamentale sia per la storia romana che per la carriera politica e militare di Cesare. Egli a questo punto potè infatti ritornare a Roma indisturbato e praticamente privo di nemici che tentassero di ostacolare le sue ambizioni, ottenendo così la carica di dictator vitae (ovvero “dittatore a vita”). Tale carica rappresentava una figura caratteristica dell’assetto della costituzione della Repubblica romana, poichè garantiva un potere assoluto e non poteva essere controllato da nessuna istituzione o magistratura. Poteva inoltre sospendere tutti gli altri magistrati forniti di imperium o conservarli nel loro ufficio, ma essi sarebbero stati sempre e comunque subordinati a lui. In origine veniva scelto unicamente dai patrizi e, solo a partire dal 356 a.C., la dittatura fu accessibile anche ai plebei. In conclusione, quella di Cesare potrebbe essere riassunta come una vera e propria ascesa politica, poichè egli, partito come semplice miles (il miles nell’antica Roma era il soldato semplice, colui che non possedendo un cavallo doveva spostarsi unicamente a piedi), riuscì in poco tempo a raggiungere la più alta e riconosciuta carica di tutta la Repubblica, quella appunto di dictator.

La peste di Atene: Tucidide tra scienza e pathos | CM

Introduzione al tema della peste

Ormai da decenni la peste rappresenta nell’immaginario collettivo una terribile visione di morte tipica del periodo tardo-medievale; ma non è sempre stato così. Dipinti, racconti, poesie e persino leggende si sono succeduti per tentare di rappresentare un male considerato spesso divino e quindi inspiegabile agli occhi dell’uomo, un male che in varie epoche non ha mai lasciato scampo e sul quale si sono ripetutamente interrogati i più autorevoli medici, autori, maestri e filosofi del tempo.

Nel corso dei secoli infatti gravi pestilenze si sono abbattute su tutto il vecchio continente, in epoche e luoghi assai differenti. Una delle più disastrose epidemie di peste della storia si è manifestata nell’Atene classica, intorno al V secolo a.C., durante un periodo storico a dir poco travagliato per la storia della Grecia: la Guerra del Peloponneso” (431-404 a.C.).

L’opera tucididea e il conflitto tra Atene e Sparta

Narratore di questi eventi è appunto uno dei più grandi storici dell’epoca, Tucidide, vissuto tra il V ed il IV secolo a.C., fautore di un’opera che porterà con sé fonti ed elementi storici di grandissimo rilievo: “La Guerra del Peloponneso“. La celebre opera, suddivisa in otto libri, offre anche uno spunto essenziale per ricavare accurate riflessioni su quello che oggi definiamo un “metodo storico” scrupoloso, quasi scientifico, basato cioè su fonti certe e attendibili, di cui Tucidide viene considerato padre e fondatore. Su tale base l’autore sceglie di introdurre la narrazione in questo modo:

Giacché gli avvenimenti precedenti alla guerra e quelli ancora più antichi erano
impossibili a investigarsi perfettamente per via del gran tempo trascorso e, a giudicar dalle prove che esaminando molto indietro nel passato mi capita di riconoscere come attendibili, non li considero importanti né dal punto di vista militare né per il resto.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (1,3, libro I)

Trattandosi di un testo prettamente storico prevalgono ovviamente numerosi riferimenti diretti alla “Guerra del Peloponneso”, tra cui strategie belliche e scelte politiche, per la partecipazione attiva di Tucidide come testimone oculare, il quale combatté in prima persona come stratega venendo poi esiliato a causa di un grave e imperdonabile fallimento. Si tratta di un conflitto senza precedenti, scoppiato tra il 431 e il 404 a.C., rivolto unicamente contro la fiorente città di Atene.

Tra le cause secondarie e il casus belli principale bisogna però considerare la situazione di tutta la Grecia, ormai esausta a per gli ingenti tributi a cui era sottoposta e per le vessazioni imposte dal duro imperialismo egemonico ateniese. Tuttavia, nonostante Atene dominasse il mare con una potentissima flotta, Sparta riuscì a invadere l’Attica con un grande esercito, costringendo gran parte della popolazione a cercare rifugio all’interno delle grandi mura del Pireo, il porto ateniese. Fu proprio in quella tragica situazione di sovraffollamento che scoppiò l’epidemia, aggravata ancor più da un clima torrido e da condizioni igieniche pessime e precarie. Tucidide si sofferma poi su tre celebri discorsi relativi al conflitto tenuti da Pericle, personaggio fondamentale per le vicende storiche e politiche dell’Atene classica, morto anch’egli a causa del morbo.

Per ultimo, ma non per importanza, l’autore all’interno del II libro oltre a narrare le vicende belliche dedica un ampio excursus storico riferito all’epidemia che devastò Atene tra il 430 e il 427 a.C. contemporaneamente alla guerra, già di per sé estremamente rovinosa per le sorti del conflitto e della città. Si tratta pertanto di un’opera completa, storicamente e politicamente, soprattutto per l’attenzione rivolta ai dettagli e l’accuratezza mostrata verso i principali fatti storici narrati. Tuttavia a rendere Tucidide un maestro del “metodo storico” non è solamente un testo basato su indizi sicuri e veridicità storiche (fondate cioè su fatti realmente accaduti), ma la sua acuta capacità di descrizione nei confronti di eventi estranei a vicende storiche degne di nota, come la pestilenza.

La peste dal punto di vista medico, scientifico e umano

Tucidide dedica un lungo paragrafo al tema dell’epidemia ateniese, nel quale sceglie di soffermarsi non sull’evento storico in sé, quanto più sul tema della pestilenza a livello scientifico e umanitario. Scopo principale dell’autore è infatti narrare e documentare, ovvero mettere in guardia il lettore nei confronti di una storia che non è mai totalmente magistra vitae ma piuttosto pessimistica, da cui l’uomo non impara mai veramente e di cui non è l’unico protagonista delle vicende, ma vi partecipa attivamente insieme a epidemie, carestie, eclissi e terremoti; elementi mai trascurati nonostante le narrazioni di Tucidide abbiano un carattere prettamente storico.

