Differenze tra Municipio e Colonia romana

Quando roma assumeva il controllo di una città straniera, questa diventava un municipio, mentre quando la nuova città veniva fondata da roma, questa era una colonia

Quando Roma assumeva il controllo di una città straniera, attraverso una conquista militare o diplomatica, questa veniva inglobata nello stato romano diventando un Municipio, diversamente, quando Roma fondava dal nulla un nuovo insediamento, la nuova città era una Colonia. Nel mondo romano non c’erano altre opzioni, tutte le città sotto il controllo di roma erano Colonie o Municipi, mentre, le città straniere, alleate di Roma e legate a Roma da un alleanza erano Foedus, e dette Soci o Federate di Roma.

I Foedus, che possiamo tradurre come dei feudi, erano gli antenati dei feudi medievali, e costituivano insediamenti non romani, legati a roma da trattati, chiamati appunto Foedus, che sancivano un alleanza tra roma e quell’insediamento o addirittura un intero popolo.

Il Feodus Cassianum

Uno dei Foedus più famosi e importanti della storia romana è il Foedus Cassianum, un trattato stipulato intorno al 493 a.c tra Romani e Latini.
Questo Foedus venne stipulato agli albori della repubblica, e fu uno degli effetti della transizione da monarchia a repubblica.

Con la deposizione dell’ultimo re di roma, e l’istaurazione della Repubblica, Roma si ritrovò ad affrontare un periodo di crisi interna, che da un lato portò all’esclusione della plebe dalle cariche pubbliche, in particolare, Tito Livio, nell’opera Ad Urbe Conditia Libri, ci dice che con il passaggio alla repubblica, la plebe fu esclusa dal consolato, vale a dire dal governo delle città, dai collegi religiosi e delle altre alte magistrature, cosa che invece, in età repubblicana non accadeva e de facto, un plebeo o anche uno straniero, poteva non solo assumere il governo di una città, ma addirittura diventare Re, come era successa con diversi re, in particolare con gli ultimi tre re della tradizione romana, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e l’ultimo re di roma, Tarquinio il Superbo, erano infatti di origine etrusca, giunti a Roma da stranieri e grazie alla propria ricchezza e alleanze politiche, erano riusciti a diventare sovrani della città.

Finita la monarchia roma voleva evitare che altri stranieri assumessero il controllo della città, e l’aristocrazia romana, coincidente con la gente patrizia, riservò per se le principali cariche istituzionali.

Questo clima politico interno molto teso, portò molte città latine, sotto il controllo di roma o alleate di roma nel lazio, a coalizzarsi in chiave anti romana, in quella che sarebbe stata la Lega Latina, protagonista della celebre battaglia del lago regillo, in cui Roma riuscì ad avere ragione dei propri rivali e imporre il Foedus Cassianum, dal nome del console Spurio Cassio Vecellino.

Il Foedus cassianum prevedeva che in caso di battaglia, le varie città alleate di roma, assumessero il comando dell’esercito romano, e i cittadini dei foedus alleati di roma potessero sposarsi e commerciare liberamente con cittadini romani, in quanto titolari dello Ius commercii e dello ius connubi, appunto il diritto di commercio e di matrimonio.

Il Feodus romano

I cittadini dei foedus però non potevano diventare cittadini romani, ed il loro status sociale ricadeva nello ius emigrandi, erano quindi visti da roma come stranieri, con più diritti di altri stranieri, ma comunque stranieri.

Fatta eccezione per la parte del trattato che riguardava l’alleanza militare, lo ius commercii, lo ius connubi e lo ius emigrandi, saranno elementi ricorrenti nei vari e numerosi trattati di alleanza successivi, definendo quelle città alleate, come socii o come federati di roma.
Le città legate a roma come foedus, sono città straniere, anche se fortemente influenzate dalla cultura romana, diversamente i Municipia erano città romane, anche se non fondate da roma.

Sono innumerevoli gli episodi in cui roma riuscì ad incrementare la propria influenza sulle città alleate, facendo sì che il loro status passasse da Foedus a Municipia.

I Municipia romano

Quando una città diventava un Municipia, i suoi cittadini, soprattutto l’aristocrazia, diritti e doveri nei confronti di roma.

Lo scopo dei municipia era quello di facilitare la romanizzazione dei territori, soprattutto latini, in seguito all’assoggettazione delle comunità locali, che poteva avvenire in due modi, o con la conquista militare, o con la conquista diplomatica, passando appunto per il foedus.

Anche se controllata da roma, e l’aristocrazia dei municipia acquisiva di diritto la cittadinanza romana, con tutto ciò che ne conseguiva, mentre la plebe otteneva lo status di cittadinanza latina, i municipia mantenevano una propria autonomia, e molto spesso mantenevano una forma di organizzazione cittadina, separata e distinta dall’organizzazione romana.

Le cose iniziano a cambiare con l’avvento del principato augusteo e la formazione dell’impero, soprattutto da Tiberio in avanti, segnando una crescente politica di romanizzazione dell’impero che sarebbe terminata con l’imperatore Caracalla, promotore della Costitutio Antoniniana nel 212 d.c. con cui si estendeva la cittadinanza romana a tutti i popoli dell’impero.

I municipia inizialmente erano solo le città sottomesse da roma nell’area del lazio, ma con l’espansione dell’impero, lo strumento dei municipia venne utilizzato ovunque nella penisola italica prima e nel bacino del mediterraneo poi.

Nel primo e secondo secolo dopo cristo la maggior parte delle città sottomesse da roma godevano dello status di municipia ed integravano leggi e tradizioni romane, a leggi e tradizioni locali, in una struttura gerarchica per cui, le leggi locali andavano bene finché non erano in contrasto con la legge romana, e quando c’era un contrasto, la legge romana prevaleva sulle leggi locali. Le città che invece, come Cartagine, non avevano accettato di buon grado la transizione, erano state rase al suolo e riedificate sotto forma di colonia, e questo ci porta al terzo ed ultimo tassello della struttura organizzativa delle città romane, ovvero le colonie.

Le colonie romane

Se i Foedus erano città straniere alleate, e i Municipia erano città conquistate, le Colonie erano veri e propri nuovi insediamenti, fondati da cittadini romani per volontà della stessa roma.

Gli abitanti delle colonie erano romani a tutti gli effetti, o al massimo latini, le comunità vivevano secondo le regole organizzative di roma, seguivano la legge e le tradizioni romane, senza troppe interferenze straniere.

Nel mondo romano, almeno fino al 212 , tutte le città dell’impero rientravano in una di queste categorie, le vecchie città esistenti prima della conquista romana erano Municipia, le città di nuova formazione erano colonie, e in entrambi i casi questo valeva indipendentemente dalle dimensioni della città, dell’insediamento o del numero di abitanti.

Insediamenti commerciali

Vi è però una tipologia di insediamento, che non ne un foedus, ne un municipia, ne una colonia, e sono gli insediamenti commerciali.

Questi insediamenti non rientrano nel diritto delle città romane perché de facto non erano città, ne villaggi, e il più delle volte erano costituiti da pochi magazzini lungo la strada, fiumi e costa. Spesso ospitavano anche una taverna e un bordello ed erano presidiati da uomini armati, ma non avevano altro, non erano città, non erano villaggi, erano semplici stazioni di passaggio, totalmente dipendenti dal transito di commercianti, senza i quali quegli insediamenti non potevano sopravvivere poiché sprovvisti di fonti d’acqua e cibo.

Hu Tinbao, il dio cinese protettore dell’amore omosessuale

Hu Tinbao, il dio cinese protettore dell’amore omosessuale

Hu Tinbao è un antica divinità, presente nella cultura popolare cinese, che assolve alla funzione di protettore dell’amore omosessuale

Nel mondo della ricerca antropologica, lo studio del folklore riguarda principalmente le usanze e le credenze, provenienti dal mondo antico ancora persistenti come “fossili culturali” nelle società e nelle culture “moderne”.

Il folklore non rappresenta altro che la resistenza di culture antiche che sopravvivono nella modernità, e se da un lato la maggior parte dei riti e culti folkloristici, sono stati spesso oggetto di vere e proprie guerre di civiltà, in molti altri casi, quelle tradizioni antiche sono state inglobate nelle società moderne.
Un esempio classico in tale senso è rappresentato dal culto dei santi nella civiltà cristiana che, prendendo le battute da un antico e prolifico pantheon divino, in un mondo dominato da religioni monoteiste, ha trovato il modo per coniugare la necessità delle popolazioni abituate ad avere protettori divini, in quel mondo in cui non c’era più spazio per divinità diverse dall’unico dio.

Studiare il folklore è per gli storici un modo come un altro per prendere contatto con il mondo antico, attraverso strumenti diversi dalle fonti ordinarie, e, facendo un enorme lavoro reinterpretativo e di analisi, permette agli studiosi di estrapolare dalla tradizione popolare, indizi sulle tradizioni antiche, e dunque sulla quotidianità e la vita nel mondo antico.

A tale proposito il culto folkloristico della divinità cinese Hu Tinbao, spesso chiamato anche Wu Tien Bao, permette agli storici dell’oriente di scoprire tanto sulla sessualità nella cina antica.

Il culto non si sa esattamente quando sia nato, e, secondo la mitologia, questa divinità sarebbe vissuta, come uomo, molti secoli a dietro, ma le prime fonti che testimoniano questo culto risalgono a non prima del XVII secolo.

Il mito di Hu Tinbao ci racconta una storia drammatica, ci parla di un giocane Hu Tinbao che, accecato dalla passione, si ritrovò a spiare attraverso una fessura il proprio amato, mentre questi faceva i propri bisogni. Scoperto venne arrestato e torturato, preso ripetutamente a bastonate finché non confessò al prefetto la propria attrazione per l’uomo, confessione che gli sarebbe costata la vita a suon di bastonate.

Se ci soffermassimo a questa prima parte del mito, avremmo a che fare con una leggenda che ci parla della morte di un giovane omosessuale, informazione questa che potremmo utilizzare per una certa ricostruzione storica del periodo in cui visse questo fantomatico Hu Tinbao. Il mito però va avanti, la leggenda infatti ci dice che, una volta giunto nel regno dei defunti, Hu Tinbao venne giudicato dai funzionari dell’oltretomba, funzionari, operatori divini, senza pregiudizi di alcun tipo che, videro nel racconto un crimine d’amore. Hu Tinbao aveva spiato l’uomo perché fortemente innamorato di lui, ed era stato giustiziato per aver spiato la persona amata, questo, per i funzionari dell’oltretomba era un gravissimo torto, inflitto dai mortali, al giovane, decisero quindi di rendergli giustizia, e riparare al torto subito, facendo di lui una divinità, con il compito preciso di proteggere l’amore omosessuale.

Secondo la leggenda, dopo la sua morte Hu Tinbao apparve in sogno all’amato ancora in vita per riferirgli che “Anche se è stato sconveniente spiare un uomo, ciò è stato fatto solo per motivi di cuore e non avrebbe dovuto essere punito con la morte. Ora il giudice della Prefettura Oscura mi ha nominato Dio dei Coniglietti, addetto alle questioni d’amore fra uomini: dovrai costruire un tempio in mio onore.”

Coniglietto è un termine ironico che in cina era usato per indicare i giovani omosessuali.

Nel folklore cinese del XVII e XVIII secolo c’è questa figura divina, che protegge gli omosessuali, questo culto però non ebbe vita facile e nel 1765 Zhu Giui inserì il culto di Hu Tinbao in un libro che racchiudeva tutti i culti proibiti e immorali presenti in cina.

Nel XVIII secolo il culto di Hu Tinbao era considerato immorale e per questo proibito, e con esso la stessa omosessualità era considerata immorale. Nel testo di Zhu Gui, il culto è descritto in questo modo “Tutti gli svergognati e i depravati che, vedendo ragazzi o giovanotti, desiderano avere rapporti illeciti con loro, pregano per avere l’intercessione dall’idolo. Dopodiché fanno i loro piani per ottenere l’oggetto dei loro desideri. Questa è nota come “l’assistenza segreta di Hu Tian Bao””.

La Caduta di Cartagine secondo Polibio, Diodoro e Appiano

La Caduta di Cartagine durante la terza guerra punica, raccontata da Polibio Diodoro e Appiano

La Caduta di Cartagine è l’atto finale delle guerre puniche uno scontro tra civiltà che per portata potremmo associare alle guerre mondiali del XX secolo, e sul piano simbolico potremmo considerare al pari della guerra fredda. In questo parallelo, la caduta di Cartagine è paragonabile alla fine dell’Unione Sovietica, un passaggio che, negli anni novanta, alcuni audaci ipotizzarono essere il segnale della fine della storia. Anche al tempo della caduta di Cartagine (e nei decenni successivi) qualcuno pensò alla fine della storia.

