L’impero Moghul e le conquiste militari

All’inizio del XVI secolo si formarono tre grandi imperi islamici che subentrarono al posto di piccoli stati islamici. Questi tre grandi regni erano quello in India dei Moghul, quello persiano dei Safawidi e quello turco degli Ottomani. Si trattava di governi profondamente radicati nel medioevo islamico a causa dell’aspetto religioso, ma tutti esposti in primo piano all’epoca moderna europea, caratterizzata da una ripresa dei commerci e dall’espansione coloniale degli stati europei, fattori che porteranno a dei cambiamenti economici anche all’interno di questi imperi.

La Fondazione dell’Impero Moghul in India

La storia della presenza islamica in India è molto antica e si può far risalire almeno al regno di Muhmud di Ghaznì fondato nella provincia di Khurasan nel 999, anche se le prime invasioni islamiche in India avvennero precedentemente dall’ Afghanistan. A partire dall’inizio del XIII secolo dominò il sultanato di Delhi, governato da una dinastia militare afghano-turca. La presenza islamica in India diventò rilevante nel periodo dell’impero dei Moghul.

L’impero fu un grande regno che nel periodo di massima espansione governò su tutto il subcontinente indiano, senza precedenti. Nel periodo che va tra il 1556 e il 1658 l’impero islamico dei Moghul è stato un potente stato centralizzato, organizzato con una capillare burocrazia, un esercito e un impero con una fede aperta e tollerante, dove vi fu una sintesi religiosa tra induismo e islamismo.

La fondazione risale al regno Zahir-ud-Din Muhammad Babur, un condottiero turco erede in linea materna di Gengis Khan, e in linea paterna, da Tamerlano, che riuscì a stabilire un regno nel nord dell’India nel 1526, sfruttando le rivalità tra gli emiri locali e il disordine provocato dalle guerre dei Safavidi con gli Uzbechi. Oltre ad essere un conquistatore insaziabile, fu un grande uomo di cultura: le sue memorie – scritte in prosa – sono considerate un’opera importante dell’intera letteratura turca. Nel 1504 e nel 1506 Babur conquistò rispettivamente Kabul e Kandahar e nel 1526 anche l’intera India del nord, grazie ad una cavalleria e ad una tecnica bellica nettamente superiori.
Il regno di Babur durò solo quattro anni a partire dalla conquista della città di Agrae e la proclamazione d’imperatore dell’Hindustan, ma gli eredi riuscirono a consolidare il regno. In particolare due suoi eredi: Humayun e soprattutto Akbar.

L’Era di Akbar: Consolidamento e Apogeo dell’Impero Moghul

Akbar, il terzo padishah, fu il vero creatore della potenza Moghul e regnò dal 1556 al 1605: è considerato il più importante all’interno di una dinastia dove vi erano personaggi straordinari, tanto da essere ricordato come una delle figure più rappresentative della storia indiana.

I primi anni del regno non furono tali da far presagire tale grandezza: fino al 1560 fu governato con durezza dal reggente Bairam Khan. Sotto la sua guida, vennero sconfitti gli ultimi principi Sur e i Moghul occuparono alcuni centri chiave come Lahore, Multhan, Jaunpur che si aggiunsero a Delhi e Agra. Questa espansione si arrestò per i contrasti tra Akbar e Bairam Khan stesso, che si conclusero con la rimozione dall’incarico di quest’ultimo nel 1560. Successivamente a questi avvenimenti la gestione della nuova linea politica venne lasciata ad una fazione capeggiata dalla nutrice di Akbar e da suo figlio Adam Khan. Egli riprese l’espansione con la spedizione contro il sultanato del Malwa. Presto però i rapporti tra il padishah e Adam Khan si deteriorano e le tensioni tra i due esplosero quando Adam Khan uccise il primo ministro, una delle figure più vicini ad Akbar.

Le cronache raccontano che Adam Khan si recò all’ingresso dell’harem sporco di sangue della vittima e l’imperatore lo affrontò a mani nude, stordendolo e poi dando l’ordine di gettarlo da uno dei balconi del palazzo: dopo tale episodio la madre si suicidò. Tutto ciò è descritto nelle cronache dell’epoca e rappresentato anche nelle miniature.

Riorganizzazione dello Stato e Strategie Militari di Akbar

Il dominio Moghul in quella parte dell’India del Nord continuava ad essere quello di un esercito d’ occupazione in un territorio vasto ed ostile: era circondato da una moltitudine di stati in armi e anche la società indiana era fortemente militarizzata. L’esercito in questa fase era poco organizzato e con forti limiti strutturali, formato da 51 distaccamenti al servizio di nobili legati al sovrano da vincoli di fedeltà. La maggior parte di essi, essendo di origine turca e uzbeca, considerava il sovrano un primus inter pares, quindi questo non assicurava la loro fedeltà al sovrano, che doveva essere guadagnata ogni volta.

La minoranza – formata da circa 16 nobili – era di origine persiana, influenzata quindi dall’ideologia imperiale, cui si doveva fedeltà e obbedienza al sovrano. Akbar per modificare questa situazione, attuò una politica che aveva due obbiettivi: il controllo sulla nobiltà e uno stato in grado sbarazzarsi di ogni possibile avversario.

Queste strategie comportarono la possibilità di concentrare tutte le risorse per alcune battaglie rilevanti condotte dal padishah in persona, che si rivelò un ottimo stratega e conquistò prima del 1562 tutta l’India del Nord, l’Afghanistan e il Kandesh. La battaglia di Panipat, per quanto vinta di stretta misura, diede la fama a Akbar di essere invincibile nelle battaglie in campo aperto, mentre la conquista di alcune fortezze importanti tra il 1658 e il 1569 dimostrarono la sua abilità anche nella guerra di posizione.
La fama di Akbar – e dell’esercito Moghul – fu di essere invincibili sia nella guerra di posizione che in quella in campo aperto. Ciò è dimostrato anche dal fatto che alcuni nobili e regni accettarono di sottomettersi a lui in cambio della nobiltà Moghul.

Articolo a cura di Sbalchiero Francesco Sunil

Fonti

Hans Kung, Islam, Bur, Milano, 2015
Michelangelo Torri, Storia dell’India, Laterza, Bari, 2010
Raffaele Russo, Islam: storie e dottrine http://www.academia.edu/1900477/Islam_storie_e_dottrine

Mussolini tagliò il Debito Pubblico: Verità o Propaganda?

