Camerlengo: Funzioni e Significato nella Chiesa

La morte di papa Francesco apre discussioni sulla successione papale. Il Camerlengo, figura chiave, svolge ruoli cruciali durante la sede vacante.

La recente scomparsa di papa Francesco, dopo mesi di sofferenza e agonia che hanno lasciato il mondo cristiano con il fiato sospeso, riaccende il dibattito sulla successione del pontefice e le varie speculazioni su chi sarà il prossimo papa.

Lo scenario politico vaticano non ha subito molte trasformazioni rispetto a Febbraio e anche sul piano internazionale, le cose non sono cambiate, pertanto, i ragionamenti e le ipotesi avanzate durante il periodo di degenza del pontefice, rimangono invariate.

Con molta probabilità il prossimo Conclave vedrà l’elezione di un papa appartenente alla corrente politica di Papa Francesco e Benedetto XVI, con posizioni progressiste, ma non radicali, sarà quasi certamente un papa con posizioni più moderate e con una lieve apertura alle correnti più conservatrici.

Tutto avrà luogo nel segreto del conclave, sotto l’occhio vigile del Camerlengo della Santa Sede.

In questo articolo cercheremo di capire chi è e cosa fa il camerlengo durante il conclave, in cosa consiste questa carica.

Chi è il Camerlengo

Cominciamo col dire che quella del camerlengo è una delle figure più antiche e significative nell’amministrazione della Chiesa cattolica romana, il cui ruolo è cruciale durante il periodo di sede vacante e le votazioni in conclave.

La sede vacante inizia con la morte o le dimissioni del pontefice e dura fino alla nomina di un nuovo pontefice, in questo periodo la chiesa cattolica romana e lo stato vaticano sono retti da un reggente, appunto il camerlengo, che combina responsabilità amministrative, in quanto sovorano ad interim della monarchia vaticana, ma anche cerimoniali, poiché è il camerlengo è anche il reggente della Santa Romana Chiesa.

L’attuale camerlengo è il cardinale Kevin Joseph Farrell, nominato da Papa Francesco il 14 febbraio 2019. Generalmente il Camerlengo è una figura di fiducia del papa e da un certo punto di vista è il suo “vice”.

Questa carica è una delle più antiche per quanto riguarda il comparto amministrativo della chiesa, la sua istituzione risale al medioevo ed ha mantenuto un ruolo centrale nella struttura di governo vaticana in tutta la storia politica della chiesa romana, soprattutto nei momenti di transizione papale.

Origine Storica e Etimologia

Come molta della terminologia ecclesiastica, anche il termine “Camerlengo” deriva dal latino medievale, più precisamente da camarlingus, che a sua volta deriva dal germanico kamerling, il cui significato letterale è “addetto alla camera del sovrano“.

Le prime attestazioni di tale figura nel contesto ecclesiastico risalgono al XII secolo, da quel che sappiamo in quel tempo il camerarius svolgeva diverse funzioni legate alla camera thesauraria, ovvero all’organo responsabile dell’amministrazione finanziaria della Curia romana e dei beni temporali della Santa Sede. Una sorta di tesoriere del papa.

Nel corso del medioevo tuttavia la struttura organizzativa e amministrativa della chiesa evolve e la stessa amministrazione papale si sviluppa in modo significativo, consolidando sempre di più il potere temporale oltre che spirituale del papa.

È interessante notare come la creazione di questa carica si inserisaca in un contesto storico di trasformazione della chiesa, più precisamente si inserisce in un contesto in cui la chiesa iniziava a dotarsi di strutture amministrative più complesse e articolate e regolemantate, fondamentali per un istituzione che è sempre più temporale e gestisce un patrimonio materiale di grandi dimensioni.

Tra medioevo, età moderna e contemporanea, molte cariche ecclesiastiche, soprattutto amministrative, hanno subito profonde trasformazioni, molte sono state abolite altre sono state rimpiazzate, mentre il ruolo del Camerlengo è rimasto sostanzialmente invariato.

Responsabilità del Camerlengo tra pontificato e sede vacante

Le funzioni del camerlengo cambiano duranbte il pontificato sono diverse dalle funzioni del camerlengo durante la sede vacante.

Durante il pontificato, il camerlengo dirige l’amministrazione finanziaria della Santa Sede e amministra i beni temporali della chiesa quando il pontefice è in viaggio o temporaneamente assente. Per tali ragioni, è fondamentale che il camerlengo sia una figura di fiducia del Papa, anche perché in un certo senso è il suo vice, il suo più stretto collaboratore

Anche se il Camerlengo è una sorta di “vice papa”, va precisato che, durante situazioni come la temporanea indisposizione del Papa (ad esempio durante un ricovero ospedaliero), il Camerlengo non subentra automaticamente nella governance della Chiesa. Più precisamente, il camerlengo subentra in automatico solo in caso di sede impedita, condizione che si verifica solo in casi eccezionali come durante la sedazione per un’operazione chirurgica.

Se durante il pontificato il Camerlengo non ha “potere di iniziativa“, ed è sostanzialmente una sorta di commissario prefettizio della santa sede, le sue funzioni e le sue responsabilità cambiano durante la sede vacante.

In caso di sede vacante (per decesso del pontefice) il primo compito speciale del Camerlengo è accertare il decesso.

Tradizionalmente, questa verifica avvene attraverso un rituale simbolico in cui il Camerlengo chiama il Papa tre volte con il suo nome di battesimo mentre gli percuote lievemente la fronte con un martelletto d’argento. Se il camerlengo non riceve alcuna risposta, ne dichiara ufficialmente la morte con la formula latina “Vere Papa mortuus est” (Veramente il Papa è morto).

Questo passaggio rituale è in realtà un vero e proprio atto giuridico, poiché secondo il diritto canonico, il Camerlengo è l’unico a possedere l’habilitas (capacità giuridica) richiesta per accertare ufficialmente la morte del Papa.

Questo rituale di accertamento non è privato, e avviene di fronte al Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, dei Prelati Chierici e del Segretario e Cancelliere della stessa Camera Apostolica, che fungono sostanzialmente da testimoni. 

Una volta accertato il decesso del pontefice, la Cancelliere della Camera apostolica ha il compito di compilare il documento o atto autentico di morte, mentre il Camerlengo deve comunicarla al Cardinale Vicario per l’Urbe, il quale ne darà notizia al popolo romano. 

A questo punto il Camerlengo assume la presidenza della sede vacante, durante il quale ha il diritto e il dovere di “curare e amministrare i beni e i diritti temporali della Santa Sede“.

Chi può diventare Camerlengo?

Quella del Camerlengo è una carica estremamente importante, è l’equivalente del maestro di palazzo delle costi medievali, è la figura politica, amministrativa e religiosa più vicina al papa. Nella gerarchia ecclesiastica è la seconda istituzione della Santa Romana Chiesa, per questo deve necessariamente essere un cardinale. Non sono previsti altri requisiti, ma esperienza e vicinanza al pontefice risultano elementi impliciti.

La nomina del Camerlengo, così come la nomina di altre importanti figure del governo della Chiesa, è prerogativa esclusiva del Papa, tuttavia, diversamente dalla maggior parte delle cariche ecclesiastiche, non esistono limitazioni temporali al mandato del Camerlengo che quindi rimane in carica fino a quando il Papa non decide diversamente o fino alla sua morte o rinuncia.

Il ruolo del Camerlengo è generalmente legato al Pontefice e non è rato che, dopo l’elezione di un nuovo Papa, questi nomini un nuovo Camerlengo.

Camerlengo e Conclave

Diventare Camerlengo è una grande responsabilità, un grande onore, ma comporta anche importanti rinunce.

Il Camerlengo come abbiamo visto durante la sede vacante è sostanzialmente il reggente della Santa Romana Chiesa, ma allo stesso tempo, non ha potere di iniziativa, non può produrre iniziative o innovazione, questa limitazione in vero è molto “recente” ed è stata introdotta con la costituzione apostolica Universi Dominici Gregis (1996) e la Praedicate Evangelium (2022).

Durante la sede vacante comunque, il Camerlengo ha numerose responsabilità, tra cui il coordinamento del colleggio cardinalizio, la convocazione del concistoro e la convocazione dei cardinali per il Conclave ed ha un ruolo di rilievo durante lo stesso Conclave.

La venere in pelliccia | WIP

Direttamente dalla nostra pagina Kink Is Freedom, un analisi del classico della letteratura erotica, La Venere in Pelliccia.

Questo articolo è WIP (Work in Progress), non è quindi una versione completa e nel tempo verranno aggiunti altri paragrafi. Si tratta di una tipologia di contenuti che, qualche anno fa, quando Historcialeye era attivo a pieno regime era riservata ai Patreon, voglio però pubblicare e pubblicare tanto, ho quindi deciso di pubblicare articoli e post, anche incompleti, che verranno ampliati eventualmente nel tempo, e per iniziare ho scelto un di parlare di un libro, estremamente complesso, con diversi piani di lettura, che mi e ci darà molte occasioni per ampliare l’articolo.

La Venere in Pelliccia” di Leopold von Sacher-Masoch è uno dei grandi classici della letteratura erotica. Del resto, Masoch, insieme a De Sade, rappresenta uno dei “pilastri” della cultura BDSM.

Fonte inesauribile di polemiche e scandali, fin dalla sua prima pubblicazione nel 1870. Questo romanzo, racconta una straordinaria storia d’amore e intrisa di simbolismo e introspezione psicologica, esplorando le dinamiche di potere e la sessualità in un modo nuovo e inaudito per l’epoca.

Al centro della storia troviamo Severin, un uomo che cerca la sottomissione nelle relazioni amorose, e Wanda, una donna dal carattere dominante e seducente. Attraverso questi personaggi, Sacher-Masoch affronta temi controversi il piacere nella sottomissione e il dominio sessuale.

L’opera sfida le convenzioni sociali, mettendo in discussione i ruoli di genere e le aspettative della società dell’epoca. La figura di Wanda, simboleggiata dalla dea Venere, incarna la femminilità e la seduzione, ma anche una forza e un’autorità che sfidano l’ordine patriarcale.

Al momento della sua uscita, “La Venere in Pelliccia” ha scosso il pubblico, non solo per le sue tematiche audaci, ma anche per il modo in cui ha messo in luce l’ambiguità umana e i desideri nascosti. Il libro, in maniera abbastanza anacronistica, indaga le dinamiche di potere nelle relazioni sociali e l’emancipazione femminile, temi che ancora oggi sono di estrema attualità e anche oggi.

“La Venere in Pelliccia” è più di un semplice racconto erotico; è uno specchio delle complessità dell’animo umano e delle sue contraddizioni. È un invito a guardare oltre le apparenze e a comprendere le profondità del desiderio e dell’identità.

Non è quindi un caso se questo romanzo ha ispirato adattamenti teatrali e cinematografici, tra cui l’omonimo capolavoro di Roman Polanski, e ancora oggi continua a provocare e stimolare la riflessione, dimostrando come le questioni sollevate da Sacher-Masoch siano ancora rilevanti nel nostro tempo.

In attesa di avere una versione definitiva di questo articolo, vi lascio a questo video di Michelle Aprémont, scrittrice, poetessa e indirettamente amica, una volta abbiamo bevuto una birra insieme, siamo praticamente migliori amici… change my mind.



Le origini del Triskele nel BDSM

E se vi dicessi che il Triskele, il simbolo del BDSM per eccellenza, è stato “creato” da un gruppo di Nerd che discutevano di libri erotici su internet nel 1995?

Il triskele è uno dei simboli più iconici del mondo BDSM e pure, la sua storia è relativamente.
Scavando in rete, e tornando indietro nel tempo si scopre che il triskele viene utilizzato come simbolo del bdsm a partire dalla metà degli anni 90 e che i primi luoghi in cui appare sono alcune pagine web, seguite da sexy shop e feste a tema.

Sembra che il triskele bdsm e la sua precisa codifica ormai “standard” si sia diffuso grazie ad Internet, più precisamente grazie ad alcune community online e discussioni su AOL.

Scavando in rete sono riuscito a trovare numerosi riferimenti ad alcune discussioni su AOL risalenti alla metà degli anni 90, e, elemento comune di questi riferimenti è il nome di Steve Quagmyr, che spesso viene indicato come uno dei “leader” di una discussione avvenuta su AOL proprio intorno alla metà degli anni 90.