La storia di Tucidide andrebbe perciò “ammaestrata” in modo da permettere all’uomo di non ripetere gli stessi errori del passato. Tuttavia tale insegnamento è molto relativo, poiché questi errori vengono con estrema facilità ciclicamente ripetuti, nonostante Tucidide cerchi di trasmettere come combatterli. La peste rappresenta infatti la grande occasione tucididea per attuare il suo “metodo storico”. Essa viene descritta in modo scientifico e razionale per comprenderla e conoscerla al meglio anche dal punto di vista umano, oltre che ovviamente medico. Nel descrivere la tremenda malattia, fino ad allora sconosciuta agli ateniesi, Tucidide si sofferma sul momento iniziale del morbo: le cause, i sintomi, i morti e la reazione dei medici di fronte a un male totalmente ignoto; ed erano proprio i medici a morire per primi, a causa della necessaria vicinanza con i pazienti.

Né i medici erano di aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta, ma anzi loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si
avvicinavano ai malati; né serviva nessun’altra arte umana.”

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (47,4, libro II)


Giunge poi a una descrizione fortemente umanitaria e ricca di pathos, nella quale evidenzia le principali reazioni umane, tra le quali spiccano paura, sgomento, solitudine e scoraggiamento. Uno degli scopi principali dell’autore è inoltre riportarci vari eventi quotidiani, per sottolineare come vennero completamente sconvolti dal morbo, tra i quali troviamo: numerosi furti per lo spopolamento delle case a causa della malattia, non più solenni funerali singoli ma roghi comuni per sbarazzarsi dei cadaveri, sempre più persone ammassate nei templi per riversare lo sgomento generale sulle preghiere e affidarsi agli dei, e infine varie congetture con lo scopo di dare un senso a questo male sconosciuto, come l’accusa verso i peloponnesiaci di aver avvelenato i pozzi.

Nella città di Atene piombò improvvisamente, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; e così tra essi si disse anche che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là infatti non c’erano ancora fontane. Poi arrivò anche nella città alta, e da allora i morti aumentarono di molto.”

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (48,2, libro II)

Nonostante il morbo sia stato catalogato per lunghissimo tempo come una vera e propria pestilenza, oggi esperti e studiosi pensano in realtà che si trattasse di un altro tipo di malattia, e che più probabilmente fosse una sorta di vaiolo o di febbre tifoide, per i sintomi violenti e immediati che procurava in un tempo brevissimo (rispetto a come sarebbe stato per una comune epidemia di peste).

Gli altri invece, senza nessuna causa apparente, mentre erano sani improvvisamente
venivano presi da violente vampate di calore alla testa e da arrossamenti e infiammazioni agli occhi, e tra le parti interne la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da una forte tosse. E quando si fissava nello stomaco, lo sconvolgeva, e ne risultavano vomiti di bile di tutti i generi nominati dai medici, e questi erano accompagnati da una grande sofferenza.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (49, 2-3, libro II)

Tuttavia essa ebbe tutte le caratteristiche proprie di qualsiasi epidemia della storia, riuscendo ad abbattere psicologicamente l’umore e la quotidianità delle persone, e provocando migliaia di morti; forse addirittura arrivò a dimezzare la popolazione ateniese, cifre per l’epoca davvero esorbitanti, di cui Tucidide stesso si rese conto, riportando puntualmente lo sgomento che vigeva in quel tempo.

Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al male, fosse robusto o
debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati con ogni genere di dieta. Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoraggiamento quando uno si accorgeva di essere ammalato (poiché i malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano), e il fatto che per aver preso la malattia uno dall’altro mentre si curavano, morivano come pecore: questo provocava il maggior numero di morti.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (51,4, libro II)

La peste di Atene nel 430 a.C. - Studia Rapido

L’importanza dei comportamenti umani nel corso della storia

Attraverso una digressione tanto struggente Tucidide dimostra ancora una volta che la storia non è riassumibile in un muto susseguirsi di vicende più o meno rilevanti, ma va invece rappresentata e studiata anche attraverso le reazioni umane. Pertanto assumono un ruolo di assoluto rilievo la psicologia, i comportamenti degli uomini e le azioni quotidiane in relazione a tali fenomeni tanto significativi per lo studio della storia.

Tucidide sceglie di esporre molto dettagliatamente la pestilenza proprio per l’effetto che quest’ultima ebbe sull’animo degli uomini, e non per come influenzò l’andamento degli eventi storici futuri. In una critica situazione di guerra il sopraggiungere di un’epidemia portò gli ateniesi al limite della sopportazione, rendendoli capaci di azioni ignobili e disumane, e questo l’autore lo esprime con una grande cura verso i dettagli.

A regnare è infatti l’“anomia”, ovvero la più totale assenza di leggi, che porterà inevitabilmente a una situazione di disordine e anarchia in cui gli individui cercano disperatamente di sopravvivere aggrappandosi ai propri istinti senza più alcuna inibizione. Attenendosi perciò strettamente al suo ruolo di storico Tucidide si mostra come testimone diretto dell’evento e ce lo riporta privandosi di ogni possibile elemento etico o morale, con il solo e unico scopo di informare e documentare i posteri riguardo l’andamento della storia e di come essa possa interagire con la labile natura umana. E, proprio come scrive l’autore: Atene fu distrutta dalla paura della peste, non dalla peste. Si tratta certo di uno squarcio raccapricciante, incapace di infondere sicurezza e perciò ancor oggi perfettamente in grado di suggestionare qualsiasi lettore moderno.

La peste di ieri e la peste di oggi

Il tema della pestilenza rappresenta ormai da secoli una delle più grandi occasioni per parlare di storia, scienza e medicina allo stesso tempo. Autori, poeti, scrittori e persino pittori e scultori si sono destreggiati su questo tema cercando di mostrare nel miglior modo possibile gli effetti del male, come esso influisce sulla psicologia umana e come viene affrontato in base alle diverse epoche storiche. L’idea di un morbo che esplode all’improvviso scatenando il panico e l’incertezza verso cure e guarigioni introvabili garantisce ancor oggi una fonte tragica sulla quale poter costruire grandi narrazioni storiche ma anche possibili racconti di fantasia.