Caduta Cartagine al mondo rimaneva solo Roma, un unica potenza mondiale, circondata da tribù barbariche, per gli uomini dell’epoca Roma era consacrata all’eternità, e avrebbe dominato il mondo per l’eternità, ma nei suoi scritti Polibio racconta di una visione di Scipione Emiliano, il condottiero che aveva sconfitto Cartagine.Scipione, nel racconto di Polibio, viene mostrato in lacrime di fronte alle macerie di Cartagine, queste lacrime sono dettate dall’idea che come Cartagine, non troppo tempo prima la più grande potenza mondiale nell’antichità, anche Roma, prima o poi, avrebbe conosciuto il proprio Declino.

L’idea che Roma, la padrona indiscussa del mondo potesse capitolare nel II secolo a.c. appare anacronistica, e autori come Diodoro (I secolo a.c.) e Appiano (II secolo d.c.) pensano di non riportare questi dubbi che, dopo la battaglia, assalirono la mente di Scipione Emiliano, ma noi oggi sappiamo, che nessuna civiltà dura per sempre, che persino l’ineluttabile Roma, può cader, come già era successo a Cartagine, alla civiltà Greca, quella Persiana, e quella Fenicia, Sumera, Egizia, ecc ecc prima di Roma, e come sarebbe successo all’impero bizantino, gli imperi islamici, quello Ottomano, il regno di spagna, di francia, l’impero britannico, il sacro romano impero germanico, ecc ecc ecc…

Polibio a modo suo lo aveva intuito, forse perché da uomo greco ostaggio a roma che assiste alla caduta di Cartagine, aveva un punto di vista differente da quello dei propri contemporanei, o forse è stato solo un caso.In questo post parliamo di Polibio, Diodoro e Appiano e del loro racconto della capitolazione di Cartagine.

Quando Cartagine capitola il suo declino era in vero iniziato ormai da molto tempo, in parte alimentato dalle numerose sconfitte subite nel corso della prima e seconda guerra punica, ma è solo nella terza guerra punica che, nel 146 a.c si sarebbe conclusa per sempre e in maniera definitiva, quella guerra combattuta a più riprese fin dal 264 a.c.

Se vuoi approfondire la storia cartaginese ti rimando a questo articolo riassuntivo della storia di Cartagine

Ma le guerre puniche non sono solo uno scontro di civiltà, dettato dalla rivalità e dalle ambizioni politiche delle due più grandi potenze del mediterraneo dell’epoca, sono anche espressione di una più intima rivalità tra due famiglie di alto lignaggio, la famiglia Barca, una delle due case reali cartaginesi, di cui facevano parte Annibale Barca e suo fratello maggiore Asdrubale Barca, entrambi figli di Amilcare Barca, e dall’altra parte, per Roma, la gens Cornelia, antica famiglia romana cui apparteneva Publio Cornelio Scipione Africano, detto Scipione l’Africano, padre adottivo di Publio Cornelio Scipione Emiliano, detto Africano Minore, figlio naturale di Lucio Emilio Paolo Macedonico.

Noi oggi conosciamo le vicende della terza guerra punica, e della conseguente caduta di Cartagine, grazie soprattutto al racconto di tre autori greco romani, questi sono Polibio, Diodoro e Appiano.

Il racconto che questi tre autori fanno presenta alcune differenze, dovute prevalentemente alle posizioni politiche degli stessi, e al momento in cui scrissero, è molto probabile tuttavia che oltre questi tre autori ve ne siano molti altri, che per ragioni differenti non sono giunti fino a noi.

Voglio quindi parlare in questo post degli autori, che ci hanno raccontato la caduta di Cartagine, e la prima cosa che voglio portare all’attenzione è il momento storico in cui Polibio, Diodoro e Appiano scrissero della caduta di Cartagine.

Polibio

Polibio era uno storico greco, ostaggio a durante la terza guerra punica, cui era stata affidata, da Scipione l’Africano, l’educazione del suo figlio adottivo l’Africano Minore, colui che avrebbe condotto Roma alla vittoria finale su cartagine.

Polibio è nato in Grecia presumibilmente nel 206 a.c. e nel 166 a.c. fu uno dei 1000 nobili greci inviati come ostaggio a Roma. Polibio, tra i tanti nobili greci, aveva attirato l’attenzione dei romani già prima della vittoria romana, conseguita dal console Lucio Emilio Paolo nella battaglia di Pidna del 168, per le posizioni neutrali del proprio Partito.

Inviato a Roma come ostaggio rimase nella futura capitale imperiale per circa 17 anni, e immediatamente si legò alla gens Cornelia, diventando precettore di Publio Cornelio Scipione Emiliano, con cui, lo storico strinse un legame di amicizia che sarebbe perdurato per molti anni.

L’amicizia tra Polibio e Scipione Emiliano, lo coinvolse direttamente nelle vicende della terza guerra punica, poiché il comando dell’esercito romano era affidato al suo allievo, e sembra che lo stesso Polibio fosse al fianco di Scipione durante l’assedio finale e i due camminarono insieme tra i resti della città dopo la sua capitolazione.

Diodoro

Diodoro, come anche Polibio, non è propriamente uno storico romano, e nelle sue opere autobiografico si riferisce a se stesso come ad uno storico greco, anche se nato in Sicilia, ad Agyrion, odierna Agiria in provincia di Enna, una città fortemente influenzata e per lungo tempo direttamente controllata, dalle polis greche e successivamente sotto l’influenza cartaginese.

Diodoro è nato presumibilmente nel 90 a.c. molti anni dopo la caduta finale di Cartagine e più di un secolo dopo la fine della prima guerra punica, durante la quale, l’intera Sicilia era passata sotto il controllo Romano.

Anche se cresciuto in Sicilia e sotto il controllo di Roma, Diodoro considera se stesso un uomo Greco, ed è oggi considerato da molti storici come uno dei maggiori annalisti e storici romani, oltre che un fine e meticoloso filologo ante litteram.

Le sue posizioni politiche sembrano essere di estrema neutralità, non particolarmente accomodante o critico nei confronti di Roma e dell’imperialismo romano, e, nel proemio della propria opera magna, la colossale Bibliotheca Historica, composta originariamente da circa 40 libri, di cui a noi sono pervenuti integralmente soltanto i primi cinque, Diodoro presenta quest’ultima come un storia universale, dalle origini del mondo alle campagne di cesare, raccontando quindi tutto ciò che è stato prima di lui e terminando il racconto, per ragioni pratiche, agli anni della propria vita.

Nel suo racconto Diodoro si avvale di innumerevoli fonti, tra cui numerosi altri autori, cronisti e annalisti, da Ecateo di Mileto a Polibio, da Eforo a Posidonio, ecc.

È molto probabile che, gran parte del racconto fatto da Diodoro in merito alla terza guerra punica, parta in larga parte dagli scritti di Polibio, ma, essendoci delle divergenze, è quasi certo che abbia consultato anche altri autori di cui noi oggi non abbiamo traccia, probabilmente abrasi e sovrascritti dai copisti medievali

Appiano

Appiano, come Diodoro non è testimone diretto della terza guerra punica, egli infatti visse nel secondo secolo dopo cristo, in piena età imperiale sotto il regno di Traiano, Adriano e Antonino Pio.

Appiano è nato ad Alessandria d’Egitto, presumibilmente nel 95 dopo cristo, e si ipotizza che abbia trascorso i primi venticinque anni della propria vita nella città che ospitava una delle più grandi biblioteche del mondo antico, la biblioteca di Alessandria, luogo in cui Appiano compì la propria formazione, almeno fino al 120 d.c anno in cui sembra si sia trasferito a Roma, dove intraprese la carriera giuridica diventando e, tra il 147 e il 161, nel periodo di co-reggenza tra Marco Aurelio e Antonino Pio, grazie ad una lettera di Cornelio Frontone scritta per conto di Appiano, e della conseguente risposta fornita da Antonino Pio, sappiamo che Appiano ottenne il titolo di Procuratore romano, anche se molti storici oggi ipotizzano che la sua nomina fu più un onorificenza che un incarico.

Comparazione degli autori

Il racconto generale che i tre autori fanno della caduta di Cartagine è generalmente coerente e costante, la maggior parte dei fatti riportati da Polibio vengono ripresi e riportati, in modo leggermente differente dai successivi scritti di Diodoro, circa cinquant’anni dopo, e di Appiano, circa due secoli dopo, anche se, alcune informazioni ed aneddoti non vengono riportati da tutti, specie il racconto del pianto di Scipione Emiliano che appare esclusivamente nel racconto di Polibio.

Il pianto di Scipione

Il perché Polibio abbia scelto di raccontare la dramma del pianto di Scipione Emiliano che, dopo aver sconfitto Cartagine in quell’ultimo assedio, in quell’ultima battaglia decisiva, ricevendo l’ordine di distruggere la città, e nel vedere Cartagine in fiamme, un tempo la più grande potenza commerciale, navale e militare del mediterraneo (che all’epoca era il mondo), è dovuto al forte legame che univa lo storico al generale romano.

Polibio era stato il precettore ed era un fidato consigliere e confidente di Scipione Emiliano, quel racconto appare estremamente intimo e personale, mette a nudo la sensibilità, l’intelligenza e le preoccupazioni di Scipione, ed è facile intuire perché non solo Polibio abbia scelto di riportare quei passaggi, ma anche perché Diodoro e Appiano abbiano scelto di non riportarli.

Nel racconto del pianto di Scipione, Polibio ci dice che questi, nel vedere Cartagine bruciare, abbia avuto una visione del futuro e del destino che prima o poi avrebbe colpito anche Roma.

Polibio, come già detto era un uomo Greco trapiantato a Roma, e nella sua memoria, nella sua cultura, vi è quella che un tempo era stata la più grande civiltà del mondo Antico, la civiltà ellenica, madre delle Polis Greche e dell’impero alessandrino, e pure, la Macedonia di Alessandro Magno, così come le Polis Greche, al tempo della caduta di Cartagine, erano ormai decadute e ridotte a province romane. Una sorte analoga aveva scosso Cartagine, un tempo la più fiorente e potente città del mediterraneo, ma dopo la terza guerra punica, di Cartagine non rimaneva altro che un cumulo di macerie.

Dopo la vittoria nella terza guerra punica la volontà romana fu quella di distruggere per sempre la capitale dell’ex impero punico, e per farlo, oltre alla distruzione materiale della città, vi fu anche la volontà di impedire che per cinque lustri il suolo su cui sorgeva Cartagine non venisse occupato.

Assistendo alla distruzione di Cartagine e la ferocia con cui Roma aveva deciso di porre fine alla storia cartaginese, Polibio, attraverso il racconto del pianto di Scipione, nel ricordo di ciò che era già successo altrove, arriva alla conclusione che ogni civiltà nella storia, compresa quella romana è destinata, prima o poi, ad un processo di declino, un processo che più essere rallentato grazie ad una serie di trasformazioni politiche, ma che rimane comunque inevitabile. Ed è proprio quello che sarebbe successo a Roma di lì a poco, che, con le varie guerre sociali e civili e riforme ad opera di uomini come Gaio Mario e i Gracchi e personaggi come Silla, Giulio Cesare e Ottaviano, subì un processo di trasformazione, appena un secolo più tardi, che trasformò la Repubblica nell’Impero Romano, e lo stesso impero subì a sua volta numerose trasformazioni politiche e sociali, che ad occidente culminarono con la deposizione di Romolo Augustolo, e ad oriente con la caduta di Costantinopoli per mano ottomana.

Diodoro ed Appiano, diversamente da Polibio, almeno dai testi giunti fino a noi, in parte perché più distanti e distaccati dalla vicenda e dai suoi protagonisti, in parte perché vivono e scrivono in un contesto storico differente, non ritengono rilevane il pianto di Scipione e preferiscono soffermarsi sul significato epocale della caduta di Cartagine, che tuttavia, i due autori interpretano in modo e con segno differente.

Diodoro in particolare, scrivendo in anni di grande espansione territoriale per Roma ormai prossima a diventare un Impero e non solo una potenza imperialista, ha difficoltà ad immaginare il declino di Roma, un declino ipotizzato da Polibio, ma che per Diodoro è un qualcosa di impossibile poiché la Roma in cui vive è ormai padrona del mondo, e tutto ciò che si trova all’esterno dei confini romani sono terre e popolazioni selvagge.

Come Diodoro, anche Appiano vive le guerre puniche con distacco e lontananza determinati dal tempo e dal mondo in cui scrive, oltre che dagli ambienti politici e sociali che frequenta, ambienti che, anche se simili a quelli frequentati da Polibio, sono profondamente diversi a causa del contesto storico.

Polibio è un nobile greco che vive a stretto contatto con la nobiltà romana, diversamente, Appiano non è un nobile ma, come Polibio vive a stretto contatto con la nobiltà romana, una nobiltà che nella prima metà del II secolo dopo cristo è profondamente mutata rispetto alla nobiltà del II secolo avanti cristo, poiché la stessa Roma è mutata.

Dei tre autori, Appiano è l’unico che vive in età imperiale, diversamente Diodoro e Polibio vivono in età repubblicana, più precisamente Diodoro vive al tramonto della repubblica, mentre Polibio vive nel momento di massimo splendore dell’età repubblicana.