Sembra che all’epoca ci fosse la volontà, per almeno una community online, di definire un simbolo di riconoscimento, che fosse allo stesso tempo chiaro, facilmente identificabile, facilmente riproducibile e allo stesso tempo discreto e difficilmente riconoscibile per chi non ne conosceva il significato.

In questa discussione, questo fantomatico Steve Quagmyr, viene indicato come colui che propose l’utilizzo di un simbolo derivante dal romanzo Historie d’O. Nel romanzo infatti appare un oggetto, noto alla community come “ring of O”, l’anello di O, che viene descritto come una ruota a tre raggi, dove ogni raggio ricadeva a spirale su se stesso. Questo simbolo nell’omonimo film del 1975 viene sostituito da un anello con un pendaglio che richiama molto l’aggancio di un collare o una catena.

Sulla base di questo simbolo è stato “codificato” il triskele del BDSM, che si configura come un ampliamento del simbolo dello yin-yang in tre parti su cui, sembra per opera dello stesso Quagmyr, è stato edificato un complesso sistema di significati trivalenti.

Questa codifica sembra essere avvenuta nel 1995. Risale infatti al 1995 la prima “definizione” e codifica del triskele, in cui viene descritto in tutti i suoi dettagli, e in cui viene dato un significato specifico ad ognuna delle sue parti.
Per concludere quindi, sembra che il simbolo del Triskele BDSM sia stato codificato da un certo Steve Quagmyr nel 1995, sulla base di un simbolo che appare nel romanzo Historie d’O di “Pauline Réage” del 1954.

Le origini del concetto di Bisessualità

Il concetto di bisessualità viene usato per la prima volta nel 1886, ed è inizialmente considerata una forma di malattia mentale.

La storia della bisessualità è antica come l’uomo, come ci insegna Eva Cantarella nel suo libro Secondo natura, la bisessualità nel mondo antico, tuttavia il concetto di bisessualità è relativamente recente, soprattutto il suo utilizzo applicato alla sfera sessuale.

In questo post andremo alle origini del concetto di bisessualità, applicato alla sfera sessuale cercando di decifrare il contesto storico culturale in cui questo concetto appare per la prima volta.

Il concetto di bisessualità

Il concetto di bisessualità è un concetto coniato nel XIX secolo e originariamente apparteneva al mondo della botanica, ma, sul finire del secolo, venne preso in prestito dalla psichiatria tedesca e utilizzato nello spettro delle malattie mentali.

Il termine bisessuale venne utilizzato per la prima volta in riferimento alla sessualità, nel 1886, nel trattato Psychopathia Sexualis di Richard Freiherr von Krafft-Ebing.

Nella stessa opera appaiono anche per la prima volta i termini Sadismo e Masochismo, derivati dal nome del “marchese De Sade”. Questi due concetti sono stati coniati di proprio pugno da Krafft-Ebing, diversamente il termine bisessuale, come anticipato, è stato preso in prestito dalle scienze botaniche, dove era utilizzato da oltre mezzo secolo.

Psychopathia Sexualis è un testo molto controverso e alo stesso tempo rilevane, non tanto per le proprie teorie ma per il ruolo che ha ricoperto nella storia della sessualità, si tratta infatti di uno dei primissimi studi sul tema, purtroppo però, è un testo figlio del proprio tempo, scritto sul finire del XIX secolo da un uomo del XIX secolo.

Nel testo lo psichiatra tedesco si concentra soprattutto sul tema dell’omosessualità maschile, e, insieme ai tre concetti sopracitati, la inserisce tra le “patologie sessuali” o più comunemente parafilie.

Nella sua opera Krafft-Ebing fonde insieme le teorie di psichiatrica di Karl Ulrichs alla teoria della malattia di Bénédict Morel, arrivando a concludere che “la maggior parte degli omosessuali soffre di una malattia mentale“.

Il testo, estremamente popolare all’epoca, per il quale in appena 6 anni, tra il 1886 e il 1892 vennero realizzate 7 diverse edizioni (dalla settima edizione il testo è stato tradotto anche in lingua inglese), è stato considerato per molto tempo un pilastro delle scienze psichiatriche ed ha avuto una fortissima influenza sulla prima psichiatria forense, nonostante ciò, già dalla prima pubblicazione è stato considerato estremamente controverso e aspramente criticato da diversi ambienti.

Controversie legate al libro di Krafft-Ebing

Come anticipato, il libro, già nel 1886 suscitò scalpore e rabbia, soprattutto negli ambienti ecclesiastici e la chiesa fu tra i più accesi detrattori delle teorie di Krafft-Ebing, anche se, la motivazione delle critiche, purtroppo depone troppo a loro favore del mondo ecclesiastico.

Per la chiesa del XIX secolo, gli uomini bisessuali ed omosessuali erano peccatori, non malati e la malattia mentale costituiva, una forma di “assoluzione morale” dei peccatori che la chiesa non poteva accettare.

In pratica la chiesa attaccava le teorie di Krafft-Ebing perché, considerando omosessuali e bisessuali dei malati di mente, li assolveva dai propri peccati e ciò era inammissibile, in altri termini la malattia mentale era considerata una scusa, una giustificazione, per compiere atti contro natura.

Sul finire del XIX secolo e gli inizi del XX, la bisessualità maschile e l’omosessualità maschile, si trovarono sotto il fuoco incrociato della scienza dell’epoca, che li considerava malati mentali e della chiesa che li considerava peccatori immorali. Diversamente, la bisessualità femminile invece era “accettata” o per meglio dire, tollerata, e in alcuni casi richiesta, soprattutto nei bordelli… ma questa è un altra storia.

Bambini dei Gulag: la Tragica Storia di 10 Milioni “Piccoli Nemici di Stalin” #historyfactchecking

Bambini nei gulag, la drammatica storia di 10 milioni di bambini, vittime del sistema di repressione dell’unione sovietica.

Mi è capitato di imbattermi in alcuni vecchi post (e video), di un blog di divulgazione, di cui non farò il nome, intitolati Bambini dei Gulag: la Tragica Storia di 10 Milioni “Piccoli Nemici di Stalin”, che hanno come oggetto la “strage” di bambini avvenuta in URSS ai tempi di Stalin e dei gulag. Gli articoli partono dal presupposto che nei Gulag abbiano perso la vita oltre 20 milioni di persone, tra cui circa 10 milioni di bambini, tuttavia, la verità dei fatti è leggermente diversa, nella stampa specialistica internazionale, sulla base dei dati ufficiali, è emerso che i gulag fecero circa 20 milioni di vittime, dove per vittime si intende arresti, allontanamenti dalla famiglia, ma non decessi. I decessi stimati nei Gulag, si stima fossero circa 1,6 milioni (bambini e prigionieri di guerra inclusi). Ne consegue che, l’assunto da cui partono quei video sono errati, ma andiamo con ordine.

Introduzione

Bambini dei Gulag: la Tragica Storia di 10 Milioni “Piccoli Nemici di Stalin, si tratta di un titolo forte, inquietante, fa pensare che oltre 10 milioni di bambini dell’unione sovietica, vennero deportati nei Gulag, terribili luoghi di prigionia in cui i deportati vivevano in condizioni disumane, assimilabili a quelle dei lager nazisti. Ma l’articolo non si ferma a questo e arriva a concludere che 10 milioni di bambini morirono nei gulag e che il 40% dei prigionieri dei gulag fossero bambini. E nel sostenere ciò, cita una fonte in cui si dice tutt’altro. In cui si parla di orfanotrofi e istituti per bambini figli di deportati e si denuncia l’abbandono, da parte dello stato, di quei giovani allontanati dalle famiglie e costretti a vivere in contesti urbani degradati.

Tra questo titolo e la realtà c’è la stessa distanza che c’è tra l’articolo e il volume che utilizza come fonte, e si configura come un intero universo di possibilità ancora tutte da esplorare, detto in altri termini, il post è pieno di informazioni errate e dati falsi che non corrispondono ai dati ufficiali, che non trovano riscontro nelle fonti e trae conclusioni arbitrarie e soggettive, prive di alcuna connessione con i dati e le fonti.

Il tutto, condito da un accurata analisi di foto e copertine di libri, degne di un post di QAnon. Memorabile a tal proposito il commento dell’autore che, parlando del volume “Children of the gulag” osserva “la copertina del libro “Bambini dei Gulag”, che ritrae non a caso una bambina con uno sfondo di una foresta di pini.”.

A proposito di Children of the gulag, testo mai tradotto in italiano, non so esattamente perché, ma nel post, ogni volta che viene menzionato il libro, viene utilizzato il titolo ” l’autore del post, ogni volta che lo nomina, viene utilizzato il titolo “bambini dei gulag” traduzione letterale che neanche corrisponde al concetto a cui è costruito il libro. Una più accurata traduzione o adattamento del titolo in italiano dovrebbe essere “figli dei gulag” e il perché lo vedremo più avanti in questo post.

Vittima non significa deportazione o morte

Come già anticipato, vittima non significa necessariamente deportazione o morte, cominciamo quindi con il dire parlare di 10 milioni di bambini che, secondo il post avrebbero perso la vita nei nei gulag, questo dato è errato, ed è frutto di un interpretazione soggettiva (e distorta) dei dati presentati in diverse opere e volumi, distorcendo il concetto di vittima, rendendolo quindi un sinonimo di deportazione e morte. Come anticipato nell’introduzione, nei 30 anni di attività dei gulag, hanno perso la vita, nei campi, circa 1,6 milioni di persone.

Soffermiamoci sul concetto di vittima. Sebbene infatti il dato, 10 milioni, appaia effettivamente nei volumi più autorevoli, questo dato non si riferisce ai bambini morti nei gulag, e neanche ai bambini deportati nei gulag. 10 Milioni furono i bambini vittima del sistema di repressione sovietico, al cui apice c’erano i Gulag, ma Vittime non significa automaticamente deportazione nei gulag, ne morte, e giungere a questa conclusione è un’errata semplificazione, anche se capisco che è facile fraintendere il concetto di “vittima” il cui significato è apparentemente univoco viste le “poche sfumature” della lingua italiana.

Cercherò di essere più chiaro possibile, 10 milioni è il numero di bambini, figli di deportati, che sono stati allontanati dalle famiglie e condotti in orfanotrofi, non è il numero dei bambini deportati nei gulag o dei bambini che hanno perso la vita nei gulag. Quei bambini sono vittime indirette della repressione sovietica, possiamo anche dire che vennero deportati, se questo ci fa sentire meglio, e ci aiuta a dipingere meglio i sovietici come mostri disumani, perché comunque quei bambini vennero allontanati forzatamente dalle famiglie e condotti in orfanotrofi e centri di rieducazione minorile, ma quei bambini, non sono finiti nei gulag e non sono morti nei gulag. Dire che nei gulag hanno perso la vita 10 milioni di bambini è semplicemente falso.

Fatta questa precisazione linguistica, passiamo ad analizzare meglio tutti gli altri dati ed informazioni che vengono riportate nel post.

Revisione dei dati e pubblicazioni

In prima battuta il post ci presenta tre dati estremamente importanti e connessi tra loro, l’articolo parla di oltre 20 milioni di morti nei gulag, di cui 10 milioni di bambini, e come ovvia consecutio logica , viene fuori che il 40% dei prigionieri dei gulag erano Bambini, e, altra conseguenza logica di ciò, i Gulag, diversamente da come vengono descritti nella letteratura scientifica, non furono propriamente delle “prigioni politiche”.

Sono numeri da capogiro, sono numeri enormi, soprattutto se consideriamo che i decessi nei gulag interessarono circa il 10% dei prigionieri, il che significa che in un sistema di paesi che nel 1991 contava complessivamente circa 300 milioni di abitanti e che nel 45 contava più di 26 milioni di vittime causate della seconda guerra mondiale, nei Gulag, in teoria, è transitato il 100% della popolazione sovietica. Già qui dovrebbe suonare un campanello d’allarme e far dire, c’è qualcosa che non va.

In ogni caso, l’articolo si apre in grande stile, dichiarando che, nei gulag, tra il 1930 e il 1960, l’anno di dismissione dei gulag, persero la vita oltre 20 milioni di persone di cui, apprendiamo solo dopo, circa 10 milioni di bambini.