La tragicità causata da morte e distruzione rappresenta anche un’occasione per evidenziare gli effetti della malattia sul corpo umano, a livello quindi medico/scientifico, ma porta spesso e soprattutto a profonde riflessioni di tipo religioso/divino, poiché l’uomo da sempre necessita di un elemento superiore a cui appoggiarsi in caso di estremo pessimismo. Si tratta pertanto di un tema largamente discusso ancor oggi, in grado di scatenare ferventi discussioni e, ma anche capace di lasciare un enorme fascino nella letteratura e nella storia di tutti i tempi.

La storia di Chico Mendes

Chico Mendes è stato un attivista brasiliano, assassinato nel 1988 da a causa delle sue battaglie per la foresta amazzonica

Francisco Alves Mendes Filho, meglio noto come Chico Mendes, era un raccoglitore di caucciù brasiliano e dal 1975 Segretario generale del Sindacato dei lavoratori rurali di Brasileia.

Nella sua vita Chico è stato un importante attivista e ambientalista, che si è battuto per tutta la vita contro il disboscamento della foresta amazionica.

Per questo suo attivismo sul finire degli anni settanta ha ricevuto numerose minacce da parte di alcune milizie operanti sul territorio, che svolgevano attività di sicurezza privata alcuni possidenti locali legati a diverse multinazionali le quali avevano ricevuto dal governo brasiliano concessioni per lo sfruttamento del terreno della foresta amazzonica (a danno dei contadini locali e della stessa foresta amazzonica).

Queste minacce si concretizzarono in diverse accuse, che portarono in tribunale Chico Mendes, prima con l’accusa di Omicidio di Wilson Pinheiro, leader di un organizzazione sindacale avversaria, e in altri due processi, con l’accusa di istigazione alla violenza.In tutti e tre i casi Chico Mendes venne assolto per insufficienza di prove, ma nel corso del processo per l’omicidio di Pinheiro, oltre 40 possidenti di Xapuri (principalmente condadini indigeni) vennero condannati.

Nel 1987, l’attivismo di Chico Mendes portò nella regione di Xapuri una delegazione delle Nazioni Unite che verificò direttamente le accuse rivolte dagli attivisti alle multinazionali statunitensi che si celavano dietro i progetti di disboscamento.Alle verifiche da parte delle Nazioni Unite fecero seguito circa 40 giorni di campagna politica anche negli Stati Uniti, e in quel contesto Chico Mendes venne chiamato a parlare di fronte al Senato degli Stati Uniti d’America e per effetto di questa interrogazione al senato la Bank of Interamerican Development decidse di ritirare i propri investimenti in Amazzonia.

Si tratta di una vittoria importante per Chico Mendes e per i lavoratori rurali che, a causa dei progetti di disboscamento erano costretti a lasciare la foresta.

L’omicidio di Chico Mendes

Purtroppo però, questa vittoria ebbe vita breve e il 22 dicembre 1988, Chico Mendes venne assassinato.Le indagini portarono a Darly Alves da Silva, un proprietario terriero possessore di un grande Ranche e allevatore di castori arrosto, con il quale Chico si era scontrato in diverse occasioni.

Darly da Silva venne alla fine condannato, nel dicembre del 1990 come mandante dell’omicidio di Chico Mendes e suo figlio, Darci da Silva, venne indicato dagli inquirenti come esecutore materiale. I due Rancheros vennero condannati a 19 anni.

La notizia dei da silva si tradusse in un ondata di forte entusiasmo nella regione di Xapuri, poiché si trattava della prima condanna emessa per l’omicidio di un leader sindacale e attivista per la tutela del territorio e dei piccoli contadini.

Nel corso degli anni settanta e ottanta erano stati centinaia le persone, come Chico Mendes, assassinate perché si opponevano al disboscamento e Chico sembrava essere il primo per il quale si era giunti ad una condanna.

L’entusiasmo per la condanna dei da Silva si estinse dopo pochi mesi, quando, nel 1991 ci si rese conto che gli omicidi non sarebbero terminati. Inoltre, nel febbraio del 1992, la corte d’appello statale di Rio Branco annullò la condanna di Darly Alves da Silva.

L’annullamento della sentenza fu letta come la sconfitta definitiva degli indigeni e dei lavoratori rurali e della tutela della Foresta Amazzonica.

La storia di Chico Mendes è una delle innumerevoli storie di uomini morti per gli indios e la foresta amazionica, ma, a differenza di moltissimi altri, l’eco della sua morte si diffuse in tutto il mondo, grazie a numerosi tributi soprattutto musicali, da artisti in tutto il mondo, da Paul McCartney che dedicò alla memoria di Chico Mendes How Many Peopole, ai Nomadi che, nel loro ultimo album con Augusto Daolio, nel 1991 pubblicarono “ricordati di Chico“, una canzone che racconta la storia e la memoria di Chico Mendes.

Chi era Irma Grese, la bestia bionda di Belsen?

Irma Grese fu una giovane volontaria tedesca, militante nel Partito Nazista, che, dal 1942 al 1945 lavorò presso diversi campi di concentramento, come guardia carceraria, supervisore e direttrice dei lavori dei prigionieri.

Irma Grese è stata rinominata nei vari campi come La iena di Aushwitz e la Bestia Bionda di Belsen.A norimberga è stata descritta come una donna crudele e sadica, ma personalmente credo che Irma non fosse realmente crudele.

Credo invece che fosse una vittima, in modo diverso, del regime nazista. Cresciuta avvolta dall’odio, si ritrovò a fare da guardia a quelli che gli erano sempre stati raccontati come dei demoni, all’età di appena 19 anni, inoltre era circondata da uomini e donne violente e crudeli, che l’avrebbero mandata via se non fosse stata all’altezza. Irma quindi fu costretta dalla società a diventare una bestia che in realtà non era.

La sua storia ci racconta infatti di una donna che voleva diventare infermiera, che voleva aiutare le persone, ma si ritrovò a distruggerle.