La vita a Roma in età imperiale, influenza il modo in cui Appiano vede il mondo e si rapporta al mondo antico. Appiano è testimone indiretto della conquista traianea della Dacia, ultimo grande slancio espansionista dell’impero romano, ma è anche consapevole che non tutte le battaglie possono essere vinte e che la superiorità tecnologica e organizzativa dell’elefantesco esercito romano, non assicura la vittoria in battaglia, ne garantisce una facile difesa del territorio se questi, come la Dacia, è sprovvisto di difese naturali. Appiano guarda alla Dacia e vede il suo enorme costo non bilanciato dal flusso di argento che arriva a Roma, ma si guarda anche alle spalle e vede la sconfitta di Adriano, appena pochi decenni prima, che lo costrinsero a frenare la conquista ed innalzare l’emblematico vallo di Adriano. Guardando ancora più in dietro vede la sconfitta di Varo, al tempo di augusto, contro primitive tribù germaniche.

Appiano vive in quegli anni in cui molti storici pongono l’inizio del declino di Roma, e nel vivere in una civiltà prossima al declino, come Cartagine appena prima dell’inizio delle guerre puniche, ma allo stesso tempo così vicino alle elite e alle istituzioni romane, pone appiano in una posizione ambigua e criptica.

Oggi non sappiamo se Appiano intuì cosa stava accadendo a Roma in quegli anni, e scelse di omettere dal proprio racconto della caduta di Cartagine l’episodio del pianto di Scipione per ragioni politiche, o perché non totalmente consapevole dei cambiamenti che stavano avvenendo in quegli anni, mentre continuava a guardare a Roma con lo sguardo di chi crede invincibile la civiltà che in quel momento dominava il mondo.

La caduta di Cartagine

La caduta di Cartagine negli scritti di Polibio, Diodoro e Appiano rappresenta un evento centrale nella storia romana, tutti e tre gli autori sono perfettamente consapevoli della portata epocale di quell’avvenimento che segnò la fine definitiva di una delle più grandi e imponenti civiltà del mondo antico.

La conquista romana di Cartagine descritta da Polibio è certamente influenzata dall’amicizia tra Polibio e Scipione Emiliano, il racconto di Diodoro è alienato dalla condizione di una Roma, in quel momento apparentemente invincibile, e la caduta di Cartagine viene presentata come un passaggio inevitabile per il compimento della storia, una storia che appare forse già scritta e sembra puntare in un unica direzione, quello di una roma universale, concetto che sarebbe stato ripreso circa 1200 anni più tardi dagli storici medievali, il racconto di Appiano invece è forse il più ambiguo e criptico, che guarda alla caduta di Cartagine da lontano, senza riuscire ad andare troppo oltre l’immagine quasi statica di una serie di eventi determinati dalla risolutezza di una Roma ineluttabile e imperialista.

Tutti e tre gli autori, per ragioni differenti, concordano nel dire che Cartagine durante la terza guerra punica non aveva alcuna possibilità di successo nello scontro con Roma e probabilmente l’unica speranza di sopravvivenza dell’antica colonia fenicia, era quella di sottomettersi a Roma, fondendo la propria civiltà con quella romana.

Se così fosse stato, se Annibale ed Asdrubale non fossero stati così ostinati da sfidare Roma, forse oggi Cartagine esisterebbe ancora e forse, l’intera storia mondiale sarebbe differente, ma la storia non si scrive con i se e con i ma, e nella realtà storica, alla fine Scipione Emiliano ebbe ragione dei fratelli Barca, assediò Cartagine e la rase al suolo e per 25 anni fu impedita l’occupazione del suolo su cui un tempo sorgeva Cartagine.

Bibliografia

E. Lo Cascio, Storia romana. Antologia delle fonti 
G.Geraci,A.Marcone, Fonti per la stoira romana

L’ostaggio nel mondo antico

L’ostaggio nel mondo antico, è un prigioniero politico, ma anche una garanzia per il rispetto di trattati e un mediatore

Il termine Ostaggio, oggi, ha un significato ben preciso, che a grandi linee possiamo definire come, una persona fisica tenuta prigioniera, per ragioni economiche o politiche, o per altri motivi, ma nel mondo antico, il termine ostaggio o meglio, quello che noi oggi traduciamo con il termine ostaggio, aveva un significato leggermente differente dal moderno concetto di ostaggio, diciamo che l’ostaggio nel mondo antico, soprattutto nel mondo greco romano, era in parte un prigioniero, in parte un ospite, in parte un mediatore, ma ovviamente, non era così sempre e dappertutto.

Per la Treccani l'ostaggio è "cittadino di uno stato nemico che un belligerante tiene in proprio potere e contro il quale minaccia di prendere determinate misure..."

Molto dipendeva dall’ostaggio, dalle sue doti politiche e dalla sua dote, ed i rapporti di forza e le relazioni che riguardavano la civiltà di appartenenza dell’ostaggio e quella di cui era ostaggio avevano un peso considerevole nel determinare le condizioni dell’ostaggio, ma, andiamo con ordine e partiamo dal termine ostaggio e dalla sua etimologia.

L’etimologia della parola Ostaggio

Noi oggi sappiamo che l’etimologia della parola ostaggio deriva dal francese antico hostage, le cui radici affondano nel latino del tardo antico, un arco temporale che va dal finire del IV al IX secolo dopo cristo, l’hostage del francese antico è un evoluzione del più antico termine hospitatĭcum, che, a sua volta è derivato dal più antico hospes -pĭtis, che letteralmente letteralmente, ospite politico.

La parola ostaggio, nel mondo antico ha una forte connessione con la politica, concetto che viene legato al concetto di ospitalità, ed è proprio in questo connubio di ospitalità e politica che risiede il cuore del concetto dell’ostaggio.

Il termine ci indica un ospitalità politica, più precisamente un ospitalità interessata e motivata da interessi politici, ma ci dice anche altro, poiché ci troviamo in un epoca in politica, guerra e diplomazia, sono concetti interconnessi e molto vicini tra loro, molto più di quanto non lo siano oggi.

Ostaggi dall’Egitto a Roma

Il concetto di ostaggio nel mondo antico non ha un valore universale, popoli diversi hanno idee e concezioni diverse di ostaggio e prigioniero, e se in alcune civiltà antiche questi due concetti coincidevano, in altre, erano molto distanti tra loro, e non di rado, in momenti diversi, nella stessa civiltà, il concetto di ostaggio viene applicato e interpretato diversamente.

L’ostaggio nell’antico Egitto

Nel antico Egitto, almeno fino alla conquista alessandrina della civiltà del delta del Nilo, l’ostaggio era considerato prettamente un prigioniero politico il cui ruolo nella società era profondamente diverso dal prigioniero di guerra. Il compito del prigioniero politico egiziano, dell’ostaggio nell’antico Egitto, era quello di garantire al faraone la fedeltà e la lealtà dei regni vassalli, e a tale scopo, dei membri delle nobili famiglie feudatarie del faraone erano inviati periodicamente alla corte del faraone, dove vivevano da ospiti, e spesso ricoprivano incarichi pubblici, in cambio della garanzia di fedeltà e lealtà delle proprie famiglie al faraone. Diversa e meno fortunata sorte invece toccava ai prigionieri di guerra.

Un esempio di ostaggio nel mondo egizio, molto noto, ci arriva dal libro della Genesi nell’Antico Testamento attraverso la storia del patriarca Giuseppe, de facto un capo tribù che giura fedeltà e lealtà al faraone d’Egitto in cambio di protezione politica per il proprio popolo, in un epoca in cui la regione Cananea, e l’intero vicino oriente, era controllata da diversi popoli guerrieri in lotta tra loro e allo stesso tempo in guerra con l’Egitto.

L’ostaggio nella Grecia antica

Analogamente al concetto egizio, anche nella Grecia pre-romana l’ostaggio assolveva ad una funzione prettamente politica, non sappiamo però se i greci acquisirono il concetto di ostaggio dagli egizi o se lo svilupparono autonomamente. Noi oggi sappiamo che nelle civiltà primitive il concetto di ostaggio, così come quello di schiavitù, sono molto frequenti, anche in popoli che non avevano alcun contatto tra loro, e questo perché il concetto di ostaggio e l’istituzione della schiavitù, sono stati incontrati anche in popolazioni che non hanno avuto alcun contatto con le antiche civiltà mediterranee, come ad esempio le civiltà mesoamericane.

Nella Grecia antica, almeno in età arcaica, l’ostaggio assolveva ad una funzione analoga a quella dell’ostaggio egizio, questo lo sappiamo attraverso alcuni miti legati alla civiltà Minoica, come ad esempio il mito del Minotauro il cui racconto ci parla, ovviamente tra le righe, di ostaggi politici il cui sacrificio è necessario al mantenimento della pace probabilmente tra un popolo dominante e i suoi feudatari. In età classica invece, il concetto di ostaggio cambia, assumendo tratti leggermente differenti a seconda delle varie polis, ma il concetto di fondo rimane invariato, l’ostaggio continua ad essere un prigioniero politico il cui compito è garantire la pace tra due popoli, sancire una tregua o suggellare alleanze. L’ostaggio diventa quindi non più il tramite di un alleanza, ma anche il garante di tregue, accordi e negoziati, inoltre è il garante del rispetto delle regole della guerra, elemento quest’ultimo sarebbe stato successivamente ereditato dalla civiltà romana.

L’ostaggio concepito dalla civiltà greca è un uomo, o una donna, di alto rango, un nobile, un politico, un filosofo o un dotto, la cui presenza viene utilizzata anche per imporre precise decisioni politiche. In tale senso il caso di Filippo II di Macedonia, condotto a Tebe come ostaggio, è particolarmente interessante. Filippo II era un nobile, la cui presenza a Tebe assicurava alla polis greca il rispetto di una pace tra Macedonia e Tebe ed impediva ai macedoni di assumere posizioni ostili nei confronti di Tebe o sancire alleanze con i suoi nemici. Filippo II viene inviato a Tebe come ostaggio e trascorre nella polis greca più di 30 anni della propria, un periodo di tempo in cui il nobile macedone avrebbe appreso la lingua, i costumi, la politica e, soprattutto, le tattiche militari in uso a Tebe, conoscenze che avrebbe portato con se, una volta tornato in macedonia.

La storia di Filippo II di Macedonia è molto interessante se analizzata in rapporto alle idee di Aristotele sulla prigionia, gli ostaggi e la schiavitù, e non è un caso se Filippo avrebbe scelto proprio l’allievo di Platone come precettore per il proprio erede Alessandro III, meglio noto come Alessandro Magno.

La schiavitù per Aristotele

La schiavitù, per Aristotele è un istituzione educativa e civilizzante, che viene utilizzata per facilitare il processo di conversione e acquisizione, da parte dei prigionieri, degli usi e dei costumi, oltre che della lingua, della civiltà dominante. Lo schiavo per Aristotele è un barbaro che va rieducato e istruito affinché possa acquisite le conoscenze per vivere da uomo greco. Questo concetto di schiavitù, ha molti tratti in comune con l’esperienza da ostaggio di Filippo II, i cui lunghi anni in Grecia gli hanno permesso di acquisire tutto ciò di cui aveva bisogno per sembrare un uomo greco, e una volta tornato in Macedonia, volle per i propri figli la migliore istruzione e formazione possibili, in modo che questi, venissero accolti in Grecia da uomini greci e non da re barbari.

L’ostaggio nella civiltà romana

Diversamente dalla civiltà greca, che considerava se stessa all’apice della civiltà nel mondo antica, e tendeva dunque ad imporre il proprio modello culturale, elemento questo che spesso sfociò in guerre, scontri e rivalità secolari tra le polis, nel mondo romano, almeno nei primi secoli, c’è stato un forte desiderio di auto-miglioramento, che il più delle volte si è tradotto nell’acquisizione di modelli e schemi sociali e culturali, oltre che tecnologici, dalle numerose civiltà con cui roma entrava in contato, che hanno portato Roma ad assorbire, imitare e migliorare, di tutto, dalla mitologia all’architettura alla tecnologia militare.

Il mito di Clelia e Porsenna

La prima e più antica istanza di ostaggio nella civiltà romana la incontriamo nella mitologia arcaica, e tra i tanti miti in cui si fa riferimento al concetto di ostaggio, il mito di Clelia e di Porsenna è forse uno dei più noti e importanti.

Di questo mito esistono due versioni, probabilmente legate al fatto che, nel corso del tempo, il concetto di ostaggio nel mondo romano, ha subito delle variazioni, e il mito di Clelia ci aiuta, con le sue due varianti, a ricostruire queste differenti idee di ostaggio.

Nella più antica delle versioni del mito, Clelia, insieme ad altre nove ragazze, venne consegnata a Porsenna, il lucumone etrusco di Chiusi (il lucumone era la più alta carica politica per una polis etrusca) dai Romani, in seguito ad una pace tra le due città. In questa versione del mito, Clelia incoraggiò le altre nove ragazze a fuggire dall’accampamento di Porsenna e mentre le ragazze guadavano il tevere, lei rimase di guardia sulla sponda, dove venne rintracciata da una guardia di Porsenna o lo stesso Porsenna, e questi, impressionato dal coraggio della donna, decise di premiarla concedendole la libertà.