La teoria che Mussolini ridusse il debito pubblico italiano è infondata; in realtà, il debito crebbe e l’Italia pagò un prezzo alto per presunti “tagli”.

Periodicamente torna a circolare su diversi quotidiani e social la storia per cui Benito Mussolini sarebbe stato l’unico uomo ad aver tagliato il debito pubblico italiano. Questa stravagante teoria non è nuova, ed emerge spesso negli ambienti di un certo orientamento politico, vicino agli ideali di Mussolini e del Fascismo, ma corrisponde alla verità o si tratta solo di Propaganda?

Come ogni questione storica, la risposta purtroppo non è semplice, e liquidare il tutto ad una frase non è semplice, ma, al di la della complessità della vicenda, una cosa è certa, dire che Mussolini tagliò il debito italiano è falso, ma andiamo con ordine.

Il contesto economico pre-fascista: L’eredità della Grande Guerra.

Prima dell’ascesa al potere di Mussolini e l’avvento del fascismo, l’italia si trovò ad affrontare diversi e gravi problemi di natura economica, elemento che accompagnò tutti i paesi europei impegnati nella grande guerra.

Per riavviare il paese, riconvertire il sistema produttivo e rilanciare l’economia, l’italia fece ricorso all’emissione di moneta e a molteplici interventi da parte di Banca d’Italia per “salvare” le aziende in difficoltà. La nuova moneta immessa sul mercato era solo in parte coperta dall’emissione di titoli di stato e di conseguenza la moneta italiana andò in contro ad una forte svalutazione.

L’alta inflazione che ne derivò andò a colpire soprattutto le fasce più povere della popolazione, principalmente lavoratori dipendenti che, allo svalutarsi della moneta ed il conseguente incremento dei prezzi, non videro corrispondere un aumento dei salari.

In questo clima economico, fortemente sfavorevole e di grande tensione si verificarono gli avvenimenti del famoso biennio rosso (1919-1920) che causarono gravi disordini in tutto il paese e spinsero molti lavoratori impoveriti a sostenere il Fascismo poiché, neanche Giovanni Giolitti, che in passato era stato protagonista di una stagione splendente per l’economia italiana, riuscì a risolvere la crisi e sanare il debito crescente.

Questa fu la situazione che spianò la strada alla prese di potere da Quando nell’ottobre del 1922 Vittorio Emanuele III affidò il governo a Mussolini, l’italia si trovava in una situazione stagnante, con un enorme debito crescente alimentato da una moneta molto debole ed un enorme spesa statale.

Questa lunga premessa può sembrare noiosa, ma è fondamentale per capire esattamente se Mussolini riuscì a tagliare realmente il debito, se non lo ridusse ma riuscì comunque a contenerlo o se invece provocò un incremento del debito pubblico italiano.

La politica economica fascista: Ruolo di Mussolini e gestione De’ Stefani (1922-1925).

A questo punto bisogna aprire una breve parentesi sull’orientamento economico del regime, la politica economica fascista, detta della terza via, si colloca in un limbo, una zona grigia intermedia che derivavano dall’orientamento dei vari ministri delle finanze, dall’ideologia fascista e da varie contingenze nazionali e internazionali. E a tal proposito è importante ricordare che, se bene Accentrò nelle proprie mani numerosi ministeri ed esercitò grande influenza e pressioni sui ministeri che non erano di sua competenza, Mussolini non fu mai ministro delle Finanze, del Commercio e del Tesoro.

Mussolini fu ministro dell’Areonautica, degli Esteri dell’Africa italiana, delle Colonie, delle Corporazioni, della Guerra, dei Lavori Publici e della Marina, ma nessuno di questi ministeri era in grado di intervenire direttamente sul debito, e anzi, i suoi ministeri erano quelli che assorbirono maggiori risorse economiche, giocando de facto un ruolo attivo nell’incremento e non nella riduzione della spesa, ma andiamo con ordine.

Sul piano puramente linguistico possiamo dire con assoluta certezza che Mussolini, attraverso i suoi ministeri, non fece nulla per ridurre il debito, resta però da capire se invece il governo fascista, nel suo complesso, riuscì in qualche modo a ridurre il debito o comunque a contenere la spesa limitando l’aumento del debito.

Tra il 1922 ed il 1925, il ministero delle finanze e del tesoro fu affidato ad Alberto De’ Stefani che attuò una politica di grandi tagli alla spesa pubblica, e cercò di incrementare le entrate, con l’intento di rimettere in ordine il bilancio dello stato. Una politica comune in situazioni di questo tipo, da Agostino Magliani (ministro delle finanze agli albori della prima crisi economica del regno d’italia nell’ultimo quarto dell’ottocento) a Mario Monti.

Per quanto riguarda la riconfigurazione delle entrate, De’ Stefani non intervenne aumentando le tasse come spesso avviene, ma al contrario, osservando che una fetta enorme della popolazione era esclusa dalla partecipazione contributiva, fece in modo di allargare la base, tassando quelle fasce sociali fino a quel momento escluse, e allo stesso tempo, ridusse le aliquote per categorie sociali ritenute più inclini all’investimento.

Detto più semplicemente, tassò le fasce più povere della popolazione, fino a quel momento esonerati e ridusse le tasse all’alta e media borghesia, producendo così un incremento delle entrate dovuto al maggior numero di contribuenti.

L’intento di De’ Stefani era quello di rilanciare l’iniziativa privata e ridurre le spese dello stato, spese che, in quel momento, erano rappresentate soprattutto dai salari di dipendenti pubblici, e di conseguenza il taglio della spesa si configurò come un taglio netto nel personale dei settori “improduttivi” dello stato, licenziamento di circa 65.000 impiegati pubblici e circa 27.000 ferrovieri e favorendo l’ingresso dei privati in alcuni settori, fino a quel momento sotto il controllo dello stato, come il settore assicurativo, ferroviario e telefonico.

In termini numerici gli interventi di De’ Stefani furono positivi e il bilancio, almeno quello statale, fu riportato in pari, mentre quello degli enti locali non fu mai parificato durante tutto il ventennio. In ogni caso, questi interventi favorirono una leggera ripresa e innescarono un lieve processo di crescita per il paese che però non risolse il problema monetario, la lira valeva sempre meno e anche se, in termini numerici il debito cresceva più lentamente, il minor valore della lira, rendeva più difficile un suo risanamento.