La storia di Irma Grese

L’immagine alla sinistra raffigura un gruppo di donne, processate durante i processi di Norimberga, in uno dei dodici processi minori.

Irma Grese durante i processi di Norimberga
Irma Grese durante i processi di Norimberga

La donna al centro della foto, la numero 9, è Irma Grese, di cui possiamo vedere una foto scattata tra il 1943 ed il 45 mentre era impegnata come guardia volontaria presso un campo di concentramento.

Mi sto documentando sulla storia di questa donna, vi lascio a fine articolo alcuni dei libri che sto leggendo, e degli orrori che produsse, furono terrificanti, Irma era nota nei vari campi con diversi soprannomi tra cui La bestia Bionda di Belsen e La iena di Auschwitz.

Durante i processi è stata descritta come una donna crudele, violenta, che provava piacere e trovava appagamento nelle sofferenze dei prigionieri.

Irma Grese è diventata, per molti, uno dei simboli della crudeltà nazista, ma la sua storia ci rivela altro.I capitoli riguardanti gli anni da volontaria come guardia nei campi di concentramento e sterminio, denotano crudeltà e sadismo, ma siamo sicuri che Irma fosse davvero una donna così sadica?

La gioventù di Irma Grese

Leggendo la sua biografia scopriamo che Irma era figlia di Adolf Grese, militante moderato del partito nazista, e che fin da giovanissima prese parte alla Lega delle ragazze tedesche (associazione di ispirazione Nazional Socialista) secondo quanto riportato dagli storici il padre disapprovava la scelta, anche se, dal 1937 divenne un impiegato del NSDAP.

L’anno seguente, all’età di 15 anni, Irma Grese iniziò a lavorare in un ospedale e provò a diventare infermiera, ma senza successo, secondo le dichiarazioni di Irma ai processi di norimberga Norimberga, a causa della volontà del Comitato del Lavoro che invece la assegnò ad un caseificio di Fürstenberg.

La giovane donna voleva diventare infermiera, ma fu mandata a fare formaggi, decise quindi di provare un altra strada e nel 1942 provò nuovamente a diventare infermiera.

Questa volta la domanda fu accolta e la donna venne inviata come infermiera al campo di concentramento di Ravensbrück, dove, secondo le testimonianze e la documentazione pervenuta ai processi di Norimberga, sembra che Irma non volesse stare e chiese più volte il trasferimento.

Il trasferimento alla fine arrivò, nel 1943, ma non come desiderato.

Il lavoro da guardia nei campi di concentramento

Durante l’anno di permanenza a Ravensbrück, Irma aveva seguito un corso di addestramento come guardia carceraria al cui termine venne inviata ad Auschwitz come aufseherin.

Al termine del 43, Irma venne promossa Supervisore anziano di Auschwitz e sotto il suo controllo c’erano circa 33000 donne ebree.

La gestione crudele del campo portò ad Irma una promozione, e tra gennaio e febbraio del 45 venne trasferita nuovamente a Ravensbrück, secondo le dichiarazioni e fonti ufficiali, per formare le nuove guardie, poi nel marzo dello stesso anno venne inviata al campo di Bergen-Belsen come nuova “Direttrice dei lavori“.

Irma Grese durante l'esecuzione di un prigioniero ebreo
Irma Grese durante l’esecuzione di un prigioniero ebreo

La direzione dei lavori dei prigionieri di Bergen-Belsen fu l’ultima assegnazione di Irma Grese che, il 17 Aprile del 1945 venne catturata dall’esercito Britannico durante la liberazione del campo.

Irma fu uno dei pochi ufficiali a non riuscire a fuggire dal campo, o forse, fu uno degli ufficiali che vennero sacrificati per permettere ad altri di fuggire.

Chi era davvero Irma Grese ?

La storia di Irma ci racconta una devozione letale al NSDAP, Irma fu talmente devota al partito da rinunciare al proprio sogno di diventare infermiera, per diventare una guardia carceraria, passò dal voler salvare vite umane a distruggerle.

Durante il processo di Gerusalemme ad Adolf Eichmann, il nome di Irma Grese apparve diverse volt, e tra i due nazisti venne tracciato un forte parallelismo, l’uomo e la donna erano stati entrambi plagiati dal partito, e se bene non fossero realmente crudeli o malvagi o demoniaci, compirono azioni disumane, perché, come osserva Hannah Arendt, nella Banalità del Male, assolutamente incapaci di mettersi realmente nei panni degli altri.

Per Irma i prigionieri dei campi non erano uomini e donne, ma nemici di tutto ciò in cui credeva, Irma era fermamente convinta che tutto il dolore e la sofferenza del proprio popolo, fosse responsabilità di quelle persone che, segretamente, nell’ombra, cospiravano per togliere a loro, casa e lavoro.

Irma nel, quando iniziò a lavorare nel campo Ravensbrück aveva solo 19 anni, e a 20 anni aveva la responsabilità di controllare più di 30.000 prigioniere.

Come canta Francesco Guccini "a 20 anni si è stupidi davvero, quante balle si ha intesta a quell'età" ed Irma, quando divenne guardia carceraria nel campo di Ravensbrück, aveva proprio 20 anni.

Considerazioni personali su Irma Grese

Quando Irma Grese, la bestia bionda di Belsen, la iena di Auschwitz, venne catturata, nel 1945, aveva solo 23 anni.

La storia, attraverso i processi di Norimberga ha raccontato questa donna come un mostro e le azioni che fece, furono effettivamente mostruose e crudeli, ma furono compiute da quella che era poco più di una ragazzina, plagiata da un sistema di valori che, fin da quando era una bambina, all’età di 10 anni, nel 1933 quando Hitler prese il potere, le aveva sempre detto che quelle persone, gli ebrei e tutti quelli che non erano tedeschi, erano malvagie e pericolose.

Irma è cresciuta avvolta dall’odio e quell’odio l’ha resa un mostro, nonostante il proprio desiderio di aiutare e salvare vite umane.