In questa versione del mito, se bene sia un signore straniero, Porsenna è raccontato come un uomo buono e saggio, che libera Clelia riconoscendone il coraggio ed il valore e poi si ritira, non fa inseguire le altre ragazze oltre il fiume, e continua ad onorare il patto stipulato con Roma, mentre Clelia viene è raccontata come una donna forte, valorosa e coraggiosa, che per la propria intraprendenza e coraggio viene liberata.

Un messaggio di questo tipo potrebbe apparire come un invito agli ostaggi di tentare la fuga, imitando Clelia, e se questo racconto fa parte della tradizione, ciò può significare solo una cosa, ovvero che gli ostaggi nella roma arcaica, non erano prigionieri, ma ospiti.

Nell’altra e più recente versione del mito di Clelia, raccontataci da Tito Livio e da Aurelio Vittore, inizialmente Clelia viene consegnata da sola al lucumone di chiusi, ma riesce a fuggire e tornare a Roma, una volta scoperta venne riconsegnata a Porsenna insieme ad altri ostaggi che i romani fecero scegliere a Porsenna e Porsenna, lasciò che fosse Clelia a scegliere gli altri ostaggi, ed una volta terminata la tregua e tornati a Roma, la città fece erigere una statua equestre in onore di Clelia.

In questa seconda versione, di cui abbiamo traccia già nel IV secolo a.c. con Aurelio Vittore, la figura dell’ostaggio l’ostaggio è mutata e a differenza del passato, la sua fuga può causare la rottura di un patto, dunque l’ostaggio è obbligato a rimanere ostaggio per tutto il tempo necessario, anche se questo non significa necessariamente prigionia. Come vediamo nel mito, Clelia viene riconsegnata a Porsenna, ma questi non punisce la ragazza per la sua fuga, ma al contrario si fa carico della sua protezione, e le consente di scegliere la propria compagnia. Porsenna, in questa versione del mito, consente a Clelia continuare a vivere da donna romana, a differenza di quello che accade a Filippo II di Macedonia.

Il caso di Polibio

Quello di Celia e Porsenna però è un mito, vi sono però altre storie di ostaggi romani, nel mondo antico, che possono aiutarci a comprendere meglio la dimensione dell’ostaggio in età romana ed uno di questi è il caso di Polibio, lo storico greco ostaggio di Roma.

Plibio, durante la propria permanenza a Roma, come ostaggio, nel secondo secolo, nel vivo della terza guerra punica, godette di grande stima, apprezzamento e libertà, nella futura capitale imperiale. La storia di Polibio ci è arrivata direttamente dalla penna di Polibio, il cui racconto ci fornisce uno sguardo unico dell’istituzione dell’ostaggio nel II secolo a.c. poiché ci arriva direttamente da un ostaggio.

Ciò che colpisce in modo particolare nel caso di Polibio, è il grande legame di amicizia che Polibio costruì con gli Scipioni, un amicizia che lo avrebbe reso una delle fonti antiche più autorevoli e apprezzate, per quanto concerne il raccontato della terza guerra punica, guerra che impegnò Roma e contro Cartagine, gli Scipioni contro i Barca, contro Annibale e portò, alla fine, all’inevitabile distruzione di Cartagine, il cui rogo, secondo quanto riportato proprio da Polibio, avrebbe causato lacrime e sofferenza in Scipione l’Africano che, tra le fiamme che divoravano la città, intravedette il declino che prima o poi raggiunge ogni grande civiltà, compresa la sua Roma.

Se vuoi approfondire la storia di Cartagine, leggi anche questo articolo.

La presenza di Polibio come ostaggio a Roma è di natura prettamente politica, lo storico greco è stato condotto a Roma in un epoca in cui Roma stava estendendo propria protezione ben oltre la penisola italica, spingendosi sempre più ad oriente, e guardava con interesse ai territori delle polis greche, polis che non sempre vedevano di buon occhio la presenza imperialista di Roma, e che anzi, proprio durante la terza guerra punica, in diverse occasioni offrirono asilo e aiuto ad Annibale, acerrimo nemico degli Scipioni e di Roma.

La presenza di Polibio a Roma serviva principalmente per evitare che troppe polis passassero dalla parte di Annibale. L’ostaggio greco a roma era quindi un ospite politico, trattenuto formalmente con la forza, ma senza troppe limitazioni e costrizioni, a cui era garantita piena libertà e la cui funzione era quella di fare da garante della pace tra i due popoli, in particolare, il suo compito serviva a garantire che non vi fossero atti di ostilità, ne minacce alla sicurezza di Roma e dei suoi soldati in Grecia, da parte della popolazione ellenica. Vi era una sorta di impegno reciproco tra Roma e Polibio, per cui l’ospite si impegnava a garantire all’ostaggio tutto ciò di cui aveva bisogno e l’ostaggio si impegnava a garantire la pace e far si che nella propria terra d’origine, non vi fossero insurrezioni o rivolte, e che anzi, se possibile, vi fosse collaborazione con Roma.

L’evoluzione del concetto di Ostaggio

Con la caduta di roma, il concetto di ostaggio cambia nel tempo, senza allontanarsi troppo dal concetto di ostaggio greco romano. In età Medievale l’ostaggio diventa il cardine delle alleanze e dei rapporti d’amicizia, e in età moderna, si riscopre il concetto rieducativo dell’istituzione schiavistica, soprattutto in rapporto agli scontri con l’impero ottomano.

Nel mondo antico quello che era il ruolo dell’ostaggio non era codificato, e probabilmente è proprio l’assenza di una codifica formale e universale del concetto di ostaggio nel mondo antico, ad aver portato a diverse evoluzioni. Tuttavia, quello dell’ostaggio era un concetto noto, un istituzione riconosciuta in quell’insieme di leggi e norme non scritte che costituivano lo Jus ad bellum, il diritto alla guerra, e lo Jus in bellorum il diritto in guerra, ed è proprio dal retaggio lasciato da quel mondo e da quell’insieme di teorie, concetti e nozioni giuridiche che il concetto di ostaggio sarebbe arrivato fino a noi, passando attraverso il corpus iuris civilis dell’imperatore Giustiniano e gli scritti sul diritto alla guerra e il diritto in guerra di numerosi giuristi e filosofi dell’età medievale e moderna, da Sant’Agostino d’Ippona a Francisco de Vitoria, da Tommaso d’Aquino a Ugo Grozio, fino a raggiungere uomini gli scritti filosofi come Thomas Hobbes e Immanuel Kant, e giuristi come Emmeric de Vattel le cui idee avrebbero ispirato Franz Lieber nella stesura del Codice Lieber, commissionato da Abraham Lincoln durante la guerra civile americana e la quasi contemporanea prima convenzione di Ginevra del 1864 voluta da Henri Dunant.

Quello che nel mondo antico era l’ostaggio oggi è convenzionalmente riconosciuto come “prigioniero di guerra” i cui diritti vennero formalizzati per la prima volta proprio con la convenzione di Ginevra del 1864 e con il codice Lieber.

Bibliografia

Tito Livio, Ab Urbe condita libri.
M.Liverani,Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele.
E. Lo Cascio, Storia romana. Antologia delle fonti
G.Geraci,A.Marcone, Fonti per la stoira romana
C.Mossé, Dizionario della civiltà greca

L’anacronistico liberismo moderno attribuito al Manzoni

Leggere i promessi sposi, attribuendo al testo un interpretazione Liberista, è errato ed anacronistico e non riflette il reale problema cardine del romanzo

Leggere, o meglio, rileggere Manzoni in chiave keynesiana e prendere le sue critiche al modo in cui il governo della di Milano, nei promessi sposi, gestì la crisi del pane, frutto di una più profonda crisi agraria, come una critica all’intervento dello stato sul libero mercato, significa non aver capito nulla di Manzoni, del suo pensiero e della sua opera. Anche perché, la crisi che colpì Milano, non colpì altre città in cui vennero prese decisioni simili.

Il tema centrale nei promessi Sposi

L’intero romanzo di Manzoni ruota attorno ad un concetto chiave, uno, fisso, immobile e immutabile, che traspare da ogni parola, da ogni frase, da ogni evento e dinamica raccontata nel libro, ed è la critica alla società tradizionale, la critica alla società feudale, che, nel XIX secolo inoltrato, sopravviveva ancora in Italia, in modo innaturale.

Manzoni crede nei valori della destra storica, è un liberista classico che come John Loke crede nel rispetto dei diritti individuali, ed è fortemente convinto che questi diritti debbano essere garantiti dall’autorità pubblica, per Manzoni, lo stato deve intervenire in difesa e tutela di quei diritti considerati naturali e universali.

Manzoni ambienta il suo romanzo ben due secoli prima, nel pieno del XVII secolo, quando il mondo intero era ancora totalmente immerso nella società feudale, per mettere in evidenza quello stesso tema sollevato da Giuseppe Tommasi di Lampedusa nel Gattopardo e Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli, quest’ultimo più di un secolo e mezzo più tardi rispetto a Manzoni. Ed è il tema della staticità sociale dell’italia, di un italia immobile e immutabile in cui cambiano le elite, cambiano le teste coronate, cambiano gli ordinamenti e gli equilibri, ma in realtà non cambia mai nulla e i contadini e le masse popolari, che Manzoni nel suo romanzo riconosce già nel XVII secolo, vivono una condizione di classe subalterna i cui interessi sono marginali per la politica e la società del tempo, se bene rappresentino la maggioranza della popolazione.

Manzoni guarda a quegli anni in cui il mondo avrebbe conosciuto una delle prime grandi rivoluzioni borghesi della storia, la rivoluzione inglese, e lo fa da uomo del XIX secolo, Manzoni scrive agli inizi del XIX secolo, scrive dopo la rivoluzione francese, scrive dopo Napoleone e dopo la restaurazione, e racconta un mondo immediatamente precedente le prime istanze illuministe, le prime rivendicazioni di universaltià dei diritti, e nonostante siano passati due secoli abbondanti, nonostante le rivoluzioni che ci sono state in europa e fuori dall’europa, come la rivoluzione americana e quella francese, nonostante Napoleone, nulla sembra essere cambiato realmente, non in europa almeno.

Manzoni non è un promotore assoluto del libero mercato, non è un sostenitore del laissez fair e dello stato assente, Manzoni è un conservatore liberale e monarchico e non critica Milano che fissa il prezzo del pane, per l’intervento sul pane, perché, Manzoni non racconta il mercato globale negli anni duemila, e ragionare in termini di economia globale pensando al Manzoni, è folle e anacronistico.

Manzoni racconta un mondo chiuso e racconta la filiera del pane, in un area circoscritta, rappresentata dalle campagne attorno Milano, nel XVII secolo. Ed è una filiera estremamente povera, primitiva e limitata.

Manzoni racconta un mondo in cui il pane non lo comprano i contadini che vivono nelle campagne, loro il pane se lo fanno in casa, con la farina che hanno ottenuto macinando a mano dei cereali o che hanno barattato per dei cereali con il mugnaio.

Di certo non sono i nobili ed i proprietari terrieri ad acquistare il pane, il pane per loro viene prodotto nelle cucine dei palazzi, viene prodotto con il grano e la farina degli affitti, siamo nel XVII secolo, non ci sono agenzie di recupero crediti, siamo in un mondo in cui tasse e affitto della terra sono più o meno la stessa cosa e vengono riscosse porta a porta dall’esattore che bussa e chiede soldi, e se i soldi non ci sono, e nelle campagne i soldi non ci sono, allora l’esattore chiede grano e farina, chiede almeno una decima della produzione.

Di sicuro non sono i mugnai ad acquistare il pane, i mugnai non ne hanno bisogno, sono pochi e producono loro la farina per i forni, nella casa del mugnaio pane, salame e formaggio non manca mai.

Ma allora chi è che compra il pane nell’italia del XVII secolo?

Ad acquistare il pane, al tempo dei promessi sposi, così come al tempo di Manzoni, è la piccola e media borghesia, una cerchia sociale a cui lo stesso Manzoni appartiene, sono i mercanti, fabbri, artigiani, commercianti, locandieri, intellettuali, sono i servitori della nobili e dell’alta borghesia che lo acquistano per le proprie famiglie, sono le masse popolari che vivono nelle città e che, a differenza dei contadini nelle campagne, non hanno accesso diretto al cibo. Sono uomini e donne che per sopravvivere sono costretti ad acquistare del cibo, sono i figli della modernità inurbata che dipendono dal mercato, sono parte del mercato, sono la base del mercato e in quanto tali, per Manzoni, dovrebbero essere tutelati dalle entità statali, ma nel 1628, ciò non è possibile, ciò non è neanche pensabile, perché il padre di queste idee, John Loke, è nato nel 1632 e pensare il mondo che precede Loke, secondo i canoni dettati da Loke, rappresenta la perfetta definizione di anacronismo.