Partiamo dal dato generale dei 20 milioni di decessi in 30 anni, significa circa 1,2 milioni di decessi all’anno. Questa informazione è falsa, ha iniziato a circolare nel 1989, con il crollo dell’URSS e sono state riprese nel 2004, al seguito della pubblicazione del libro “Gulag: A History“, della giornalista statunitense Anne Applebaum, vincitrice del premio Pulizer per quest’opera tanto apprezzata dalla stampa generalista quanto criticata dalla stampa specialistica. Il dato degli oltre 20 milioni di decessi nei gulag è stato smentito quasi immediatamente, in realtà già prima della pubblicazione del libro, poiché i volumi che analizzavano i dati e traevano le prime stime storiografiche sul numero di deportati e vittime dei gulag, hanno iniziato ad uscire già dal 93, al seguito dell’apertura degli archivi dell’ex URSS dopo il crollo dell’URSS, dando così accesso al mondo accademico, tra le altre cose, ai registri relativi ai gulag con annessi documenti sui prigionieri.

Secondo le fonti ufficiali, e per ufficiali è bene precisarlo, non si intende le dichiarazioni del governo sovietico e successivamente quello russo, ma i documenti relativi ai gulag e ai prigionieri, insomma, fonti che sono state verificate da diversi studi storici e revisionati a livello internazionale da numerose reviews (mi dispiace per chi ancora vive ancora immerso nella dialettica della guerra fredda), che vedono concordare la maggior parte degli storici mondiali, indipendentemente dalle proprie simpatie politiche, si stima che tra il 1930 e il 1960 transitarono nei gulag circa 20 milioni di prigionieri.

Transitarono, non morirono. Ai decessi arriviamo tra poco.

Il dato più puntuale registrato fino ad oggi, riporta circa 18,5 milioni di persone deportate complessivamente nei Gulag, ma manteniamoci larghi e restiamo sui 20 milioni, così abbiamo cifra tonda ed è più facile fare i conti. Sempre secondo le fonti ufficiali, il picco massimo di prigionieri presenti contemporaneamente nella rete dei gulag, venne registrato nel 1953, anno in cui si registrarono circa 2 milioni di prigionieri presenti in tutti i campi di concentramento dell’Unione Sovietica.
Questo dato è presentato nello studio Illness and Inhumanity in Stalin’s Gulag pubblicato da Yale University Press, nel 2017 e revisionato sulla rivista di settore The American Historical Review, Volume 123, Issue 3, June 2018, Pages 1049–1051, pubblicato nel giugno 2018.

Altro dato interessante è quello relativo all’indice di mortalità nei gulag, il post parla di 20 milioni di morti, che su 20 milioni di prigionieri accertati, significa un tasso di mortalità del 100% e come potete facilmente intuire, visto che neanche i campi di sterminio nazisti, che erano campi di sterminio, raggiunsero “una tale efficienza” nello sterminare persone, c’è qualcosa che non torna.

Secondo le fonti ufficiali, l’indice di mortalità medio nei gulag è da stimarsi mediamente del 4%, con picchi del 7% registrati tra il 1940 e 1945. Secondo lo studio Victims of Stalinism and the Soviet Secret, di S.G. Wheatcroft, pubblicato nel 1999 sulla rivista Europe-Asia Studies, Vol. 51, No. 2, i picchi di mortalità vengono registrati negli anni in cui nei Gulag vennero trasferiti anche i prigionieri di guerra nazisti, durante la seconda guerra mondiale. Non è dato sapere a quali torture vennero sottoposti perché fornissero informazioni strategicamente rilevanti. Gli anni tra il 1940 e il 1945, osserva Wheatcroft, sono anche gli anni di maggior affluenza di nuovi prigionieri nei campi, secondo i registri infatti, i nuovi arrivi erano dovuti principalmente all’afflusso di prigionieri di guerra e disertori.

Questi dati ci dicono due cose importantissime, la prima, durante la seconda guerra mondiale l’URSS non rispettò le convenzioni internazionali in merito al trattamento dei prigionieri di guerra, ma questa per il momento non ci interessa e comunque non è una novità. La seconda, che invece ci interessa è che il numero complessivo di decessi avvenuti nei Gulag, in tutto il periodo di attività, approssimativamente l’8% dei prigionieri facendo una media ponderata (e non matematica) di tutto il periodo, si aggira intorno agli 1,6 milioni. Ipotizzando inoltre che molti decessi non vennero registrati, possiamo tenerci larghi e stimare circa 2 milioni di decessi. Due milioni di decessi sono sicuramente tanti, sono più di quelli effettivamente documentati o comunque di quelli identificati dagli studi, sono un decimo dei 20 milioni decantati post, ma soprattutto, 2 milioni di decessi complessivi, sono meno di 10 milioni di decessi minorili. C’è ancora qualcosa che non torna.

Questi dati, pubblicati e revisionati su importanti riviste di settore, sono frutto di diverse analisi comparative che hanno preso in esame oltre ai registri dei gulag, anche le cartelle cliniche dei detenuti, i documenti di arresto, i documenti di rilascio, registri sanitari, mortuari e di natalità, e per non farsi mancare nulla, in alcuni studi, sono stati presi in esame anche i documenti pubblici, prodotti dalle persone, dopo il loro rilascio e che, anche se liberi, erano rimaste sotto stretta sorveglianza da parte della Ceka.

Tutte queste informazioni le abbiamo perché l’elefantesca burocrazia sovietica teneva traccia di qualsiasi cosa, e perché diversi studiosi hanno trascorso diversi anni negli archivi di stato dell’ex URSS a Mosca, catalogare e analizzare fascicoli e raccogliendo dati. Abbiamo innumerevoli sorgenti di dati, fonti documentarie, che ci forniscono dati concordanti e coerenti tra loro.

Appurato quindi che quelle 20 milioni di vittime dei gulag, si riferisce ai prigionieri e non ai decessi e che questi invece ammontano a circa 2 milioni, cerchiamo di capire da dove salta fuori quel 10 milioni relativo ai bambini deceduti nei gulag.

Questo dato lo incontriamo già nel titolo, anche se lì non si fa riferimento ai decessi, si parla solo di “piccoli nemici di Stalin” ed è solo nella conclusione del post che si parla apertamente di decessi. Il post si conclude con una dichiarazione di Aleksandr Yakovlev, Commissario del Cremlino per la riabilitazione delle vittime della repressione politica, datata 2002. In questa dichiarazione Yakovlev asserisce che sono stati circa 10 milioni i bambini vittime del sistema di deportazione minorile e della repressione sovietica.

Yakovlev ha effettivamente riportato questo dato, ha parlato di 10 milioni di bambini vittime dei gulag, e come abbiamo specificato più volte, fonti alla mano, vittima non significa decessi.

Le dichiarazioni di Yakovlev, coerentemente a quanto emerso dalle fonti di cui sopra, parlano di circa 10 milioni di bambini che si sono ritrovati a fare i conti con la macchina della repressione, attraverso l’arresto dei propri genitori e dei propri familiari, bambini che sono stati dati in affidamento ad orfanotrofi e strutture rieducative e che, molto spesso, sono stati abbandonati a loro stessi.

Nel volume Children of the gulag, pubblicato da C.A. Frierson e S.S. Vilensky tramite Yale University press nel 2010, gli autori hanno concentrato i propri studi proprio sui bambini vittima del sistema di repressione dell’URSS. Di questo volume parleremo in maniera più ampia in un paragrafo dedicato più avanti perché apparentemente il post cita questo volume come fonte, tuttavia, il volume e l’articolo, forniscono numeri diversi, il volume parla di 10 milioni di vittime, il post parla di 10 milioni di decessi, e non serve che ripeta ancora una volta che vittime e decessi non sono sinonimi.

Passiamo all’ultimo dato, il 40% dei prigionieri dei Gulag costituito da Bambini. L’autore del post scrive “Nonostante la visione popolare del Gulag come “sistema di repressione politica”, in questi campi erano pochi i prigionieri classificabili come “politici” e il 40% degli internati erano solo dei bambini, innocenti collegati in qualche modo a genitori colpevoli di qualsiasi accusa.

Su questo dato ammetto la mia ignoranza, non ho la più pallida idea del dove l’autore abbia reperito questo dato del 40%, la maggior parte degli studi di settore citati fino ad ora non presentano questo dato. Personalmente credo sia una proporzione fatta tra i 20 milioni di prigionieri e i 10 milioni di minori, ma non ne sono troppo sicuro visto che il rapporto in quel caso sarebbe al 50%.

In ogni caso, i minori vittima del sistema di repressione, ovvero, i figli di deportati, come abbiamo visto, furono effettivamente circa 10 milioni, ovvero il 50% rispetto ai deportati. Qui va fatta un altra precisazione, 50% rispetto ai deportati e non 50% dei deportati. Questi 10 milioni di bambini, figli di deportati, non vennero deportati insieme ai propri genitori nei gulag, vennero invece trasferiti in orfanotrofi e istituti rieducativi, se vogliamo, per darci un tono, possiamo parlare comunque di deportazione, ma è una deportazione verso istituti diversi dai gulag, istituti di cui esistono i registri e che sono ampiamente documentati.

C’è però da dire una cosa, alcuni bambini vissero effettivamente nei gulag, questo avvenne perché nacquero nei gulag stessi, da donne deportate durante la gravidanza o che vennero concepiti nei gulag, in seguito a rapporti non sempre consensuali, ma non siamo qui per parlare degli stupri nei gulag. Il numero di bambini che vissero nei gulag, e che non erano prigionieri, vivevano in strutture separate dai gulag e seguivano una dieta più ricca e varia (comunque misera) rispetto a quella dei prigionieri.

Lo studio Glasnost’ and the Gulag: New Information on Soviet Forced Labour around World War II di
Edwin Bacon, pubblicato su Soviet Studies, Vol 44, No.6, nel 1992, stima la dieta dei prigionieri nei Gulag, tra le 700 e le 1000 chilocalorie al giorno, una dieta inadeguata alle condizioni di lavoro e le temperature, che richiederebbero una dieta da circa 3300 chilocalorie al giorno. Nel caso dei bambini la dieta è stimata intorno alle 2000 chilocalorie al giorno, analogamente alla dieta dei bambini nei gli orfanotrofi e istituti di rieducazione, dove sappiamo non esistere distinzione nella dieta per “orfani” e figli di deportati.

Purtroppo l’entità dei bambini che nacquero e vissero nei gulag, non è ancora nota agli storici, ma si stima essere nell’ordine delle decine di migliaia.

L’ordinanza numero 00486

Nei primi paragrafi del post, si parla della deportazione di bambini nei campi di concentramento e viene citata l’ordinanza n° 00486, prodotta dal commissario del popolo per gli affari interni dell’URSS (NKVD) in data 15 Agosto del 1937. Secondo l’autore del post, cito testualmente “l’ordinanza documenta l’“Operazione di repressione delle mogli e dei figli dei traditori della Patria”, si dice inoltre che, secondo questa ordinanza “mogli e figli dei traditori” erano classificati “socialmente pericolosi”, non per le loro azioni ma per quello che avrebbero potuto fare in futuro, in quanto parenti di nemici del popolo.

Sorvolando, sul fatto che nel post (non l’ordinanza) si sofferma su mogli e figli dei nemici del popolo, ignorando invece mariti, fratelli, sorelle, genitori e familiari in generale, il post continua dicendo che “mogli e figli adolescenti erano destinati ai lavori forzati, mentre i più piccoli erano destinati agli orfanotrofi della kvd (Narodnyj komissariat vnutrennich – Commissariato del popolo per gli affari interni)” specificando che, la distinzione tra figli adolescenti e figli più piccoli, era arbitraria, più o meno come sono arbitrarie le conclusioni a cui si giunge nel post.

L’ordinanza numero 00486 viene citata, ma non ci viene mostrata, ne ci viene detto cosa effettivamente contenga.

Ho provato a risalire al testo dell’ordinanza, se l’autore del post l’ha citata ipotizzo ne abbia letto il contenuto, da qualche parte deve essere, ma ammetto di non essere riuscito a trovarne il testo, ho però trovato alcuni articoli che annoverano questa stessa ordinanza tra le note bibliografiche, come ad esempio un articolo pubblicato sulla rivista telematica di studi sulla memoria femminile, a cura di Emilia Magnanini, dell’Università Ca’ Foscati di Venezia, in cui viene menzionata l’ordinanza 00486, articolo che si concentra sul tema delle condizioni dei “figli dei deportati nei Gulag”.