Irma era convinta, durante il servizio volontario nei diversi campi di concentramento, di fare la cosa giusta, di star aiutando il proprio popolo, il proprio paese e di combattere i nemici della propria nazione, senza però rendersi conto che coloro che torturava quotidianamente, perché di tortura si parla (e di testimonianze ce ne sono tantissime negli atti di Norimberga) erano donne come lei, con un unica differenza, sulla carta non erano tedesche e per questo era stato tolta loro ogni cosa, era stata tolta la casa, il lavoro, la famiglia, il nome, l’umanità.

Irma Grese, lavorando per il Reich, credeva di combattere una cospirazione, senza rendersi conto di far parte della cospirazione messa in atto da una manciata di uomini ambiziosi e realmente crudeli, il cui potere si fondava sull’odio.

Bibliografia consigliata

D. Cesarani, Adolf Eichman
D.Lipstadt, Il Processo di Eichmann
H.Arendt, La banalità del Male
H.Arendt, J.Fest, Eichmann o la banalità del male, intervista, lettere, documenti
R.Jennings, Irma Grese & Auschwitz: Holocaust and the Secrets of the The Blonde Beast
S.T.McRae, Irma Grese: A True Account of the Holocaust’s Deadliest Woman
S.Helm, If This Is A Woman: Inside Ravensbruck: Hitler’s Concentration Camp for Women

Orso Mario Corbino, il liberale che ha “introdotto le pensioni” in italia

Lui è Orso Mario Corbino e probabilmente non avete mai sentito parlare di lui. O, se ne avete sentito parlare, è in merito ad uno scandalo di tangenti che coinvolge la Standard Oil nel 1924.

Orso Corbino è stato un senatore del regno d’Italia durante il regime Fascista, eletto in parlamento per la prima volta nel 1921 e rimasto in carica fino al 1937, anno della sua morte.

Oltre ad essere un Senatore, Corbino, tra il 1921 ed il 1924, fu anche Ministro, prima dell’Istruzione e poi dell’economia nazionale, tuttavia, nonostante fu ministro durante il governo Mussolini I, Corbino non era un fascista, e non lo sarebbe mai stato.

La storia delle pensioni, in italia, è ovviamente molto più ampia di così, e inizia nel 1898 con la fondazione di un istituto che oggi conosciamo con il nome di INPS e che, tra il 1895 e il 1919, consentì ai dipendenti pubblici, su base volontaria, di avere accesso ad un indennità, una somma di denaro mensile versato dallo stato, una volta raggiunta una certa età e l’impossibilità di continuare a lavorare, associabile a quella che oggi chiamiamo pensione.

Posizione politica di Orso Mario Corbino

Orso Corbino era un liberale, un liberale convinto, eletto al senato del regno d’italia nel 1921 tra le fila del Partito Liberale Italiano, il partito della Destra storica, che in quel momento rappresentava tutto ciò che rimaneva dell’eredità di Cavour.

Nel 1921 Ivanoe Bonomi invitò Corbino nella propria squadra di governo, affidandogli il ministero dell’Istruzione, carica che avrebbe ricoperto fino al Febbraio del 22. Come sappiamo, nell’ottobre del 22 ci fu la marcia su Roma, che portò alla nascita del governo Mussolini I e proprio durante questo governo, nel luglio del 1923, in seguito ad un rimpasto di governo Orso Mario Corbino venne invitato, da Mussolini, a ricoprire l’incarico di Ministro dell’Economia Nazionale, andando così a rimpiazzare Teofilo Rossi, liberale Giolittiano che dopo la marcia su roma si era schierato a favore del fascismo.

I motivi per cui Mussolini sostituì Rossi con Corbino sono diversi, tra questi, la grande popolarità di Corbino sia tra i Liberali che i Socialisti, popolarità che quindi permetteva al PNF che governava con appena il 19% dei consensi, di poter legiferare.

Appena insediato al ministero Corbino si fece immediatamente promotore di una proposta di legge, poi diventata legge effettiva con il decreto legge 3184 del 30 dicembre 1923, con cui si rendeva obbligatoria la pensione.

La famosa legge con cui, da anni, i fascisti alimentano il mito di Mussolini e le pensioni. Ecco, quella legge lì, proprio la legge con cui “mussolini” introdusse le pensioni civili. Quella legge è stata proposta da un Liberale, oltre che accademico, che, in vita sua, non avrebbe mai aderito al fascismo e anzi, sarebbe stato uno dei primi senatori ad aderire al movimento antifascista.

La legge sulle pensioni

Questa legge in realtà non fu una creazione originale di Corbino, la legge era stata infatti proposta per la prima volta nel 1919, ma, in seguito al cambio di governo e degli equilibri politici successivi alle elezioni del novembre 1919, la legge aveva subito una brusca interruzione.

Nel febbraio del 1920 Dante Ferraris aveva provato a rilanciare il disegno, e lo stesso fece, nel giugno dello stesso anno il socialista Arturo Labriola, purtroppo però, Liberali e Socialisti avevano visioni diverse e il quadro politico dell’epoca, molto instabile, soprattutto per via dei turbamenti legati al biennio rosso, misero la legge in stasi.

Con le nuove elezioni del 1921 la situazione, almeno all’inizio, non migliorò, i liberali, con Bonomi, sostenuti inizialmente dai popolari ed altri partiti minori, ottennero la guida del governo, ma l’alta instabilità non permise di realizzare granché.

Nell’ottobre del 22, con la marcia su roma e la guida del governo affidata a Mussolini, la situazione migliorò solo di facciata, de facto le commissioni parlamentari produssero pochissimi testi che divennero effettivamente leggi, e i pochi che ci riuscirono, furono realizzati grazie al grande carisma dei promotori e la mobilitazione di tutte le forze politiche.

Orso Mario Corbino, certamente non mancava di carisma, come anticipato, fu invitato al ministero dell’economia nazionale, per la sua grande capacità, dimostrata durante l’esperienza da ministro dell’istruzione, di mettere d’accordo le diverse forze politiche, e trovare un punto di incontro su un terreno comune.

Corbino accettò l’incarico dal luglio del 23 al settembre del 24 fu Ministro dell’economia nazionale.