Nel mondo descritto dal Manzoni, e in parte anche nel mondo in cui vive il Manzoni, la filiera del pane, non fa il prezzo del pane, e credere che il prezzo del pane dipendesse dal costo della farina che a sua volta dipendesse dal costo di cereali, significa non comprendere la realtà storica del tempo e del mondo descritto da Manzoni, pensare ciò significa attribuire al contadino, l’ultimo anello della catena sociale nella società feudale, un potere enorme, il potere di decidere il prezzo del grano. Significa rileggere il passato in chiave moderna e sovrapporre le odierne meccaniche ad un mondo in cui queste meccaniche non esistevano.

Manzoni in parte da questo errore, lo fa volontariamente e per ragioni politiche, lo fa perché il mondo che racconta non è realmente il XVII secolo, ma p il XIX secolo travestito da XVII, di conseguenza le dinamiche sociali e tutti gli avvenimenti storici presenti nell’opera sono reinterpretati secondo canoni moderni, e se questo, da un punto di vista narrativo può essere interessante, da un punto di vista prettamente storico, è anacronistico, perché distorce il tempo e la storia.

I contadini nel XVII secolo non avevano potere decisionale sul prezzo dei cereali, sul prezzo del grano, ne il mugnaio aveva quel potere sul prezzo della farina. Lo stesso non lo si può dire totalmente nel XIX secolo, dove, i contadini non sono più lavoratori della terra e amministratori dei campi, ma sono semplici operai, soprattutto nelle campagne attorno Milano, e questo lo avrebbe rilevato circa mezzo secolo più tardi il conte Jacini, i contadini sono veri e propri operai della terra, che vengono stipendiati. Nella Milano del XVII secolo però, quando scoppia la rivolta del pane, il prezzo del grano, della farina, era determinato dal fornaio e solo dal fornaio.

Manzoni nei promessi sposi non parla e non cita la filiera, non perché è distratto o perché se n’è dimenticato, un particolare di questo tipo lo avrebbe inserito se fosse stato rilevante, ma non lo è, non nel XVII secolo almeno, Manzoni ha scelto di non inserire la filiera del pane nel libro perché sa perfettamente che le dinamiche economiche che regolano la filiera nel XVII secolo sono diverse dalle meccaniche del XIX secolo e sa anche che nel XVII è irrilevante nel determinare il prezzo finale del pane.

Non a caso, sempre nei Promessi Sposi, se da un lato le città soffrono la fame, le campagne risentono solo marginalmente della crisi. Nelle campagne il problema della peste è marginale e il problema del costo del pane non sussiste, e questo proprio perché nelle campagne i contadini il pane se lo fanno da soli, e i più poveri, si fanno da soli persino la farina, con delle piccole macine a mano che permettevano di macinare i cereali secchi e fare la farina, poca farina, facendo ruotare un disco di pietra in una scodella di pietra, o al più con dei rudimentali mortai in pietra, e strumenti analoghi erano presenti, fin dal primo medioevo, nelle case della maggior parte dei contadini d’europa.

Raccontare Manzoni come un liberista moderno, agli inizi del XIX secolo, è certamente anacronistico, ma non totalmente errato, in fondo Manzoni era un liberale, un diverso tipo di liberale, ma pur sempre un liberale che credeva negli ideali della società borghese, Manzoni crede negli ideali della destra storica, che però non è da confondere con il liberismo moderno, figlio delle teorie di Keynes. Usare le pagine dei promessi sposi per tracciare una qualche analogia con l’attualità, significa distorcere un opera, significa distorcere la realtà storica che racconta, già ampiamente distorta dall’autore per un preciso motivo storico oltre che politico, significa decontestualizzare quel racconto e ignorare tutto ciò che Manzoni ha scritto, detto e pensato, mancando totalmente di rispetto all’opera e all’autore.

Nei promessi sposi il prezzo del pane aumenta, aumenta tanto, e nell’aumentare rimane invenduto, questo è un qualcosa che nella realtà storica del XVII accade realmente, sia a Milano che altrove, ma ci sono anche altre zone d’italia e dell’europa in cui ciò non accade, come ad esempio Napoli, a Roma, a Firenze, ecc ecc.

Osservando e analizzando ciò che accade in quegli anni, possiamo notare che non c’è un modello unico, ci sono realtà in cui fissando il prezzo del pane, non scoppia una rivolta, e realtà in cui il prezzo del pane non aumenta, come ad esempio a Napoli.

A Napoli in particolare, e cito Napoli semplicemente perché è il caso che conosco meglio, la corona sosteneva una teoria economica particolare, a Napoli e nelle altre grandi città del “regno”, il grano non doveva mai mancare e in effetti, durante la peste del XVII secolo, il grano a Napoli e in altre città dell’italia meridionale, non venne a mancare e non ci furono grandi rivolte per il pane, il che può apparire surreale se si pensa che Napoli all’epoca era una delle più grandi megalopoli al mondo, la terza città più popolosa d’europa seconda solo a Londra e Parigi, città che di disordini ne avevano avuti diversi.

La crisi a Napoli e lo sa bene anche Manzoni, non si era verificata grazie all’intervento statale sul prezzo del grano e su quello del pane, fissato da molto prima che la crisi iniziasse, e lo stesso era successo anche altrove. Manzoni sa perfettamente, e dovremmo saperlo anche noi contemporanei, che non fu la decisione di fissare il prezzo del pane ad innescare la crisi del pane a Milano, quella decisione fu presa a crisi già iniziata e non fu sufficiente ad arginarla. fingere che la rivolta del pane sia in qualche modo connessa al blocco messo sul prezzo del pane, significa confondere causa ed effetto. Bloccare il prezzo del pane, ci dice Manzoni, non è stata la soluzione alla crisi, ma neanche il fattore scatenante.

Del resto, noi sappiamo che, durante la rivolta del pane, nel novembre del 1628, ciò che accadde fu che le masse popolari assaltarono i forni e i magazzini con la farina, e rubarono pane e farina. La presenza di enormi riserve di grano, pane e farina nei magazzini, di Milano come di Napoli, rendeva possibile e sostenibile la produzione, e a parità di crisi agraria di fondo, legata alla grande mortalità nelle città e nelle campagne, causata dalla peste, il pane continuava ad essere sfornato, ma, in città come Napoli la produzione non si arresta, il prezzo non lievita, e il pane viene venduto, a Milano invece, il pane viene prodotto nonostante la peste, ma il prezzo lievita e di conseguenza rimane in larga parte invenduto, cosa che normalmente farebbe crollare il prezzo del pane, ma ciò non avviene, il pane invenduto rimane nei forni per giorni, settimane, e questo alimenta l’insofferenza popolare che, in preda alla fame, insorse assaltando fornai e granai.

L’inchiesta Jacini

Poco dopo l’ultimata unificazione italiana, negli anni settanta e i primi anni ottanta del XIX secolo, il conte Stefano Francesco Jacini, fu messo a capo di una commissione agraria, con il compito di studiare e analizzare al situazione delle campagne italiane in quel dato momento storico, la commissione realizzò un documento, noto oggi come Inchiesta Jacini (oggi liberamente consultabile sul portale dell’archivio dei beni culturali della direzione generale dei beni culturali), in cui venne presentata una mappa della struttura agraria italica, viene definito il profilo delle campagne, delle città, della distribuzione dei contadini, inoltre raccoglie dati sulle evoluzioni e trasformazioni delle campagne italiane nell’ultimo secolo, e nel farlo scopre che, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, diverse zone d’italia avevano adottato soluzioni differenti.

Napoli aveva fatto costruire grandi granai e la corona borbonica, dal 1772 circa, aveva quasi totalmente monopolizzato l’acquisto del grano e dei cereali dalle campagne attorno alle città, che veniva venduto ad un prezzo basso e costante ai forni cittadini, oltre che distribuito attraverso razioni, alle fasce più povere delle città. Contemporaneamente, le campagne non avevano subito molte variazioni e il grande latifondo continuava ad essere, come in passato, il modello su cui si fondavano le campagne, controllate da pochi nobili, e lavorate da masse di contadini poveri, ma raramente affamati.

Milano e la lombardia invece, avevano subito, nell’ultimo secolo un processo di lottizzazione, che aveva portato alla nascita di una piccola borghesia contadina, in cui i contadini non erano più affittuari, ma proprietari, questa autonomia li aveva in parte arricchiti ma allo stesso tempo, li aveva allontanati dalla terra.

Jacini, nella sua inchiesta rileva che la maggior parte dei proprietari terrieri dell’area intorno Milano, non viveva in campagna ma in città, e il lavoro della terra era stato affidato a contadini stipendiati, questa trasformazione caratterizza in modo particolare la prima metà del XIX secolo, e disegna una cartina delle campagne milanesi profondamente diversa rispetto a due secoli prima, ciò nonostante, le dinamiche sociali sono invariate. La piccola borghesia contadina, avrebbero osservato alcuni storici, si rapporta alle masse contadine, secondo gli antichi schemi, della società feudale, con la differenza, rispetto al passato, che le paratie che separavano le classi sociali erano ora, esclusivamente economiche, e non avevano più alcuna connotazione dinastica.

Conclusione

Leggere oggi, la rivolta del pane di milano del 1628, raccontata da Manzoni nel 1827, in chiave liberista moderna, è errato e anacronistico, perché si commette l’errore di reinterpretare il pensiero di un uomo del XIX secolo che a sua volta reinterpreta fatti del XVII secolo. Inoltre, questa reinterpretazione liberista del Manzoni appare ancora più fallace se la si guarda al netto di ciò che è emerso dall’inchiesta Jacini sul finire del XIX secolo.

Il mondo che descrive Jacini è il mondo in cui vive Manzoni, e Manzoni mentre il mondo che descrive Manzoni, è il mondo antico, un mondo che sopravvive parzialmente in Italia settentrionale, e in maniera più radicata nell’Italia meridionale, ma è un mondo al tramonto e prossimo al tracollo, Manzoni sa o almeno ipotizza che quel mondo sta per finire, Manzoni conosce il malcontento popolare, sa bene che l’europa è in subbuglio, e se bene non sappia esattamente cosa sta per accadere, percepisce la tensione che allo scoppio di nuove rivoluzioni di lì a poco tempo, Manzoni è immerso nella storia e frequenta precisi ambienti in cui circolano idee liberali.

Alessandro Manzoni è un uomo dell’ottocento, che reinterpreta il seicento rivestendolo delle dinamiche sociali dell’ottocento, e fin qui, è tutto ok, Manzoni lo perdoniamo perché dà lui stesso una motivazione ben precisa alla sua scelta narrativa.

Il racconto di Manzoni non anacronistico, la sua è narrativa che fa critica sociale e politica utilizzando un escamotage narrativo.

Quello che invece non va bene, e ricade nel problema dell’anacronismo è prendere la narrazione ottocentesca del Manzoni, fingere che quella narrazione rielaborata sia una realtà storica e porla al confronto con il XXI secolo.

Se vogliamo parlare della rivolta del pane di Milano del 1628, dobbiamo valutare i fatti per ciò che sono, e non in base alla narrazione revisionata dal Manzoni.

Se invece vogliamo parlare della questione agraria nel XIX secolo, vi consiglio il libro di Corrado Barberis, Le campagne italiane dall’ottocento ad oggi.

Bibliografia

A.Manzoni, I promessi sposi.
C.Barberis, Le campagne italiane dall’ottocento ad oggi.
C.Barberis, Le campagne italiane da Roma antica al settecento.

Il Fascismo Ungherese di Miklós Horthy

l’Ungheria di Miklos Horthy fu un regime autoritario, conservatore, di estrema destra, fortemente legato al fascismo prima e al nazional socialismo tedesco poi.

L'Ungheria di Miklós Horthy fu un regime autoritario, conservatore, di estrema destra, fortemente militarista e legato al fascismo prima e al nazional socialismo tedesco poi.

Correva l’anno 1920 quando l’ammiraglio Miklós Horthy, già ministro della guerra nel 1919, venne proclamato capo del Governo del regno di Ungheria.

La figura di Miklós Horthy è estremamente importante per la storia politica dell’europa degli anni venti e trenta, perché fu, in un certo senso, l’anticipatore di quei movimenti nazionalisti anticomunisti che, negli anni seguenti, avrebbero coinvolto Italia, Germania, Spagna e tutto il resto d’europa, attraverso forme e nomi di partito diversi nella forma, ma tutti strutturati in maniera paramilitare, con una rigida gerarchia interna e caratterizzati da sentimenti di odio verso comunisti, ebrei e numerose altre minoranze etniche e culturali.

Horthy è il grande anticipatore di Mussolini, Oswald Mosley ed Hitler, ne condivide le idee e l’ideologia, se pur con qualche differenza.

La Carriera di Miklós Horthy

La carriera di Miklós Horthy è iniziata tra i ranghi dell’esercito ungherese, dove fece rapidamente carriera, grazie anche alle sue origini nobiliari, e negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, tra il 1909 ed il 1914, si ritrovò ad essere uno degli aiutanti e più stretti collaboratori dell’imperatore Francesco Giuseppe, per poi servire durante la guerra fino al raggiungimento del grado di contrammiraglio e comandante supremo della flotta imperiale della regia marina austro-ungarica.