I figli dei gulag

L’articolo di Emilia Magnanini usa come fonte primaria per il proprio articolo un volume, pubblicato a Mosca nel 2002, intitolato “Deti Gulaga. 1918-1956” a cura di S.S. Vilenskij, A.I. Kokurin, G.V. Atamaškina e I. Ju. Novičenko, si tratta di un volume dal valore epocale perché una delle primissime pubblicazioni in cui vengono riportati documenti relativi non solo ai deportati nei Gulag ma anche ai loro familiari e tra questi documenti figura anche la famigerata ordinanza 00486 dell’agosto 1937.

Secondo Magnanini, i documenti presentati in Deti Gulaga sono estremamente eloquenti e ci parlano del destino di milioni di bambini e adolescenti che hanno subito gli effetti della repressione che aveva colpito i loro genitori.

Nell’articolo, Emilia Magnanini ci dice testuali parole “la stragrande maggioranza dei minori finiva negli orfanotrofi, negli istituti correzionali o persino nel lager dopo essere rimasti soli perché i loro genitori erano contadini deportati e morti di stenti, o perché erano stati arrestati e fucilati, oppure condannati al lager”

Inoltre, nei documenti ufficiali, osserva Magnanini, ricorre spesso il termine “besprisornye”, termine utilizzato per indicare i ragazzi ospitati negli istituti di rieducazione. L’etimologia di questa parola parte dal concetto di “ragazzi sfuggiti alla vigilanza (degli adulti)”, “ragazzi di strada”, “criminalità minorile”.

L’articolo di Magnanini giunge alla conclusione che, quella situazione di criticità e disagio per molti giovanissimi sovietici, costretti a vivere alla giornata, era effetto della repressione. L’articolo è estremamente critico nei confronti dell’URSS e fa le pulci al modo in cui lo stato sovietico, tra il 1930 e 1960, ha gestito figli dei deportati, de facto abbandonandoli a loro stessi. In tutto questo però, nell’articolo non si fa riferimento, se non in un contesto generale, alle deportazioni minorili. Neanche quando l’articolo cita come fonte l’ordinanza 00486. Detto più semplicemente, l’articolo di Magnanini, che parte dal “Deti Gulaga” e analizza i documenti ufficiali tra cui le lettere e diari dei ragazzi figli di deportati, le lettere e diari degli stessi deportati, oltre ad atti burocratici, non ci dice che i figli dei deportati venivano deportati a loro volta perché figli di deportati o che i familiari adulti dei deportati venissero arrestati in via precauzionale, ne ci parla di bambini deportati e deceduti nei gulag, nonostante i bambini vittima della repressione sovietica sono proprio l’oggetto dell’articolo.

Ci dice invece che questi, i figli dei deportati, rimasti senza genitori e abbandonati a loro stessi, vennero portati in orfanotrofio, i più grandi in istituti correttivi, e in quel clima di degrado e disagio, circondati da altri ragazzini che avevano vissuto un disagio simile o che avevano commesso dei crimini, circondati da “ladruncoli e criminali“, alcuni di loro iniziarono a sviluppare sentimenti avversi e ostili all’URSS, avvicinandosi quindi a gruppi sovversivi e reti di cospiratori anti governative e quando scoperti, perché comunque sotto sorveglianza, vennero deportati a loro volta.

Non c’è in questo una deportazione precauzionale, c’è invece una serie di azioni e reazioni che si alimentano a vicenda.

Nell’articolo di Emilia Magnanini, tra le altre cose, viene riportato il testo (tradotto) di alcune lettere e documenti che raccontano proprio questo disagio e angoscia, questo senso di abbandono vissuto dai figli dei deportati.

Children of the Gulag di Frierson e Vilensky

Tornando invece al post, questi, nella parte centrale arriva al vero topic. In questa sezione vi viene riportata la storia di alcuni bambini ed è indicata come fonte (finalmente appare una fonte) il volume Children of the gulag” a cura di Cathy A. Frierson e Semyon S. Vilensky edito da Yale University press nel 2010, per qualche motivo italianizzato in “bambini dei gulag” anche se il volume non è mai stato tradotto in italiano.

Premesso che la traduzione “bambini dei gulag” è una traduzione letterale, e non un adattamento e che una più corretta traduzione, che ricalchi il concetto espresso dal titolo del volume, sarebbe “figli dei gulag” (come l’articolo di Magnanini).

In ogni caso, nulla da dire sulle storie che ci vengono raccontate, c’è qualche foto e qualche informazione sui bambini protagonisti delle vicende, in particolare il post si sofferma sulla particolare storia di Engelsina Markizova, bambina della regione di Buriata, vicina alla Mongolia, che venne ritratta con Stalin in un servizio fotografico ufficiale del 1936 poi utilizzato per fini propagandistici.

Voglio però spendere qualche parola sul volume curato da Frierson e Vilensky, il volume, proprio come Deti Gulaga prima d’esso, indica come fonti numerosi documenti degli archivi sovietici declassificati dopo la caduta dell’URSS. Si tratta nella maggior parte dei casi degli stessi documenti utilizzati in Deti Gulaga, a cui se ne aggiungono di nuovi, risultando in questo senso molto più ricco e aggiornato.

La cosa interessante è che uno degli autori di Children of the Gulag è Semyon S. Vilensky, è anche uno dei curatori del volume Deti Gulaga e, nella bibliografia di Children of the Gulag, viene citato tra gli altri riferimenti bibliografici proprio Deti Gulaga. In questo non c’è nulla di anomalo o sorprendente, si tratta di studi simili e in continuità tra loro, separati da circa 10 anni (il primo è del 2002, il secondo del 2010), che partono da una base documentaria comune, fatta di fonti di prima mano, e affrontano aspetti diversi di una problematica comune.

Come per Deti Gulaga, anche Children of the Gulag è un volume di alto profilo, fondamentale per chiunque voglia approcciarsi allo studio dei Gulag e della società sovietica, il volume è ricco di mappe, fotografie, cronologie, appunti e tabelle riportanti i dati ufficiali, insomma, è un opera monumentale, che oltre ad un analisi corale e comparativa di innumerevoli fonti, fornisce ai lettori la più imponente selezione di fonti primarie, che si possa immaginare. Documenti di prima mano fondamentali per la ricerca storiografica che, senza quest’opera, sarebbero estremamente difficili da reperire per chi non vive a Mosca.

Per questi ed altri motivi, Children of the Gulag è stato ed è tutt’oggi molto apprezzato dalla comunità scientifica, ricevendo numerose reviews positive. Tra le varie reviews, , che non sono recensioni, ma più delle verifiche delle fonti, nella primavera del 2011 la rivista Slavic Review, Volume 70 , Issue 1, edita da Cambridge University Press, alle pagine 197-198, pubblica una delle tante reviews dell’opera.

Nell’articolo, Children of the gulag viene citato come fonte e arriva alla conclusione che, nei gulag, persero la vita circa 10 milioni di bambini sovietici, figli di deportati accusati di essere “nemici del popolo”, ma, in Children of the Gulag ci viene detto che i deportati complessivi furono circa 20 milioni, in linea con gli altri studi di settore e non si fa riferimento a bambini deportati nei gulag, nonostante l’oggetto dell’articolo sia proprio il destino dei bambini vittime del sistema di repressione sovietico. A tal proposito voglio citare direttamente la Reviews di Children of the gulag pubblicata su Slavic Review nel 2011.

“What comes out in these interviews and, indeed, in the entire book, is the way in which this population of victims did not experience a single traumatic moment but a lifetime of crippling blows. In one of these interviews, an orphaned child of “enemies of the people,” Boris Faifman, described his days as a thief in the company of juvenile criminals. Later, Faifman will mourn his parents three times, in his words, first when they were arrested, second when he was told they had died of heart disease in Kolyma, and a third time when he learned the truth—as late as 1962—that they had, in fact, been executed.”
“Ciò che emerge in queste interviste e, in generale, dall'intero libro, è il modo in cui questa popolazione di vittime (si riferisce ai figli dei deportati) non ha vissuto un solo momento traumatico ma una vita di colpi paralizzanti. In una di queste interviste, un bambino orfano di “nemici del popolo", Boris Faifman, ha descritto i propri giorni come ladro in compagnia di criminali minorenni. Più tardi, Faifman piangerà i suoi genitori tre volte, nelle sue parole, la prima quando erano stati arrestato, la seconda quando gli avevano detto che erano morti di malattie cardiache a Kolyma, e la terza quando ha appreso la verità - nel 1962 - scoprendo che in realtà erano stati giustiziati.”

Riassumendo, Boris Faifman, il protagonista di questa vicenda è uno dei tanti “figli dei gulag” che fino al 1962 non aveva idea di cosa fossero i Gulag, che non ha mai visto un Gulag e che (fortunatamente per lui) non è stato deportato in un gulag perché “figlio di nemici del popolo”, deportati ed entrambi giustiziati in un gulag.

L’opera di Frierson e Vilensky, così come il più recente articolo di Magnanini di cui sopra, e come anche Deti Gulaga dello stesso Vilensky, ci parlano del dramma dei ragazzi figli di deportati, delle loro condizioni di vita difficilissime, del loro abbandono, del loro essere vittime dirette e indirette della repressione sovietica ed è per questo che quei bambini sono “figli dei gulag“.

In Children of the gulag, Frierson e Vilensky ci raccontano le storie dei figli dei gulag, ci raccontano storie di abbandono, di sofferenza, di vite distrutte dalla repressione, ci raccontano le storie di quei ragazzi che sono stati abbandonati a loro stessi, a cui lo stato sovietico ha tolto tutto, ha portato via la famiglia e a cui è stata negata una vita normale, normale per quella che era la normalità sovietica dell’epoca, ciò nonostante, non sono storie di bambini deportati nei gulag perché figli di “nemici del popolo” e non sono storie di bambini che hanno perso la vita nei gulag dopo essere stati deportati perché figli di deportati.

Il volume, citato come fonte del post, che non è assolutamente accomodante nei confronti dell’unione sovietica e ne denuncia la crudeltà della repressione a colpi di dati, fonti e testimonianze, mostrando la natura disumana e disgustosa dei Gulag, non ci parla di 10 milioni di bambini che persero la vita nei gulag.

Per fare ciò il volume ci fornisce informazioni accuratissime sugli orfanotrofi, sugli istituti rieducativi, sul tasso di criminalità minorile tra figli di deportati e ci parla anche del tasso di mortalità dei bambini e adolescenti nelle strutture rieducative, mortalità dovuta a pessime condizioni igienico sanitarie, spesso maltrattamenti e in alcuni casi suicidi. Il volume ci dipinge un ambiente sociale terribile per dei minori, un ambiente degradato e carico di sofferenza, in cui permane uno stato di abbandono e un senso di solitudine costante.

Conclusioni

L’articolo decontestualizza e decostruisce le fonti, proponendo una propria narrazione e interpretazione dei fatti, non basata sulle fonti, ma basata su preconcetti e idee di parte. L’articolo ci parla di 10 milioni di bambini deceduti nei gulag, ma nei gulag non hanno perso la vita 10 milioni di bambini, e neanche 10 milioni di persone indipendentemente dall’età. L’articolo confonde il significato di “vittime” facendo passare 10 milioni di bambini che più o meno direttamente hanno avuto a che fare con la macchina della repressione, per decessi di minori.

In URSS al tempo dei gulag sono stati commessi crimini atroci, ben più gravi dell’assassinio, a quei bambini allontanati dalla famiglia, abbandonati a loro stessi e consegnati ad un destino di criminalità, odio e miseria, è stato tolto tutto, ma non la vita e non la loro storia. I loro nomi non vennero cancellati, la loro memoria non venne abrasa, la loro vita venne sì distrutta, ma non eliminata.