Corbino e la legge sulle pensioni

L’invito di Mussolini a Corbino non era disinteressato, l’abilità politica del fisico ed il suo carisma erano uno strumento importante e la popolarità di Crobino iniziava a crescere molto rapidamente, anche fuori dagli ambienti politici. Mussolini pensò quindi di legare il nome di Corbino al Fascismo, facendo di lui uno degli uomini chiave della propaganda.

Questo si tradusse in una totale autonomia di Corbino, che poté quindi operare liberamente, sostenuto dal fascismo, dai liberali, dai popolari e dai socialisti.

Grazie a questa libertà Corbino propose un disegno di legge che rendeva obbligatorie le pensioni, il disegno di legge fu il frutto di un compromesso tra le posizioni liberali e quelle dei socialisti sul tema, e ricevette l’approvazione di Mussolini e del fascismo, che vedevano in quella legge una doppia opportunità.

Se la legge fosse stata accolta in modo positivo dagli elettori, sarebbe stata rivendicata, come è stato, come un grande successo del fascismo, se invece sarebbe stata un flop, la responsabilità sarebbe stata scaricata sul promotore, che, non era fascista, rendendola quindi un fallimento di liberali, popolari e socialisti.

La legge venne accolta positivamente, e, anche se promossa da Corbino, la legge non venne mai chiamata con il suo nome, venne invece legata alla propaganda fascista, mentre Corbino, cadde nel dimenticatoio e, dopo le elezioni del 24, pur venendo riconfermato come senatore, il suo nome non figurò più nel roast dei ministri di mussolini.

Corbino e la massoneria

Sull’uscita di scena di Corbino vi sono varie teorie, da un lato alcuni sostenono che l’uomo, durante il proprio mandato ministeriale, abbia intascato una tangente dalla Standard Oil insieme al ministro Gabriele Carnazza, entrambi massoni della Serenissima Gran Loggia d’Italia.

Secondo questa ipotesi, i massoni di Piazza del Gesù sarebbero dietro al delitto Matteotti, il quale sarebbe stato assassinato per coprire le tangenti riscosse dai propri adepti.

Questa ipotesi è tuttavia altamente improbabile, si fonda esclusivamente su incartamenti privati di Mussolini, scagiona Mussolini dal delitto Matteotti, ed incrimina gli unici due ministri, del primo governo Mussolini, non fascisti.

Questa storia presenta molte irregolarità, ed è fin troppo conveniente per Mussolini, autore delle uniche prove a sostegno di questa teoria, prove che sono emerse durante le indagini sul delitto Matteotti.

In ogni caso, uno dei principali sostenitori di questa teoria è il saggista statunitense, ex agente dell’OSS, Peter Tompkins, autore di libri molto popolari come “Dalle carte segrete del Duce”, 2001, la cui autorevolezza storiografica è prossima allo zero, si tratta di libri più inclini alla narrativa che non alla narrazione storica, in cui si elaborano teorie cospirative, estremamente affascinanti, ma non basate sul metodo comparativo.

Se volete leggere qualcosa sul tema della massoneria, vi consiglio il libro La Massoneria, la storia, gli uomini, le idee, a cura di Zeffiro Ciuffoletti e Sergio Moravia

Conclusioni

Orso Mario Corbino è stato un accademico e politico italiano, due volte ministro tra il 1921 ed il 1924, prima come ministro dell’Istruzione, sotto il governo Bonomi e poi ministro dell’economia nazionale sotto il governo Mussolini.

Nonostante Corbino fu ministro nel primo governo di mussolini, il fisico non aderì mai al fascismo e mai ne condivise i valori o gli ideali. Nel 1925 Corbino si unì al movimento antifascista e fu uno dei pochi politici italiani che non si iscrissero mai al Partito.

Corbino fu un uomo molto riservato ed un politico molto carismatico, capace di mettere d’accordo socialisti e liberali, una dote rara che gli permise di portare a compimento un progetto legislativo iniziato nel 1919, creando le pensioni civili.

Un merito incredibile che il fascismo riuscì a strappargli facendolo proprio.

Corbino fu anche al centro di uno scandalo che emerse durante le indagini sul delitto Matteotti, uno scandalo probabilmente costruito ad Hoc da Mussolini per allontanare le indagini dal reale mandante e liberarsi allo stesso tempo di un possibile rivale ed oppositore politico.

La legge Corbino, mai chiamata con questo nome, è stata una delle pochissime leggi, insieme alla Legge Acerbo, ad essere prodotte in italia durante il primo governo Mussolini.

In ogni caso, le pensioni in italia sono un invenzione dei Liberali, rese possibili dal compromesso tra liberali e socialisti e nell’iter legislativo che portò alla creazione della legge 3184 del 30 dicembre 1923, il ruolo di Mussolini e del Fascismo fu assolutamente marginale. La legge venne proposta da un Liberale, venne votata da tutte le forze politiche, e il solo contributo dato dal fascismo alla legge, in fase di scrittura, fu il voto favorevole alle camere, un voto obbligato dal fatto che la legge era stata proposta da un ministro del governo Mussolini I, anche se, quel ministro, non solo non era un Fascista, ma mai lo sarebbe stato.

La sessualità nella storia | BDSM

Come la sessualità BDSM è evoluta con la civiltà umana.

Nella maggior parte dei testi e articoli in cui si parla di storia della sessualità, il mondo bdsm viene raccontato come una sorta di distorsione della sessualità, iniziata nel XVIII secolo, perché tutto viene fatto partire dagli scritti di Donatien-Alphonse-François de Sade, e tutto quello che c’era prima, viene ignorato o classificato come pura e semplice violenza in una civiltà che ancora manteneva aspetti primitivi.

La sessualità viene subordinata, nella maggior parte dei casi, ad aspetti “morali” ignorando un po’ troppo facilmente che la sessualità, non parte dalla morale collettiva, ma parte dal piacere individuale.

L’età dell’oro

Tra la fine degli anni sessanta e la metà degli anni novanta, il sadomaso ha avuto una crescente popolarità, grazie soprattutto a numerose opere di cultura popolare che hanno portato, in parte, alla luce del sole, tematiche ed esperienze, fino a quel momento esclusivamente private, e vissute, se non in camera da letto, nelle stanze con luci soffuse dei bordelli e di case chiuse.