Finita la guerra, Horthy ricopriva una delle più alte cariche militari dell’impero Austro-Ungarico, impero che tuttavia usciva sconfitto dalla guerra e si preparava alla propria disgregazione definitiva, che sarebbe avvenuta tramite una serie di scontri interni, e in quel contesto di crisi, la guida del governo ungherese venne affidata al comunista ungherese, Ábel Kohn, meglio noto come Béla Kun.

Il governo comunista di Béla Kun ebbe vita breve, sopravvivendo dal 21 marzo 1919 al 3 aprile dello stesso anno, e vi fece seguito un governo anticomunista guidato da Károly Huszár, appoggiato da Miklós Horthy che, tra il marzo 1919 e l’aprile del 1920, ricoprì la carica di ministro della guerra.

Lo scontro tra Comunisti e Anti-Comunisti in Ungheria, non fu solo politico, ci furono diversi scontri armati in tutta l’Ungheria, scontri che videro contrapposti i monarchici anticomunisti ai comunisti di Kun.

Una delle prime disposizioni del Governo di Huszár fu quella di ripristinare la monarchia ungherese, e preparare un ritorno degli Asburgo, tuttavia, il nuovo ordine europeo venutosi a formare dopo la fine della guerra, rendeva particolarmente ostico questo progetto, e alla fine, in seguito all’ingresso trionfale e conseguente occupazione militare di Budapest da parte di Horty e le sue truppe, l’ammiraglio assunse l’incarico di capo provvisorio dello stato, con il titolo di reggente del regno d’Ungheria, in ungherese kormányzó, carica che ricoprì fino alla fine della seconda guerra mondiale.

La Politica di Horthy

La politica di Miklós Horthy era inquadrabile nelle idee della destra sovranista e conservatrice, Horthy rappresentava gli interessi dell’aristocrazia e per lui e la propria cerchia sociale di appartenenza, il comunismo era una minaccia reale. Béla Kun nel proprio programma puntava a sottrarre le terre ai nobili per darle al popolo ungherese, Horthy era membro di una di quelle famiglie nobili a cui Kun voleva togliere le terre.

Una delle prime decisioni politiche che l’ammiraglio ungherese dovette affrontare in qualità di capo del governo, fu quella dei trattati di pace ancora in corso, e il ruolo giocato dall’Ungheria durante la prima guerra mondiale, non dava molto margine di manovra all’ammiraglio, fu quindi “costretto” ad accettare le dure condizioni del trattato di pace del Trianon, il trattato con cui vennero stabilite, dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, le sorti del nuovo Regno d’Ungheria, in seguito alla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico. Presero parte alla conferenza Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Italia, oltre ai loro alleati, Romania, Regno dei Serbi, Croati e Sloven e il trattato venne firmato il 4 giugno 1920.

Le dure condizioni del trattato di Trianon, come sarebbe accaduto anche in Germania, alimentarono una forte insofferenza nei confronti dei vincitori della guerra e, unito ad un crescente sentimento anticomunista e antisemita, portarono alla nascita di un regime, estremamente autoritario, anche se non assunse mai i tratti di una dittatura o di un regime totalitario come invece sarebbe accaduto all’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler, in cui il parlamento venne completamente esautorato.

Il regime di Horthy

Durante gli anni del regime di Horthy, che coincidono con gli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale, l’Ungheria rimase, se pur in modo parziale, una monarchia parlamentare, guidata da un reggente.

Il parlamento Ungherese come anticipavo non venne completamente esautorato, ne venne sostituito da altri organi e istituzioni, tuttavia, l’autorità del reggente fu particolarmente incisiva e il parlamento, il più delle volte, si ritrovò a seguire le direttive di Horthy.

Nel regime di Horthy l’ordine sociale ungherese doveva rimanere inalterato, e a tal proposito l’ammiraglio, da militare, aristocratico e conservatore qual’era, si impegnò profondamente affinché quell’ordine precostituito non venisse alterato, in particolare dalla minaccia della “barbarie sovietica” che aleggiava alle porte dell’Ungheria.

L’Ungheria di Horthy fu uno dei primi paesi europei a varare delle leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei e con largo anticipo rispetto alle leggi di Norimberga e le leggi razziali italiane, già nel 1921 Horthy ordinò che venisse limitata la percentuale di studenti di varie minoranze presenti in Ungheria.

La legge, firmata dal primo ministro ungherese del 1921 Pál Teleki, fissava al 6% il numero massimo di studenti di origine ebraica che potevano iscriversi alle università ungheresi. Altre leggi discriminatorie di questo tipo vennero varate negli anni seguenti, il cui corpo legislativo, per molti, preparò il terreno per le successive leggi di Norimberga del regime nazista, proclamate il 15 settembre 1935. In Ungheria, comunque, il culmine delle leggi razziali e antisemite arrivò nel 1938 con una serie di leggi proclamate dal’allora primo ministro fino al culmine di una vera e propria legislazione antiebraica introdotta nel 1938 dal primo ministro Kálmán Darányi, con cui il paese si preparò alle deportazioni naziste.

Il proto fascismo di Horthy

Il regime autoritario di Horthy si trova in un limbo ai limiti del fascismo, ideologia con la quale Horthy ebbe un forte legame, consolidato soprattutto dopo la firma dei protocolli di Roma del 1934, con cui l’Ungheria si legava all’influenza economica e politica dell’Italia. Tuttavia, nonostante questo legame Horthy non arrivò mai ad abbracciare totalmente il Fascismo e, in seguito alla morte di Engelbert Dollfuss, leader del fronte Patriottico, un partito austriaco di ispirazione fascista, Horthy, come molti altri proto fascisti in europa, si avvicinò maggiormente alle posizioni più radicali del nazional socialismo tedesco.

L’ambizione di Horthy

Come Hitler e Mussolini, anche Horthy ambiva al potere personale e puntava ad assumere il potere assoluto sullo stato che governava, questa ricerca del potere ebbe evoluzioni diverse in Ungheria, Italia e Germania, che si legano soprattutto allo status politico delle tre nazioni.

Ungheria ed Italia erano monarchie, anche se, l’Ungheria era de facto una monarchia senza re, mentre l’Italia, anche se non particolarmente presente nella scena politica, aveva comunque un re. Diversamente la Germania era una repubblica.

Secondo Max Weber, la legittimazione del potere può avvenire in tre diversi modi, ovvero in modo tradizionale, carismatico e legale/giuridico e, sempre secondo Weber, il potere politico (assoluto) può manifestarsi solo in presenza di questi tre elementi.

Noi oggi sappiamo che tra Hitler, Mussolini ed Horthy, l’unico a conseguire il potere assoluto fu Hitler, questo perché Hitler, grazie al proprio carisma e all’uso della forza, riuscì a conseguire una legittimazione legale e carismatica del proprio potere, inoltre, l’organizzazione paramilitare della Germania, collocava Hitler al vertice di una sorta di gerarchia tradizionale, simil feudale, garantendo quindi, anche un potere tradizionale in uno stato in cui non erano presenti forme di potere tradizionali.

Nell’Ungheria di Horthy, se bene l’ammiraglio, godesse di potere legale/giuridico, grazie al proprio, conseguito grazie a carisma e forza, proprio come Hitler, l’Ungheria era una monarchia, senza re, ma comunque una monarchia, e di conseguenza, per ascendere al rango supremo, Horthy aveva necessità di essere proclamato regnante e non semplicemente reggente della corona.

A tale proposito, durante il proprio governo Horthy estese progressivamente i propri poteri, cannibalizzando parti del parlamento e accentrando nelle proprie mani diverse cariche, e riuscì tantissimo ad avvicinarsi tantissimo al proprio obiettivo di diventare “re di Ungheria”, al punto che, nel 1937, alle soglie della seconda guerra mondiale, ad Horthy mancava soltanto il riconoscimento della chiesa cattolica per l’investitura ufficiale e l’ascesa al trono, ascesa che probabilmente non avvenne proprio a causa della guerra

Cesaricidio, l’assassinio di Cesare alle Idi di Marzo

Il 15 Marzo del 44 a.c. nel giorno delle Idi di Marzo, alcuni cospiratori romani, assassinarono Giulio Cesare, nel tentativo di ripristinare la Repubblica a Roma. Tuttavia, l’episodio, noto come Cesaricidio, innescò una serie di nuove guerre e conflitti interni che portarono all’ascesa di Ottaviano Augusto, il quale cancellò per sempre la repubblica, dando vita all’Impero Romano

Il 15 Marzo del 44 a.c. nel giorno delle Idi di Marzo, alcuni cospiratori romani, assassinarono Giulio Cesare, nel tentativo di ripristinare la Repubblica a Roma. Tuttavia, l’episodio, noto come Cesaricidio, innescò una serie di nuove guerre e conflitti interni che portarono all’ascesa di Ottaviano Augusto, il quale cancellò per sempre la repubblica, dando vita all’Impero Romano

Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: "Anche tu, figlio?". Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.

Con queste parole Svetonio descrive la morte di Giulio Cesare, avvenuta in seguito ad una congiura alle Idi di Marzo.

Le Idi di Marzo

Secondo il calendario Giuliano, introdotto appena un anno prima dell’omicidio di Cesare, le “idi” corrispondevano, al tredicesimo o quindicesimo giorno del mese, e di conseguenza le idi di Marzo corrispondevano al 15 Marzo, data che tutt’ora utilizziamo per ricordare l’anniversario del cesaricidio, tuttavia, il 15 Marzo nel calendario Giuliano non corrisponde al 15 Marzo del calendario Gregoriano, vi è infatti uno sfasamento tra i due calendari di circa 12/13 giorni, e il giorno “solare” che corrisponde al 15 marzo nel calendario giuliano, cade tra il nostro 26 e il 28 Marzo, tuttavia, per convenzione, avendo una data storica ben precisa, “le idi di marzo” si tende a far corrispondere quella data con il nostro 15 marzo.

Il Cesaricidio

Col senno del poi, un uomo con l’acume e la lungimiranza di Cesare, forse avrebbe potuto prevedere quegli avvenimenti.

Vi era a Roma, soprattutto nel senato, una forte insoddisfazione e ampi dubbi riguardanti la figura di Cesare. Cesare era asceso ai più alti ranghi della repubblica, grazie ad oculate alleanze politiche, ma anche grazie alla fama di grande generale e lo status di “homo novus”.

Cesare non discendeva da antiche famiglie romane e non era membro dell’elite romana per diritto di nascita.
Giulio Cesare era in un certo senso un uomo comune prestato alla politica romana, e la sua fulminea carriera, iniziò ben presto a preoccupare, non solo i suoi rivali e oppositori, ma anche i suoi alleati.

La dittatura

Ormai al culmine della propria carriera politica, alla fine della prima campagna di Spagna, nel 49 a.c. ricevette la carica di dictator.

La dittatura in età romana era una magistratura straordinaria, dalla durata massima di sei mesi, e sostitutiva dei due consolati. Il dittatore romano, deteneva infatti il summum imperium, ed era accompagnato nel proprio esercizio da 24 littori. Tutte le altre magistrature ordinarie erano subordinate alla dittatura.

Nonostante il limite dei sei mesi, la dittatura di Cesare fu iterata più volte, fino al 47 a.c. quando la nomina fu estesa a dittatura decennale. Quella di cesare non fu la prima dittatura iterata, già con Silla, autore delle famose liste di proscrizione, Roma aveva assistito ad un iterarsi della dittatura.

Alla fine di gennaio del 44 a.c. il dittatore romano, fece posizionare presso i Rostri del foro romano, alcune statue raffiguranti Cesare, adornate con un Diadema.

Nella simbologia ellenistica, il diadema era un simbolo di potere e regalità, e la presenza di statue di Cesare adornate con diademi erano un chiaro messaggio di quali fossero le reali intenzioni di Cesare.

Questo episodio spiacevole, vide la contrarietà dei due Tribuni della plebe Caio Epido Marullo e Lucio Cesezio Flavo, che, incuranti della volontà del dittatore, fecero rimuovere le statue.

Appena pochi giorni dopo, approssimativamente il 26 gennaio del 44 a.c., secondo Plutarco, cesare venne salutato da alcuni cittadini romani, con l’appellativo di “Rex”. Ancora una volta Cesare si scontrò con l’opposizione dei due tribuni, e facendo ricorso ai propri poteri derivanti dal summum imperium, fece destituire i due tribuni.

I Lupercalia

Il 15 febbraio dello stesso anno, durante la festa dei Lupercalia, Cesare assistette alle celebrazioni, vestito di porpora e incoronato d’alloro, seduto su di un seggio dorato.

Terminato il rituale della corsa dei Luperci, una corsa in cui si correva indossando pelli di capra attorno al colle Palatino, uno dei Luperci, si avvicinò a Cesare per offrirgli in dono un diadema, che il dittatore rifiutò.

Come abbiamo già detto, il diadema, nella simbologia ellenistica, era un segno di regalità. Per la maggior parte delle fonti classiche concordano nell’asserire che l’iniziativa di offrire il diadema a Cesare, fu presa dal suo delfino Marco Antonio. Altre fonti tuttavia, sostengono che l’iniziativa partì da un tale Licino.