Fin dai tempi dalla grande guerra la Banca d’Italia si era impegnata nel sostegno delle imprese e banche immobilizzate dalla riconversione e questo impegno continuò durante i primi anni del fascismo, producendo tra il 1922 e il 1925 un incremento di liquidità che portò ad un ulteriore ondata inflazionistica, alimentata da un peggioramento della bilancia dei pagamenti.
Nel 1925 De’ Stefani promosse alcuni provvedimenti che però si rivelarono insufficienti e portarono ad un tracollo della borsa italiana e al fallimento di numerose aziende italiane.

La gestione Volpi (1925-1928) e la ristrutturazione del debito estero.

Gli industriali rappresentavano lo zoccolo duro del fascismo ed avevano molta influenza sulle azioni del governo, così, per non perdere il loro consenso, Mussolini sostituì il ministro delle finanze, assegnando l’incarico a Giuseppe Volpi.

Volpi rimase in carica dal 1925 al 1928 e durante il suo mandato giocò un ruolo decisivo per le sorti economiche e di bilancio dell’Italia.

Sul piano internazionale il 1924, con il piano Dawes aveva visto la fine alla questione delle riparazioni tedesche e si stava valutando un ritorno delle nazioni al gold standard per stabilizzare le monete, idea nata in seno al trattato di Versailles.

Nonostante questo però, la forte svalutazione della lira, il peggioramento della bilancia commerciale e numerosi altri fattori speculativi, non resero semplice il lavoro di Volpi e come se non fosse abbastanza, il fallimento del rinnovo dei BOT venticinquennali nel 1924, dovuto alla grande richiesta di liquidità di banche e privati, impedì all’Italia di emettere nuovi titoli di stato.

Nel 1925 il bilancio interno ufficialmente era in pari, ma nei fatti non lo era, nel bilancio infatti non erano stati conteggiati i titoli di stato da ripagare e l’italia, fortemente indebitata, non era in grado di ripagare i propri debiti.

Volpi decise quindi di agire in sintonia con la Banca d’Italia che sostenne il cambio, riuscendo a raggiungere un accordo con gli in investitori americani più favorevole in termini assoluti, ma va precisato gli investitori americani raggiunsero accordi simili in tutta europa e tra i tanti, l’accordo italiano fu quello “meno morbido“, il merito di Volpi non fu quindi quello di aver trovato un accordo favorevole, come spesso si dice, ma fu quello di aver trovato un accordo.

Sul finire del 1925 gli il governo statunitense accordò all’Italia un prestito, noto come Prestito Morgan, il cui intento era quello di risollevare la lira, di fatto acquistando parte del debito pubblico italiano. Sulla stessa linea nel gennaio del 1926 l’italia trovò un accordo simile con il regno unito. Secondo questo accordo l’italia cedette al regno unito la propria quota di riparazioni tedesche, gestite della Cassa autonoma di ammortamento dei debiti di guerra, costituita il 3 marzo 1926.

Analisi critica del “taglio”: Un pareggio di bilancio pagato a caro prezzo.

Grazie a questo accordo l’italia riuscì a ripagare parte dei propri debiti esteri, rinunciando al flusso costante di ripartizioni di guerra tedesche.

A questo punto, in termini numerici l’italia era ufficialmente in pari con il bilancio, ma questo pareggio come detto, va contestualizzato e il contesto è quello di un paese che ha dovuto ricorrere letteralmente al baratto.

L’italia ha “cancellato” il proprio debito consegnando ai propri creditori tutto quello che aveva, l’italia ripaga i propri creditori cedendo titoli esteri acquistati dal tesoro in precedenza e rinunciando alle proprie riparazioni di guerra, dal valore di diversi milioni di marchi pagati in oro ogni anno, pagamenti che la Germania avrebbe interrotto qualche anno più tardi con una decisione unilaterale in seguito all’avvento del Nazismo e di Hitler, e che avrebbe ricominciato a pagare nel secondo dopoguerra.

Il Trattato di Versailes aveva imposto alla Germania il pagamento di 132 miliardi di marchi oro, e parte di quell’oro sarebbe andato all’Italia, e anche se rateizzato, la quota italiana delle riparazioni di guerra aveva un ammontare complessivo enormemente superiore al proprio debito.

Conclusione: La smentita storica dell’affermazione sul risanamento del debito.

In conclusione, se è vero che sul piano linguistico è falso dire che Mussolini tagliò il debito, ma nei fatti questo taglio è riconducibile a Mussolini, allo stesso tempo, è vero dire che il fascismo tagliò il debito, ma nei fatti, questo taglio è costato all’Italia miliardi in oro, avrebbe contribuito ad alimentare una progressiva e crescente svalutazione monetaria e produsse, parallelamente alla cancellazione del debito, l’impossibilità per l’italia di ottenere nuovi prestiti e finanziamenti, trascinando il paese verso un progressivo impoverimento generale che non sarebbe stato possibile disinnescare se non fosse stato per gli aiuti postbellici, ricevuti dopo la seconda guerra mondiale.

Dire quindi che Mussolini e il fascismo hanno “sanato il debito pubblico italiano” è la cosa più falsa che si possa dire.

Fonti e letture consigliate

V.Zamagni, Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie storica, in “Rivista di storia economica”, Il Mulino, 3/1988, dicembre.
P.Frascani, Finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni trenta.
R. de Felice, Mussolini il fascista, la conquista del potere, 1921-1925.
S. Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza fra Giolitti e Mussolini.
G.Mele, Storia del debito pubblico italiano dall’unità ai giorni nostri, Tesi di laurea presso università Luiss, Dipartimento di Economia e Management Cattedra di Storia dell’economia e dell’impresa, A.A. 2014/2015.

Elon Musk prende le distanza dai Dazi di Trump e i Dazi: Rottura o strategia di “Brand Revitalization”?

Nelle ultime settimane non sono passate inosservate le numerose “trasformazioni” (decisamente troppo repentine), i cambi di posizione e atteggiamento di Elon Musk, il tutto magistralmente e sistematicamente giustificato dalla sindrome di asperger.