I bordelli, in particolare i prezziari e i cataloghi delle prostitute, ci permettono di datare la diffusione del sadomaso, come dinamica erotica, già nella seconda metà del XIX secolo, in particolare i cataloghi di prostitute londinesi, di fine ottocento, sono ricchi di donne che, tra i propri servizi offrivano, frustate, giochi con la cera, venerazione dei piedi, e altre pratiche più forti, ma, cosa più interessante, nelle proprie prestazioni, non erano inclusi atti sessuali.

In altri termini, erano prostitute, che non avevano rapporti sessuali con i propri clienti, i quali preferivano essere frustati.

quattro dominatrici di professione degli anni trenta
Dominatrici di professione, tra europa ed america degli anni trenta

Prestazioni di questo tipo ne incontriamo anche nei bordelli del XX secolo, le donne nella foto ad esempio, sono tutte dominatrici di professione degli anni trenta e, come sopra, anche loro, nei propri prezziari avevano frustate, ma non pratiche sessuali.

La cultura del sadomaso, come anticipavo, ha attraversato la fase di massima produzione artistica, iniziata negli anni cinquanta e terminata con gli anni novanta, con particolare enfasi tra gli anni settanta ed ottanta. Ma in realtà, anche nei secoli precedenti, e almeno dal XVIII secolo, la produzione artistica, soprattutto letteraria, è tantissima.

La sessualità nella letteratura moderna

Uno dei primi romanzi erotici in tema è stato il capolavoro del 1954 Hisoire d’O della scrittrice francese Anne Desclos, nota anche come Dominique Aury o Pauline Réage, nome quest’ultimo con il quale ha firmato Histoire d’O da cui, nel 1975 è stato tratto l’omonimo film, e di cui il fumettista italiano Guido Crepax ha realizzato una meravigliosa edizione a fumetti, vi lascio il link ad amazon qualora voleste acquistarla.

Il fatto che, prima del XVIII, non ci siano riferimenti culturali a dinamiche sadomaso, ha indotto molti a pensare che il sadomaso, così come lo intendiamo oggi, affondi le proprie radici tra le pagine di Donatien-Alphonse-François de Sade, noto come marchese de Sade, vissuto tra XVIII e XIX secolo, in realtà, le dinamiche di dominazione e di potere, nella sfera sessuale, sono molto più antiche di De Sade.

De Sade ha il merito di aver, in un certo senso iniziato la “codifica” di quello che oggi chiamiamo sadomaso o, in termini più ampi, BDSM, ma non è lui che ha portato il concetto di dominazione e sottomissione, nel mondo dell’erotismo.

A proposito di De Sade, la nostra collaboratrice Cecilia Mikulicich ha pubblicato una recensione e analisi dell’innovativa “fabliaux” settecentesca “Justine o le disavventure della virtù” che vi invito a recuperare.

Il sadomaso prima di De Sade

Se prendiamo ad esempio la letteratura “erotica” medievale, non è difficile imbattersi in racconti che oggi non avremmo troppa difficoltà a considerare come interni alle dinamiche BDSM, ma all’epoca era semplicemente erotismo, andando ancora più indietro, scavando, letteralmente, tra i resti di Pompei, o di altre città romane, non è difficile imbatterci in illustrazioni in cui gli amanti traggono piacere dal dolore, e lo stesso incontriamo guardando al kamasutra indiano.

Componenti di dominazione e sottomissione li incontriamo anche nella Grecia classica e in Egitto, nella Cina e Giappone medievali, ma anche tra i popoli norreni, oltre che tra indios, nativi americani, e innumerevoli popolazioni indigene dell’Africa e America latina.

Il rapporto tra sesso e divino

Secondo alcuni storici l’attrazione e interesse per i giochi di potere, confluiti anche nel mondo religioso, in cui il fedele è totalmente sottomesso al Divino, hanno un origine nella parte più primitiva del cervello, e sono una sorta di evoluzione di quell’istinto primordiale che porta alla dominazione, quale espressione di potenza e alla sottomissione, quale espressione di un desiderio e ricerca di protezione.

Tutto questo background storico e antropologico, che è alla base di quello che oggi chiamiamo BDSM, ci mostra chiaramente che, il sadomasochismo, non è il frutto di una distorta sessualità propria dell’età moderna, ma è un qualcosa che ha accompagnato, gran parte della storia, non solo della sessualità, ma dell’intera umanità, e secondo alcuni antropologi, questo modo di vivere la sessualità, più legato ad aspetti e piaceri primordiali, potrebbe essere il retaggio di un qualcosa di innato in ogni specie vivente costretta a vivere una lotta per la sopravvivenza.

Differenze tra Municipio e Colonia romana

Quando roma assumeva il controllo di una città straniera, questa diventava un municipio, mentre quando la nuova città veniva fondata da roma, questa era una colonia

Quando Roma assumeva il controllo di una città straniera, attraverso una conquista militare o diplomatica, questa veniva inglobata nello stato romano diventando un Municipio, diversamente, quando Roma fondava dal nulla un nuovo insediamento, la nuova città era una Colonia. Nel mondo romano non c’erano altre opzioni, tutte le città sotto il controllo di roma erano Colonie o Municipi, mentre, le città straniere, alleate di Roma e legate a Roma da un alleanza erano Foedus, e dette Soci o Federate di Roma.

I Foedus, che possiamo tradurre come dei feudi, erano gli antenati dei feudi medievali, e costituivano insediamenti non romani, legati a roma da trattati, chiamati appunto Foedus, che sancivano un alleanza tra roma e quell’insediamento o addirittura un intero popolo.

Il Feodus Cassianum

Uno dei Foedus più famosi e importanti della storia romana è il Foedus Cassianum, un trattato stipulato intorno al 493 a.c tra Romani e Latini.
Questo Foedus venne stipulato agli albori della repubblica, e fu uno degli effetti della transizione da monarchia a repubblica.