I figli dei deportati, come nel caso di Boris Faifman, mantengono il proprio nome, e in un perverso spirito materno, la grande madre Russia che aleggiava sull’URSS ha quasi cercato di “proteggerli” dalla repressione che applicava. Ha cercato di “proteggerli” da se stessa, in modo discutibile e aberrante, mentendo loro sull’arresto dei genitori, sulle cause della morte dei genitori, sul perché venissero portati in orfanotrofio, nascondendo loro informazioni e raccontando loro una verità di facciata nel tentativo di plasmarli come dei “bravi patrioti e servitori della patria“, analogamente a quanto accaduto in Italia con i balilla, in germania con la gioventù hitleriana e in generale, nel mondo cristiano con l’azione cattolica ragazzi, ma pur nascondendo loro la verità su cosa fosse successo ai propri familiari, diversamente da quanto asserito, Frierson e Vilensky, ci dicono che non viene tolta loro l’identità. Nell’articolo viene raccontata la storia di Engelsina Markizova, non ci viene però detto che Engelsina Markizova conosceva il proprio nome, conosceva il proprio passato ed è stata lei stessa a raccontare che quel passato nessuno ha provato a portarglielo via, e questo perché, in quella logica perversa della società sovietica, terminata la prigionia nei Gulag, gli ormai ex prigionieri (sopravvissuti e rieducati) potevano ritornare dalle proprie famiglie e sono milioni gli uomini e le donne che, dopo la prigionia, sono tornati a casa dai propri familiari.

Bibliografia

Il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte | Storia Laggera

il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo, fu un sogno, un idea, una visione, ma anche un incubo, una dannazione, una delusione.
Il 5 Maggio moriva un uomo, ma non la leggenda di Napoleone.

Ei fu. Siccome immobile, Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore…

Al Manzoni non serve altro per definire quel momento, non servono nomi, perché la storia, la fama e l’eco della leggenda di Napoleone sono più che sufficienti affinché chiunque legga, sappia e capisca che si parla di lui e della sua inattesa e prematura scomparsa.

Un unico indizio ci viene dato, nel titolo, la data, quella data, il 5 maggio, quel 5 maggio, quel fatidico 5 maggio 1821, in cui Napoleone lasciò per le proprie spoglie mortali.

Prologo

200 anni fa, il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo. Napoleone fu un sogno, un idea, una visione, ma allo stesso tempo Napoleone fu un incubo, una dannazione, una delusione.

Celebrato, osannato, temuto, discusso, deriso.

Napoleone fu tutto e nulla, fu uomo e leggenda e quel 5 maggio la sua morte segnò una ferita profonda nella storia dell’umanità.

Luce polare o macchia indelebile che fosse, il 5 maggio napoleone morì, e il mondo sapeva che con la sua morte qualcosa finiva, ma allo stesso tempo sapeva, perfettamente che quel giorno moriva un uomo, ma non la sua leggenda.

Così, giocando con le parole di Alessandro Manzoni e della sua ode “il 5 maggio” , un componimento che in me ha sempre acceso le stesse sensazioni della “stagioni” di Francesco Guccini (brano che cita la stessa 5 maggio, ma questa è un altra storia, che vi ho già raccontato qualche anno fa), ho voluto scrivere questo mio post, questo mio pensiero su quell’uomo che cavalcò sull’Europa, che conquistò i cuori di milioni di uomini e donne, di milioni di anime in tutta Europa, anime che deluse furono la causa della sua caduta.

La notizia

La notizia giunge in Europa diverse settimane dopo la dipartita dell’ex imperatore, ma è normale, ci troviamo agli inizi del XIX secolo, i tempi dell’informazione dell’epoca sono molto lenti, perché una notizia giunga dalla periferia estrema dell’impero britannico, dall’isola di Sant’Elena, luogo di prigionia dell’ex imperatore, scelta perché lontana dalle principali rotte commerciali, è necessario che una nave parta ed approdi in qualche porto più frequentato, e da lì, può diffondersi verso l’Europa e il mondo.

L’aria che si respira in Europa è in quel momento un’aria tesa, pesante, è aria di tempesta che mina le fondamenta stesse dell’Europa post congresso di Vienna. Italia e Spagna sono attraversate da un’idea di rivoluzione, che però non riesce a concretizzarsi, almeno non in quel momento, e le rivolte che si consumano in quegli anni tra 1820 e 1821, una dopo l’altra vengono sedate nel sangue proprio in quel 1821.

Il tessuto del congresso di Vienna regge, l’Europa delle teste coronata è sopravvissuta a Napoleone, o almeno così sembrava in quel momento.

Gli effetti della morte di Napoleone sulla gente

Napoleone Bonaparte era morto, l’uomo era morto, ma non il suo ricordo, non le leggende né l’eco del suo nome. Un nome che, anche se non particolarmente amato era sinonimo di cambiamento. Napoleone era stato la spina nel fianco delle teste coronate e nonostante tutto, aveva portato in Europa una nuova classe dirigente di astrazione popolare.

Qualcuno gioiva di fronte alla notizia della dipartita del tiranno, altri speravano, o forse sapevano, che un giorno quello spirito ardente, figlio e incarnazione stessa della rivoluzionario, espressione del destino, della volontà di Dio, sarebbe ritornato ad infiammare l’Europa.

I contemporanei di Napoleone non sanno dove o quando, ma non hanno dubbi, da qualche parte, un giorno, un nuovo “Napoleone” sarebbe tornato, da qualche parte, in modo totalmente inaspettato, sarebbe apparso qualcuno che come lui avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia umana. E in quel momento Napoleone era esattamente quello, un segno indelebile, per alcuni una stella polare, per altri una macchia, nella storia umana.

Manzoni e Napoleone

Manzoni nel proprio componimento, nella sua ode “il 5 maggio” ripensa a se e al proprio rapporto con la figura di Napoleone, al quale, per scelta, prima di quel momento, mai aveva dedicato alcunché, né un ode, né una poesia, nulla.

La scelta del Manzoni è dettata dal rammarico e dalla delusione da quell’uomo, la cui vita è stata degna di un poema epico, ma al contempo, pur essendosi presentato al mondo come paladino di certi ideali rivoluzionari, rimaneva un uomo, un uomo che alla fine antepose il proprio potere e i propri interessi ai popoli d’Europa, popoli che in origine erano il muscolo più forte delle armate napoleoniche ma che alla fine gli si voltarono contro, scegliendo le antiche aristocrazie contro quello stesso Napoleone conosciuto come salvatore e liberatore.

Come era percepito Napoleone dai contemporanei?

Napoleone è stato un uomo che dal nulla creò un impero universale su suolo europeo, degno di Roma, un uomo il cui genio fu sconfitto solo dalle proprie ambizioni e dal proprio orgoglio, dal tradimento dei popoli e la riluttanza a stringere alleanze.

Napoleone è stato un uomo che si scagliò contro il mondo, andando in contro ad una certa sconfitta e, anche se sconfitto, anche quando fu “mutilato” del proprio impero, non si arrese, tornò in campo, marciò su Parigi, riconquistò il potere e solo sfidò nuovamente il mondo. Ma era tardi, e in quella lotta con il mondo, il mondo gli oppose i popoli in armi che lui per primo aveva concepito, quei popoli che lui aveva tradito, e fu proprio la collera di quei popoli abbandonati che infuriò contro l’uomo, ma non contro ciò che l’uomo rappresentava, segnando definitivamente il declino del suo potere temporale, pur lasciando accesa la fiamma di una nuova speranza.

Una speranza fondata sul ricordo nostalgico di quelle imprese raccontate nell’allegria amara di boccali di vino e calici di birra. Rigorosamente invertiti, a rappresentanza figurata di quell’ordinamento sociale già una volta stravolto. 

Napoleone è morto, viva Napoleone!!!

Il 5 maggio 1821, moriva Napoleone bonaparte, e la notizia della sua dipartita si diffuse a macchia d’olio in tutto il mondo, tra i suoi sostenitori e i suoi avversari, tra chi ancora credeva in lui, chi ne era rimasto deluso e chi lo temeva. 

Ma indipendentemente dalle proprie posizioni, tutti, senza eccezione, apprendendo la notizia rimasero senza parole, perché tutti sapevano, senza eccezione, che la morte dell’uomo non ne segnava la fine. Che il suo paradiso, o inferno, era terreno che lì sulla terra, tra gli uomini, quel nome non sarebbe stato mai più dimenticato, e in quel momento, di fronte alla notizia uno degli uomini più influenti del proprio tempo, forse il più influente di quello e dei secoli immediatamente precedenti e successivi, non era più, il mondo trattenne il fiato.

Manzoni chiude il proprio componimento richiamando la divina provvidenza, la mano di Dio che interviene per sottrarre ad una vita di sofferenze un uomo immenso, che la satira britannica dipingeva come minuto. E l’intervento divino è sufficiente a passare una mano di spugna sulla salma di Napoleone, allontanando da essa ogni parola malevola.

Napoleone come idea

Nella morte Napoleone ritrova la propria grandezza perduta, la propria essenza ascetica, dismettendo i panni del tiranno, dismettendo i panni dell’uomo e indossando ancora una volta e per sempre, la splendente veste degli ideali rivoluzionari.

Ecco che la morte passa la propria mano sulle ceneri dell’uomo, consacrando la sua leggenda e restituendo, alle generazioni future il nodo materiale del giudizio.

Napoleone per i compagni è stato, ed ora non è più, e se la sua vita sia quella di un tiranno, di un conquistatore, di un giusto tra gli uomini o di un visionario, la decisione ultima sarebbe spettata alla storia.

Manzoni lascia ai posteri l’arduo compito di esprimere un giudizio morale su napoleone, e nel proprio componimento immortale, lo racconta tra luci e ombre, attraverso l’occhio di un uomo, un poeta, un intellettuale ottocentesco che Napoleone lo ha visto e vissuto, da lontano, da uomo comune che rimane deluso per le scelte politiche del grande imperatore.

Manzoni, e come lui una fetta importante di uomini e donne europei avevano visto in Napoleone un qualcosa, una speranza, una visione mai completamente realizzata, un sogno troppo a lungo rimandato, l’uomo era stato idealizzato e in quella umana elevazione si tradusse presto in una amara delusione vissuta con sofferto rammarico, almeno fino a quel 5 maggio.

Quando i bianchi pagavano per colpire bambini di colore alle feste razziste degli USA.

Wisconsin, USA, anno 1942, per promuovere le attività del campo estivo per bambini all’YMCA Camp Minikani, viene stampato un opuscolo, tra le cui pagine figura questa immagine.

Nel cartellone si legge “hit the nigger baby“, si trattava all’epoca di un gioco colto comune nelle fiere americane e alle feste di compleanno e di carnevale, ed è ancora oggi praticato, noto anche come “The Black dodger” o “Hit the Coon“, in cui i giocatori lanciavano oggetti come uova o palle da baseball contro un bersaglio. E, a fare da bersaglio era solitamente un uomo o un bambino di colore.

Il gioco, a quanto risulta, è stato praticato fin dalla fine del XIX secolo e almeno fino agli anni 50 del novecento.
Probabilmente era praticato anche prima, ma a fare da bersaglio erano degli schiavi.

Secondo quanto riportato dal Jim Crow Museum della Ferris State University

“It sounds like a common carnival target game, but there was one unsettling part of the game, namely, the game’s target was a real live human being, a ‘negro’ human being.

Nel luglio del 1948, per celebrare i soldati ritornati dalla guerra in europa, nello stato dell’Indiana, venne organizzata una festa nella città di Brownstown, questo evento venne pubblicizzato con uno striscione in cui c’era scritto

“Make this big week your vacation time — Bring the family — meet old friends — Hit the ‘Nigger Babies’ — Eat Hot Dogs — Join the Fun.

Traduzione: Fai di questa grande settimana il tuo tempo di vacanza – Porta la famiglia- incontra vecchi amici – Colpisci il bambino negro – Mangia Hot Dog – Unisciti al divertimento.

Secondo Franklin Hughes, un collaboratore del Jim Crow Museum ed esperto in media digitali, il gioco ha continuato ad essere praticato anche dopo gli anni 50, con qualche variazione.

In alcuni casi il bersaglio umano è stato sostituito da bersagli in legno, che, in alcuni casi, attiva un meccanismo che fa cadere una persona in una piscina.

In questa versione più civilizzata non si colpisce più una persona, e il soggetto che cade nella vasca d’acqua, oggi è consenziente e spesso pagato, nelle fiere ad esempio, ha osservato Franklin Hughes in un articolo pubblicato nel 2012 su questo tema, a stare seduto su una pedana, protetto da un pannello in plexiglas trasparente, è solitamente un Clown.