Le due narrazioni avvengono in ambienti politici differenti, e si prestano ad interpretazioni differenti.

Per essere più precisi, secondo la narrazione di Cicerone, dichiarato oppositore di cesare, l'incoronazione fu voluta dallo stesso Cesare, e voleva essere un tentativo di legittimazione simbolica del suo potere.
Diversamente, secondo la narrazione di Nicola di Damasco, la cui narrazione dichiaratamente più "vicina" a Cesare, e soprattutto Antonio cui era molto legato, l'incoronazione fu in realtà una cospirazione organizzata dai futuri cesaricidi per mettere in cattiva luce Cesare.

Non sappiamo quale delle versioni sia quella autentica. Sappiamo però che presumibilmente Cicerone fu testimone oculare della vicenda. O almeno, questo è quello che dice Cicerone.

Nella narrazione di Cicerone, Marco Antonio, al termine della corsa, tenne un breve discorso, cui fece seguito l’offerta del diadema a Cesare. Questo episodio, racconta cicerone, lasciò costernato Lepido, che in quel momento copriva la carica di magister equitum, carica che gli era stata conferita da Cesare in persona. Lo stesso Cicerone tuttavia osserva che Cesare rifiutò il dono.

Per Cicerone, Cesare rifiutò il diadema perché resosi conto del disappunto del popolo romano. Per Nicola di Damasco invece, Cesare rifiutò il dono perché consapevole che questi fosse parte di una cospirazione dei suoi oppositori.

L’assassinio di cesare nel film Cleopatra del 1963

Le idi di Marzo

Circa un mese più tardi, intorno alla metà del mese di Marzo, nel giorno dedicato alla celebrazione di Marte, si tenne una seduta in senato.

Tre giorni dopo, il 18 Marzo, Cesare sarebbe partito alla volta dell’oriente, per combattere Geti e Parti. In quegli stessi giorni, stava circolando a Roma, una profezia dei libri sibillini, in cui si affermava che i Parti sarebbero stati sconfitti da un Re. Ma roma, non aveva un re.

Il giorno delle idi di Marte, appare, col senno del poi, il momento più propizio per assassinare cesare. Se infatti cesare fosse partito, e avesse sconfitto i Parti, l’antica profezia Sibillina, avrebbe reso Cesare il nuovo Re di Roma. Di conseguenza, è molto probabile che i cospiratori abbiano pensato di eliminare Cesare prima della partenza.

Non sappiamo ovviamente quali fossero le reali intenzioni dei Cesaricidi, quale fosse il loro piano, sappiamo però, che terminata la seduta in senato, si compì la congiura a noi nota come Cesaricidio.

Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta.
Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.
Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto.
I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido

Svetonio, Le vite dei dodici Cesari. Vita di Giulio Cesare, 82

Il pene di Napoleone era piccolo?

Cerchiamo di capire quanto era grande il pene di napoleone

Molti sostengono che, la smisurata ambizione di Napoleone, fosse un tentativo di compensare alle minute dimensioni del suo pene. Di interpretazioni di questo tipo ne abbiamo tantissime, e in tempi recenti, quasi ogni personaggio storico mai esistito, è stato oggetto di una reinterpretazione e analisi freudiana, ma, nel caso di napoleone, è stato possibile “verificare empiricamente” questa teoria, perché in effetti, ci è stato possibile studiare, analizzare e misurare, il pene di napoleone.

Quello che vedere in foto è il vero pene di Napoleone, e se vi state chiedendo perché si trova in una scatola e non è più attaccato al suo corpo la risposta è presto detta.

Durante l’esilio sull’isola di Sant’Elena, Napoleone si ritrovò circondato da persone, diciamo di corrente politica diversa dalla sua, a parte Napoleone sembra che non ci fosse un solo bonapartista sull’isola. comunque, napoleone era circondato da persone che non lo amavano e di conseguenza si comportò, passatemi il termine, da vero stronzo, soprattutto con il medico che lo assisteva.

Secondo la leggenda, durante i suoi ultimi giorni di vita, sembra che Napoleone fu particolarmente insopportabile e quando il medico dell’isola fu chiamato per accertare l’avvenuto decesso dell’imperatore (una volta incoronati si è imperatori per tutta la vita U.U).

Quando fu lì, dopo aver stabilito che napoleone era effettivamente morto, prese un coltello e lo evirò, prima che il corpo fosse spedito a Parigi per la sepoltura ed il prezioso trofeo di pene e i testicoli fu conservato in un contenitore di vetro (tipo salsicciotto viennese).

Secondo un altra versione, il pene di Napoleone fu tagliato non sull’isola di Sant’Elena ma durante il viaggio della salma verso Parigi, ad evirare il cadavere si dice sia stato il clerico Vignali, che non aveva mai perdonato al generale alcuni riferimenti sulle sue presunte defaillance sessuali.

In ogni caso, una volta giunto a Parigi per la sepoltura, nessuno ha controllato se nella bara ci fossero tutti i pezzi del defunto imperatore.

Inutile dire che la cosa non mi sorprende, non vedo per quale motivo qualcuno avrebbe dovuto slacciare i pantaloni al cadavere di Napoleone per controllare se aveva ancora il pene

Nel 1999 il l’imperiale fallo di Napoleone è stato battuto all’asta e venduto a John F. Lattime, docente alla Columbia University, per circa 4000 dollari.

Lattime non ha acquistato l’imperiale fallica reliquia per motivi collezionistici, il suo interesse era infatti prevalentemente scientifico, e in seguito all’acquisto ha compiuto diversi test, ma soprattutto, ha fatto diverse misurazioni, che ci permettono di rispondere alla domanda, Napoleone aveva il pene Piccolo?

Secondo le misurazioni effettuate da Lattime, il pene di Napoleone misurava circa 4,5 cm a riposo e circa 6-7 cm in erezione. Lascio a voi le dovute deduzioni.

Molti studi sono stati fatti sul pene di napoleone, e non solo sul vero, ma anche su molti dipinti, alcuni studiosi infatti, hanno avuto modo di constatare che, in numerosi ritratti, le pieghe dei pantaloni, mettevano in evidenza l’organo sessuale dell’imperatore francese, particolare che sembra rafforzare l’idea che napoleone fosse realmente “ossessionato” dalle dimensioni del proprio pene.

Baldovino IV di Gerusalemme, il Re Lebbroso

Baldovino IV di Gerusalemme, soprannominato “Il Re Lebbroso”, salì al trono nel 1174 malgrado la sua malattia. Nato nel 1161, la sua vita fu segnata da lotte politiche per la successione e conflitti con il Saladino. Baldovino IV regnò con l’ambizione di garantire il futuro del regno, affrontando sfide significative.

Nelle storie di fantasia gli eroi ed i principi sono tutti giovani, eroici e belli, sempre in buona salute, anche durante una pestilenza, ma nella realtà, le cose non sempre sono così.

Ci sono stati re, principi ed eroi di guerra che forse erano giovani, ma non erano belli o non erano in buona salute. Questo è il caso di Baldovino IV di Gerusalemme, passato alla storia come Il Re Lebbroso.

Sul perché del suo soprannome non c’è molto da dire, Baldovino era un re, ed era malato di lebbra. Su quella che invece è la sua storia, tanto è stato detto, tanto è stato scritto, e tanto ancora c’è da scoprire.

La famiglia di Baldovino VI

Baldovino IV d’Angiò, nasce a Gerusalemme nel 1161, dall’unione di Amalrico I d’Angiò, Re di Gerusalemme, e Agnese di Courtenay, della contea di Edessa, il più settentrionale degli stati crociati del XII secolo.

Baldovino appartiene a quella elite europea impegnata nella ricerca di nuove terre e la creazione di nuovi regni oltre i confini dell’europa., perché la terra in europa non bastava a soddisfare i bisogni della nobiltà europea. Questa ricerca di nuove terre si sarebbe tradotta, in quel momento, nelle varie guerre crociate, per la conquista di Gerusalemme, e l’istituzione di porti sicuri che semplificassero il commercio con l’oriente lungo la via della seta.

Baldovino d’Angiò, trascorre i propri anni giovanili a palazzo, presso la corte paterna di Gerusalemme, ed ebbe pochi contatti con la madre, contessa di Giaffa e Ascalona, a causa dell’annullamento del matrimonio, avvenuto nel 1164, quando il principe aveva appena 3 anni, appena un anno dopo l’ascesa di Almarico al trono di Gerusalemme, avvenuta nel 1163 alla morte di suo fratello Baldovino III, morto senza lasciare eredi.

L’annullamento del matrimonio del novello Re di Gerusalemme, fu voluto dalla chiesa e avallato da numerosi nobili ostili alla casa di Courtenay, il cui intento, si suppone potesse essere quello di insediarsi sul trono di Gerusalemme utilizzando come arma la consanguineità di Amalrico e Agnese. L’annullamento del matrimoniale avrebbe reso illegittimo il giovane Baldovino, che quindi sarebbe stato escluso dalla catena di successione, facendo così passare di mano la corona.
Amalrico tuttavia, grazie all’influenza della propria famiglia in Europa, riuscì ad ottenere il riconoscimento di legittimità dei suoi figli Sibilla e Baldovino.

L’educazione dell’erede al trono di Gerusalemme venne affidata a Guglielmo di Tiro, arcidiacono della città dal 167 per richiesta di Amalrico e successivamente Cancelliere del Regno di Gerusalemme dal 1174, anno della morte di Amalrico e ascesa al trono di Baldovino.

Secondo i diari dell’arcivescovo, Guglielmo di Tiro fu il primo, durante l’educazione di Baldovino, a notare che il giovane non sentiva dolore quando gli si pizzicava il braccio destro, che in seguito si sarebbe dimostrato un sintomo della malattia di cui il giovane soffriva, ma inizialmente venne scambiata per un elevata capacità di resistere al dolore. Fatti i dovuti esami e test, si scoprì che braccio destro e mano del principe, erano parzialmente paralizzati ed in seguito venne diagnosticata la lebbra.

Baldovino IV e la Lebbra

Nel terzo quarto del XII secolo la lebbra subì un forte decorso e la malattia si diffuse rapidamente nella sua forma più grave, quella di lebbra lepromatosa.

Molti oppositori della famiglia d’Angiò, interpretarono la malattia come una piaga divina, segno della volontà di dio che Baldovino, figlio di genitori consanguinei, non ascendesse al regno “sacro” di Gerusalemme, tuttavia, gli alleati della famiglia d’Angiò sulla terra, erano abbastanza influenti e potenti, da non mettere a rischio la successione di Baldovino, anche se il suo regno e il suo governo, furono messi molto sotto pressione a causa delle sue condizioni di salute e della guerra.

Nel 1174 Amalrico di Gerusalemme morì, e il 15 luglio, il tredicenne Baldovino IV venne incoronato re di Gerusalemme, sotto la reggenza di Raimondo III di Tripoli, che, nel 1175 riuscì a stipulare un trattato di pace con il sultano Ṣalāḥ al-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb., noto in occidente come il Saladino, e l’anno seguente, nel 1176, Raimondo, si ritirò dalla reggenza, non prima però, di aver avviato dei trattati per organizzare il matrimonio tra la principessa Sibilla, sorella di Baldovino, e Guglielmo di Monferrato, noto anche come Guglielmo Spadalunga.

Ritratto del Saladino, nemico e rivale di Baldovino IV

Guglielmo, era, in quel momento, uno degli uomini più ambiti d’europa, in quanto figlio, se pur quintogenito, di uno dei signori feudali più potenti d’Italia ed era cugino sia dell’imperatore Federico Barbarossa che del re di Francia Luigi VII.

L’unione di Guglielmo con Sibilla, avrebbe garantito alla casa d’Angiò un erede di altissimo lignaggio, che non avrebbe avuto troppe difficoltà a regnare su Gerusalemme alla morte di Baldovino, del resto, le condizioni di salute di Baldovino non erano delle migliori, e chiunque a corte, nelle corti vicine e in europa, sospettava che il re lebbroso avrebbe potuto regnare a lungo, ragion per cui, ci fu una lunga lotta politica per assicurarsi i favori dei potenziali eredi al trono, in particolare di Sibilla e della sorellastra Isabella d’Angiò, nata nel 1172 dal secondo matrimonio di Amalrico I con Maria Comnena, figlia di Manuele I, imperatore bizantino.

La successione di Baldovino era al centro di un cero e proprio scontro politico al vertice, che coinvolgeva indirettamente l’Imperatore del Sacro Romano Impero Germanico, il regno di Francia, il regno di Inghilterra e l’impero bizantino, il tutto sotto la minaccia costante dell’impero islamico.

Quando Baldovino raggiunse la maggiore età (che all’epoca erano i 14 anni) il giovane re, ancora forte e apparentemente in salute, poiché non ancora logorato dalla malattia, si impegnò in una prima azione militare, compiendo alcune incursioni nel territorio di Damasco, in quel momento parte del regno del Saladino, con cui nel 1175 Gerusalemme aveva stipulato un trattato di pace. Forte delle prime vittorie in Siria, e sostenuto dall’impero Bizantino, Baldovino iniziò a progettare un attacco all’Egitto, in quel momento regione centrale del regno del Saldino.