L’effetto più evidente di questo “nuovo” Musk che si sta mostrando in queste settimane lo abbiamo nelle dinamiche tra il patron di Tesla e il presidente Trump. Il miliardario che fino a qualche settimana fa era pronto a difendere a spada tratta Trump su qualsiasi posizione avesse assunto, dopo la sconfitta in Winsconsin, ha decisamente cambiato marcia ed ha iniziato a contestare punti fermi della politica di Trump, che lo stesso Musk aveva ampiamente sostenuto in campagna elettorale. Si pensi alla politica dei Dazi doganali fortemente voluta da Trump, ampiamente annunciata in campagna elettorale e sulla quale, in passato, lo stesso Musk si era dimostrato totalmente allineato.

Musk cambia rotta?

Questo cambio di rotta non sembra casuale, e non è il primo.

Musk nella sua storia personale, ha cambiato molte volte posizione, allineandosi il più delle volte con temi di tendenza e fortemente sostenuti dall’opinione pubblica, insomma, una vera e propria banderuola che è sempre andato là dove soffia il vento, e che con la discesa in campo, al fianco di Trump, ha tirato troppo l’asticella, assumendo posizioni radicali e ampiamente contestate che gli hanno causato la perdita di diverse centinaia di miliardi di dollari.

In quest’ottica, un cambio di posizione così radicale e repentino appare come una goffa strategia di brand revitalization, da parte di un uomo convinto che il mondo sia popolato da idioti… e su questo forse non ha poi tutti i torti…

Cos’è la “Brand Revitalization”?

Ho parlato di “brand revitalization” (rivitalizzazione del marchio) ma che cos’è? Si tratta di un processo strategico attraverso cui un’azienda, un marchio, o come in questo caso caso una figura pubblica, cerca di rinnovare e rinvigorire l’immagine del proprio brand che ha perso attrattiva, rilevanza o credibilità nel tempo. Insomma , cerca di svecchiare e/o ripulirsi e in questo caso specifico, non sarebbe tanto una questione di svecchiamento, quanto più di “pulizia”. 

Al di là del caso specifico, l’obiettivo della brand revitalization è quello di riposizionare il brand nella mente del pubblico, adattandolo ai cambiamenti del mercato, ai nuovi valori sociali o per correggere errori passati che ne hanno danneggiato la sua reputazione. Questa trasformazione può avvenire attraverso cambiamenti dei valori comunicati, dei messaggi, delle partnership, ecc. 

Il Caso Musk: Politica e Immagine

Come anticipato, non è la prima volta che Musk fa un’operazione di questo tipo, basti pensare che, prima della Pandemia, Musk è stato un acceso sostenitore di temi di inclusività ed ambientalismo, promotore di energie rinnovabili e pulite, tecnologie a basso impatto ambientale ecc. Poi con la pandemia ha cambiato completamente rotta, diventando praticamente un negazionista dei cambiamenti climatici e schierandosi apertamente contro le politiche di inclusione, fino ad arrivare a sostenere personalità con posizioni fortemente xenofobe e intolleranti nei confronti delle minoranze. 

In definitiva, Musk è passato dall’essere uno dei “nemici pubblici” più attaccati e contestati dall’estrema destra USA ed UE nel 2019, secondo solo a Soros e Bill Gates, ad essere nel 2024 il più grande sostenitore dell’estrema destra in USA ed UE, ed ora, a poco più di 2 mesi dall’insediamento di Trump alla White House, Musk ha iniziato una nuova trasformazione.

Come un rettile che cambia pelle con le stagioni, Musk ha iniziato a dismettere i panni del Trupiano, in cerca di una nuova identità più “accettabile” dall’opinione pubblica globale.

Parliamo di una figura estremamente polarizzante che negli anni ha costruito parte del proprio personal brand sull’immagine dell’innovatore visionario, fuori dagli schemi, ribelle e controcorrente, elemento quest’ultimo che spesso lo ha portato ad assumere posizioni forti e radicali su temi estremamente controversi e divisivi. 

E se questa strategia in passato gli ha sempre portato “fortuna” , l’ultima pelle indossata gli ha portato più danni che benefici, alienandogli una parte significativa del pubblico che in passato lo sosteneva, tra cui anche investitori e potenziali partner commerciali.

Le sue uscite pubbliche, spesso impulsive e provocatorie, e le sue prese di posizione politiche hanno iniziato a proiettare diverse ombre sulle sue aziende, causandogli perdite senza eguali nella storia. 

Stando ai diversi report e analisi di mercato, ad oggi la sua immagine personale è considerata un fattore di rischio, ragione per cui diversi fondi di investimento hanno prontamente liquidato i propri investimenti in aziende associate a Musk, causando un crollo nel valore di titoli come Tesla, crollo che è stato amplificato dalla sfiducia dei consumatori.

La Strategia di “Pulizia” del Brand

Il recente, apparente, ammorbidimento delle posizioni di Musk e le prime prese di distanza da Trump, come la volontà di lasciare il DOGE entro qualche mese, o le aperte critiche ai Dazi imposti dal presidente, possono essere facilmente interpretati come un primo tentativo di “ripulire” il proprio brand personale. Prendere le distanze da figure e politiche divisive, come i dazi sostenuti da Trump (che peraltro potrebbero danneggiare le catene di approvvigionamento globali da cui dipendono le sue stesse aziende), potrebbe essere una mossa finalizzata a Riconquistare Credibilità e Appeal, ma soprattutto, potrebbe essere una mossa per proteggere le sue aziende. Si pensi alla fuga massiva di utenti da X (ex Twitter), il cui valore è passato in meno di due anni da 44 miliardi a 12 miliardi, o alle azioni Tesla, il cui valore, fortemente accresciuto dopo l’elezione di Trump, è tornato ad aprile 2025 ai livelli di ottobre 2024 , registrando un calo di oltre il 42,23% negli ultimi 3 mesi. 

Conclusione

Il presunto cambio di rotta di Elon Musk non è necessariamente un’abiura delle sue convinzioni passate, anche perché non abbiamo idea di quali siano realmente le sue convinzioni. Musk negli anni ha cambiato innumerevoli posizioni, rimanendo costante su un unico punto. Il suo primo e unico interesse è tutelare se stesso, ed è pronto ad abbandonare qualsiasi partner in qualsiasi momento pur di salvarsi.

Appare quindi abbastanza evidente come le sue critiche ai dazi di Trump, che lo stesso Musk aveva sostenuto in campagna elettorale, non siano altro che una grottesca strategia di brand revitalization, costruita partendo dall’assunto che l’opinione pubblica mondiale non se ne accorgerà. 