Se volete approfondire, vi lascio un articolo di Franklin Hughes dell’ottobre 2012, pubblicato per il Jim Crow Museum of Racist Memorabilia, per la rubrica “la domanda del mese” intitolato “The African Doger“, in cui Hughes risponde alla domanda “Qualcuno mi ha detto che i bianchi pagavano per tirare palle ai neri al circo, è vero?” posta da Stephanie S.

Purtroppo, la sintesi dell’articolo e risposta a questa domanda è “si, e l’hanno fatto almeno fino agli anni 50, poi è diventato illegale”.

Fonti :

F.Hughes, The African Doger, 2012
Snopes, Fact Checks, Was a Violently Racist Carnival Game Once Popular in America?

La storia del gioco della Scopa, un gioco da Pirati!

Il gioco della scopa è un gioco da pirati, e questa è la sua storia.

La storia del gioco della scopa ha origini antiche, nel mediterraneo del XV secolo. Il gioco era praticato inizialmente da marinai, contrabbandieri e pirati.

Il gioco della Scopa è, insieme alla briscola, il gioco di carte Italiano per eccellenza. Praticato nei circoli anziani, nei club politici, e nelle feste di natale per far passare le lunghe pause tra una portata e l’altra nell’attesa della mezzanotte. Ma il gioco della Scopa, ha una lunga ed interessantissima storia alle spalle, e voglio raccontarvela.

Faccio una premessa, in questo racconto, la differenza tra scopa e scopone scientifico, non esiste, oggi sono giochi differenti, ma in passato erano la stessa cosa, e non ci interessa più di tanto sapere quando si sono separati. Comunque, se proprio vi interessa, si sono separati agli inizi del novecento, ma come dicevo, questo è irrilevante, perché la storia della Scopa, inizia almeno quattro secoli prima.

Il contesto storico in cui è nata la scopa

Siamo in pieno rinascimento italiano, il medioevo è al tramonto e l’età moderna si affaccia sul mediterraneo, fino a quel momento il centro imperturbabile del mondo, in quelle acque per gran parte del medioevo e quasi tutta l’età moderna, pirati e corsari, europei e ottomani si sono affrontati in duri scontri per la supremazia.
Quando si parla di età moderna e di pirati, siamo abituati a pensare ai pirati caraibici, ma anche nel mediterraneo la pirateria era molto attiva, e oltre ad assaltare navi mercantili, era solita praticare anche numerose razzie terrestri, ma questa è un altra storia.

Se vuoi approfondire la storia dei pirati nel mediterraneo, ti consiglio il libro Pirati. Avventure, scontri e razzie nel Mediterraneo del XVII secolo di Adrian Tinniswood, se invece

In quel mondo fatto e popolato da marinai, corsari, pirati e contrabbandieri, qual’era il mediterraneo del XV secolo, nei porti delle grandi metropoli europee, il fronte del porto aveva tratti e panorami simili a quelli di città caraibiche, in quel momento Napoli era una delle tre città più grandi e popolose d’europa, seconda solo a Londra e Parigi, e nel suo porto, reso immenso dal golfo, vi erano ancorate decine e decine di navi battenti ogni sorta di bandiera e sulle sue banchine, e ancora di più nelle sue locande, pirati, corsari e contrabbandieri, facevano affari tra loro e con i mercanti locali. Qualcuno, un pirata, prova a rivendere ad un mercante il proprio bottino, conquistato con un assalto ad un’altra nave della stessa compagnia, qualcun’altro beve e scommette.

Il bottino dei pirati del mediterraneo era costituito principalmente dalle merci saccheggiate dalle navi depredate, ma spesso si componeva anche di oro e di schiavi, ovvero, marinai membri dell’equipaggio della nave assaltata.

Se vuoi approfondire il tema della schiavitù nel mediterraneo, in età moderna, ed il legame tra schiavitù e pirateria, ti consiglio il libro Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna di Giovanna Fiume.

Alcol e gioco, in questo momento storico, sono la rovina di pirati e corsari, perché divorano tutte le loro ricchezze e conquiste.

Molti pirati amano il gioco, amano scommettere, amano il rischio, hanno scelto quella vita per amore del rischio, rischiano in mare ogni giorno, e rischiano ai tavoli della taverna, puntando il proprio bottino ad una partita a carte contro altri pirati, mercanti e contrabbandieri.

I giochi dei pirati

I giochi in questo momento non sono tantissimi, ed hanno come protagonisti soprattutto i dadi, ma non tutti i pirati amano i dadi. Non quando sono in una taverna, con i dadi possono giocarci ogni singolo giorno della propria vita, nelle taverne invece, preferiscono le carte.

Ovviamente non sono carte moderne, sono molto grandi, molto simili ai tarocchi nella forma, ma hanno una particolarità, che le accomuna alle moderne carte italiane, hanno quattro semi e ogni seme conta dieci carte.

Uno dei più antichi giochi praticati dai pirati, nei porti italici, viene descritto con regole e meccaniche di gioco, molto simili a quelle del moderno gioco della scopa, anche se, per molto tempo, non gli viene attribuito un vero nome, in alcuni porti il gioco è chiamato in un modo, in altri porti è chiamato in modo differente, e non sempre si gioca con le stesse regole.

La Primiera e il Scarabucion

Sempre in questo periodo, nel XV secolo, mentre nei porti italiani si gioca una versione primordiale della scopa in cui i giocatori mettono sul tavolo le proprie carte e gli avversari possono prendere le carte con un punteggio pari a quello di una delle carte nella propria mano, in Spagna, si giocano altri giochi, come la Primiera, una sorta di poker primordiale in cui i punti si fanno collezionando 4 carte dello stesso valore numerico, o come il Scarabucion, un gioco in cui bisognava collezionare quante più carte di un seme specifico.

La primiera, di sette, ed eventualmente di sei, permette oggi ai giocatori di scopa di avere dei punti extra, così come permettono di ottenere punti extra le carte di denari, un seme specifico, come nello Scarabucion.

Quando è nato il moderno gioco della scopa?

Non sappiamo dove, come o quando, questi giochi, tutti praticati prevalentemente da marinai nelle taverne, siano stati fusi in un unico gioco, sappiamo però che nel XVII secolo, in Spagna, era praticato un gioco chiamato Escoba, le cui regole risultano essere un mix tra questi tre giochi. E sappiamo anche che, nel secolo successivo, l’Escoba è molto diffusa tra i militari spagnoli, e soprattutto, è ampiamente diffuso anche nell’italia meridionale, dove prende il nome, tradotto, di Scopa.

Purtroppo la storia di questo gioco non è molto documentata, ci sono documenti del XVII secolo che attestano il gioco dell’Escoba in spagna e documenti che parlano di un suo analogo nell’italia meridionale del XVIII secolo, e la più antica fonte sulla Primiera risale al XV secolo, questa fonte in particolare, è una nota, di un mercante ispanico, che annota un importante vittoria al gioco, anche se, purtroppo, non ci dice chi fosse il suo contendente e alcuni ipotizzano che il gioco, fosse in realtà solo un pretesto dei contrabbandieri, pirati e corsari, per “ripulire” un carico conquistato in battaglia.In ogni caso, questa era, più o meno la storia del gioco della scopa, spero l’abbiate trovata interessante.

La Bufala della poesia scritta durante la peste dell’ottocento

Sta circolando su Facebook una presunta Poesia scritta da Kitty O’Meary 1839-1888 durante l’epidemia della peste nel 1800, una poesia che sembra molto attuale, potrebbe essere stata scritta ieri… probabilmente perché è stata scritta la poche settimane fa.

Facendo qualche rapida ricerca sul nome dell’autrice, non sembra venir fuori nulla, di Kitty O’Meary, poetessa o comunque scrittrice vissuta tra il 1839 ed il 1888, sembra non esserci traccia. Cercando invece su Google, mettendo il nome tra gli apici, così da fare una ricerca mirata al suo nome, escono circa quattro pagine di contenuti e tutti creati nelle ultime ore.

Queste informazioni da sole sono sufficienti a dirci che si tratta di una falsa attribuzione. La poesia, non è stata scritta da Kitty o’Meary e ci dicono anche che questa Kitty o’Meary, il cui cognome ci suggerisce una qualche origine irlandese, non è mai esistita, non nel XIX secolo almeno, ma ci arriviamo con calma.

Voglio però spingermi oltre in questa “ricerca” e cercare di capire se potrebbe essere reale, magari si tratta solo di una falsa attribuzione, di una poesia scritta effettivamente nel 1800, o forse invece, si tratta di qualcosa di diverso, magari una poesia contemporanea che qualcuno ha retrodatato, all’insaputa dell’autrice.

Nei post virali che circolano sui social, oltre al testo della poesia, che vi lascio in calce a questo post, ci viene detto che la poesia è stata scritta durante la peste del 1800, oltre alla data di nascita e di morte della poetessa 1839-1888.

Già da queste date possiamo scorgere un incongruenza, come può, una poetessa vissuta tra il 1839 e il 1888, aver scritto una poesia nel 1800?

La cosa più probabile è che per 1800 si intende XIX secolo, ma noi ora questo non lo sappiamo, cerchiamo allora di non lasciare nessuna strada inesplorata e di vagliare, più che altro per gioco, le varie possibilità.

Partiamo quindi da questo dato.

Noi oggi abbiamo un ampia conoscenza delle pestilenze ed epidemie del XVIII e XIX secolo, e sappiamo con assoluta certezza che nell’anno 1800 non era in corso nessuna epidemia di peste in europa. In particolare sappiamo che non c’erano focolai di peste in Irlanda, luogo in cui possiamo presumere viveva la donna, il cui cognome è chiaramente di origine irlandese, e sappiamo anche che non c’erano epidemie di peste neanche negli altri possedimenti britannici dell’epoca. Sappiamo inoltre che nel 1800 non c’era nessun focolaio di peste nelle Americhe, in particolare nell’america settentrionale. Del resto Kitty o’Meary potrebbe essere un immigrata o discendente di immigrati irlandesi in America. Tutto è possibile, e come dicevo, cerchiamo di non lasciare nessuna strada inesplorata.

Tornando comunque alle epidemie di peste

Noi sappiamo che l’ultima epidemia di peste ad aver colpito le isole britanniche è stata la grande peste di londra del 1665-1666, possiamo quindi escludere la possibilità che l’autrice vivesse in Irlanda nel 1800 durante la peste, perché nel 1800, in Irlanda, non c’era la peste, c’era invece qualche focolaio, molto contenuto, di febbre gialla.

Potremmo ipotizzare che non fosse peste ma Febbre gialla la malattia raccontata nella poesia, tuttavia, come anticipavo, la diffusione di febbre gialla in Irlanda nel 1800 fu molto contenuta, e si registrarono per lo più casi isolati non coerenti con lo scenario carico di ansia e angoscia raccontato nella poesia.

Nello stesso periodo tuttavia c’è effettivamente un focolaio di peste, da qualche parte nel mondo, che potrebbe aver contagiato qualche britannico, e volendo essere precisi la parte del mondo in cui è in corso, nel 1800, un epidemia di peste è l’impero ottomano, e la zona più colpita dell’impero è l’Egitto, e proprio l’Egitto, tra il 1798 al 1801, è stato teatro di uno scontro aperto tra le forze napoleoniche e la prima coalizione antifrancese guidata dal regno unito.

Potremmo quindi pensare che la peste a cui ci si riferisce l’autrice della poesia è questa peste “egiziana” e che la poetessa si trovasse effettivamente lì, insieme ai soldati della coalizione.

Il testo della poesia a questo punto diventa importante, perché tra le sue righe in modo più o meno diretto, dovremmo trovare un qualche riferimento alla guerra in corso, e non è così, la poesia ci racconta un universo domestico che è in guerra con la malattia, ma che non sta vivendo un vero scontro armato, non direttamente.