Sconfiggere il Saladino e prendere il controllo dell’Egitto, aveva un valore strategico, oltre che politico. Prendendo l’Egitto, l’intere costa nord Africana poteva essere conquistata dalle potenze europee, e quindi assicurare all’Europa, il pieno controllo delle rotte commerciali nel mediterraneo.

Per assicurare al regno di Gerusalemme il supporto Bizantino, Baldovino inviò a Costantinopoli, Rinaldo di Chatillon, già principe di Antiochia, cugino di suo padre Amalrico. La scelta di Rinaldo non fu dettata dalla casualità. Tra il 1160 Rinaldo era stato fatto prigioniero durante uno scontro contro alcuni contadini siriani e armeni nei pressi di Marash, e la sua prigionia, durata 16 anni, era terminata nel 1176, quando, l’imperatore bizantino Manuele aveva riscattato la sua libertà, al costo di 120.000 denari d’oro.

Matrimonio di Sibilla e la Questione della Successione

Nel 1177 Rinaldo tornò a Gerusalemme, forte di un accordo con l’impero Bizantino, che garantiva al regno di Gerusalemme il supporto navale bizantino durante l’attacco all’Egitto, e per questo, Baldovino gli offrì in sposa Stefania di Milly erede dei feudi di Kerak e dell’Oltregiordano, grazie ai quali Rinaldo aveva accesso al Mar Rosso. Questo matrimonio aveva ragioni strategiche significative nell’ottica di un imminente guerra all’Egitto e, già nel novembre del 1177, fu affidato, proprio a Rinaldo, il comando di un esercito che, partendo da Gerusalemme, si scontrò contro il Saladino, nella battaglia di Montgisard avvenuta il 25 novembre.

Negli anni successivi Gerusalemme fu perennemente in guerra e Baldovino, non mancò ai suoi doveri di regnante, combattendo da crociato, insieme ai propri soldati. Nel 1179 subì alcune sconfitte e rischiò di essere ucciso per mano di un nipote del Saladino.

Mentre gli eserciti crociati di Gerusalemme combattevano gli eserciti del Saladino, e la malattia iniziava a mostrare i primi segni e la successione di Baldovino diventava sempre più complicata a causa di nuovi “pretendenti” che iniziavano a rivendicare i propri diritti di successione.

Nell’agosto del 1777 Filippo di Fiandra, cugino di Baldovino, giunse a Gerusalemme come crociato e rivendicò immediatamente la propria parentela con il sovrano e in qualità di parente più prossimo, poiché figlio di Folco d’Angiò, fratello di Amalrico, ciò lo rendeva cugino di primo grado del Re di Gerusalemme, mentre, l’erede designato era soltanto un cugino di secondo grado.

Nel 1180 Sibilla d’Angiò, sorella di Baldovino e vedova di Guglielmo Spadalunga, si risposò con Guido di Lusignano. Questo secondo matrimonio di Sibilla è oggetto ancora oggi di molteplici discussioni storiografiche, ad ogni modo, il secondo marito di Sibilla aveva un pedigree di alto lignaggio, al pari del primo marito, in quanto Guido era legato sia a Filippo II che ad Enrico II, rispettivamente re di Francia e di Inghilterra.

Gli anni della reggenza di Gerusalemme

Nel 1182 Baldovino nominò suo cognato, Guido di Lusognano, reggente del regno ma nel 1183, in seguito ad alcune tensioni con Guido, che nel frattempo si era rivelato fin troppo ambizioso e disobbediente, per i gusti di Baldovino, il sovrano di Gerusalemme cercò, senza riuscirci, di far annullare il matrimonio tra sua sorella, in quel momento prima in linea di successione per il trono di Gerusalemme e Guido.

Secondo i cronisti contemporanei, Baldovino era preoccupato che dopo la sua morte, Guido avrebbe potuto far assassinare Sibilla e Baldovino V di Monferrato,ottenendo così il trono di Gerusalemme per se e la propria discendenza, decise così, insieme all’Alta Corte di Gerusalemme, di modificare la linea di successione, ponendo così Baldovino V come erede al trono di Gerusalemme. Tra il 1183 ed il 1185 venne istituito un periodo di co-regno, in cui Baldovino IV e Baldovino V, nato ne l 1177, ufficialmente, regnarono insieme, e alla morte di Baldovino IV, Raimondo III di Tripoli, già reggente di Baldovino IV, e Boemondo III di Antiochia, divennero reggenti con la potestà di Joscelin III di Edessa.

La loro reggenza però ebbe vita breve perché nel 1186 Baldovino V morì e il trono passò a sua madre, Sibilla d’Angiò, mentre Guido di Lusignano venne nominato Re Consorte di Gerusalemme.

Fonti

R.Bordone, G.Sergi, Dieci secoli di Medioevo(manuale)
G.Hindley, Saladino Eroe dell’Islam
F.Cardini, Il grande racconto delle crociate
J.R.Smith, Storia delle Crociate, dalla predicazione di papa Urbano II alla caduta di Costantinopoli
I.Pagani, Baldovino IV di Gerusalemme, il re lebbroso

Marco Polo e la vera storia della pasta

secondo la leggenda, Marco Polo, di ritorno dalla Cina, avrebbe portato la in Italia, ma è davvero andata così?

La pasta, vanto e orgoglio di noi italiani. La pasta è il simbolo dell’Italia nell’immaginario comune, è la nostra più grande ricchezza, e secondo la leggenda, siamo stati proprio noi italiani ad esportarla in tutto il mondo, dopo averla importata, grazie a Marco Polo, dall’oriente.

La verità però è leggermente diversa, e se è vero che l’Italia ha diffuso la pasta in tutto il mondo, non è invece vero, che questa sia arrivata dall’oriente.

Su Marco Polo tornerò in altri post, qui mi limito a riportare alcuni riferimenti alla pasta.
Come sappiamo, secondo la leggenda, Marco Polo, intorno alla fine del XIII secolo, sarebbe tornato dalla Cina, dove era stato, tra il 1271 e il 1295, consigliere dell’imperatore. Al suo ritorno, ci racconta il mito, Marco avrebbe portato con sé polvere lirica, pasta e tante altre cose sconosciute agli occidentali.

Tuttavia, negli anni ottanta del XIII secolo, un ormai anziano Salinbene da Parma, monaco francescano, nella sua Cronica, ci parla di quando, da giovane, molti anni prima della nascita da giovane, era solito mangiare pasta ripiena, un piatto tipico della tradizione medievale, la cronica di Salinbene ci dice in modo inequivocabile che la pasta era nota in Italia almeno 50 anni prima del viaggio di Marco Polo, e di conseguenza che non sia stato lui a portarla.

Ma allora, come e quando è arrivata la pasta in Italia?

Purtroppo non lo sappiamo ancora con certezza, ma sappiamo che intorno al 1154, il geografo arabo Al-Idrin, menziona nei propri scritti un cibo di farina, a forma di fili, che lui chiama triyah e che veniva confezionato a Palermo.

Il testo di Al-Idrin è oggi il più antico documento noto, in cui si fa riferimento alla pasta, ma purtroppo, ci dice solo che alla metà dell XII secolo, questa era già diffusa, almeno nell’Italia meridionale, ma non ci dice da quanto.

Secondo alcuni storici, alcuni tipi di pasta, potrebbero essere stati prodotti già al tempo della Megale Ellas (Magna Grecia) anche se con qualche leggera variazione dalla “Pasta” così come la intendiamo oggi. Questi storici si riferiscono in particolare al cibo dei morti, “makar” da cui potrebbe essere derivata la parola maccheroni.

Il ricordo storico delle Foibe

Oggi è la giornata delle memoria per le vittime delle Foibe, parliamo allora delle vittime delle foibe. Ma parliamone in termini storici e senza fare propaganda.

Quando si parla delle Foibe, la prima cosa che si dice è che furono uccisi perché “colpevoli di essere italiani”.
La verità, è leggermente più complicata di così e la storia che le vittime delle foibe furono vittime di un qualche odio verso gli italiani/italiofoni, è in realtà, frutto della propaganda.

La vera “colpa” delle vittime delle foibe (e con questo non voglio assolutamente giustificare i foibisti, anzi, condanno i loro crimini, non meno disgustosi di quelli del fascismo e del terzo reich) non era quella di “essere italiani o italiofoni” perché tra i foibisti, in realtà, c’erano moltissime persone che parlavano italiano, e che erano molto più vicini alla cultura e alle tradizioni italiche che a quelle dell’area balcanica.

La loro colpa era quella di essersi rifiutati di lasciare le terre che pochissimi anni prima avevano occupato, la loro colpa era quella di essere andati lì come fascisti e di aver stuprato donne e assassinato brutalmente chiunque si fosse opposto a loro, erano colpevoli di aver cacciato i locali dalle proprie terre e dalle proprie case e di essersi impossessati di quelle terre e di quelle case.
Va però altresì detto che non tutti gli “italiani” o per essere più precisi, tutti i non slavi nella regione rientravano in questo profilo, vi erano anche moltissime persone che erano andate lì come lavoratori stagionali e che erano rimaste lì, pacificamente, e che avevano vissuto pacificamente con i locali, ma purtroppo, durante le ondate “nazionaliste” quando si va a tracciare una linea di confine tra “noi e loro” chiunque non sia “noi” diventa automaticamente portatore di tutti i crimini commessi dagli altri, e di conseguenza moltissimi italiani innocenti, vennero trattati come dei criminali e vennero messi al bando, vennero cacciati e costretti ad andare via, a lasciare per sempre quelle terre, in un modo o nell’altro.
Alcuni capendo la situazione fuggirono, e i primi a fuggire furono proprio quelli con la coscienza sporca, quelli che si sentivano direttamente minacciati, molti altri invece, non avendo fatto nulla di male, decisero di rimanere, e nel rimanere, andarono in contro alla rappresaglia disumana e sproporzionata dei foibisti e vennero trattati, come gli italiani avevano trattato chi si era rifiutato di giurare fedeltà al Fascismo.
Vennero arrestati, portati sui monti, assassinati e gettati nelle Foibe.

Ciò che è successo è stato schifoso e disumano, e lo è stato sia prima che durante che dopo la guerra, è stato disgustoso e disumano il comportamento degli italiani prima e durante la guerra, nei confronti dei locali, così come lo è stato quello dei locali, dopo la guerra, nei confronti degli italiani, e personalmente trovo altrettanto schifoso far finta che la colpa sia solo dell’una o dell’altra parte, senza invece considerare il contesto storico e tutto ciò che vi era dietro e che tra il 1919 (dall’occupazione di fiume) e il 1945 aveva contribuito ad alimentare tensione e intolleranza nella regione.

Le vittime delle foibe sono anzitutto vittime del Nazionalismo cieco e brutale, sono vittime della generalizzazione, dell’incapacità di distinguere il vero colpevole, da un qualcuno che si trovava lì per caso, ed è abbastanza surreale, che oggi, siano proprio i nazionalisti e sovranisti a puntare il dito contro i crimini del nazionalismo e il sovranismo della jugoslavia di Tito.

Va detta anche un altra cosa, nel 1948 il governo italiano, in accordo con il governo jugoslavo, ha scelto di mettere una pietra su questa vicenda, di passare oltre.
L’italia nel dopoguerra aveva tanti problemi, e rischiava di perdere il controllo di alcune città e regioni di “frontiera” a causa di una disputa sulla liberazione, con la Jugoslavia, inoltre vi erano accuse reciproche, tra Italia e Jugoslavia, di aver commesso atroci crimini durante il periodo bellico.

Settant’anni dopo, quello che è successo va assolutamente ricordato, ma va ricordato in modo Storico, come fatti ormai conclusi da oltre settant’anni. Delle stragi, gli eccidi, la pulizia etnica, sia in età fascista che nel regime di Tito, va preservata la memoria storica, non va invece proseguita la narrazione politica, politicizzata e propagandistica.

Anche perché, a volerla dire tutta, fu la corrente di destra della DC e successivamente il MSI a spingere per l’archiviazione dei fascicoli per crimini di guerra, mentre il PCI si configurò nella scena politica degli anni cinquanta, come l’unico partito italiano condannò apertamente i crimini di guerra della Jugoslavia e che a più riprese, in modo costante fino al 1954 e in modo saltuario fino ai primi anni sessanta, chiese pubblicamente la riapertura dei fascicoli, ma la sua voce rimase inascoltata fino a quando non svanì del tutto.

Bibliografia e Fonti

Michele Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza. 
Jon Elster, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche, Il Mulino.
Jacques Sémelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Einaudi.
Joanna Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, Carocci.
Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia, Einaudi.
Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori, Feltrinelli.
Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Storia dell’emigrazione italiana, Donzelli.
Corrado Barberis, Le campagne italiane dall’ottocento ad oggi, La Terza