L’obiettivo delle critiche e l’allontanamento da Trump è chiaro e riassumibile nello slogan, MMGA, Make Musk Great Again, rendere il brand “Musk” nuovamente appetibile a consumatori e investitori, così da rendere meno rischiose le collaborazioni e partnership con le sue aziende e iniziative. 

Musk ha puntato sulla stupidità. Resta da vedere quanto questa strategia sarà efficace, e soprattutto se avrà puntato correttamente, o se questa scommessa segnerà definitivamente la sua rovina. Personalmente temo che se non nel breve periodo, nel medio e lungo termine riuscirà a ripulire il proprio brand.

Hitler: il prodotto di una pedagogia nera


La proiezione del vissuto infantile nella storia mondiale


Le gesta di Adolf Hitler sono note, in modo più o meno dettagliato, a tutti. Quello che c’è stato dietro quelle gesta, ciò che ha prodotto quel risultato: se lo chiedono in pochi. In molti si soffermano sulle date, sugli avvenimenti, sulle invasioni, sulle alleanze. In pochi si chiedono chi sia stato veramente A. Hitler, e ancora meno si soffermano a capire il ragionamento di un dittatore o di un folle, come alcuni lo definiscono. In molti si affrettano a dare giudizi: il nazismo un bene o un male? Hitler, bravo o cattivo? Non diamo giudizi, cerchiamo di capire.

L’Infanzia

Adolf Hitler era figlio di Kiara Polzi e Alois Hitler, entrambi austriaci, di probabile origine ebrea e quasi sicuramente consanguinei. Adolf era il quarto ed unico figlio della coppia, sopravvissuto sano fino all’età adulta. Proprio per questo motivo la madre, Kiara, si dice che lo amò profondamente. Ma se ragioniamo sul concetto di amore vero e puro, sappiamo tutti che questo corrisponde ad un’apertura e ad un’attenzione nel comprendere quelli che sono i veri bisogni di un figlio. Il comportamento di Kiara non corrisponde a questo concetto, perché in lei non c’era quest’apertura e attenzione e proprio quando manca questa disponibilità, il bambino viene viziato, vale a dire colmato di concessioni e sommerso di oggetti di cui non ha affatto bisogno, solo come surrogato per ciò che non gli si può dare a causa dei propri problemi personali. Se Adolf fosse stato davvero amato, avrebbe acquisito anch’egli la capacità di amare. Le sue relazioni con le donne, le perversioni dimostrano che non aveva ricevuto affetto da nessuno dei due genitori. Ma come Kiara poteva amare Adolf, dopo che gli erano morti tre figli? Lei visse questi decessi come uno shock, che la portarono così ad aver paura di amare. Una paura inconscia derivante dal costante timore che anche quest’ultimo figlio potesse andare incontro alla stessa sorte degli altri tre. Neanche Alois amò Adolf, al contrario lo picchiava spesso e picchiava anche la moglie. Alois rappresentava la figura dominante della famiglia, tutti dovevano essere sottomessi alla sua volontà ed alla sua eccessiva intransigenza, specialmente in pubblico. Bello, affascinante, forte, feroce: questo era il padre di Adolf Hitler.

La proiezione

Sulla scena della politica mondiale egli recitò senza rendersene conto il vero dramma della sua infanzia. La struttura della sua famiglia si può descrivere come il prototipo di un regime totalitario. Il suo unico e incontrastato signore è il padre. La moglie e i figli sono completamente sottomessi al suo volere, l’obbedienza è la loro principale regola di vita. Il regime totalitario istituito da Adolf Hitler non è quindi altro che il prodotto della pedagogia nera, ovvero di un’infanzia tragica e segnata da continue violenze ed abusi. Proprio nelle gesta di Hitler, nell’istituzione del suo regime, si vede come egli per reagire a questa pedagogia nera abbia scomposto il proprio sé reagendo con la proiezione ovvero con l’attribuire a persone o oggetti esterni i propri impulsi e desideri proibiti; l’intolleranza dell’individuo nei riguardi degli altri è accompagnata dalla severità verso sé stesso; l’effetto di questo meccanismo è la rottura del legame tra gli istinti inaccettabili e l’io. Un regime totalitario che probabilmente non sarebbe mai nato se Hitler avesse avuto un’infanzia diversa. Egli, inconsciamente, incarnò quindi il padre. Alois era rappresentato da Hitler in entrambe le sue forme: il ridicolo dittatore in uniforme, così come lo vedeva Adolf ed il grande dittatore, ammirato ed amato dalle masse, visione che invece aveva la madre Kiara di Alois. Ma se da un lato Adolf incarnò, inconsciamente, la figura del padre, sul piano conscio egli voleva vendicarsi di lui. Il sospetto che il padre fosse ebreo, fece in modo che Adolf identificò negli ebrei il nemico da estirpare e su cui consumare la propria vendetta. Egli trasferì alle masse, ovvero a se stesso e a sua madre, tale concetto. Possiamo, in conclusione, affermare che anche dietro lo scenario più folle ed abominevole della storia c’era una logica, criminale, ma neanche tanto complessa e strana. Hitler non è stato quindi un semplice dittatore, un folle, un malato, bensì il risultato di un’educazione sbagliata e del tentativo di correggere il proprio passato non gradito, attraverso la proiezione del proprio vissuto infantile in uno scenario mondiale. A farne le spese sono stati milioni di uomini e donne che hanno avuto la sfortuna di appartenere a quel target che Hitler identificò come nemico. Adolf adulto e nelle vesti del führer rappresentava il padre nel senso autoritario, le masse erano identificate come Kiara ed Hitler bambino e gli ebrei come il padre nel senso del nemico da cui Hitler bambino doveva a tutti i costi difendersi e difendere sua madre. E tutto torna, tutto ha una sua logica.

Fonti:

I Meccanismi di Difesa secondo A. Freud (http://www.igorvitale.org/2015/01/27/9-meccanismi-di-difesa-secondo-anna-freud/)

Psicopatologia di Hitler (http://www.igorvitale.org/2016/06/04/psicopatologia-di-hitler/)

Il profilo psicologico di un criminale (http://www.igorvitale.org/2016/07/05/psicologia-di-hitler-profilo-psicologico-criminale/)
L’ascesa al potere di Adolf Hitler (http://www.raistoria.rai.it/articoli/l%E2%80%99ascesa-di-hitler/32524/default.aspx)

 

Battlefield 1 e il realismo storico nei videogiochi.