Lo sguardo della poetessa è lontano, distaccato, come come se vi fosse apprensione per la malattia, ansia, angoscia, ma tutto sommato non c’è una preoccupazione diretta, percepiamo che la malattia non la riguarda direttamente e ciò totalmente incompatibile con lo sguardo di qualcuno che vivendo in quel mondo devastato da guerre e rivoluzioni, sente il bisogno di scrivere una poesia per dar voce a quel dramma in corso. Il testo della poesia ci allontana dal XIX secolo, e ci fa supporre che l’autrice sia una donna, che tutto sommato vive la sua vita in modo abbastanza tranquillo.

Mi sono soffermato, in questa prima parte dell’analisi, sull’anno in cui sembrerebbe essere stata scritta la poesia, 1800, ma forse, quel 1800 non è l’anno, e come ipotizzavamo, potrebbe essere il secolo, del resto nello stesso post ci viene detto che questa Kitty O’Meary è vissuta tra il 1839 ed il 1888.

Torniamo quindi, ancora una volta alle pestilenze e soffermiamoci questa volta sulla forbice temporale 1839-1888.

Nel 1840, quando la poetessa, presumibilmente aveva un anno, c’è stata l’ultima grande pestilenza dell’europa continentale, in Dalmazia e Italia settentrionale, potrebbe essere questa la peste descritta dalla poetessa, che la guarda da lontano, con uno sguardo rivolto al passato, questo spiegherebbe il distacco emotivo da quei momenti e la totale assenza di ogni riferimento ad altri scenari di quel tempo. Sarebbe sicuramente una lettura interessante, ma anche molto fantasiosa.

L’unica grande epidemia di peste nel XIX secolo, che possiamo in qualche modo collegare all’arco temporale in cui visse questa presunta Kitty O’Meary, è la terza grande pandemia di peste, che intercorse tra il 1856 ed il 1960.

Non è una vera pandemia, si tratta di una serie di focolai di peste bubonica, legati alla rete dei trasporti globali, che si manifestarono in gran parte del mondo extra europeo, e che coinvolsero principalmente l’Asia e l’oriente in generale.

Purtroppo, anche se in realtà è una fortuna, dal XIX secolo in po, le pestilenze in europa e in occidente sono state sempre meno, così come le grandi epidemie, grazie anche alla diffusione di migliori condizioni igieniche, ma anche di antibiotici, vaccini e medicinali vari.

L’assenza di altre epidemie di peste nell’Europa del XIX secolo fa terminare qui il nostro gioco, e lo fa terminare con una verità, la poesia non è stata scritta nel XIX secolo.

Fin qui ci siamo divertiti a giocare ed abbiamo provato a trovare un qualsiasi possibile appiglio, una base che potesse giustificare l’autenticità della poesia che sta circolando sui social, ma senza troppi risultati, purtroppo, più cercavamo di giustificarla e più ci rendevamo conto che questa poesia non è stata scritta nel XIX secolo, ma nel marzo del 2020.

La verità sulla poesia

E proprio nel marzo 2020 è apparsa sul web, per la prima volta questa poesia, la cui vera storia ci è stata raccontata da oprahmag che ha intervistato Kitty O’Marea, una poetessa contemporanea, che il 16 Marzo 2020 ha pubblicato sul proprio blog https://the-daily-round.com/ un post intitolato “in the time of pandemic” in cui è contenuta una poesia intitolata “And The People Stayed Home” con cui l’autrice ha cercato di raccontare l’angoscia e l’ansia del momento storico vive, e in cui viviamo noi tutti.

Vi lascio di seguito il testo originale della poesia di Kitty o’Meara

And the people stayed home. And they read books, and listened, and rested, and exercised, and made art, and played games, and learned new ways of being, and were still. And they listened more deeply. Some meditated, some prayed, some danced. Some met their shadows. And the people began to think differently.
And the people healed. And, in the absence of people living in ignorant, dangerous, mindless, and heartless ways, the earth began to heal.
And when the danger passed, and the people joined together again, they grieved their losses, and made new choices, and dreamed new images, and created new ways to live, and they healed the earth fully, as they had been healed.

Star Wars, una Storia che parla di Storia – Gli Skywalker

Star Wars è un opera epocale, fa parte della nostra storia, Star Wars è immerso nella storia e ci parla di storia, attraverso scene di fantasia, ripropone eventi e momenti della storia reale. Dal Cesaricidio ai discorsi di Norimberga.

Il mondo di Star Wars è un mondo pieno di riferimenti alla storia reale, sia in termini narrativi, che nella costruzione dei personaggi che, non meno importante, nella regia di alcuni momenti. Celebre è la foto di Luke, Han Solo e Chewbecca che sfilano dopo aver distrutto la morte nera, comparata all’immagine dei capi del terzo reich in parata, o ancora più forte, l’immagine del discorso di incitamento al Primo Ordine sulla Base Starkiller, che ripropone la stessa regia, con un discorso molto simile, a quello di Hitler a Norimberga.

Lo stesso ordine 66, potrebbe ricordare a qualcuno la “notte dei lunghi coltelli” del 34.

Ma di Star Wars e i riferimenti e parallelismi tra l’impero e il terzo reich, ne è pieno il web, voglio quindi raccontarvi qualcosa di diverso e che forse non sapevate su Star Wars.

La famiglia Skywalker è la Gens Iulia

Se preferite, gli Skywalker passati al lato oscuro, attingono a piene mani alla storia Romana e la dinastia Giulio Claudia.

Ma facciamo un passo indietro, l’ascesa del senatore di Naboo, Sheev Palpatine, prima alla carica di Cancelliere Supremo della Repubblica, e successivamente ad imperatore, è stata costruita partendo dalla vita di Giulio Cesare, riproponendo in chiave fantasy le trasformazioni che, nel primo secolo avanti cristo, portarono alla trasformazione di roma nel primo Impero del Mediterraneo.
La scelta del titolo di cancelliere supremo, non è ovviamente casuale, è l’ennesimo riferimento al terzo reich, ma è anche altro, è l’incastro perfetto tra il mondo germanico degli anni 30 e 40 e il mondo romano antico, a cui la germania nazista, così come il fascismo, credevano di ispirarsi, rielaborandone alcuni passaggi.

L’ascesa di Sheev Palpatine come credo saprete, non è narrata nella saga originale, ma è frutto della seconda trilogia, in questo ciclo di film i riferimenti al mondo romano, più che al mondo germanico, abbondano e, a differenza di quello che alcuni ipotizzano, non sono un introduzione postuma, ma al contrario, sono presenti, in modo non troppo velato, già nella trilogia originale, ben nascosti tra altri riferimenti storici a cui l’universo narrativo di Star Wars ha attinto a piene mani.

Non voglio che questo post diventi un lungo elenco di riferimenti storici in Star Wars, se però vi interessa approfondire, possiamo farci una rubrica o, ancora meglio, vi consiglio di recuperare il saggio “Star Wars and History” di Nancy R.Reafin e Janice Liedl, dove trovate tutto, purtroppo non è mai stato tradotto in italiano ed è abbastanza costoso, ma vi lascio comunque qualche link per acquistarlo nel canale telegram delle Offerte Storiche.

Tornando al topic, come vi anticipavo, i membri della famiglia Skywalker passati al lato oscuro, attingono a membri della dinastia Giulio Claudia, e allora, andiamo per gradi e vediamoli nel dettaglio.

Abbiamo già detto che Palpatine è Cesare, ma, a meno che non ci venga rivelato qualcosa che non sappiamo nel prossimo film, Palpatine non è uno Skywalker, ma è l’uomo che introduce il primo Skywalker al lato oscuro, in qualche modo “adottando” il giovane Anakin, così come Cesare “adottò” il giovane Ottaviano, rendendolo suo erede, Ottaviano va detto che non è un personaggio a caso che Cesare adottò per simpatia, era pur sempre il figlio di Azia Maggiore, sorella di Gaio Giulio Cesare.

Il personaggio di Anakin Skywalker, parte da Ottaviano, e ne ripropone i drammi e la travagliata vita giovanile, combattuta tra vita privata, politica e vita militare, Ottaviano è molto legato a Cesare, così come Anakin è molto legato a Palpatine, ma Ottaviano è anche anche molto vicino al Senato, così come Anakin è vicino all’ordine Jedi e potrei andare avanti ancora per ore nel raccontare le analogie tra i due.

Come Star Wars ci insegna, Anakin, per molti anni, non avrebbe saputo dell’esistenza dei suoi eredi, e Luke e Leia, non sarebbero mai entrati a far parte della vita di Anakin/Darth Vader, e dunque, per loro, non c’è spazio nella dinastia Giulio Claudia, discorso invece ben diverso per la successiva generazione di Skywalker.

Ben Solo, figlio di Leia e Han Solo, si lascia corrompere dal lato oscuro, ma non totalmente, e in modo abbastanza ambiguo, confuso, perverso. Ben Solo, per compiere il proprio destino assassinerà suo padre, esattamente come sembra che Caligola assassinò Tiberio… ovvero infilzandolo con una spada laser durante un abbraccio.

(si ok, forse caligola non usò una spada laser, si pensa più ad un cuscino o del veleno, ma vabbè, non è che dovete puntualizzare ogni cosa, se avesse avuto una spada laser sono sicuro l'avrebbe utilizzata)

Tiberio è il passaggio intermedio tra Ottaviano e Caligola, ed è un uomo che crede nei valori della repubblica, è un uomo che libera i propri schiavi ed affida ai propri liberti l’amministrazione dello stato romano, ma è anche un uomo che negli ultimi anni di vita, secondo fonti a lui vicine, di rango senatorio e avverse alla figura di Caligola, sembra stesse meditando per la dissoluzione dell’impero e il ripristino della Repubblica, volendo potremmo quasi associare Tiberio ai personaggi di Luke e Leia, (se bene non sia esattamente così, Luke e Leia abbiano un ispirazione storica molto diversa e lontana nel tempo, nel caso ne parleremo in altri post), mentre Ben, lui è Caligola, almeno nella prima fase della propria vita, quando è allievo di Luke, ma, dopo aver abbracciato il lato oscuro, diventa Nerone, e vive gli stessi drammi gli stessi conflitti familiari e la stessa “follia”, chiamiamola così.

Piccola considerazione personale su ciò che accadrà al mondo di Star Wars dopo “L’ascesa di Skywalker”.

Sapendo che il destino degli Skywalker è legato a quello della dinastia Giulio-Clausia, e sapendo che Ben, è l’ultimo degli Skywalker (o almeno così sembrerebbe), personalmente credo che l’epopea di Star Wars, o meglio, la saga degli Skywalker, si concluderà allo stesso modo della dinastia Giulio Claudia.

Con la caduta, dell’ultimo imperatore della Gens Iulia, il senato romano ha mantenuto la struttura imperiale, ed un senatore ha preso il potere, se bene per un breve periodo, prima che una nuova guerra civile infiammasse l’italia e portasse alla nascita di una nuova dinastia imperiale, la dinastia Flavia.

Lo stesso credo che accadrà al mondo di Star Wars, che ovviamente continuerà ad esistere anche dopo la “fine” degli Skywalker, così come Roma ha continuato ad esistere dopo la fine della Gens Iulia.

Chi ha inventato il Gabinetto?

John Harrington è considerato il padre del moderno Water Closet, ma tra il gabinetto di Harrington al gabinetto Water, ne è passata di acqua … nei canali di scolo

John Harrington è considerato il padre del moderno Water Closet, ma tra il gabinetto di Harrington al gabinetto Water, ne è passata di acqua … nei canali di scolo

La verità è che parlare della storia degli oggetti non è mai semplice e il più delle volte non abbiamo a che fare con un vero e proprio inventore, ma piuttosto con una serie di evoluzioni che, nel corso dei secoli, hanno portato, in questo caso, una buca nel terreno a diventare un trono in ceramica, presente in ogni casa del pianeta.

Questa è la storia del gabinetto, o per meglio dire, del gabinetto da bagno, della tazza, del water closet o wc, della toilette, scegliete pure il termine che preferite.

Faccio una premessa, in questa sede parlerò solo del gabinetto igienico, e non del gabinetto istituzionale, ma se vi interessa ho pubblicato un video su youtube in cui riassumo la storia di entrambi, nel tentativo di capire come, quando e perché lo stesso termine è stato associato alle più alte cariche del governo e ad una stanza che ha a che fare con operazioni fisiologiche e quotidiane
Vi lascio di seguito il video, se volete guardatelo e poi ci rivediamo qui, con la storia del gabinetto.