Con la deposizione dell’ultimo re di roma, e l’istaurazione della Repubblica, Roma si ritrovò ad affrontare un periodo di crisi interna, che da un lato portò all’esclusione della plebe dalle cariche pubbliche, in particolare, Tito Livio, nell’opera Ad Urbe Conditia Libri, ci dice che con il passaggio alla repubblica, la plebe fu esclusa dal consolato, vale a dire dal governo delle città, dai collegi religiosi e delle altre alte magistrature, cosa che invece, in età repubblicana non accadeva e de facto, un plebeo o anche uno straniero, poteva non solo assumere il governo di una città, ma addirittura diventare Re, come era successa con diversi re, in particolare con gli ultimi tre re della tradizione romana, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e l’ultimo re di roma, Tarquinio il Superbo, erano infatti di origine etrusca, giunti a Roma da stranieri e grazie alla propria ricchezza e alleanze politiche, erano riusciti a diventare sovrani della città.

Finita la monarchia roma voleva evitare che altri stranieri assumessero il controllo della città, e l’aristocrazia romana, coincidente con la gente patrizia, riservò per se le principali cariche istituzionali.

Questo clima politico interno molto teso, portò molte città latine, sotto il controllo di roma o alleate di roma nel lazio, a coalizzarsi in chiave anti romana, in quella che sarebbe stata la Lega Latina, protagonista della celebre battaglia del lago regillo, in cui Roma riuscì ad avere ragione dei propri rivali e imporre il Foedus Cassianum, dal nome del console Spurio Cassio Vecellino.

Il Foedus cassianum prevedeva che in caso di battaglia, le varie città alleate di roma, assumessero il comando dell’esercito romano, e i cittadini dei foedus alleati di roma potessero sposarsi e commerciare liberamente con cittadini romani, in quanto titolari dello Ius commercii e dello ius connubi, appunto il diritto di commercio e di matrimonio.

Il Feodus romano

I cittadini dei foedus però non potevano diventare cittadini romani, ed il loro status sociale ricadeva nello ius emigrandi, erano quindi visti da roma come stranieri, con più diritti di altri stranieri, ma comunque stranieri.

Fatta eccezione per la parte del trattato che riguardava l’alleanza militare, lo ius commercii, lo ius connubi e lo ius emigrandi, saranno elementi ricorrenti nei vari e numerosi trattati di alleanza successivi, definendo quelle città alleate, come socii o come federati di roma.
Le città legate a roma come foedus, sono città straniere, anche se fortemente influenzate dalla cultura romana, diversamente i Municipia erano città romane, anche se non fondate da roma.

Sono innumerevoli gli episodi in cui roma riuscì ad incrementare la propria influenza sulle città alleate, facendo sì che il loro status passasse da Foedus a Municipia.

I Municipia romano

Quando una città diventava un Municipia, i suoi cittadini, soprattutto l’aristocrazia, diritti e doveri nei confronti di roma.

Lo scopo dei municipia era quello di facilitare la romanizzazione dei territori, soprattutto latini, in seguito all’assoggettazione delle comunità locali, che poteva avvenire in due modi, o con la conquista militare, o con la conquista diplomatica, passando appunto per il foedus.

Anche se controllata da roma, e l’aristocrazia dei municipia acquisiva di diritto la cittadinanza romana, con tutto ciò che ne conseguiva, mentre la plebe otteneva lo status di cittadinanza latina, i municipia mantenevano una propria autonomia, e molto spesso mantenevano una forma di organizzazione cittadina, separata e distinta dall’organizzazione romana.

Le cose iniziano a cambiare con l’avvento del principato augusteo e la formazione dell’impero, soprattutto da Tiberio in avanti, segnando una crescente politica di romanizzazione dell’impero che sarebbe terminata con l’imperatore Caracalla, promotore della Costitutio Antoniniana nel 212 d.c. con cui si estendeva la cittadinanza romana a tutti i popoli dell’impero.

I municipia inizialmente erano solo le città sottomesse da roma nell’area del lazio, ma con l’espansione dell’impero, lo strumento dei municipia venne utilizzato ovunque nella penisola italica prima e nel bacino del mediterraneo poi.

Nel primo e secondo secolo dopo cristo la maggior parte delle città sottomesse da roma godevano dello status di municipia ed integravano leggi e tradizioni romane, a leggi e tradizioni locali, in una struttura gerarchica per cui, le leggi locali andavano bene finché non erano in contrasto con la legge romana, e quando c’era un contrasto, la legge romana prevaleva sulle leggi locali. Le città che invece, come Cartagine, non avevano accettato di buon grado la transizione, erano state rase al suolo e riedificate sotto forma di colonia, e questo ci porta al terzo ed ultimo tassello della struttura organizzativa delle città romane, ovvero le colonie.

Le colonie romane

Se i Foedus erano città straniere alleate, e i Municipia erano città conquistate, le Colonie erano veri e propri nuovi insediamenti, fondati da cittadini romani per volontà della stessa roma.

Gli abitanti delle colonie erano romani a tutti gli effetti, o al massimo latini, le comunità vivevano secondo le regole organizzative di roma, seguivano la legge e le tradizioni romane, senza troppe interferenze straniere.

Nel mondo romano, almeno fino al 212 , tutte le città dell’impero rientravano in una di queste categorie, le vecchie città esistenti prima della conquista romana erano Municipia, le città di nuova formazione erano colonie, e in entrambi i casi questo valeva indipendentemente dalle dimensioni della città, dell’insediamento o del numero di abitanti.

Insediamenti commerciali

Vi è però una tipologia di insediamento, che non ne un foedus, ne un municipia, ne una colonia, e sono gli insediamenti commerciali.

Questi insediamenti non rientrano nel diritto delle città romane perché de facto non erano città, ne villaggi, e il più delle volte erano costituiti da pochi magazzini lungo la strada, fiumi e costa. Spesso ospitavano anche una taverna e un bordello ed erano presidiati da uomini armati, ma non avevano altro, non erano città, non erano villaggi, erano semplici stazioni di passaggio, totalmente dipendenti dal transito di commercianti, senza i quali quegli insediamenti non potevano sopravvivere poiché sprovvisti di fonti d’acqua e cibo.