Approfitto della imminente uscita di uno dei titoli videoludici più attesi dell’anno, Battlefield 1, un FPS ambientato nella prima guerra mondiale, per occuparmi di un argomento abbastanza diverso dal solito, ovvero il realismo storico nei videogiochi.

Metto le mani avanti dicendo che non sono un grande videogiocatore o un appassionato di videogiochi, e che quella che seguirà sarà solo la mia opinione, un opinione che può essere condivisa o meno ma che voglio condividere con voi, e spero mi facciate sapere qui sotto nei commenti, cosa ne pensate.

É parecchio tempo che mi sto tormentando con questa la domanda

I videogiochi possono essere storicamente attendibili ?

La prima volta che mi sono interrogato in merito è stato quando Lorenzo mi ha mostrato il primo trailer di Battlefield 1 proponendomi una recensione storica del trailer, un po come fa “the great war” nel suo canale youtube. Da quel momento ho iniziato a guardare questa tipologia di video, vedendo in essa un potenziale spiraglio per il mio canale, un modo per raggiungere un pubblico nuovo e diverso, insomma, il pubblico dei videogiocatori, il pubblico dei gamer, per intenderci il pubblico degli appassionati di videogiochi.

Sentivo tuttavia che mancasse qualcosa, avevo la convinzione che qualcosa mi stesse sfuggendo e che non riuscissi a vedere il quadro completo. Ed è fondamentalmente per questo che alla fine non ho mai realizzato la recensione storica del trailer di Battlefield 1, per questo e perché ho cancellato il file prima di editare il video.

Recentemente però è stata rilasciata una open beta o comunque si chiami, di questo titolo, e guardando i primi gameplay, sono finalmente riuscito a capire cosa mi mancasse e soprattutto perché probabilmente non sarò mai nella condizione di realizzare la recensione storica di un videogioco.
Ma procediamo con ordine, e vediamo perché, per quanto mi riguarda, un buon videogioco non potrà mai essere storicamente attendibile. E soprattutto perché è giusto che sia così.

Per chiarezza ricordo ancora una volta di non essere un videogiocatore, di fatto so poco o nulla su questo mondo, e tutto ciò che conosco è dovuto alla divulgazione videoludica effettuata da canali youtube come Playerinside, Sabaku no maiku e Quei due sul servere preciso di essermi avvicinato, non poco, a questo mondo, interessandomi soprattutto alla magia che può comunicare un videogioco.

zelda1

Credo sia proprio questa la parola chiave che stavo cercando, il punto di partenza per il nostro ragionamento, la magia del videogioco, qualcosa che, per sua natura è di totalmente inconciliabile con la cruda realtà dei fatti.

Credo che un Videogioco realmente storicamente attendibile non potrebbe mai avere quella magia e in questo articolo cercherò di spiegare perché.

La cruda realtà dei fatti, la storia, per quanto possa essere affascinante è di per se molto lenta, violenta, crudele, a tratti anche disgustosa e questi elementi stonerebbero, presi così come sono, nel contesto videoludico, a meno che non si voglia realizzare un titolo disgustoso e allo stesso tempo noioso. Ma una simile idea non verrebbe neanche al più folle e visionario degli sviluppatori, poiché il videogioco, ha una sua precisa ragione d’essere e il suo scopo è quello di coinvolgere e catturare il videogiocatore, trascinandolo in un mondo dal quale è difficile non essere affascinati, ed è proprio a questo che mi riferisco quando parlo di magia del videogioco, la sua lontananza dalla realtà anche quando è estremamente verosimile.

Prendo ad esempio un titolo come il già citato Battlefield 1, si tratta di un FPS, uno spara-tutto in prima persona, ambientato nella prima guerra mondiale. La veridicità storica di questo titolo possiamo riscontrarla in tanti aspetti, o almeno così appare dalle immagini del trailer, e dai primi gameplay in beta, ma in altri aspetti, questi ultimi legati soprattutto al gameplay, inteso come esperienza di gioco, quella veridicità viene meno, crollando su se stessa e questo perché se fosse mantenuta “alta”, sarebbe probabilmente una tortura per il videogiocatore, che ricordiamo è il principale destinatario di un videogioco.

Come ha detto Synergo (del canale Youtube Quei due Sul Server) in un rapido scambio di opinioni proprio sotto un suo gameplay, la veridicità storica sarebbe la morte del gamelplay, ed è vero, e per quanto mi riguarda, non c’è nulla di più vero, perché la storia così come è, è lenta e noiosa, e in un gioco in cui bisogna sparare ai propri avversari nel minor tempo possibile e allo stesso tempo evitare di essere colpiti, è folle pensare e anche solo immaginare che possa esistere un qualche tipo di veridicità storica, nel gameplay. Perché appunto, quella sarebbe la morte stessa del gameplay, rendendo il titolo impossibile da giocare.

maxresdefault

Un cecchino che per ricaricare il suo fucile impiega anche 10 minuti, e fa una fatica enorme per mettere a segno il bersaglio, in un titolo come Battlefield 1, è già bello che morto, e “io” ipotetico giocatore, col cavolo che sceglierei un cecchino per giocare, se nella mia partita potrò sparare al massimo uno o due colpi ogni dieci minuti, soprattutto se la partita durerà dieci minuti o già di lì.

Chiaramente quindi, un videogioco per essere realmente coinvolgente deve necessariamente scendere a compromessi, e adottare determinate convenzioni che andranno a sacrificare una certa dose di veridicità storica e di realismo, in cambio di un gameplay decisamente più dinamico e soprattutto rapido.

La veridicità storica di Battlefield 1 in questo senso non è superiore, ne inferiore, a quella di titoli che paradossalmente non sono ambientati in momenti storici precisi, e anzi, sono addirittura collocati in universi immaginari costruiti su misura per quel gioco. Penso a titoli ambientati in mondi fantasy che pur non avendo assolutamente nulla, e sottolineo, nulla, di storico al proprio interno, posso considerarli storicamente attendibili esattamente come, e magari anche più di battlefield 1.

Ma perché avviene ciò ?

Prendo ad esempio in questo caso un titolo come l’osannatissimo Dark Soul o ancora Skyrim, e perché no, anche World of Warcraft, in modo da tracciare un quadro che possa essere il più ampio possibile. E  a questo punto mi direte “ma Antonio, cosa c’è di storicamente attendibile in questi titoli, soprattutto in WOW?”.
Nulla, è questo il punto non c’è assolutamente nulla e proprio per questo, lo sono, proprio come accade in alcune serie televisive e romanzi, dichiaratamente fantasy come ad esempio Game of Thrones, nel cui universo totalmente inventato e costruito a tavolino da Martin, c’è più storia di quanta non se ne possa incontrare in vero e proprio romanzo storico, che di storico ha solo la didascalia.