Come anticipavo nell’introduzione, parlando del gabinetto è difficile, se non impossibile stabilire chi sia il vero padre di questa invenzione, principalmente perché la sua funzione è quella di permettere a noi esseri umani di defecare in tranquillità, e come ogni altra creatura vivente, gli esseri umani, fanno la cacca da sempre, e la facevano anche prima che venisse inventato il gabinetto.

Prima della tazza moderna vi erano altri congegni, e prima ancora vi erano le latrine, prima ancora si utilizzavano dei buchi nel terreno e prima ancora, ci si nascondeva dietro una roccia o un cespuglio.

Se quindi intendiamo gabinetto nella sua accezione più ampia, ovvero quella di luogo in cui defecare, allora non possiamo parlare di una vera e propria invenzione, ma al massimo citare gli uomini che hanno permesso la sua evoluzione, se invece parliamo del gabinetto moderno, nella forma moderna, ovvero di un vaso in ceramica o metallo o legno, che si trova in casa e che, tramite una serie di tubi idraulici ed acqua, sfruttando la pressione idraulica, permette di trasportare i liquami al di fuori della casa, fino ad un pozzo nero o ad una rete fognaria, allora la storia è decisamente più chiara.

Partiamo quindi dalle origini, è il 1596 e l’ingegnere britannico Sir John Harington, figlioccio della regina Elisabetta I d’Inghilterra, pubblica un opera intitolata Metamorfosi di Aiace in cui viene descritto tra gli altri, il progetto di un congegno fornito da due serbatoi, il primo, più grande, era un serbatoio a torre, contenente dell’acqua ed nel progetto prende il nome di Water Closet.

Questo primo serbatoio era collegato ad un secondo serbatoio più piccolo attraverso un tubo che poteva essere aperto con un rubinetto e, una volta aperto, permetteva all’acqua di affluire dal primo al secondo serbatoio, per poi defluire all’interno di un pozzo nero posizionato più in basso rispetto ai due serbatoi. Questo secondo passaggio era controllato dalla presenza di una botola a valvola che si apriva automaticamente, grazie al peso dell’acqua, solo quando il secondo serbatoio era pieno.

Questo progetto è sicuramente molto importante, e per molti rappresenta la nascita del gabinetto moderno, tuttavia, all’atto pratico, siamo ancora molto lontani da quello che è il moderno Water e il progetto di Harrington appare più come una via di mezzo tra un bagno turco ed una tradizionale latrina che con i servizi igienici più moderni.

Nel XVIII secolo il progetto di Harrington comunque verrà ripreso e rielaborato diverse volte, per essere più precisi, dall’ingegnere francese Jacques-François Blondel nel 1732, dall’ingegnere britannico Joseph Bramah nel 1772 e dall’ingegnere scozzese Alexander Cummings nel 1775.

Le modifiche più significative sono quelle apportate da Bramah e Cummings che introdussero rispettivamente una rete idraulica che permetteva di portare i liquami all’esterno e acque chiare al serbatoio, così da poterlo ricaricare con semplicità, e successivamente, Cumming, sfruttando la rete di ingresso, introdusse un sifone a valvola che garantiva una presenza di acqua nel vaso sanitario e nelle tubature che lo collegavano alla rete fognaria o al pozzo nero, eliminando così il problema della puzza che persisteva fin dall’invenzione di Harrington e che rappresentava il più grande ostacolo alla presenza di un Water in casa.

Grazie a Blondel , Bramah e Cumming il gabinetto assume la forma e la meccanica del gabinetto moderno e, proprio con Bramah, il termine gabinetto viene associato a quello del Water, poiché luogo di destinazione dei suoi Water era proprio la sala del gabinetto, una piccola stanza adibita ad uso privato, che, dalla fine del XVIII secolo inizia ad accogliere il Water e la vasca da bagno, quando presente, donando così al termine Gabinetto (dal francese Cabinet = piccola cabina/stanza) il significato di sala da bagno e delle attività per la cura dell’igiene personale.

Se invece volete sapere quando il termine Gabinetto è stato associato alla politica, vi rimando al video pubblicato sul canale youtube.

5 Regole doro per riconoscere una Vera cospirazione dalla Fuffa.

Complotti, congiure, cospirazioni, esistono da sempre, ne abbiamo traccia, testimonianza e memoria nei libri di storia. Credere nei complotti non è sbagliato, il problema è quando si crede a complotti finti, inventati ad hoc, e che non hanno ragione d’essere.

In questo articolo voglio spiegarvi, in modo semplice, come distinguere un complotto vero (perché di complottiveri è pieno il mondo e la storia) ed un complotto falso.

Prometto che non sarà un articolo troppo lungo, anche perché le “regole d’oro” da seguire per riconoscere un vero complotto e distinguerlo dalla fuffa, sono davvero poche, diciamo che sono solo 5.

Regola numero 1 – Un complotto per essere vero deve essere semplice

A meno che non siate i protagonisti di un film o di un romanzo di spionaggio, vi assicuro che la maggior parte dei complotti reali sono estremamente semplici, non ci sono svolte improvvise, colpi di scena, e generalmente richiedono pochi passaggi, poche azioni, e soprattutto coinvolgono poche persone, e questo ci riporta alla regola numero dure.

Regola numero 2 – Pochi partecipanti

Si avete letto bene, un complotto per essere vero deve avere pochi partecipanti, deve coinvolgere poche persone, perché si sa, gli esseri umani sono teste di cazzo, e se invitando la persona sbagliata ad una festa a sorpresa, questa rischia di far saltare la sorpresa, immaginate i rischi del coinvolgere in una cospirazione globale qualcuno che non è in grado di gestire la situazione e per errore divulga informazioni fondamentali sulla cospirazione.

Troppe persone coinvolte possono mettere a rischio il buon esito del complotto, e sicuramente rappresentano una falla enorme nella sicurezza, ed se si sta complottando per assumere il controllo del pianeta, magari è meglio stare attenti alla sicurezza, soprattutto la propria.

Regola numero 3 – Un complottodeve essere segreto

Si lo so, può sembrare strano, ma è così, un vero complotto è segreto, e chi sta cospirando è disposto a tutto pur di mantenere il segreto, anche ad eliminare fisicamente chiunque possa causare una qualche fuga di informazioni.

Nel momento in cui un complotto non è più segreto, ha perso la sua efficacia, diventa un azione pubblica ricondicubile a delle persone, ed è questo il motivo per cui i cospiratori (quelli veri) ci tengono alla segretezza, perché non vogliono essere ricondotti al complotto e ai suoi effetti.

Per fare un esempio pratico, se una persona cospira per assumere il controllo di un paese, difficilmente andrà a candidarsi alle politiche, ma resterà nelle retrovie e diriggerà dall’esterno, con finanziamenti, pressioni e altro, cercando di influenzare il più possibile determinate figure chiave dello stato, senza però farsi coinvolgere nella vita politica ufficiale.

Regola numero 4 – un vero complotto non ha parametri casuali

Quando qualcuno cospira per ottenere qualcosa , prende in esame ogni possibile soluzione, ogni variabile, ed alla fine avrà due e soltanto due esiti possibili, o il complotto ha successo e si ottiene ciò che si desiderava, o il complotto fallisce, e in quel caso, essere rimasti nell’ombra può salvare la vita ai cospiratori. Nel mezzo non c’è nulla, non ci sono sfumature e soprattutto, non ci sono parametri casuali.

Prendo ad esempio il “complotto dell’11 settembre” per cui gli USA avrebbero organizzato l’attentato perché in quel modo, il valore del dollaro sarebbe aumentato.

Questa teoria è fallata, perché chi ipoteticamente ha ordito il complotto, non poteva sapere se quell’effetto ci sarebbe stato o meno.

Sul piano economico, quando sono state attaccate le torri gemelle, è come se fosse stata tirata una moneta, ed è stato solo un caso che il dollaro, grazie all’azione degli speculatori finanziari, abbia acquisio valore. Poteva accadere, come poteva accadere l’esatto contrario, e in quel caso non solo sarebbe stato un totale fallimento, ma sarebbe stato anche controproducendo, provocando un danno agli stessi cospiratori, e questo ci conduce al prossimo punto.

Quando un cospiratore agisce, lo fa per uno scopo, e questo scopo è materiale, sempre.

Regola numero 5 – un vero complotto ha un fine ed una fine.

Questa è forse la regola più importante, un complotto, per essere reale deve avere un fine ultimo tangibile, reale quanto il complotto stesso.

Avere un fine, avere una finalità, avere uno scopo, significa che da quel complotto, una volta che si è compiuto ciò che si stava cercando di ottenere clandestinamente, c’è un ritorno di qualche tipo. Questo ritorno nella maggior parte dei casi è economico o politico, ma può anche essere strategico, in tutti i casi comunque, è un ritorno reale, misurabile.

Quando ci parlano di una teoria del complotto, chiediamoci sempre “perché lo fanno?” e vi assicuro che di fronte a questa domanda, ogni cospirazione falsa cade.

Non esistono complotti fine a se stessi, ecco le prove

Non esistono complotti fine a se stessi, se non nella mente di chi crede ai complotti. Prendiamo ad esempio la teoria della terra piatta e chiediamoci se questo complotto per farci credere che la terra è sferica ha un effetto pratico, o è fine a se stessa.

La risposta è semplice, questo complotto, se fosse reale, non avrebbe alcuna utilità pratica e non ci sarebbe alcun ritorno per i cospiratori, e già questo basterebbe per etichettare la cospirazione come falsa e insensata ma, per anare sul sucuro, vediamo all’atto pratico, su questa teoria, quante delle tre regole sono rispettate.

Il “complotto” per nascondere la reale forma della terra non è un complotto semplice, ha richiesto la cooperazione di USA e URSS nel vivo della guerra fredda, per la produzione di materiale fotografico che ritraeva una terra sferica dallo spazio, inoltre ha coinvolto innumerevoli agenzie spaziali di tutto il mondo, nella produzione di materiale “falso” per un costo esorbitante.

Questa complessità si riflette anche sul numero enorme di persone coinvolte nella cospirazione che, tra piloti di aerei, civili e militari, professionisti e amatoriali, di tutto il mondo, che quotidianamente vedono dal cielo un orizzonte curvo dai, astronauti e cosmonauti, ingegneri aereospaziali, fisici, matematici, ecc per non parlare poi di politici e diplomatici. Insomma, una quantità infinita di persone coinvolte in un complotto per nascondere la forma della terra, in cambio di … nulla. All’umanità, in fin dei conti non cambia nulla se la terra è piatta o tonda o ha la forma di un fallo gigante, ma andiamo con ordine e torniamo alle regole del complotto.

Eravamo arrivati alla terza regola, la segretezza, ma con così tante persone coinvolte nella cospirazione, parlare di segretezza sarebbe superfluo, passiamo quindi alla quarta regola, ovvero i parametri casuali.

Ogni persona coinvolta nella cospirazione è una variabile casuale, che mina la sicurezza e la segretezza, e di riflesso, troppe persone coinvolte rappresentano un rischio enorme e insostenibile, qualunque sia il complotto. Mantnere viva e segreta una cospirazione con così tanti partecipanti e così tante variabili, per così tanto tempo, senza che venga rivelata, è impensabile, persino per il più geniale autore di romanzi distopici.

Arriviamo quindi all’ultima regola, lo scopo, il fine e la fine. è evidente che una cospirazione volta a nascondere la forma della terra, non ha una fine, e non ha un vero fine. Ha un obiettivo certo, un obbiettivo chiaro, dire alla popolazione mondiale che la terra è tonda e non è piatta, ma questo obiettivo diciamocelo, è fine a se stesso, e non comporta alcun vantaggio per i cospiratori.

Spero di essere stato chiaro e illuminante, e spero che grazie a questa guida sarete in grado di scindere i veri complotti dalla fuffa, e vi assicuro che di complotti reali ce ne sono e ce ne sono stati tantissimi, e nessuno di questi è stato mantenuto segreto per più di un paio d’anni, qualche decennio al massimo e tutti avevano uno scopo ben preciso che desse ai cospiranti un qualcosa. Complotti che coinvolgono milioni di persone e che sono in corso da decenni o addirittura secoli senza dare nulla ai cospiratori… beh, traete voi le vostre conclusioni, le mie credo siano fin troppo evidenti.