Skyrim-Detail-Ultra-SliderComparison

Ancora una volta è opportuno procedere con ordine.
Come già detto e ripetuto, per quanto mi riguarda, l’esperienza di gioco non potrà mai essere storicamente soddisfacente, perché il giocatore si annoierebbe decisamente troppo presto, ma un gioco non è fatto di solo gameplay, certo, il gameplay è probabilmente la componente principale e più importante di un videogioco, guarderei un film, leggerei un libro o ascolterei un cd se mi interessasse altro.

Ma è proprio quest’altro che può essere storicamente attendibile e soddisfacente da quel punto di vista, riuscendoci in numerosissimi titoli, che non necessariamente hanno un vero e proprio background storico, ma, nella costruzione del mondo, nella rappresentazione dei rapporti di forza, degli equilibri e delle dinamiche sociali, riescono paradossalmente ad essere più storici di un gioco dichiaratamente a sfondo storico.

Non so se quest’ultimo passaggio è abbastanza chiaro, cercherò di mettere un po d’ordine magari con qualche esempio.

Un titolo come Assasin’s Creed, è, diversamente da quello che può sembrare, storicamente attendibile, non mi riferisco al gameplay per i motivi sopra citati, ne alla trama, dichiaratamente fantasticheggiante e poco realistica, ma penso agli elementi “storici” nelle ambientazioni che vanno a costituire lo sfondo della nostra avventura.

acu_ss3_164427

Abbiamo ambientazioni precise, ben definite nel tempo e nello spazio, e in quelle ambientazioni, se rivolgiamo lo sguardo oltre il nostro personaggio, possiamo osservare precise dinamiche sociali, tra popolo e nobili, tra mercanti e pirati, tra operai e capitalisti, ecc ecc ecc, e cos’è la storia se non l’insieme delle dinamiche e delle trasformazioni sociali che coinvolgono le società umane.

Queste dinamiche sono ben descritte, ben realizzate e se bene non costituiscano l’elemento centrale del titolo, danno forma allo sfondo e all’atmosfera che si può respirare in esso, danno corpo al secondo piano e questi riempiono la maggior parte dello spazio di un titolo, anche se non sempre in maniera così invasiva da permettere al giocatore meno attento di notare certi particolari.

Sabaku no maiku nei suoi video su youtube, da molto spazio e molta attenzione allo sfondo, a ciò che si vede e intravede all’orizzonte, soffermandosi su quei piccoli e quasi insignificanti dettagli che però completano un gioco, rendendolo un bel gioco.
Questi elementi a tutti gli effetti secondari, sono, per quanto mi riguarda, una delle colonne portanti di un buon titolo, e per quanto riguarda la veridicità storica, l’unico elemento che possa realmente ospitarla al cento percento.

image.adaptive.full.medium.

Nel mio discorso voglio quindi dividere il videogioco in tre parti distinte, alcune delle quali possono essere storicamente attendibili, altre non possono e non devono assolutamente esserlo.

Come già detto e ripetuto mille volte in questo mio ragionamento pubblico, non sono un videogiocatore e le mie conoscenze in materia sono abbastanza limitate, ma per questo discorso credo/spero più che sufficienti.

Le tre parti in cui voglio dividere il gioco sono, il gameplay, la trama e d il mondo in cui il gioco è ambientato.
Per quanto riguarda il sistema di gioco e il gameplay, come già detto in maniera più che abbondante, per motivi pratici questi non può assolutamente essere storicamente attendibile, a meno che no si stia giocando ad un simulatore di vassalli nel X secolo.

Per quanto riguarda la trama, la questione sulla possibile veridicità storica diventa di gran lunga più complessa, e se da una parte, in una campagna singleplayer  la veridicità storica può essere presente, accurata e magari anche divertente, senza insorgere in particolari problematiche, diventa un ostacolo bello grosso nel momento in cui si passa ad un potenziale multiplayer andrebbe a limitare tantissimo, oserei dire troppo, le possibilità del giocatore.

In questo caso la veridicità storica, come nel caso del gameplay, ucciderebbe la competizione, rendendo di fatto il titolo ingiocabile. Prendo ancora una volta ad esempio Battlefield 1, ipotizzando di scegliere la Russia, un ipotetico giocatore sarebbe obbligato ad abbandonare il gioco verso la fine, senza alcuna possibilità di vittoria, e chi sceglierebbe mai la Russia, la Germania, l’impero Austro Ungarico o l’impero Ottomano , se, l’unica possibile conclusione in un contesto di realismo storico è la sconfitta ?

cartina-prima-guerra-mondiale

Tutti sceglierebbero di giocare con Francia, Gran Bretagna e USA. Al massimo potrebbero scegliere l’Austria Ungheria e giocarsela contro l’Italia, ma alla fine dovrebbero comunque perdere la guerra.
E se si considera che in una competizione, per quanto la partecipazione possa essere sicuramente importante, alla fine si gioca per vincere, ed ecco allora che il realismo storico applicato alla trama, diventerebbe un ostacolo insormontabile, letale per il videogioco e il videogiocatore.

Arriviamo infine all’ultimo dei tasselli che compongono un videogioco, il mondo in cui un determinato titolo è ambientato, questo può effettivamente essere “realistico” ? Deve sottostare a precise convenzioni affinché il titolo sia godibile ? In questo caso credo che il realismo storico possa presentarsi in maniera dirompente, ed essere accurato fin nel minimo dettaglio, senza inficiare la godibilità del titolo.

La presenza di un mondo storicamente realistico arricchito da elementi grafici in linea con il tempo e lo spazio in cui siamo proiettati, possono costituire un interessante e ricco background in cui vivere la nostra avventura.  Questi elementi che vanno a costruire il sottofondo narrativo possono, e in alcuni casi devono, essere perfettamente coerenti con l’epoca in cui è ambientato il titolo, andando quindi a stabilire e definire i rapporti e le convenzioni sociali che regolano quel mondo, più o meno simile con il nostro mondo in un determinato periodo storico, e questo senza alcun tipo di conseguenze sul gameplay.

sons-of-liberty-series-1

In conclusione, un buon videogioco, che sia realmente giocabile, non potrà mai essere storicamente attendibile al 100%  e ci sarà sempre bisogno di una qualche convenzione che andrà a modificare la percezione di un determinato momento storico, tuttavia, qualunque variazione nel mondo in cui è ambientato andrà semplicemente a creare un nuovo mondo, storicamente “coerente” con se stesso, e sostanzialmente indipendentemente dal realismo del titolo, poiché ciò che conta in un videogioco è la sua giocabilità, e sfido chiunque a giocare con un protagonista lebbroso o colpito dalla dissenteria, mentre è impegnato a schivare secchiate di piscio gettate dalla finestra, e tutto questo durante un inseguimento necessario per completare la propria missione.

 

Chi ha distrutto il Colosseo ?

Rispondere alla domanda “chi fu a mutilare il Colosseo” non è facile, e di certo limitarsi a dire che nel corso degli anni, parti del Colosseo sono state “cannibalizzate” dall’espansione urbana di Roma per la costruzione di altri edifici, non è sufficiente, in fondo è solo un modo per girare attorno alla domanda senza giungere ad una risposta concreta, ma d’altra parte dare una risposta netta probabilmente non è possibile, ma con un po di ragionamento, ed una buona dose di pazienza è possibile indagare sui motivi che alimentarono la distruzione del Colosseo.

Leggi tutto “Chi ha distrutto il Colosseo ?”

La Festa della donna è una ricorrenza comunista?

L’8 marzo si celebra la festa della donna, nome comune per indicare quella che ufficialmente si chiama giornata internazionale della donna, e tutti conoscono la “storiella” della fabbrica newyorkese andata a fuoco, togliendo la vita ad oltre 100 donne, ma questa storiella non ha nulla a che vedere con la giornata internazionale della donna, la sua istituzione o la sua data, quell’incidente si è verificato il 25 marzo 1911, ben sei giorni dopo la prima celebrazione della giornata internazionale della donna, e tre anni dopo la prima giornata della donna.

Questa ricorrenza infatti si celebra  da oltre un secolo, e la prima giornata della donna è stata celebrata il 19 marzo 1909 negli USA, qualche anno più tardi, il 19 marzo del 1911 la celebrazione si svolse anche fuori dagli stati uniti, diventando così “internazionale” , e sempre nel marzo del 1911, il giorno 25 si verificò il drammatico incendio in una fabbrica newyorkese in cui persero la vita 123 donne, per lo più ragazze italiane, ebree e dell’est europa, tra i 13 ed i 17 anni, e che nell’immaginario collettivo, è all’origine della festa della donna (nulla di più falso) visto che l’incidente si è verificato “postumo” ovvero, la giornata della donna era già stata “istituita” al momento dell’incidente, e non è neanche avvenuto l’8 marzo, visto che l’incidente si è verificato il 25 marzo.

Una ricorrenza comunista?

Il motivo per cui, nel 1921 si decise di celebrare la giornata della donna, l’ 8 marzo e non più il 19, come avvenuto negli anni precedenti, è legato in maniera indissolubile alla storia della Russia comunista e quella che noi tutti conosciamo come “rivoluzione di febbraio”. 

L’8 marzo del 1917 le donne russe diedero inizio ad una grande manifestazione contro la guerra, manifestazione che segnò l’inizio della Rivoluzione di Febbraio, e il 14 giugno 1921, durante la seconda conferenza internazionale delle Donne Comuniste si decise di spostare la ricorrenza dal 19 all’8 marzo. Almeno nel mondo comunista/socialista, mentre nel resto del mondo sarebbe stato necessario ancora qualche anno prima che la celebrazione assumesse i tratti che conosciamo.

La trasformazione definitiva che porta la festa della donna a fuoriuscire dall’orbita “sovietica” configurandosi come una vera giornata internazionale, celebrata sia nel primo che nel secondo mondo, avvenne attraverso vari passaggi negli anni del secondo dopoguerra, in piena guerra fredda. Fino al 1975 infatti la giornata della donna è stata celebrata solo nel mondo sovietico, poi, nel 1975, l’URSS ottenne, grazie all’ONU un grande risultato internazionale. Il 1975 fu infatti riconosciuto dall’ONU come l’anno internazionale della donna, e da quel momento in avanti, l’8 marzo divenne definitivamente la giornata internazionale della donna.

Conclusioni

Per quanto possa essere divertente e provocatorio definire la festa della donna come una ricorrenza” di matrice socialista/comunista, la verità è che questa giornata è stata celebrata per la primissime volta fuori dal mondo comunista e negli anni è stata attraversata da diverse anime, tra cui, una delle più importanti che ha permesso alla giornata di mantenersi viva tra primo e secondo novecento, un anima “socialista”.

La giornata della donna cade oggi l’8 marzo data simbolo della rivoluzione di febbraio e pertanto il suo legame con la rivoluzione russa e il mondo sovietico è innegabile, come innegabile è che la prima vera giornata della donna sia stata celebrata negli USA più di 10 anni prima della rivoluzione russa e le primissime istanza di emancipazione del mondo femminile abbiano preso forma nell’Europa continentale e nel mondo britannico di fine ottocento.

La giornata della donna, possiamo dire che nasce come una giornata, uno sciopero, una manifestazione per l’emancipazione della donna e che finisce con il legarsi in maniera indissolubile alla tradizione sovietica. Rappresenta un punto di incontro tra due mondi, tra due realtà che nel vivo della guerra fredda si consideravano incompatibili ed è proprio in quel clima di grande tensione che caratterizzò la guerra fredda che l’occidente filoamericano sentì il bisogno, quasi viscerale, di trovare una “storia alternativa“, per raccontare le origini di quella ricorrenza riconosciuta come estremamente importante e necessaria in tutto il mondo. Con la “storiella” della fabbrica il mondo occidentale prova quindi ad “appropriarsi” o meglio, a “riappropriarsi” oltre mezzo secolo più tardi, di quel concetto di emancipazione, libertà e uguaglianza, intrinsechi nella giornata, concepita nel mondo occidentale e celebrata per la prima volta nel 1905 negli USA, e slittata (per volontà politiche) nell’orbita comunista.

Per una storia più ampia e completa dei passaggi che hanno portato alla definizione e nascita della giornata internazionale della donna, vi consiglio di leggere questo articolo di approfondimento.